
Cure
di Kiyoshi Kurosawa
In occasione della sua uscita nelle sale italiane, sono andato a vedere Cure di Kiyoshi Kurosawa, il film che nel 1997 ha aperto – insieme a Ring di Hideo Nakata e Audition di Takashi Miike – la prima ondata del cosiddetto J-Horror. Un’opera che ha segnato l’ascesa di Kurosawa nel panorama del cinema giapponese contemporaneo, proiettandolo tra i registi più rilevanti e meno inquadrabili.
A quasi trent’anni di distanza, Cure resta un oggetto misterioso. Oscuro, disturbante, elusivo. Non a caso è diventato un film di culto, ammirato da registi come Martin Scorsese, Ari Aster e Bong Joon-ho, che lo hanno citato tra le loro opere di riferimento.
In una Tokyo fredda e desolata vengono compiuti una serie di omicidi inquietanti. Le vittime vengono trovate con una X incisa sulla gola. Gli assassini, persone comuni, senza legami apparenti tra loro, vengono sempre identificati sul posto, ma sembrano non ricordare nulla del delitto. Il detective Kenichi Takabe (interpretato da uno straordinario Koji Yakusho), un uomo razionale tormentato dalla fragile salute mentale della moglie, inizia a indagare su questi casi inspiegabili. Il sospettato principale è un giovane enigmatico, Mamiya (Masato Hagiwara), che pare aver perso la memoria ma sembra nascondere molto più di quanto lasci intendere.
Kurosawa ha dichiarato di essersi ispirato a Il silenzio degli innocenti e Seven, ma prenderla alla lettera è fuorviante. Sì, c’è un detective, c’è un’indagine e c’è un assassino. Ma Cure non è davvero un film sui serial killer. È qualcos’altro. È un thriller spogliato di tensione narrativa classica, che si muove in uno spazio indefinibile, dove il terrore non è visibile, ma percepito. Niente musica, pochi dialoghi, lunghi piani sequenza, inquadrature fisse e suoni ambientali che si insinuano sotto pelle. L’orrore non arriva mai in modo spettacolare. Lo senti nel rumore di un neon, nel silenzio di una stanza vuota, nel volto inespressivo di chi ha appena ucciso senza sapere perché.
Kurosawa prende i cliché del thriller psicologico e li disinnesca uno ad uno. Non cerca la suspense, ma l’inquietudine. Lavora di sottrazione focalizzando sull'aspetto metafisico ed esistenziale. Il tema dell’ipnosi – o meglio, del mesmerismo – insinua l’idea che basti poco per liberare la volontà e far emergere l’oscurità che ognuno porta dentro. Cure è un film sul Male con la “M” maiuscola. Non come figura identificabile, ma come presenza invisibile che può insinuarsi nelle crepe della normalità. Il Male, qui, è un virus che si trasmette con uno sguardo o una frase sussurrata.
Il ritmo è lentissimo, quasi ipnotico. Ma è proprio quella lentezza a creare tensione. Tutto può succedere, da un momento all’altro, e spesso non succede. Alla fine viene quasi da pensare che sia tutto nella mente del detective, come suggerisce il medico che gli dice che sarebbe lui da internare al posto della moglie.
Quando l'ho visto per la prima volta, ammetto di avere avuto un senso di smarrimento. E quindi? Alla fine è stata questa la domanda che mi sono fatto. È un film ambiguo, sfuggente, che ti lascia addosso più domande che risposte. Non offre spiegazioni. Non cerca il compiacimento. Sicuramente è uno di qui film che necessita più di una visione.
Vederlo al cinema dopo parecchi anni e con una diversa maturità è stata un’esperienza completamente nuova. Non solo ha resistito al tempo, ma oggi forse inquieta più di allora.

Ring (1998)
di Hideo Nakata
All'inizio degli anni 2000, il J-Horror – l'horror giapponese – ha riscritto le regole della paura nel cinema occidentale. Non più carneficine splatter o esorcismi spettacolari, ma un terrore sottile, insinuante, fatto di presenze inquietanti, spiriti e maledizioni.
