
Freaks
di Tod Browning
"Disturbante" è un aggettivo abusato, lo so. Ma, onestamente, faccio fatica a trovarne uno più calzante per descrivere Freaks, il cult maledetto del 1932 firmato da Tod Browning. Al giorno d'oggi, dove il politicamente corretto trasforma Biancaneve in una impavida e cazzuta principessa che vive con sette coinquilini dalle abilità differenti, un film del genere, interpretato da veri fenomeni da baraccone, sarebbe impensabile.
La genesi del film è abbastanza nota agli appassionati. Reduce dal grande successo di Dracula, Browning venne contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per dirigere un horror e mettersi al passo con un genere che stava sbancando al botteghino. Ma invece di vampiri eleganti o cadaveri rianimati, Browning – che conosceva bene il mondo del circo, avendoci lavorato da giovane – decise di adattare un racconto breve di Tod Robbins, Spurs, e trasformarlo in un incubo umano, grottesco e crudele, ancora oggi impossibile da dimenticare.
La storia è ambientata in un circo itinerante dove si esibiscono i cosiddetti freaks, uomini e donne affetti da nanismo, malformazioni congenite, e deformità fisiche che li rendono oggetto di curiosità e repulsione. Hans, un uomo affetto da nanismo, è perdutamente innamorato della bella trapezista Cleopatra, alta, sinuosa e letale. La donna, approfittando della sua ingenuità, lo seduce per mettere le mani sulla sua eredità, con l’aiuto del suo amante, l’aitante forzuto Hercules. Ma tra i “mostri” del circo vige un codice non scritto: chi tocca uno di loro, tocca tutti. E quando la verità viene a galla, la vendetta arriva rapida, spietata, inarrestabile.
Sia durante le riprese che all’arrivo nei cinema, Freaks incontrò non pochi ostacoli. La presenza di veri fenomeni da baraccone e l’audacia con cui Browning li mostrava – senza filtri, senza pietà, ma anche senza derisione – generarono sconcerto, polemiche e un’ondata di rifiuto da parte del pubblico e della critica. La produzione tagliò le scene ritenute più sconvolgenti (la versione originale finiva con una scena di castrazione e mutilazione) nel tentativo di renderlo più digeribile. Ciononostante, il film fu un flop disastroso. La visione venne vietata in numerosi paesi europei, la Metro-Goldwyn-Mayer lo ritirò dalle sale dopo poche settimane, e Tod Browning non si riprese mai del tutto facendo fatica a trovare lavoro negli anni successivi.
Freaks è un pugno nello stomaco travestito da film horror. Ma il vero orrore non è nei corpi deformi dei suoi protagonisti, bensì nello sguardo degli "altri", nei sorrisi falsi, nella cattiveria borghese che giudica e schiaccia ciò che non comprende. Browning ribalta la prospettiva: i freaks, gli emarginati, sono gli unici a possedere una morale, una coerenza, una forma di purezza. I veri mostri sono gli "apparentemente normali", con i loro sorrisi da pubblicità e i loro cuori di piombo. L’atmosfera del circo è inquietante, satura di un’umanità deformata ma reale, fragile, tenera e crudele. Quando arriva la vendetta finale – in una notte di pioggia e fango, con i freaks che strisciano sotto i tendoni come un’orda primordiale – il film cambia volto. Non è più un melodramma bizzarro ma diventa un incubo morale.
Oggi è un film di culto, amato da registi, critici, outsider. È un’opera che ha il coraggio di non rassicurare, di non abbellire, di non mentire. In un’epoca che finge inclusività ma censura il reale, Freaks resta uno film ruvido, spietato ma sincero.
Film
Audition
di Takashi Miike
La prima volta che ho visto Audition di Takashi Miike, in una videocassetta a casa di un amico, non avevo idea di cosa mi aspettasse. Mi affascinavano gli horror giapponesi, che in quel periodo stavano proliferando, e avevo già visto film estremi e disturbanti. Tuttavia con Audition, di cui ignoravo la svolta nella trama, avevo un aspettativa diversa. Forse il titolo, forse la premessa da dramma sentimentale. Fatto sta che mi ha colto completamente alla sprovvista.
Quando il film viene presentato in anteprima al Festival di Rotterdam nel gennaio del 2000, Miike ha già diretto una decina di film. È noto per il suo stile prolifico e anticonvenzionale — in trent'anni di carriera girerà più di un centinaio di film spaziando tra i generi più disparati — ma è proprio con Audition, tratto dall’omonimo romanzo di Ryu Murakami, che il suo nome esplode a livello internazionale, consacrandolo come uno dei cineasti più estremi e provocatori del panorama giapponese.
Shigeharu Aoyama (Ryo Ishibashi) è un uomo di mezza età rimasto vedovo, che vive solo con il figlio adolescente. Su insistenza di quest’ultimo, decide di rimettersi in gioco e cercare una nuova moglie. L’amico Yoshikawa (Jun Kunimura), produttore cinematografico, gli propone una idea bizzarra, quella di organizzare un’audizione per un film inesistente, in modo da poter selezionare, tra tante giovani aspiranti attrici, la donna perfetta per Aoyama. È così che l’uomo incontra Asami Yamazaki (Eihi Shiina), una giovane di ventiquattro anni, eterea, timida e misteriosa. Aoyama ne è subito rapito. Asami sembra delicata, quasi irreale, con una storia di sofferenza che la rende ancora più affascinante. Ma dietro quel volto angelico si nasconde qualcosa di oscuro. Un passato di dolore, abusi e violenza repressa, che trascinerà Aoyama in un incubo a occhi aperti.
La forza di Audition sta proprio nella sua costruzione e nella sua messa in scena. Inizialmente il film sembra una semplice storia d’amore, quasi una commedia grottesca, in cui un uomo di mezza età si affida a una finta audizione organizzata dall’amico per trovare moglie, sfogliando i profili delle candidate con la stessa leggerezza con cui oggi si "swippa" su un’app di incontri. La donna perfetta deve essere giovane, bella, gentile, devota, pronta a soddisfare ogni necessità dell’uomo. Ma Asami non è un oggetto. È il riflesso distorto di una società patriarcale che impone alle donne di essere compiacenti, di curare il dolore degli uomini dimenticandosi del proprio. E quando la sua maschera cade, quando Aoyama si dimostra incapace di darle quell’amore assoluto che lei chiede, l’uomo diventa la vittima perfetta su cui riversare tutta la sofferenza accumulata da anni di solitudine, abusi e molestie.
Miike costruisce un film che inizia come un dramma sentimentale, che si trasforma in un noir lynchano sospeso tra realtà e incubo — l'uomo nel sacco ha la stessa potenza inquietante del barbone di Mulholland Drive — per poi virare nel finale in un horror estremo ai limiti della sopportazione visiva. Audition è un film che gioca sull’ambiguità, lasciandoci costantemente nel dubbio su cosa sia reale e cosa sia frutto della mente dei protagonisti.
Un cult movie, un classico moderno sulla violenza inflitta e ricevuta, sulla fragilità che si trasforma in disperazione. Un’illusione d’amore che si sgretola rivelando il volto della follia. Forse non è un horror nel senso più tradizionale del termine, ma una volta visto, è impossibile dimenticarlo. Sicuramente il capolavoro di Miike.
Film
Valerie - Fantasie di una tredicenne
di Jaromil Jires
Se c’è un premio per il peggior titolo italiano mai affibbiato a un film, Fantasie di una tredicenne lo vincerebbe a mani basse. Il capolavoro di Jaromil Jireš, Valerie e la settimana delle meraviglie (Valerie a týden divu), è tutto fuorché il pornazzo da seconda serata che il titolo farebbe pensare. È un'opera visionaria e surreale, una favola nera in cui l’adolescenza si mescola con il terrore gotico, il vampirismo, il misticismo e un erotismo strisciante e perturbante, sempre sospeso tra il sacro e il profano.
Tratto dal romanzo di Vítezslav Nezval, poeta surrealista praghese, il film è una sorta di Alice nel paese delle meraviglie che racconta le avventure fantastiche di una tredicenne, che vive una settimana di eventi visionari, in un vortice di simbolismi, incubi e pulsioni sessuali. La protagonista, Valerie, interpretata dalla giovanissima Jaroslava Schallerová, è un’orfana che vive con la nonna in un piccolo villaggio ottocentesco. Tutto ha inizio con il suo primo ciclo mestruale, simbolicamente annunciato da una goccia di sangue su un fiore bianco. Da quel momento, la realtà si trasforma in un incubo, popolato da figure inquietanti e seducenti: un prete lussurioso e corrotto, un vampiro dal volto cadaverico che sembra volerla possedere, una nonna austera che, dopo un patto oscuro, si trasforma in una donna giovane e sensuale, e Orlík, un ragazzo misterioso che potrebbe essere il suo salvatore, il suo fratello, il suo amante – o forse tutte queste cose insieme.
Non c’è una trama vera e propria, non c’è consequenzialità negli eventi. Personaggi che muoiono e tornano in vita senza troppe spiegazioni, atmosfere rarefatte che sembrano oscillare tra sogno e realtà. Il tutto immerso in un'estetica fiabesca, con giochi di luce, veli bianchi e scenografie decadenti, accompagnate da una colonna sonora eterea e mistica.



Valerie e la settimana delle meraviglie – da adesso in poi lo chiamo con il suo nome internazionale – non è soltanto un trip visionario, una fiaba gotica che sembra uscita da un incubo dei fratelli Grimm. Prendendo ispirazione dal surrealismo di Luis Buñuel e Alejandro Jodorowsky, è anche una feroce critica alla società, dove il vampirismo si intreccia con il potere repressivo della Chiesa, vista come istituzione parassitaria, e con il desiderio dei vecchi di nutrirsi della giovinezza altrui.
Sorprendentemente, il film riuscì a sfuggire alla censura cecoslovacca, nonostante il rigido controllo del regime comunista sulla produzione artistica. Altrove, però, subì pesanti tagli, soprattutto per le sue tematiche sessuali e alcune scene di nudo della protagonista minorenne. Oggi è possibile recuperarlo integralmente su YouTube al seguente link, ma a una qualità decisamente scarsa.
Se cercate una storia lineare e comprensibile, Valerie e la settimana delle meraviglie non è il film adatto a voi. Chi invece adora lasciarsi trasportare dalle atmosfere oniriche e surreali – gli amanti del cinema di Lynch per esempio – scoprirà un’esperienza visiva che incanta e inquieta allo stesso tempo. Un piccolo capolavoro dimenticato, da riscoprire e vivere con con gli occhi di chi ancora sa stupirsi.

Possession
di Andrzej Zulawski
Possession è un film di culto di cui ho sempre sentito parlare, ma che, per un motivo o per un altro, non ero mai riuscito a vedere. Ora che finalmente l'ho recuperato, mi trovo in difficoltà nel cercare di fare un analisi ragionata di una pellicola così complessa, stratificata e carica di simbolismi, aperta a innumerevoli interpretazioni. Ma andiamo con ordine.
Realizzato nel 1981 dal visionario regista polacco Andrzej Zulawski, Possession venne presentato in concorso al 34º Festival di Cannes, dove Isabelle Adjani fu premiata come miglior attrice per la sua straordinaria performance. Fin dalla sua uscita, il film subì pesanti censure, ottenendo il divieto ai minori di 18 anni in quasi tutti i paesi in cui venne distribuito. In Italia venne tagliato e rimontato, negli Stati Uniti fu mutilato di ben 45 minuti, mentre in Germania, dove peraltro è ambientato, venne ufficialmente proiettato solo nel 2009.
Ci troviamo nella Berlino divisa degli anni '80, con il Muro che incombe sulla città come un simbolo di separazione e alienazione. Mark (un giovane Sam Neill) torna a casa dopo un viaggio di lavoro e scopre che sua moglie Anna (la splendida Isabelle Adjani) lo tradisce e vuole lasciarlo. Il loro matrimonio, già in crisi da tempo, ruota attorno al figlio piccolo, Bob. Incapace di accettare l'abbandono, Mark, dopo essersi ripreso da una forte crisi depressiva, stringe un legame con Helen, la maestra di Bob identica ad Anna nell'aspetto ma dolce e rassicurante, ingaggiando successivamente un investigatore privato per pedinare Anna e scoprire il suo amante. Quello che emerge è inquietante: la donna non si limita a frequentare Heinrich, personaggio eccentrico e sopra le righe, ma, all'insaputa di tutti, si reca segretamente in un appartamento abbandonato, dove nasconde una creatura mostruosa e tentacolare, dall'aspetto indefinito.
Possession è un film visionario e grottesco, quasi esasperato nella sua forma e nell'interpretazione dei suoi protagonisti. La performance della Adjani è leggendaria, una prova attoriale che travalica i confini dell'umano. La celebre scena della metropolitana, in cui il suo corpo si contorce in una danza selvaggia di dolore e follia, è una delle sequenze più sconvolgenti mai girate.
Zulawski fonde realtà e delirio per raccontare il fallimento dei rapporti umani, il conflitto tra caos e ordine, e la perdita dei valori di una società moderna destinata a sgretolarsi. Il Male si insinua nella coppia in crisi, assume la forma di una creatura lovecraftiana – peraltro realizzata da Rambaldi – e si manifesta in un finale apocalittico. Il tema del doppio è onnipresente: Berlino è divisa dal Muro così come i personaggi sono scissi tra la loro natura razionale e il loro lato oscuro. Anna ha il suo doppio in Helen, versione angelica di sé stessa, mentre Mark trova il suo riflesso distorto nella creatura mostruosa partorita dalla moglie, che diventerà la sua inquietante controparte.
E poi c'è Bob, il figlio innocente e fragile, simbolo di purezza e normalità, che viene tragicamente schiacciato dai conflitti degli adulti e dalle loro ambizioni autodistruttive. La sua scelta finale – quella di annegarsi – è una disperata fuga da un mondo ormai dominato dal caos.
Possession è un film unico, profondamente inquietante, che travolge con il suo nichilismo e le sue immagini disturbanti. Difficile da catalogare, in quanto combina più generi e sottogeneri insieme, dall'orrore al dramma psicologico, dal grottesco al surreale. Non è un film perfetto né per tutti, ma per chi ama il genere, è un'opera imperdibile e impossibile da dimenticare. Il grande e compianto David Lynch lo definì "il film più completo degli ultimi 30 anni".
Film
Eraserhead
di David Lynch
Premetto che, scrivendo queste righe, non riuscirò ad essere obiettivo. Nutro una profonda venerazione per David Lynch, un’artista capace di esplorare mondi onirici e surreali in ogni sua opera, che si tratti di cinema, pittura, musica o qualsiasi altra forma d’arte in cui si cimenta.
Se qualcuno mi chiedesse quale sia il mio film preferito (non di Lynch, ma in assoluto), risponderei senza esitazione "Mulholland Drive".
Nel 1972, quando inizia a girare "Eraserhead", David Lynch ha ventisei anni. E' un pittore e ha già girato una serie di cortometraggi visionari e molto sperimentali. Per realizzare il suo primo lungometraggio ci metterà quattro anni. Lavora solo di notte, in un set montato in un enorme magazzino, mentre di giorno lavora cercando di racimolare i soldi per finanziare il film. A interpretare il protagonista chiama un suo amico di vecchia data, oltre alla sua fidanzata e ad altri conoscenti, dando vita a un progetto quasi interamente “fatto in casa”.
La trama è complicata e poco lineare, caratteristica di quasi tutti i capolavori di David Lynch (compreso Twin Peaks).
Girato in uno sgranato bianco e nero e dai dialoghi quasi completamente assenti, il film racconta il viaggio allucinato di Henry Spencer (interpretato da Jack Nance), un uomo solitario e impacciato che vive in una città industriale e surreale, muovendosi tra rumori metallici e paesaggi desolanti. La sua vita prende una piega angosciante quando scopre che la sua ragazza, Mary, ha partorito un figlio deforme. Mary e Henry cercano di prendersi cura del neonato, ma la situazione precipita quando la donna abbandona entrambi, lasciando Henry da solo con il bambino, che piange incessantemente e sembra più una creatura aliena che umana. Mentre l’angoscia e la confusione di Henry crescono, il confine tra realtà e incubo diventa sempre più labile, portandolo a visioni oniriche e momenti di introspezione surreale in cui affronta paure profonde e incomprensibili.
"Eraserhead" è un incubo cinematografico, difficile da spiegare a parole, sopratutto la seconda parte del film. Come tutto il cinema di Lynch, è un'opera che va vissuta, dove il viaggio è più importante della destinazione. La narrazione passa in secondo piano per fare spazio a un'esperienza sensoriale e visiva, una vera e propria immersione nel subconscio. Le scene sono lente, ogni dettaglio è studiato per creare un senso di isolamento e soffocamento che cresce con il film. Il neonato deforme, che piange in continuazione ed è quasi impossibile da guardare, diventa il simbolo delle angosce del protagonista, un’immagine disturbante che mette a nudo le paure della paternità e della responsabilità.
Lynch non ha mai voluto rivelare in quale modo e con quale tecnica abbia realizzato questo effetto speciale. Il fatto che il regista non aveva budget per realizzare un mostriciattolo così realistico lascia pensare che sia qualcosa di organico. Probabilmente il feto di un animale o qualcosa del genere.
Inizialmente Eraserhead non venne neanche distribuito, ma con il tempo divenne un vero e proprio cult, proiettato nei cinema di mezzanotte per un pubblico di appassionati.
Io quando ho visto per la prima volta "Eraserhead" (stiamo parlando di parecchi anni fa) non avevo mai visto nulla del genere. Non è un film per tutti. E' un’esperienza che richiede pazienza, apertura e, forse, un pizzico di resistenza. Mi rendo conto che può non piacere e che molti possano trovarlo inaccessibile, perchè è un film dove la logica e la razionalità viene messa da parte. Ma chi è disposto ad abbandonare ogni certezza e lasciarsi andare, può trovarsi di fronte a un'esperienza... trascendentale.