Ring, il film del 1998 diretto da Hideo Nakata (erroneamente conosciuto come Ringu a causa di una traduzione errata su alcuni poster internazionali), nonostante l'uscita, l'anno precedente, di un altro grande esponente del genere, Cure di Kiyoshi Kurosawa, segna a tutti gli effetti la rinascita del J-Horror a livello internazionale. Il successo di The Ring, il remake americano nel 2002, ha reso il J-Horror un fenomeno globale, con il film di Nakata – che ricordiamo essere tratto dall'omonimo romanzo di Koji Suzuki – che diventa il capostipite di un'intera corrente cinematografica, generando una lunga scia di sequel, remake e imitazioni.
Le storie dell'orrore giapponese affondano le radici nel folklore e nelle leggende tradizionali. Tra le figure più ricorrenti troviamo gli yurei, fantasmi vendicativi dal volto cadaverico e dai lunghi capelli neri, ispirati alle credenze shintoiste e buddiste sulla vita dopo la morte. La vera peculiarità del J-Horror sta nella sua capacità di portare queste antiche figure nell’era moderna, fondendo tradizione e tecnologia. Videocassette maledette, telefoni cellulari, macchine fotografiche e computer diventano i nuovi vettori dell'orrore, strumenti attraverso cui il sovrannaturale si insinua nella quotidianità, trasformando oggetti comuni in portali verso l'incubo.
La storia è ormai ben nota. La giornalista Reiko Asakawa sta indagando sulla misteriosa morte della nipote e di alcuni suoi amici, deceduti in circostanze inspiegabili. Le sue ricerche la portano a scoprire una leggenda metropolitana che si sta diffondendo tra gli adolescenti: chiunque guardi una certa videocassetta riceve subito dopo una telefonata che annuncia la sua morte entro una settimana. Decisa a scoprire la verità, Reiko si reca nello stesso luogo in cui la nipote e i suoi amici hanno trascorso l’ultima notte e lì trova la videocassetta. La guarda. Sullo schermo scorrono immagini inquietanti e apparentemente scollegate: una donna che si pettina davanti a uno specchio, un pozzo abbandonato, strani simboli privi di logica. Terminata la visione, il telefono squilla e capisce di essere anche lei vittima della maledizione. Disperata, chiede aiuto al suo ex marito, Ryuji, un professore di psicologia che, pur dimostrandosi scettico, le chiede una copia della videocassetta per analizzarla e aiutarla a risolvere il mistero. Le indagini conducono i due sull’isola di Oshima, dove anni prima vivevano la sensitiva Shizuko e sua figlia Sadako, una bambina dotata di spaventosi poteri paranormali, segnata da un destino tragico. La situazione precipita quando anche il figlioletto di Reiko, Yoichi, inconsapevole del pericolo, guarda la videocassetta venendo colpito dalla maledizione.
Sadako, il fantasma vestito di bianco dai lunghi capelli che le coprono il volto, che striscia fuori dallo schermo del televisore, è diventata una delle figure più spaventose e riconoscibili dell’horror moderno. La sua maledizione è un contagio che si propaga come un virus, alimentandosi della paura stessa delle sue vittime. Guardare il video significa diventare testimoni della sua sofferenza e, di conseguenza, condannarsi a condividere la rabbia di chi è stato sepolto vivo in un pozzo e abbandonato a una morte solitaria. L’unico modo per sopravvivere? Diffondere la maledizione, farla proliferare. Una metafora brutale e cinica che può essere letta in molti modi: dalla necessità umana di tramandare il proprio dolore alla riflessione sul ruolo dei media nel diffondere ansie collettive.
A livello visivo e narrativo, Ring non si affida alle classiche meccaniche da jumpscare. Nakata costruisce un’atmosfera opprimente, fatta di silenzi, inquadrature dilatate, dettagli che insinuano disagio. È un horror che si comporta come un thriller investigativo, in cui l’orrore emerge lentamente, fino a diventare inevitabile in un finale che presenta una delle sequenze più iconiche della storia recente del genere.
Dal punto di vista personale, la mia esperienza con Ring è stata influenzata dal fatto di aver visto prima il remake americano del 2002, diretto da Gore Verbinski. Il film di Nakata è arrivato in Italia solo l'anno successivo, in DVD, spinto dal successo ottenuto dal rifacimento americano. Pur non amando l’abitudine hollywoodiana di acquistare i diritti di un film straniero per rifarlo su misura del proprio pubblico, devo ammettere che The Ring, quello americano, mi ha terrorizzato molto più dell’originale, forse perché lo vidi per primo, al cinema, senza alcuna idea di cosa aspettarmi. Il ritmo più serrato, la fotografia cupa e alcune scene di puro orrore mi sono rimaste impresse nella memoria. È stato proprio grazie al remake che ho scoperto il film di Nakata, mi sono letto il romanzo di Suzuki e ho iniziato ad appassionarmi all’horror giapponese. Tornando al film di Nakata, e rivendendolo oggi a distanza di anni, sebbene sia evidente il low budget e una fotografia molto televisiva, ho apprezzato la costruzione lenta e la capacità di insinuare inquietudine senza affidarsi agli spaventi facili. Ring non è un horror costruito sull’effetto sorpresa, ma sulla tensione psicologica, sull'invisibile che si insinua nella quotidianità, lasciando che l’orrore si manifesti in modo sottile e inesorabile.