Un buio diverso
Luigi Musolino
Luigi Musolino è considerato uno degli autori più validi del panorama horror italiano contemporaneo. Avevo già letto la sua novella nera Pupille, che mi aveva colpito per il suo stile asciutto e la capacità di evocare atmosfere inquietanti e terrificanti. Dopo aver letto questa raccolta antologica, posso dire che Musolino mi ha definitivamente conquistato.
Un buio diverso è una antologia di racconti che esplora l’oscurità e il male che si trova nell'animo umano, nei luoghi misteriosi e negli angoli dimenticati della vita quotidiana, i cosiddetti "Necromilieus".
In tutto sono quindici racconti, che si alternano da quelli più lunghi a quelli di poche pagine, preceduti da una visionaria iilustrazione di David Fragale.
Il racconto d'apertura, "Come cani", è un vero pugno allo stomaco. La storia è quella di un contadino che, insieme a un cane da sempre legato a una catena, ha vissuto tutta la sua vita nell'ombra di un padre violento e autoritario. È una narrazione cruda e disturbante dove il dolore e la brutalità umana raggiungono livelli insostenibili. Un altro racconto che mi ha colpito è "La foresta, i bivi" dove una coppia in crisi si reca in Romania per un intervento odontoiatrico. Durante il loro soggiorno i due si addentrano in un bosco venendo inghiottiti da un male atavico. "Lago senza domani" è un'altra perla, con due amici che decidono di accamparsi presso un lago maledetto. Poi c'è "La Copia" dove il protagonista riesce a trasferire su carta il suo io più oscuro, dando vita ai suoi desideri più proibiti. "L'ultima scatola" tocca corde emotive delicate, raccontando il singolare modo di un padre e un figlio contorsionisti di affrontare un lutto. Infine, il racconto che chiude la raccolta, "Un buio diverso", forse quello il più sconvolgente di tutti. La storia è quella di una coppia felice e benestante che si ritrova ad affrontare il dramma della scomparsa della figlia piccola persa in un supermercato. Il dolore di questa perdita si trasforma in una lenta discesa nella disperazione, dove un buio ancora più oscuro e malvagio diventa l'unica consolazione. Sarà che sono padre di un bambino ma a me questo racconto, a distanza di giorni, continua ancora a ronzarmi in testa. Devastante.
Musolino scrive davvero bene. Il suo stile è semplice e diretto, ma sa colpire in profondità, toccando le corde delle nostre paure più recondite e ancestrali. Con grande maestria, riesce a evocare un senso di disagio e inquietudine che si insinua piano, fino a diventare un vero terrore psicologico. Un buio diverso è un libro cupo, un horror profondamente pessimista, dove i protagonisti sprofondano nella disperazione umana e negli anfratti più oscuri di una realtà ostile. Sono personaggi sconfitti, che prendono decisioni sbagliate e si ritrovano in abissi senza fondo, dove la normalità si deforma fino a diventare un incubo.
C'è un forte richiamo all'orrore cosmico di Lovecraft, ma Musolino lo declina in contesti quotidiani, nascondendolo tra le pieghe della vita di tutti i giorni, lì dove la realtà si disgrega sotto l'influenza di forze oscure e inarrestabili. I racconti sono appiccicosi, permeati da un'oscurità densa e oleosa, con alcuni che restano impressi nella mente molto a lungo.
Non sorprende che alcune delle sue novelle siano state tradotte per il mercato statunitense, un riconoscimento che testimonia ulteriormente il valore delle sue opere e la capacità di Musolino di toccare paure universali, comprese oltre i confini nazionali.
Libri
Hellraiser
di Clive Barker
"Hellraiser", diretto da Clive Barker e uscito nel 1987, è un cult movie che ha segnato profondamente il genere horror e ha dato vita a una lunga saga cinematografica composta, ad oggi, da dieci film - dalla parabola qualitativa alquanto discendente - più il recente reboot del 2022. Tratto dal racconto breve "The Hellbound Heart" (tradotto in Italia come "Schiavi dell'Inferno") scritto dallo stesso Barker, il film si distingue per la sua visione originale e inquietante dell'orrore, discostandosi nettamente dagli stereotipi del genere slasher che dominavano l’epoca.
Scrittore, illustratore e artista poliedrico, l’inglese Clive Barker, ancora prima dell’uscita di “Hellraiser”, era già un nome abbastanza noto nella letteratura horror di quel periodo grazie alla pubblicazione dei Libri di Sangue (Books of Blood), una raccolta di racconti usciti tra il 1984 e il 1985 che avevano catturato l’attenzione di autori come Stephen King, David Cronenberg e James G. Ballard. Nel mondo cinematografico, Barker aveva già avuto qualche esperienza firmando le sceneggiature di "Underworld" e "Rawhead Rex" entrambi diretti da George Pavlou. Tuttavia, insoddisfatto del modo in cui erano stati realizzati, Barker decise di mettersi dietro la macchina da presa per la prima volta con "Hellraiser" determinato a esplorare senza compromessi i temi oscuri e le atmosfere macabre che contraddistinguono il suo lavoro. Ottenuto un contratto con la New World Pictures di Roger Corman, il produttore Christopher Figg mise a disposizione di Barker un budget ridotto, circa un milione di dollari, costringendo il regista e il suo team a essere estremamente creativi nella gestione delle risorse. Nonostante queste limitazioni finanziarie, Barker riuscì a sfruttare al massimo ogni dollaro, utilizzando effetti speciali pratici, girando il film all'interno di una vera casa per mantenere i costi bassi, e affidandosi a un cast di attori principalmente sconosciuti, ma di talento. Pur dovendo affrontare restrizioni imposte dalla censura, "Hellraiser" fu un successo, guadagnando oltre 14 milioni di dollari al botteghino solo negli Stati Uniti.
"Hellraiser" racconta la storia di Frank Cotton, un uomo che, spinto dalla ricerca di esperienze estreme e proibite, entra in possesso della scatola di Lemarchand, un misterioso cubo rompicapo che promette di aprire le porte a piaceri ultraterreni. Convinto di poter accedere a un nuovo regno di sensazioni, Frank risolve il puzzle, ma invece di trovare il piacere che cercava, evoca i Cenobiti (nel film vengo tradotti in Supplizianti), creature demoniache dal look sadomaso che percepiscono il piacere come una forma di tortura estrema. Condannato a un'eternità di sofferenza, Frank viene smembrato e trascinato in una dimensione infernale.
Qualche tempo più tardi, Larry, il fratello di Frank, e sua moglie Julia (Clare Higgins) si trasferiscono nella vecchia casa di famiglia. Durante il trasloco Larry si ferisce alla mano e il sangue cola sul pavimento della soffitta, proprio nel luogo dove suo fratello ha compiuto il rituale prima di scomparire. Questo evento avvia il processo di rigenerazione del corpo di Frank, il quale, all'insaputa del fratello, ha avuto in passato una relazione con sua moglie. Quando Julia scopre che il suo ex amante è ancora vivo, ma fisicamente incompleto, la donna, ancora innamorata di lui, decide di aiutarlo procurandogli il sangue delle vittime che lei stessa attira, sperando di riportarlo alla sua condizione normale e tornare tra le sue braccia. Kirsty (interpretata da Ashley Laurence), che nel racconto è un'amica di Julia mentre nel film diventa la figlia di Larry avuta dalla sua prima moglie, inizia a sospettare dello strano comportamento della sua matrigna. Penetrata all'interno della casa, Kirsty scopre accidentalmente l'orribile segreto nascosto nella soffitta ed entra in possesso della scatola di Lemarchand ritrovandosi a dover affrontare i Cenobiti per salvare se stessa e porre fine al malvagio piano di Frank.
Il film è una viscerale e provocatoria discesa nell'immaginario infernale, popolato da incubi opprimenti, creature demoniache, e fantasie sadomaso. I temi del sesso e della morte si intrecciano in modo indissolubile, esplorando i confini estremi del piacere e del dolore, e sfidando le convenzioni sociali e morali dell’epoca. Affascinato dalla cultura BDSM e influenzato dalla scena industrial degli anni Ottanta, Clive Barker (che solo negli anni successivi farà pubblicamente coming out pur non avendo mai nascosto i suoi gusti sessuali), affronta il tema della sessualità deviata, della perversione e del dolore attraverso un’estetica audace e provocatoria in cui il confine tra piacere e sofferenza diventa davvero labile. I Cenobiti, con le loro catene, spilli e vestiti in lattice, riprendono l'estetica fetish, sadomasochista e bondage, incarnando un’interpretazione disturbante del piacere estremo. Le loro mutilazioni auto-inflitte e i dettagli anatomici grotteschi riflettono un’ossessione per la trasgressione fisica, trasformando il corpo in un terreno di esplorazione e tortura. Personalmente, il Cenobita che mi ha sempre disturbato è quello con il viso deformato e la bocca spalancata da ganci, che batte ripetutamente i denti. È stato un vero incubo della mia adolescenza. Tuttavia, è Pinhead, il Cenobita con gli spilli in faccia interpretato da Doug Bradley, a diventare, sopratutto con i successivi film, una vera e propria icona del cinema horror, alla pari di Freddy Krueger, Jason Voorhees e Leatherface. Pinhead (viene nominato così solo nei sequel successivi) non è un semplice mostro, ma una sorta di demone infernale privo di emozioni umane, che insieme agli altri Cenobiti infligge punizioni eterne a chiunque osi evocarlo. In "Hellraiser" e nel racconto originale, la sua presenza è sullo stesso piano degli altri demoni, ma a partire dal secondo film, diventerà il principale villain della saga.
Nel film diretto da Barker, in realtà il vero "mostro" è Julia, una donna infedele e sessualmente insoddisfatta disposta a tutto, persino uccidere, pur di riportare in vita il suo amante e rivivere la passione travolgente del passato. Julia incarna il lato oscuro del desiderio umano, mostrando come un amore malato e il desiderio di soddisfare i propri impulsi possa degenerare in ossessione, sangue e morte.
Riguardo gli effetti speciali, tralasciando quelli di postproduzione che sembrano posticci e fastidiosi, gli effetti pratici e il makeup di Bob Keen risultano ancora oggi molto validi. La scena della rinascita e ricomposizione del corpo di Frank, con tutta la sua gelatinosa gommosità, rimane una delle sequenze più memomorabili.
In conclusione, "Hellraiser" è un classico del genere horror che merita il suo posto d'onore per l'originalità, la forza visiva e l'influenza duratura che ha avuto sul cinema horror. Una delle opere più innovative e disturbanti del cinema degli anni ottanta.
Prima di concludere un aneddoto riguardo la colonna sonora. Barker saltuariamente frequentava il Forbidden Planet di Londra, all'epoca ancora un piccolo negozio dove si potevano trovare fumetti pulp, horror e roba indipendente. Uno dei clienti abituali era un certo Stephen Thrower, appassionato di horror e weird che aveva letto i racconti di Barker e subito lo riconobbe. Thrower era un musicista che in quel periodo faceva parte dei Coil, il gruppo post-industriale di Balance e Christopherson. I due diventano presto amici e Barker ascoltando la loro musica rimane così folgorato chiedendo ai Coil di comporre la colonna sonora per il film che stava realizzando. I Coil se ne escono con una serie di pezzi oscuri e conturbanti (usciranno in seguito nell'album The Unreleased Themes From Hellraiser) ma la produzione li rifiutò in quanto ritenuti troppo poco commerciali preferendo affidare la colonna sonora a Christopher Young.
Io, da appassionato dei Coil, ogni volta che penso alla scelta che è stata presa precipito nella disperazione.

Alien
di Ridley Scott
Ero poco più di un bambino quando mi portarono a vedere Alien al cinema. A metà film, durante l'iconica scena del torace squartato dall'alieno, mi dovettero portare fuori dalla sala terrorizzato e in lacrime. A ripensarci mi pare assurdo che all'epoca un film del genere non sia stato vietato ai minori in Italia.
Alien di Ridley Scott è il film che ha ridefinito i generi della fantascienza e dell'horror, potremmo definirlo il primo fanta-horror moderno, una vera e propria pietra miliare nonché un modello per le produzioni cinematografiche successive.
Partiamo dall'inizio.
La genesi del film risale alla metà degli anni settanta quando lo scrittore Dan O’Bannon, da sempre appassionato di fantascienza e horror, dopo aver lavorato nel film "Dark Star" di John Carpenter venne contattato da Alejandro Jodorowsky per la realizzazione di "Dune". Il progetto fallì miseramente ma da questa esperienza O'Bannon ebbe modo di conoscere numerosi artisti tra cui Moebius, Chris Foss e sopratutto HR Giger e le sue inquietanti opere. Tornato a casa, O'Bannon si rimise al lavoro e, prendendo spunto da racconti di fantascienza e vecchi film degli anni sessanta, insieme all'amico Ronald Shusett scrisse la prima sceneggiatura di Alien. Inizialmente lo script venne rifiutato da tutte le principali case di produzione cinematografiche, ma poi finì nelle mani del regista Walter Hill che, apportando alcune modifiche e aggiungendo il personaggio dell'androide Ash, lo propose ai vertici della 20th Century Fox che era in cerca di una altra storia ambientata nello spazio dopo il successo di "Guerre Stellari". Quelli della Fox avrebbero voluto lo stesso Hill alla regia ma il regista, già impegnato su "I Guerrieri della Notte", preferì dedicarsi solo alla produzione. La regia ricadde sul giovane Ridley Scott, reduce da "I duellanti", il quale abbracciò il progetto con entusiasmo disegnando un dettagliato storyboard che fece lievitare non di poco il budget previsto per il film. H.R Giger venne ingaggiato per le scenografie del film e la realizzazione dello xenomorfo mentre Carlo Rambaldi si occupò degli effetti speciali. Non volendo un cast affermato, dopo una serie di provini, il ruolo di Ripley, ovvero la protagonista, venne affidato a Sigourney Weaver. Le riprese durarono tre mesi e furono tese ed estenuanti. In un set che riproduceva con estremo realismo i claustrofobici corridoi dell'astronave, gli attori vennero sottoposti a una costante pressione per ricreare disagio e tensione. Si narra che nella scena in cui spunta fuori lo xenomorfo gli attori non sapessero bene cosa stava per accadere in modo da rendere più autentico il loro sgomento.
Il film uscì negli Stati Uniti nel maggio del 1979 e a fronte degli 11 milioni spesi ne incassò 185 di milioni nel mondo creando un vero e proprio franchise, fra sequel, prequel e spin-off.
La storia di base è abbastanza semplice e prende spunto da diversi romanzi di fantascienza e film del passato (tra questi il "Mostro dell'astronave" del 1958 ma anche il nostro "Terrore nello spazio" di Mario Bava).
Nel 2122 l'equipaggio di una nave spaziale da trasporto, la Nostromo, viene risvegliato dall'ibernazione durante il viaggio di ritorno verso la terra per indagare riguardo un misterioso messaggio proveniente da un vicino pianeta. Alcuni membri dell'equipaggio scendono sul pianeta scoprendo una enorme astronave aliena abbandonata e all'interno un gran numero di strane uova. Uno dei componenti dell'equipaggio, Kane (interpretato da John Hurt), viene attaccato da una creatura che gli si attacca al suo volto. Rientrati sulla Nostromo, la creatura si stacca da Kane da solo e viene ritrovato privo di vita. Tutto sembra tornato alla normalità quando, durante un pasto, un mostruoso alieno (lo "xenomorfo") fuoriesce violentemente dal torace di Kane, uccidendolo, per poi fuggire via all'interno dell'astronave. La creatura aliena cresce rapidamente, diventando una macchina assassina che caccia l'equipaggio uno a uno. Alla fine sarà la protagonista, Ellen Ripley (Sigourney Weaver), rimasta da sola insieme al gatto Jones, a dover affrontare da sola il mostruoso alieno in un crescendo di tensione e terrore.
Siamo di fronte a uno dei capolavori della fantascienza, un film dotato di una tensione claustrofobica che a distanza di anni non perde il suo impatto viscerale. Alien è uno slasher ambientato in un astronave nello spazio che riprende, non si sa se volutamente oppure in modo inconsapevole, le dinamiche di "Halloween" di John Carpenter uscito un anno prima. La Nostromo è un astronave sporca, buia, a tratti respingente, che anticipa quell'atmosfera cyperpunk degli anni ottanta e che Ridley Scott avrà modo di sviluppare meglio in "Blade Runner", il capolavoro indiscusso della fantascienza.
Un altra pecularietà di "Alien" è quella di presentare un'eroina femminile, sostituendo il tradizionale eroe maschile con una figura forte e indipendente, che sfida e sovverte gli stereotipi di genere del cinema dell'epoca. Questo ribaltameno di ruoli, in cui i personaggi maschili sono messi in una posizione di vulnerabilità mentre la figura della donna, quantomeno della protagonista, emerge come una figura forte e risoluta capace di combattere l'alieno e sopravvivere, appare ancora più evidente nella fatidica scena dello stupro orale di "facehugger" con tanto di inseminazione e gravidanza forzata che da lì a poco porterà al violento parto mortale. La potenza di questa scena non sta tanto nella violenza ma per il fatto che l'alieno utilizza il corpo di un uomo come incubatrice, un processo che è profondamente disturbante e che richiama sia le paure ancestrali della perdita del controllo sul proprio corpo, quanto la paura di perdere quel dominio patriarcale in una società che, da tradizioni cinematografiche, vorrebbe l’eroe maschile avere sempre il comando e il controllo della situazione.
Il film di Ridley Scott è ricco di elementi sessuali che si intrecciano con la sua trama e la sua atmosfera inquietante. Il design dello xenomorfo, creato da H.R. Giger, con la sua testa allungata e la bocca interna che emerge da quella principale, evoca immagini falliche e richiama al contempo la figura di una vagina dentata. Questo simbolismo è ulteriormente amplificato dall'ambientazione: il pianeta e l'astronave, con i loro corridoi sempre più stretti, richiamano un utero opprimente e soffocante, che accentua il senso di intrappolamento.
Una scena particolarmente significativa è quella in cui Ash, l'androide, tenta di uccidere Ripley infilando con forza una rivista pornografica arrotolata nella sua bocca. Questo atto, più che un semplice tentativo di omicidio, assume la connotazione di uno stupro orale, un atto di dominazione sessuale che cerca di ricondurre la donna al suo ruolo tradizionale di genere. Ironico e disturbante è il fatto che questo atto sia perpetrato da un androide asessuato, che vede nello xenomorfo la creatura perfetta, un simbolo della purezza "non offuscato da coscienza, rimorsi, o illusioni di moralità". Infine c'è lei, Ellen Ripley, la più grande eroina cinematografica di sempre, che nella scena finale, indossando solo delle mutandine e una canottiera, affronta l'alieno in uno scontro che unisce tensione ed erotismo. Una immagine entrata nel nostro immaginario che non solo conclude la narrazione con una nota di potenza e resistenza, ma sottolinea anche come "Alien" abbia saputo sfidare le convenzioni del genere, lasciando un'impronta duratura nel cinema e nella cultura popolare.

Musick to play in the dark, vol 1
Coil
John Balance e Peter Christopherson sono stati i Coil, influente gruppo britannico di musica industrial sperimentale attivo dal 1982. La loro produzione è caratterizzata da una miscela di campionamenti, suoni elettronici, testi criptici e tematiche occulte, che hanno dato origine a diversi album e delle "canzoni" decisamente fuori dagli schemi convenzionali.
Nel 2000 Balance e Christopherson, con il supporto del polistrumentista Thighpaulsandra, danno alla luce Musick to play in the dark, vol 1, il primo dei due album lunari, che segna un deciso cambiamento nel loro stile e nella loro estetica sonora. Sei pezzi dilatati per un totale di sessanta minuti in cui l'ascoltatore sprofonda in un mondo oscuro e misterioso, dove suoni ambientali, synth eterei e voci sussurrate creano un'atmosfera ipnotica e onirica. A mio avviso si tratta di uno degli album più rappresentativi e affascinanti dei Coil, un disco notturno e avvolgente che dietro l'apparente quiete nasconde una lucida follia.
L'album si apre con "Are You Shivering?" in un cui una voce frammentata viene piegata dal suono cupo e minaccioso di un drone prima che Balance inizi a recitare i suoi criptici deliri esistenziali. La successiva "Red Birds Will Fly Out of the East and Destroy Paris in a Night" è un omaggio alla musica cosmica strumentale in cui un incalzante giro elettronico ci trascina in un viaggio lisergico che si conclude in un crescendo apocalittico. "Red Queen", invece, ha un ritmo più lento e sensuale in cui la profonda voce di Balance e un pianoforte jazzato ci conducono attraverso un paesaggio sonoro noir e di atmosfera. "Broccoli" è un pezzo bizzarro e crepuscolare, dove la voce narrante di John Balance recita sopra un tappeto sonoro minimalista e pulsante. "Strange Birds" è un esperimento sonoro e rumorisitico che per certi versi mi ricorda "Several Species of Small Furry Animals.." di pinkfloydiana memoria. Il pezzo che conclude l'album è affidato a "The Dreamer is Still Asleep", una lunga e ipnotica ballata in cui il 'sognatore' descritto da Balance potrebbe benissimo essere il Cthulhu di Lovecraft.
Capolavoro.
This is moon music in the light of the moon
Musica
Il gabinetto del Dottor Caligari
di Robert Wiene
Il Gabinetto del Dottor Caligari diretto da Robert Wiene nel 1920, è considerato un capolavoro assoluto del cinema espressionista tedesco e una pietra miliare nella storia del cinema horror. Stiamo parlando di un opera immensa e imprescindibile che ogni cinefilo che si rispetti dovrebbe vedere almeno una volta nella propria vita.
Il film racconta la storia di Francis, che narra a un uomo anziano gli inquietanti eventi avvenuti nella cittadina tedesca di Holstenwall. Durante la fiera che si tiene ogni anno in città, un losco e ambiguo personaggio chiamato il Dottor Caligari (Werner Krauss) esibisce al pubblico il suo sonnambulo Cesare (Conrad Veidt), un giovane emaciato dal volto pallido capace, una volta svegliato, di rivelare il passato e il futuro di qualsiasi persona. Francis e un suo amico assistono allo spettacolo durante il quale Cesare predice all'amico di Francis che morirà entro il mattino seguente, fatto che poi accade. Da quel momento la cittadina tedesca è sconvolta da una serie di misteriosi delitti perpetuati proprio dall'inquietante sonnambulo controllato da Caligari. Quest'ultimo si scoprirà essere il direttore di un ospedale psichiatrico che si diletta a eseguire esperimenti sui propri pazienti utilizzando delle tecniche ipnotiche. Non tutto però è come sembra e un colpo di scena nel finale rivela che gli eventi potrebbero essere il frutto della mente disturbata del narratore.
La pellicola di Wiene dopo più di un secolo conserva intatto il suo fascino visivo. Probabilmente, insieme alla forte ambiguità della storia, è proprio l'estetica uno degli elementi più distintivi di questo film. Le scenografie distorte, gli angoli acuti e le ombre pronunciate creano un'atmosfera surreale e onirica, che riflette il tumulto psicologico dei personaggi, il cui trucco pesante e la loro forte gesticolazione, amplifica quel senso di inquietudine e mistero che pervade l'intera pellicola. Manifesto dello stile espressionista che nella Germania degli anni venti del secolo scorso si sviluppò come reazione alle turbolenze sociali e politiche dell'epoca, il film esplora i temi della paranoia, dell'alienazione e della manipolazione mentale e può essere visto come una metafora della sottomissione cieca del popolo tedesco all'autorità. Alcuni critici vedono nel personaggio del Dottor Caligari una rappresentazione del potere dittatoriale che stava avanzando e che da lì a poco avrebbe preso il potere con le conseguenze che tutti conosciamo.
Tralasciando l'aspetto politico quello che più colpisce di questa pellicola è la sua forza visionaria. Le scene sono come dei quadri bidimensionali in cui i personaggi si muovono in una scenografia deformata, spigolosa e irreale all'interno di stanze e ambienti dalle finestre oblique e oggetti sproporzionati oppure in esterni dalla prospettiva falsata e dall'architettura innaturale e contorta. Nel film realtà e apparenza, verità e inganno si intrecciano al punto da non diventare più distinguibili e la scenografia non fa altro che esprimere in modo magistrale il mondo interiore di un folle.



Film visionario e terribilmente attuale che, nonostante sia stato realizzato oltre un secolo fa, è riuscito a influenzare profondamente il cinema moderno, definendo nuovi standard narrativi e stilistici e aprendo la strada al genere horror psicologico e gotico. Il sonnambulo di Wiene, ad esempio - personaggio tragico e affascinante dall'estetica dark post-punk (movimento che si svilupperà sessant'anni più tardi) - è stato un evidente fonte di ispirazione per Tim Burton nel creare il suo Edward Mani di Forbice.
Il "gabinetto del Dottor Caligari" è del 1920, quindi è un film muto e in bianco e nero, che nel corso degli anni è stato più volte restaurato. Si può recuperare - anche su YouTube - in diverse versioni colorate o con differenti colonne sonore. Per chi non lo ha ancora visto e non è avvezzo ai film d'epoca consiglio di sgombrare la mente e con pazienza di immedesimarsi al contesto storico e culturale del periodo. Tenete conto che le espressioni facciali e il linguaggio del corpo degli attori era molto più pronunciato rispetto ai film sonori e questa forte caratterizzazione ai giorni d'oggi potrebbe risultare quasi ridicola.
Mente aperta e attenzione ai particolari e all'estetica.