L’influenza di Ring è stata immensa. Ha generato un filone di horror giapponesi con spiriti vendicativi (da Ju-On a Dark Water), ha avuto sequel, prequel, rifacimenti coreani e americani, fino a ibridi come Sadako vs Kayako.
È un cult, non solo per il J-Horror, ma per il cinema dell’orrore in generale. Un film che ha ridefinito l’idea stessa di paura, dimostrando che l’orrore più efficace è quello che si insinua nella mente dello spettatore.

Audition
di Takashi Miike
La prima volta che ho visto Audition di Takashi Miike, in una videocassetta a casa di un amico, non avevo idea di cosa mi aspettasse. Mi affascinavano gli horror giapponesi, che in quel periodo stavano proliferando, e avevo già visto film estremi e disturbanti. Tuttavia con Audition, di cui ignoravo la svolta nella trama, avevo un aspettativa diversa. Forse il titolo, forse la premessa da dramma sentimentale. Fatto sta che mi ha colto completamente alla sprovvista.
Quando il film viene presentato in anteprima al Festival di Rotterdam nel gennaio del 2000, Miike ha già diretto una decina di film. È noto per il suo stile prolifico e anticonvenzionale — in trent'anni di carriera girerà più di un centinaio di film spaziando tra i generi più disparati — ma è proprio con Audition, tratto dall’omonimo romanzo di Ryu Murakami, che il suo nome esplode a livello internazionale, consacrandolo come uno dei cineasti più estremi e provocatori del panorama giapponese.
Shigeharu Aoyama (Ryo Ishibashi) è un uomo di mezza età rimasto vedovo, che vive solo con il figlio adolescente. Su insistenza di quest’ultimo, decide di rimettersi in gioco e cercare una nuova moglie. L’amico Yoshikawa (Jun Kunimura), produttore cinematografico, gli propone una idea bizzarra, quella di organizzare un’audizione per un film inesistente, in modo da poter selezionare, tra tante giovani aspiranti attrici, la donna perfetta per Aoyama. È così che l’uomo incontra Asami Yamazaki (Eihi Shiina), una giovane di ventiquattro anni, eterea, timida e misteriosa. Aoyama ne è subito rapito. Asami sembra delicata, quasi irreale, con una storia di sofferenza che la rende ancora più affascinante. Ma dietro quel volto angelico si nasconde qualcosa di oscuro. Un passato di dolore, abusi e violenza repressa, che trascinerà Aoyama in un incubo a occhi aperti.
La forza di Audition sta proprio nella sua costruzione e nella sua messa in scena. Inizialmente il film sembra una semplice storia d’amore, quasi una commedia grottesca, in cui un uomo di mezza età si affida a una finta audizione organizzata dall’amico per trovare moglie, sfogliando i profili delle candidate con la stessa leggerezza con cui oggi si "swippa" su un’app di incontri. La donna perfetta deve essere giovane, bella, gentile, devota, pronta a soddisfare ogni necessità dell’uomo. Ma Asami non è un oggetto. È il riflesso distorto di una società patriarcale che impone alle donne di essere compiacenti, di curare il dolore degli uomini dimenticandosi del proprio. E quando la sua maschera cade, quando Aoyama si dimostra incapace di darle quell’amore assoluto che lei chiede, l’uomo diventa la vittima perfetta su cui riversare tutta la sofferenza accumulata da anni di solitudine, abusi e molestie.
Miike costruisce un film che inizia come un dramma sentimentale, che si trasforma in un noir lynchano sospeso tra realtà e incubo — l'uomo nel sacco ha la stessa potenza inquietante del barbone di Mulholland Drive — per poi virare nel finale in un horror estremo ai limiti della sopportazione visiva. Audition è un film che gioca sull’ambiguità, lasciandoci costantemente nel dubbio su cosa sia reale e cosa sia frutto della mente dei protagonisti.