Nosferatu
di F. W. Murnau
Aspettando Eggers mi sono voluto rivedere il Nosferatu di Murneau.
Capolavoro dell’espressionismo tedesco, liberamente ispirato al romanzo "Dracula" di Bram Stroker, il film viene proiettato per la prima volta a Berlino nel 1922, e presenta uno dei primi vampiri della storia del cinema.
Negli ultimi decenni il film è stato più volte restaurato, con l’aggiunta di qualche sequenza in più e una nuova colonna sonora - il film è muto e i dialoghi avvengono con le didascalie. Attualmente su YouTube si può apprezzare sia la versione in bianco e nero che quella virata in diversi toni di colore. Io mi sono visto quest'ultima che è quella orginale dell'epoca.
Figura chiave nella realizzazione del film è stato Albin Grau, eclettico artista affascinato dall'occulto e dal soprannaturale, che aveva aperto una piccola casa di produzione cinematografica tedesca, la Prana-Film, con l'intenzione di realizzare un film su Dracula, il romanzo di Stroker scritto venticinque anni prima. Nonostante non avesse ottenuto i diritti, Grau insieme al regista Friedrich Wilhelm Murnau - che aveva già realizzato una manciata di film ed era anche lui ammaliato dalla figura del vampiro - decise comunque di realizzare un film sul romanzo di Stroker, cambiando i nomi dei personaggi, le ambientazioni e alcune parti della trama. Così, il conte Dracula divenne il conte Orlok, Jonathan Harker divenne Thomas Hutter e invece della Transilvania e Londra la storia venne ambientata nei Carpazi e a Wisborg, città portuale tedesca immaginaria. Inoltre venne eliminato il personaggio del cacciatore di vampiri Van Helsing mentre la presenza di Nosferatu venne associata a una epidemia di peste propagata dai topi che accompagnano il vampiro al suo arrivo in città. Tutto inutile. A seguito dell'enorme successo del film alla sua uscita, nel 1925 la vedova di Stoker intentò un processo per plagio e violazione dei diritti, vinse la causa e con il risarcimento mandò in banca rotta la neonata casa di produzione ottenendo la distruzione di tutte le copie del film. Fortunatamente una o più copie finirono nelle mani di collezionisti e archivi cinematografici evitando in questo modo la scomparsa di questo capolavoro del cinema surrealista tedesco. La vedova di Stoker avrebbe poi venduto i diritti del romanzo per uno spettacolo teatrale negli Stati Uniti riadattato poi nel film Dracula del 1931 con Bela Lugosi nel ruolo del vampiro. Ma questa è un altra storia.
Nel film di Murnau il ruolo del Conte Orlok venne affidato a Max Schreck, un attore teatrale dell'epoca, che a causa del suo comportamento sul set e il fatto che il suo nome tradotto sia "Massimo Terrore" ha alimentato la leggenda che si trattasse di un vero e proprio vampiro - nel 2000 è stato girato un film chiamato L'ombra del Vampiro che parla proprio di questa bislacca diceria. Un altra credenza narra che Max Schreck non prese mai parte al film e che a interpretare il conte Orlok fosse Murnau stesso. Tralasciando questi curiosi aneddoti la performance dell'attore rimane straordinaria e indimenticabile. La sua presenza sullo schermo è tanto inquietante quanto magnetica. La sua figura ricorda quella di un pipistrello, calvo con i denti da roditore, le orecchie lunghe e le unghie arcuate, mentre i suoi movimenti rigidi e sospetti, incarnanano alla perfezione il terrore e il fascino del personaggio, contribuendo in modo significativo all'impatto emotivo del film. Nosferatu è animalesco, repulsivo, e disperato. E' un vampiro che si allontana nettamente dalla figura "romantica" e affascinante del conte Dracula. Condannato a una mortalità sempre uguale a se stessa, Nosferatu esprime l'angosciante disperazione della sua infinita solitudine.

Una delle caratteristiche più distintive del film di Murneau è la sua atmosfera cupa e inquietante, creata attraverso un uso innovativo dell'illuminazione, delle ombre e della fotografia. Utilizzando la scenografia realizzata da Grau (quest'ultimo autore anche dei costumi, degli storyboard e del materiale promozionale - è sua l'illustrazione qui sopra) Murnau enfatizza l'aspetto gotico della storia, creando un'ambientazione surreale e spettrale. Rispetto ad altri film espressionisti dell'epoca, uno fra tutti Il gabinetto del dottor Caligari, Murneau non deforma la realtà ma evoca la paura e il terrore attraverso il paesaggio, la natura e il mondo animale (un lupo che spaventa i cavalli, un insetto catturato da una pianta carnivora) oppure utilizzando la tecnica dello stop motion per dare al vampiro dei movimenti innaturali (l'arrivo della carrozza guidata dallo stesso Orlok oppure la scena in cui il vampiro carica le bare sul carro) che oggi possono sembrare espedienti ridicoli ma che all'epoca risultavano assai inquietanti.
La sequenza in cui l'ombra del vampiro si distorce sulle pareti (o sulle persone) e le sue mani sembrano prolungarsi è forse una delle scene più rappresentative del film di Murnau. Senza ombra di dubbio (scusate il voluto gioco di parole) il Nosferatu di Murnau rimane uno dei più grandi capolavori della settima arte che, nonostante gli evidenti segni del tempo, continua da oltre un secolo a ispirare registi e appassionati di cinema horror.

I terrestri
Murata Sayaka
Murata Sayaka è una scrittrice giapponese autrice del bestseller La ragazza del convenience store. Non l'ho ancora letto ma conto di farlo in un prossimo futuro.
Mi sono avvicinato a questo romanzo senza conoscere l'autrice e senza sapere cosa aspettarmi. Leggendo la sinossi del libro e guardando la copertina uno si aspetterebbe di leggere una storia con protagonista una sorta di Lamù o Sailor Moon. Niente di più sbagliato.
Natsuki è una ragazzina di undici anni convinta di essere una maga e di possedere dei poteri magici grazie a un portacipria e una bacchetta donati da un pupazzo di peluche chiamato Piyut proveniente dal pianeta Pohapipinpobopia. Natsuki vive con i suoi genitori e una sorella capricciosa ed egoista di un paio di anni più grande. La madre sembra nutrire affetto solo per la primogenita riversando su Natsuki tutte le sue frustrazioni e amarezze. Il padre è assente e la sua presenza si limita solo nell'infliggergli punizioni. Costantemente criticata e umiliata dai suoi genitori Natsuki sembra trovare un motivo di esistere solo nel suo mondo fantastico.
Ogni estate la famiglia si riunisce insieme a tutti i fratelli e cugini nella casa dei nonni paterni tra le montagne di Akishina per la festa degli Obon (la festa giapponese che commemora e ricorda i defunti). Questo è l'unico luogo in cui Natsuki si sente felice perchè ha l'occasione di condividere le sue fantasie con il cugino coetaneoYuu, un ragazzo che proviene da una famiglia disagiata convinto di essere un extraterrestre in attesa che qualcuno lo porti sul suo pianeta d'origine. Nei mesi successivi Natsuki subisce degli abusi sessuali da parte del suo insegnante - non venendo creduta dalla madre che l'accusa di voler attirare l’attenzione - e il suo corpo reagisce perdendo prima il gusto e poi l’udito da un orecchio. L'estate successiva Natsuki e Yuu si ritrovano e il loro legame profondo viene sugellato da un "matrimonio" segreto comprensivo di rapporto sessuale che, non appena scoperto, scatena l'ira degli adulti, segna una rottura tra le loro famiglie e porta alla loro separazione.
Nella seconda parte del romanzo ritroviamo Natsuki, ormai trentenne, sposata con Tomohiko, personaggio ancora più dissociato convinto che gli individui sono ingranaggi di una grande fabbrica che li obbliga a lavorare e generare figli.
Non vado oltre perchè il romanzo, sopratutto nel finale, prende una piega inaspettata e degenerativa alquanto inquietante.
Il romanzo di Murata Sayaka sembra in superficie una fiaba (che sfocia nell'orrore) con protagonista una moderna Cenerentola ma in realtà è una critica feroce nei confronti della società giapponese che emargina coloro che non sono allineati e non seguono le regole (istruzione, lavoro, matrimonio, figli) facendoli sembrare dei veri e propri alieni, al cospetto de "i terrestri". Stiamo parlando del malessere sociale che da tempo dilaga in Giappone, e che per certi versi si può riscontrare anche in occidente, di una generazione oppressa nel dimostrare di essere all'altezza del modello sociale che gli viene imposto e che li vuole tutti belli, felici e vincenti.
Natsuki, Yuu e Tomohiko, entrambi traumatizzati dalle loro famiglie, decidono di infrangere queste regole eliminando tutti i limiti imposti dalla società, e nel cercare la loro via di fuga e ribellione finiscono per perdere ogni tipo di inibizione e... umanità, d'altra parte sono alieni.
Un romanzo provocatorio che parla di disagio e diversità. Suggestivo, sconcertante e parecchio straniante.

Perfect Days
di Wim Wenders
Perfect Days, premiato all’ultimo Festival di Cannes, è un film di produzione giapponese diretto dal regista tedesco Wim Wenders.
Molto singolare la storia dietro questo film. In occasione delle Olimpiadi in Giappone del 2020, degli architetti di fama internazionale sono stati incaricati di progettare più di una decina di bagni pubblici nei parchi di Tokyo. Si tratta di vere e proprie opere d'arte, alcune davvero innovative (come il bagno di vetro colorato trasparente che diventa opaco quando è occupato) realizzati con l'intento di mostrare al mondo, attraverso la riqualificazione dei bagni pubblici notoriamente luoghi sgradevoli, la tradizionale cultura giapponese dell'accoglienza (e della pulizia).
La fondazione giapponese che si è occupata di queste opere ha contattato Wim Wenders - che negli ultimi anni si è dedicato nella realizzazione di numerosi documentari, anche in Giappone - chiedendogli di girare una serie di brevi cortometraggi per la campagna di comunicazione. Colpito da queste particolari toilette, il regista tedesco decide di scriverci su una storia con protagonista un uomo di mezza età che ogni giorno si occupa della loro pulizia con cura e devozione.
La vita di Hirayama (interpretato da Koji Yakusho), addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, è scandita da una routine semplice e precisa. Ogni giorno si sveglia, mette a posto il futon, si lava faccia e denti, annaffia con uno spruzzino le sue piantine, prende un caffè in lattina dal distributore automatico sotto casa, sale sul suo furgone, ascolta delle vecchie musicasette (Velvet Underground, Otis Redding, Patti Smith e musica giapponese anni settanta) e si reca a lavoro iniziando a pulire la prima delle diverse toilette del suo giro. Nonostante pulire i bagni pubblici possa essere considerato un lavoro poco graticante, Hirayama lo fa con impegno, dedizione e attenzione meticolosa. Il suo lavoro gli piace. In pausa pranzo si siede su una panchina, mangia un tramezzino, e con una vecchia fotocamera analogica fotografa gli scorci di luce fra gli alberi e la natura circostante. Hirayama è un uomo tranquillo e disponibile, sempre sorridente, un uomo solitario e di poche parole - quasi muto rispetto al suo insopportabile giovane collega - che non esita ad aiutare il prossimo e coloro che si trovano in difficoltà. Finito il suo turno va a lavarsi in uno dei bagni pubblici giapponesi (onsen), cena sempre alla stessa tavola calda, torna nella sua umile ed essenziale casa, legge un libro e infine si addormenta. Ogni giorno le sue giornate si ripetono nello stesso modo, serene, tranquille e apparentemente uguali, con dei piccoli avvenimenti (come giocare a Tris con qualcuno che non si conosce, accogliere la nipote adolescente fuggita di casa, e calpestare le ombre con un uomo che ha bisogno di essere consolato) che le rendono uniche e metteno in risalto il valore della semplicità e del vivere il momento.
Ho trovato questo film delizioso. Un film che con la sua semplicità mi ha colpito nel profondo e mi ha trasmesso un senso di serenità inaspettata. Il film non è privo di ombre, perchè Hirayama è un uomo che deve avere sofferto, ma il protagonista nel suo essere schivo e riservato ha trovato il suo equilibrio in se stesso e una perfetta armonia con l'ambiente circostante. E' un film nostalgico in cui la tecnologia viene rimpiazzata dall'analogico e la frenesia delle nostre vite viene sostituita con il gusto di vivere e apprezzare l'attimo della nostra esistenza. "Un'altra volta è un'altra volta, adesso è adesso" dice il nostro protagonista alla nipote che vorrebbe andare al mare.
Nonostante la lunghezza, i silenzi e le ripetitive scene di vita ordinaria, il film di Wim Wenders è riuscito a tenermi incollato allo schermo coinvolgendomi emotivamente.
La scena finale con il volto di Yakusho - grande interpretazione la sua - che esprime nello stesso momento gioia e dolore (mi ha ricordato Mia Goth in Pearl anche se stiamo parlando di film completamente differenti) raffigura in modo magistrale le esperienze della vita, oppure, e questa è un altra chiave di lettura, la triste ma serena consapevolezza di vivere in un mondo dentro il mondo, unico e isolato.
Un film che nella sua essenzialità è stato capace di toccare le corde giuste e trasmettermi profonde emozioni.

Speak No Evil
di Christian Tafdrup
Speak No Evil, film danese del 2022 diretto da Christian Tafdrup, era da tempo nella mia lista dei film da vedere, e quindi mi pareva giusto, in questo bel clima natalizio, concedermi uno dei film più ansiogeni e disturbanti che abbia mai visto.
La storia è quella di due famiglie, una danese e l'altra olandese, che si conoscono durante una vacanza in toscana. La famiglia danese è composta da Bjørn (Morten Burian), Louise (Sidsel Siem Koch) e la loro piccola figlia Agnes, mentra la famiglia olandese è composta da Patrick (Fedja van Huêt), la moglie Karin (Karina Smulders) e il figlio Abel, un bambino scontroso che non può parlare a causa di una malformazione alla lingua. Le due famiglie si piacciono e si divertono insieme durante la vacanza in Italia. Tempo dopo, tornati nelle loro rispettive case, i danesi ricevono l'invito dagli olandesi di trascorrere un week-end nella loro casa di campagna. I danesi inizialmente sono restii, alla fine non si conoscono per niente, ma per non voler essere scortesi e ricordandosi dei giorni passati bene insieme, decidono di accettare la proposta.
Il nuovo incontro però risulta diverso dal precedente. La coppia olandese accoglie la famiglia danese con ospitalità e allegria ma fin da subito ci sono una serie di comportamenti ambigui e irritanti che mettono a disagio Bjørn e Louise. I due non capiscono se si tratta di usanze e abitudini diverse dalla loro quindi in un primo momento soprassiedono. Tuttavia le continue provocazioni della coppia olandese si fanno più pressanti. Quando finalmente la famiglia danese si rende conto di essere caduta nella classica tela del ragno si ritrova incapace di reagire aspettando con rassegnazione l'inevitabile orrore.
Dal punto di vista emozionale il film di Tafdrup raggiunge indiscutibilmente il suo obiettivo: provocare una forte e crescente ansia nello spettatore che finisce da una parte per identificarsi nella coppia danese mentre dall'altra per provare un forte disagio per la loro passività. La musica, il montaggio, la stessa fotografia contribuiscono a creare una costante e disturbante tensione che a un certo punto diventa quasi impossibile da sostenere. E' per questo che il finale - quando l'orrore vero, non quello soprannaturale ma quello reale, esplode in tutta la sua credultà - diventa quasi liberatorio e accolto con accettazione. Nel comportamento passivo delle vittime ci stà l'evidente critica a una società conformistica, perbenista e repressiva - ovviamente parliamo di quella danese - che pur di agire, ribellarsi e accogliere le proprie pulsioni emotive preferisce consegnarsi inerme al proprio carnefice.
Il senso di Speak No Evil si può racchiudere in questo scambio di battutte tra Bjørn e Patrick: "Perché ci fate questo?" Perché ce lo avete permesso".
Ottimo film, peccato per gli evidenti problemi di sceneggiatura. Se accantoniamo l'aspetto emotivo e andiamo ad analizzare razionalmente il film [spoiler on] è impossibile che i due serial killer possano uccidere così tante coppie per rapire i loro figli in maniera così indisturbata e tutto alla luce del sole [spoiler off].
In tutti i modi, tralasciando questo aspetto inverosimile, Speak No Evil è di certo un film che lascia il segno e non si dimentica facilmente con uno dei finali più feroci e crudeli che abbia mai visto.

Beau ha paura
di Ari Aster
Terzo film di Ari Aster dopo Hereditary e Midsommar.
Considero Ari Aster uno dei registi più interessanti degli ultimi anni e solo ora sono riuscito a vedermi il suo ultimo film (me lo sono perso quando uscì in primavera al cinema).
Ispirato a un corto del 2011 dello stesso regista (ecco il link), Beau ha paura è un film complesso che trasmette un senso di angoscia e disagio. E' un film dagli svariati livelli di lettura ed interpretazione che richiede una soglia di attenzione molto alta per un tempo decisamente lungo (la pellicola dura intorno alle tre ore). Questi aspetti portano Beau ha paura ad essere un film parecchio impegnativo, almeno al grande pubblico, e potrebbero spiegare il motivo per cui, a fronte del budget ricevuto, è risultato essere un enorme flop ai botteghini tanto da diventare la più grande perdita in termini economici per la A24.
Beau ha paura è una sorta di odissea nella psiche malata di un uomo di mezza età che lotta contro le sue paure e il senso di colpa instillato da una madre castrante e fagocitante. Un dramma psicologico, surreale, e onirico, decisamente grottesco e fortemente allegorico, che mi ha ricordato alcuni film di Charlie Kaufman (ma in versione più tragica) e per certi versi il The Wall di Alan Parker.
Protagonista è Beau (interpretato dal bravissimo Joaquin Phoenix), un uomo che sta facendo un percorso psicologico con il suo terapista e che vive in un appartamento fatiscente in un quartiere degradato e malfamato. Beau si prepara ad andare a trovare la madre, Mona Wasserman (Zoe Lister-Jones/Patti LuPone) con la quale ha un rapporto conflittuale ma il susseguirsi di una serie di imprevisti e incidenti non gli permettono di partire. E' l'inizio di un odissea in cui il nostro protagonista, trascinato in una girandola di assurdi avvenimenti e situazioni paradossali (un pò alla "Fuori Orario" di Martin Scorsese), precipita in un viaggio folle e delirante.
Di seguito spoilero perchè altrimenti mi diventa complicato l'analisi del film.
Probabilmente, per gran parte della durata del film, ci troviano all'interno dell'inconscio del protagonista. Il viaggio in cui si trova a fare Beau non è altro che il suo percorso psicologico. Beau è un uomo passivo, subisce ed è vittima degli eventi. Non riesce a prendere una decisione perchè fin da bambino, senza la figura paterna, è stato succube di una madre egocentrica e fagocitante che gli ha impedito la sua crescita.
Il film è stutturato come un opera epica ed è diviso in un prologo (il trauma della sua nascita), quattro atti e un epilogo (processo e morte). Ogni atto è associato a una casa o a un luogo.
Primo atto. Beau vive in un appartamento trascurato in un quartiere degradato e violento popolato da derelitti di ogni tipo, maniaci e cadaveri abbandonati in strada. Credo che siano la rappresentazione delle sue emozioni, quelle che non riesce a controllare e di cui ha più paura. L'appartamento invece potrebbe rappresentare la sua psiche frammentata, il suo rifugio interiore. Beau è in procinto di partire per andare a trovare la madre che non vede da tempo. E' parecchio agitato, come lascia intendere la seduta avuta con il suo psichiatra. Ha comprato una statuina rappresentante una madre con il figlio - la madre amorevole che avrebbe sempre voluto - come regalo da portargli. Il giorno della partenza, dopo aver passato la notte in bianco per il rumore dei vicini e per i numerosi messaggi lasciati sotto la porta in cui gli si chiede di abbassare il volume della musica (nonostante non provenga nessuna musica dal suo appartamento), proprio nel momento in cui sta uscendo per andare all'aereoporto, gli rubano la valigia e le chiavi di casa e Beau è così costretto a telefonare alla madre dicendogli che deve rinunciare al viaggio. Dopo una successione di situazioni al limite del grottesco che evidenziano la sua fragilità psicologica, il nostro protagonista viene a sapere che un lampadario ha dilaniato la testa di sua madre uccidendola. La tragedia, unita al senso di colpa per averla nuovamente delusa, gli provoca un crollo, con Beau che si ritrova a correre nudo per strada, dove, completamente indifeso, viene investito da una macchina. Non riuscendo a gestire il trauma la sua psiche ha bisogno di spegnersi, resettarsi.
Secondo atto. Ripreso conoscenza Beau si ritrova in una casa confortevole dove viene accudito da una coppia che lo accolgono come se fosse loro figlio. L’uomo è un dottore e lo cura con dei medicinali. La casa, bella e profumata, probabilmente rappresenta la terapia e gli psicofarmaci. La coppia ha una figlia, Toni che si rivela subito ostile. Beau vorrebbe recarsi al funerale della madre ma nonostante l'uomo si offra di accompagnarlo per una serie di motivi il viaggio viene sempre rimandato. Il clima apparentemente sereno e tranquillo (sedato) è incrinato dell'amico del figlio morto della coppia che questi hanno accolto, un veterano di guerra completamente fuori di testa (metaforicamente potrebbe rappresentare la sua parte di sè ribelle e autodistruttiva).
In questa parte abbiamo un flasback in cui la madre racconta a un giovanissimo Beau che suo padre è morto durante il suo concepimento. In pratica tutti gli uomini della sua famiglia sono vittima di una sorta di maledizione che provoca un infarto durante l'orgasmo (per questo Beau non ha mai avuto un rapporto sessuale in vita sua). In un altro flashback, ambientato in una nave da crociera, Beau conosce Elaine, una ragazzina indipendente ed emancipata. Quando questo desiderio di staccarsi dal grembo materno diventa dominante, Elaine gli viene strappata via, diventando una specie di evoluzione repressa.
In fuga dalla seconda casa, dopo che la figlia della coppia si è uccisa ingerendo un secchio di vernice e la madre incolpa Beau di essere responsabile, il nostro protagonista resetta nuovamente la sue mente e andando a sbattere contro un albero durante la fuga in un bosco perde conoscenza.
Terzo atto. Questa volta Beau non si ritrova in una casa, ovvero in una gabbia che lo opprime, ma in un villaggio all’aperto in mezzo a un bosco dove una compagnia teatrale lo accoglie invitandolo ad assistere a uno spettacolo. La messa in scena è la rappresentazione di ciò che sarebbe potuto accadere a Beau. È il mondo del possibile, in cui Beau spezza la catena che lo tiene alla madre e prendendo la sua strada, diventa indipendente e si fa una famiglia. Quando si risveglia da questo sogno ad occhi aperti viene avvicinato da un uomo che gli dice di essere suo padre. Beau si avvicina alla verità, al trauma subito, ma il folle reduce di guerra che sta sulle sue tracce e che forse rappresenta la sua follia (ma anche una sorta di guardiano che appare quando le emozioni sono troppo forti per essere affrontate) uccide tutti i presenti compreso il suo presunto padre. Durante la fuga avviene un altra perdita di conoscenza e Beau al suo risveglio esce dal bosco, raggiunge una strada e venendo raccolto da un automobilista può finalmente arrivare a casa della madre.
Quarto atto. Il funerale è finito. Beau ha ancora una volta deluso sua madre. Aggirandosi per la grande e bellissima casa della madre, una donna di successo che ostenta con quadri e fotografie tutti i successi della sua azienda farmaceutica (la MW), Beau ascolta la voce del prete che ha celebrato il funerale attraverso il video della registrazione avvicinandosi alla bara aperta in cui giace il corpo senza testa. Poco dopo arriva Elaine, ormai adulta, venuta a porgere gli omaggi alla donna per cui lavorava. Beau gli dice di non averla mai dimenticata ed Elaine lo porta in camera da letto, nel letto della madre, facendo l’amore con lui. Beau è terrorizzato da quello che gli può accadere ma al tempo stesso, senza l'opprimente madre, si sente libero di prendersi quel piacere che per tutta la sua vita gli è stato negato. Alla fine, quando raggiunge l'orgasmo, sopravvive, scoprendo che la temuta morte di carattere ereditario, l'amatema predetto dalla madre, era una balla. Il piacere dura però pochi istanti in quanto ad essere morta è Elaine, rimasta letteralmente pietrificata con gli occhi iniettati di sangue al raggiungimento dell'orgasmo. Sconvolto, Beau si nasconde venendo raggiunto dalla madre ancora in vita. La donna ha inscenato tutto (il corpo senza testa nella bara è quello della loro governante) e inizia ad umiliare suo figlio dicendogli di non averla amata abbastanza. Arrabbiato, Beau chiede alla madre la verità su suo padre. A questo punto Mona lo porta in soffitta, dove si nasconde il più grande trauma infantile del nostro protagonista, e qui (nella sequenza più grottesca di tutto il film) Beau scopre che suo padre non è altro che un orrendo fallo gigante. Il padre di Beau non è mai morto, è stato solo un uomo come tanti, una scopata, un pene che ha iaculato dentro sua madre, e poi più nulla. Il ricatto emotivo che ha castrato Beau per tutta la sua vita era una menzogna. Sconvolto e resosi conto di essere stato sempre controllato dalla madre (lo stesso psichiatra è al servizio di Mona), Beau stringe il collo della madre e la uccide.
Epilogo. Beau fugge su una barca a motore inoltrandosi in un mare avvolto da un cielo stellato, poi si addentra in una caverna (un ritorno all'utero materno con il mare a rappresentare il liquido amniotico - notare come l'acqua sia sempre ricorrente sopratutto nella prima parte) ritrovandosi in una sorta di anfiteatro/tribunale, dove un avvocato, con affianco la stessa Mona, accusa Beau di tutte le sue mancanze affettive nei confronti della madre, condannandolo a morte. La barca a motore esplode e Beau, non riuscendo ad accettare il giudizio di una madre ossessivamente amorevole e controllante, giudizio che negli anni è diventato il giudizio che ha nei suoi confronti, affoga e infine soccombe (o rinasce?).
Un macigno.
Beau ha paura è un film che ti piace o non ti piace, non ci sono mezze misure. Io faccio parte della prima categoria (altrimenti avrei speso meno parole) e lo considero il miglior film del 2023. Ovviamente non è esente da difetti, la parte ambientata nel bosco, per esempio, pur con belissime animazioni di Cristóbal León e Joaquín Cociña, l'ho trovata un pò ridondante. Nonostante tutto è un film coraggioso e ambizioso che a mio parere necessita di un ulteriore visione per essere apprezzato meglio. Film che verrà rivalutato negli anni a venire.

But, What Ends When The Symbols Shatter?
Death in June
Inizio da questo album a raccontarvi dei miei dischi preferiti, le mie personali pietre miliari.
Douglas Pearce, la mente dietro Death In June, è un personaggio molto particolare, complesso e contradditorio. Accompagnati da una estetica militare, un immaginario esoterico e da una iconografia con rimandi al fascismo e al nazismo decisamente provocatoria che nel corso degli anni gli ha provocato non pochi problemi, il progetto musicale dei Death in June è il capostipite di quel genere definito folk apocalittico o neofolk.
But, What Ends When The Symbols Shatter? esce nel 1992 e segna l'inizio di una nuova fase nella carriera dei Death in June. Dopo gli esordi negli anni ottanta all'insegna di un postpunk di matrice industrial (Nada) e quello che viene definita la trilogia della solitudine (The World That Summer, Brown Book e The Wall of Sacrifice), Douglas Pearce attraversa una profonda crisi creativa ed esistenziale che lo porterà a una lunga depressione. Invece di soccombere ai suoi demoni, Pearce li accoglie rimettendosi in gioco e dopo tre lunghi anni la sua anima tormentata concepisce questo album, una vera e propria ode alla bellezza.
Accontonate le percussioni in stile marziale, le sperimentazioni industriali e i riferimenti militaristici, But, What Ends When The Symbols Shatter? è una raccolta di malinconiche canzoni dove a prevalere è la chitarra acustica e la profonda voce di Douglas P. impreziosita da delicati interventi di tromba, percussioni ed eteree tastiere. Sono dodici gioielli acustici di rara bellezza, valorizzati da una produzione limpida e cristallina, che nel loro insieme creano un'atmosfera malinconica, sognante e quasi surreale capace di emozionarmi ormai ad ogni ascolto da parecchi anni. Per quanto mi riguarda l'album più ispirato dei Death in June.
Brani preferiti: "The Golden Wedding of Sorrow", "The Giddy Edge of Light", "Little Black Angel" e "Hollows of Devotion".
Musica
Primer
di Shane Carruth
Sono sempre stato affascinato dai film dalla trama contorta e complessa, quei film psicologici che richiedono diverse visioni per poterli comprendere pienamente. Un altra mia passione sono i viaggi del tempo e i paradossi temporali. Negli anni ottanta, come tanti ragazzi delle mia età, rimasi folgorato da Back to the Future.
Primer, film scritto, diretto, interpretato e musicato da Shane Carruth, è un film sui viaggi del tempo che si contraddistingue per la sua complessità. E' un film indipendente, privo di effetti speciali, costato la bellezza di 7000$ (neanche un automobile ci compri) che ha a vinto il premio della giuria al Sundance Festival nel 2004, anno in cui è uscito.
La trama vede come protagonisti due ingegneri, Aaron e Abe, che senza volerlo costruiscono una macchina del tempo. Infilandosi in una grossa scatola ronzante che nascondono in un magazzino, i due riescono a tornare indietro nel tempo di qualche ora. In pratica si accende la macchina all'orario in cui si vuole tornare (ad esempio alle 12.00), ci si allontana per evitare di incontrare il proprio doppione, e trascorse le ore in cui si è deciso di quanto sarà lungo il viaggio a ritroso nel tempo (ad esempio di 6 ore) si entra nella scatola temporale (quindi alle ore 18:00) trascorrendo al suo interno il numero di ore pari a quando la macchina del tempo è stata accesa. Uscendo dalla scatola ci si ritroverà al punto di partenza (ovvero nel nostro esempio alle ore 12.00).

Ogni volta che si compie un viaggio nel tempo si crea una nuova linea temporale. Quindi ad ogni viaggio nel tempo corrisponde una timeline diversa che presenta differenze, seppur minime, rispetto alle altre.
Aaron e Abe decidono di sfruttare questa invenzione per arricchirsi in borsa ma quando uno dei due si mette in testa di modificare il corso degli eventi tutto sfugge di mano portando a delle conseguenze terribili e incontrollabili.
Il film è geniale, complesso e volutamente criptico. Non solo non ti viene spiegato ciò che sta succedendo, non solo le numerose linee temporali (alla fine saranno nove) si confondono e si alternano tra di loro, ma ci sono degli eventi di rilievo e dei dettagli che non vengono mostrati e che possono essere intuiti solo attraverso i dialoghi dei due protagonisti. Nonostante il budget ridotto, l'assenza di spettacolarità e la regia acerba, considero Primer il miglior film sui viaggi del tempo perchè il tema viene trattato da un punto di vista teorico e scientifico al punto da farlo apparire perfino credibile, dimostrando quanto a volte siano più importanti le idee e i contenuti che la messa in scena.
Primer è un film che necessita di esser visto tante volte (con questa per me siamo alla quarta) che può esasperare per la difficile comprensione e per come le tematiche vengono affrontate, ma che sicuramente non lascia indifferenti.
Film
Profondo Rosso
di Dario Argento
Tornato nelle sale in versione restaurata in 4K, ho potuto vedere per la prima volta al cinema uno dei più grandi e iconici film di Dario Argento, Profondo Rosso. Anno 1975.
La trama vede come protagonista Mark Daly (David Hemmings), un pianista jazz inglese, che mentre si trova in una piazza insieme a un suo amico, volgendo lo sguardo alla facciata del palazzo in cui abita, assiste all'omicidio di una donna che viene massacrata da qualcuno che le spinge la testa contro il vetro della finestra dalla quale stava chiedendo aiuto. La vittima è una medium che poche ore prima, durante una conferenza sul paranormale, aveva percepito tra gli spettatori in sala la presenza di un assassino. Mark si precipita all’interno dell’abitazione dove trova il corpo senza vita della donna dopo aver percorso un lungo corridoio pieno di quadri in cui vi sono raffigurati dei macabri volti (uno dei quali colpisce particolarmente la sua attenzione senza conoscerne il motivo). Insieme alla polizia giunge sul posto anche Gianna Brezzi (Daria Nicolodi), una frizzante e ambiziosa giornalista con la quale Mark stringe amizia. I due decidono di indagare per conto loro su chi sia il misterioso assassino che continua a compiere efferrati omicidi sulle note di un’infantile e terribile nenia.
Che dire di questo capolavoro dell'orrore e del cinema italiano?! Profondo rosso è un thriller scandito da una sequenza di omicidi che con la loro potenza visiva hanno segnato l'immaginario collettivo di una intera generazione. In questo film c'è molto Mario Bava (il grande ispiratore) ma c'è sopratutto un Dario Argento, qui all'apice della sua forma, che gira un thriller che fa paura come un horror, con delle scene violente per l'epoca disturbanti.
Ambientato in una città inesistente, sospesa e quasi onirica (in realtà il film è stato girato a Roma, Perugia e in gran parte a Torino), Dario Argento con l'aiuto dello scenografo Giuseppe Bassan ha fatto ricostruire il Blue Bar, il locale in cui si svolgono alcune sequenze del film, tale e quale ai Nottambuli, il celebre dipinto di Edward Hopper tanto che le comparse al suo interno sono quasi immobili come se fossero all'interno di un dipinto.
Mettendo da parte i vari omicidi (dall'annegamento nella vasca di acqua bollente all'iconica scena finale in cui la collana dell'assassino si impiglia nell'ascensore), sono tante le scene memorabili e, per l'epoca, particolarmente angoscianti. Mi viene in mente il manichino telecomandato (costruito da Carlo Rambaldi), l'inquietante bambina che uccide le lucertole, la villa abbandonata con il disegno nascosto dietro la parete, l'occhio dell'assassino che si cela nel buio. Un vero e proprio repertorio di tutte le paure inconsce e irrazionali dello spettatore dell'epoca concentrate in un unico film. Un film da incubo come mai si era visto prima.
Ci sarebbero dire tante altre cose ma non posso terminare la mia disanima senza menzionare la ormai mitica colonna sonora. Dario Argento era un appassionato di rock progressive, genere che proprio in quel periodo in Italia aveva raggiunto il suo apice. Non contento del risultato del compositore Giorgio Gaslini (in realtà avrebbe voluto i Deep Purple - da qui parte del titolo - e addirittura i Pink Floyd) Argento decise di affidare la musica al giovane gruppo dei Goblin di Claudio Simonetti che, avendo ricevuto come linee guida il Tubular Bells di Mike Oldfield (quello usato per l'Esorcista di qualche anno prima) confezionarono una delle colonne sonore horror più riuscite di sempre per uno dei film più paurosi del secolo scorso.
Erano i tempi in cui il cinema italiano faceva addirittura scuola.

The Witch
di Robert Eggers
The Witch del 2016 è l'esordio alla regia di Robert Eggers.
Premiato al Sundance Film Festival per la miglior regia, The Witch viene considerato dai critici e dagli appassionati del genere il miglior horror degli anni dieci.
La storia è ambienta intorno al 1600 nel New England e narra di una famiglia puritana, ossessionata da Dio e dalla religione che, dopo essere stata cacciata dalla comunità in cui viveva, decide di trasferirsi vicino a un bosco e costruirsi una fattoria. La famiglia, composta da una coppia e i loro cinque figli, alleva le capre e coltiva il terreno ma nonostante il duro lavoro riesce a stento a sopravvivere. Un giorno Thomasin, la figlia maggiore, mentre gioca a fare il gioco del cucù con il fratellino più piccolo, si copre un momento gli occhi e quando li riapre il bimbo misteriosamente sparisce. È l'inizio della tragedia in cui la famiglia lentamente perde la fede e la speranza trovando l'uno nell'altro il peccato e il male.
The Witch è un horror insolito, molto particolare, sicuramente non rivolto a un pubblico che si aspetta jumpscare o scene che provocano uno spavento improvviso. Il film ha i suoi tempi, può sembrare lento perché gioca molto sui silenzi e la sospensione. È un film pervaso da una crescente tensione che nel finale sfocia in una opprimente angoscia.
Gli attori sono tutti molto bravi e perfetti nel loro ruolo.Tra tutti spicca la bellissima Anya Taylor-Joy, che interpreta Thomasin, la quale esprime con naturalezza quell'ingenua sensualità di una ragazzina che sta diventando donna favorendo disagio, invidia e una tensione repressiva negli altri componenti della famiglia.
Il punto di forza di questo film è però la regia, le scenografie e la fotografia. I colori sono tetri, desaturati (solo il sangue ha un rosso vivido) mentre l'illuminazione e la composizione di alcune inquadrature mi hanno ricordato i quadri del Caravaggio o dei pittori fiamminghi. Innegabilmente è un film davvero bello da vedere, di una regia che trasmette un senso di disagio e una continua tensione emotiva
È un film molto simbolico che si presta a diverse interpretazioni.
Da rivedere, più e più volte anche perchè Eggers lavora molto sulle immagini. Davvero un ottimo film.
Robert Eggers è entrato a far parte dei miei registi preferiti tanto che ho recuperato su YouTube anche i suoi primi cortometraggi: Hansel and Gretel del 2007, rivisitazione della classica fiaba dei fratelli Grimm come se fosse girato negli anni venti del secolo scorso, The Tell-Tale Heart del 2008, uno dei migliori adattamenti di un racconto di Edgar Allan Poe, e infine Brothers del 2015 che potremmo definire il cortometraggio preparatorio a The Witch.

The Lighthouse
di Robert Eggers
The Lighthouse del 2019 è il secondo film di Robert Eggers dopo The Witch (che non ho visto e che intendo recuperare quanto prima).
Un horror, un thriller, un dramma sulla follia? È difficile trovargli una collocazione. Quel che è certo, almeno per quanto mi riguarda, è che siamo di fronte a un capolavoro.
Fine dell’ottocento. Thomas Wake (un grande Willem Dafoe) e il nuovo assistente, Ephraim Winslow (un altrettanto bravo Robert Pattinson) giungono in un remoto isolotto del New England per occuparsi della manutenzione di un faro. I due dovranno rimanere isolati per quattro settimane in attesa del traghetto che li riporterà a casa. Ephraim si ritrova a sottostare agli ordini del vecchio e irascibile Thomas che lo costringe alla maggior parte dei lavori manuali, mentre Thomas finisce per occuparsi solo del faro, proibendo a Ephraim di salirci sopra. La tensione, la solitudine e la stanchezza aumenta fin quando, arrivati alla fine della quarta settimana, una fortissima tempesta si abbatte sull’isolotto impedendo alla nave di venirli a prendere. Ormai senza più provviste, i due trovano una scorta di alcolici e finiscono per ubriacarsi di continuo generando ostilità, euforia e delirio. Quando l’isolamento diventa insostenibile, il tempo si dilata perdendo di significato, e la realtà diventa indistinguibile dalle allucinazioni, i due protagonisti finiscono per precipitare nella follia.
Ci sarebbe da dire tantissime cose su questo film. La storia è piena di metafore, simbolismi e riferimenti alla mitologia e alle leggende marine. Ho ritrovato l’abisso di Lovecraft, la follia dello Shining di Kubrick/King, il terrore degli Uccelli di Hitchcock. È un film estremamente psicologico dove il senso di colpa e il tema della sessualità è molto presente, l’elemento fallico del faro, la sirena ammaliatrice, le masturbazioni allucinogene di Ephraim.
La luce del faro potrebbe rappresentare la purezza della verità che porta alla pazzia. Il desiderio di Prometeo di rubare il fuoco degli dei e le conseguenze del suo gesto.
Stilisticamente il film è di una potenza visiva sconcertante, ogni inquadratura sarebbe da incorniciare. Girato in bianco e nero, in formato 4:3 in 35mm - e questa scelta contribuisce a fornire al film un’atmosfera claustrofica - fin dalle prime scene troviamo una forte matrice espressionista che omaggia in maniera esplicita i film degli anni trenta di Murnau e Fritz Lang. La colonna sonora affidata a Mark Korven è ossessiva e angosciante.
The Lighthouse è senza ombra di dubbio uno dei migliori film degli ultimi anni. Per me è un capolavoro ed è una vergogna che questo film non sia mai stato proiettato nelle sale per essere distribuito direttamente su Netflix.

Devs
Alex Garland
Serie di otto episodi scritta e diretta da Alex Garland (regista di Ex Machina, Annientamento/Annihilation) uscita nel 2020 ma ancora inedita in Italia.
Il genere potremmo definirlo una fantascienza filosofica che parla di tecnologia e libero arbitrio.
Una riflessione sul ruolo della tecnologia, sui limiti della scienza e sulla condizione umana.
La serie è ambientata in un prossimo futuro a San Francisco. Fuori città, in un parco immerso nel verde risiede una grande azienda tecnologica chiamata Amaya che ha al suo interno un dipartimento segreto chiamato Devs che si occupa di fisica quantistica e che ha [spoiler] sviluppato un computer con un altissima capacità di calcolo capace di vedere il passato e prevedere il futuro [/spoiler]. Un giorno, un programmatore che era riuscito a entrare nel dipartimento scompare misteriosamente e la sua compagna iniza a indagare scoprendo che la sua scomparsa ha a che fare proprio con Devs e con il capo della azienda, Forest, un uomo tormentato dalla perdita della figlia, convinto sostenitore del determinismo, la teoria secondo la quale nel mondo nulla avviene per caso e che tutto accade secondo rapporti di causa ed effetto.
Questa serie conferma di come Alex Garland sia lo sceneggiatore/regista di fantascienza più interessante del momento. Un opera complessa, lenta e celebrale che fa riflettere.

Scissione (stagione 1)
Dan Erickson
Scissione (Severance) è una serie distopica/psicologica prodotta da Apple TV e diretta (in alcuni episodi) da Ben Stiller.
La Lumon Industries, una misteriosa compagnia di biotecnologia, ha realizzato una tecnologia innovativa, un microchip che impiantato nella corteccia celebrale dei suoi dipendenti permette di separargli i ricordi della loro vita privata da quella lavorativa. In pratica, una volta entrato nell'ascensore dell'azienda che conduce ai loro uffici, i dipendenti non ricordano nulla del loro vissuto all'esterno, della loro famiglia e dei propri interessi. Finito l'orario di lavoro, quando escono, riacquistano i loro ricordi ma non ricordano nulla di ciò che hanno fatto in ufficio, delle loro mansioni e dei loro colleghi. Protagonisti principali sono quattro impiegati (tra questi spicca un grande John Turturro) che lavorano nel dipartimento Meta Data Refinement e il cui lavoro consiste principalmente nel collocare, archiviare ed eliminare dei numeri che compaiono sui monitor dei loro vetusti computer seguendo uno schema non definito. L'arrivo di un donna che non accetta che il suo io esterno abbia preso una decisione così estrema - ovvero quella di trascorrere otto ore al giorno della propria vita a fare un lavoro senza senso e ripetitivo oltre al fatto di non conoscere nulla della propria vita all'esterno - da il via a una serie di interrogativi nei quattro protagonisti che iniziano a mettere in discussione il loro ruolo nell'azienda.
La serie esplora la psiche umana e l'alienazione al mondo del lavoro rifacendoci a una fantascienza applicata alla tecnologia alla Black Mirror. La scenografia è molto curata ed è caratterizzata da una ambientazione claustrofobica fatta da uffici asettici e corridoi alienanti tutti uguali che sembrano parte di un labirinto che non porta da nessuna parte e in cui non si sa mai cosa possa nascondersi dietro l'angolo. Quando l'ambientazione si svolge all'esterno invece ci troviamo in una indefinita città dell'Europa del nord o del Canada, fredda e innevata.
La serie di conclude con tante domande ancora senza risposte. È prevista una seconda stagione nel 2025.
Questa serie mi ha catturato come non mi capitava da tempo, e senza ombra di dubbio la considero la migliore serie degli ultimi dieci anni (insieme a Dark)
Il lavoro è misterioso e importante.
Serie TV
Dead Magic
Anna von Hausswolff
Quarto album per la svedese Anna von Hausswolff.
Un autentico colpo di fulmine, non la conoscevo.
Figlia di un apprezzato musicista contemporaneo, Anna von Hausswolff, nelle cinque tracce che compongono questo album, suona un vero organo di chiesa a canne su un tappeto di droni, evocando atmosfere oscure e decadenti lacerate dalla sua voce capace di un impressionante estensione vocale .
Tra il post rock più estremo alla Godspeed you black emperor, al gotico medioevale ed etereo dei Dead Can Dance, passando per gli Swans, Diamanda Galas e Kate Bush (quest'ultime principalmente per la voce).
Brani preferiti: The Truth, the Glow, the Fall e la drammatica The Mysterious Vanishing of Electra.
Migliore album del 2018.
Musica