Un cult movie, un classico moderno sulla violenza inflitta e ricevuta, sulla fragilità che si trasforma in disperazione. Un’illusione d’amore che si sgretola rivelando il volto della follia. Forse non è un horror nel senso più tradizionale del termine, ma una volta visto, è impossibile dimenticarlo. Sicuramente il capolavoro di Miike.
Film
Chime
di Kiyoshi Kurosawa
Noto per il suo approccio unico e autoriale al genere horror giapponese con opere come Cure e Pulse, il regista e sceneggiatore Kiyoshi Kurosawa firma Chime, un mediometraggio di 45 minuti concepito per promuovere Roadstead, una nuova piattaforma di streaming giapponese.
Presentato in anteprima alla Berlinale 2024, Chime condensa in meno di un’ora tutta la maestria del regista nel creare tensione, alienazione e un’inquietudine sottile e persistente.
La storia vede come protagonista un insegnante di cucina francese (Mutsuo Yoshioka) che dopo aver assistito al suicidio di uno dei suoi studenti, viene contaminato da una follia omicida che lo porta a perdere il controllo sulla propria mente e sulle sue azioni.
Kurosawa ha la straordinaria capacità di evocare il terrore attraverso dettagli minimi e apparentemente insignificanti: l'ombra dietro una tenda, il riflesso in una finestra, il suono di un condizionatore. Un esempio perfetto di questa tecnica si trova nella scena in cui il protagonista pranza con la famiglia, e la moglie si alza improvvisamente per gettare un intero sacco di lattine nel secchione. Questo gesto, che si ripete nel corso del film, non solo provoca un rumore fragoroso, ma riesce a suscitare un senso di profonda inquietudine. La tensione, pur rimanendo nascosta sotto la superficie, diventa palpabile, infondendo un'ansia persistente che cresce con ogni ripetizione del gesto, fino a diventare decisamente disturbante.
Un altra scena, in cui apparentemente non succede nulla ma la tensione sale alle stelle, è quella finale in cui il protagonista esce di casa per vedere chi ha suonato al citofono venendo sovrastata da un rumore alieno e dissonante che amplifica il disagio interiore del personaggio
Kurosawa, fedele al suo stile, costruisce un orrore che non viene mostrato, non si manifesta in modo esplicito, ma si insinua silenziosamente, restando percepibile a livello emotivo. Il sonoro diventa il fulcro della narrazione con rumori amplificati, suoni discordanti e il silenzio stesso che si trasformano in strumenti per creare disagio. Chime è un piccolo gioiello di paranoia, un concentrato di inquietudine che dimostra ancora una volta come Kurosawa sia capace di trasformare l’ordinario in un’esperienza straordinariamente perturbante.

L'innocenza
di Hirokazu Kore'eda
L'Innocenza, titolo italiano scelto per Monster, è il primo film che vedo di Hirokazu Kore'eda, regista giapponese conosciuto per Nobody Knows, Father and Son e Un affare di famiglia. Vincitore al 76° Festival di Cannes del premio per la migliore sceneggiatura, il film si avvale della scrittura di Sakamoto Yûji e della colonna sonora di Ryuichi Sakamoto, il celebre compositore, scomparso poco tempo dopo la sua uscita.
La film racconta la storia di Minato, un ragazzino di 11 anni che ha perso il padre e vive solo con la madre. Un giorno, tornato da scuola visibilmente turbato, Minato inizia a comportarsi in modo strano. La madre, preoccupata, si precipita a scuola venendo a sapere che un insegnante gli ha messo le mani addosso. La verità però è diversa da come ci viene raccontata.
L'Innocenza è un film emotivamente complesso che racconta la stessa storia da tre diverse prospettive: quella di una madre preoccupata, quella di un insegnante accusato di molestie e quella di due bambini il cui rapporto evolve da una semplice amicizia a un legame più profondo e ambiguo. Nella prima parte Kore'Eda descrive l'ipocrisia e la rigidità di una società giapponese contemporanea spesso più attenta a preservare la facciata rispettabile e l'onore piuttosto che indagare la verità. La seconda parte, in cui gli elementi del puzzle si ricompongono, si concentra sul mondo dei bambini. È qui che emergono le sfumature più intime della storia: i sentimenti nascosti, la vulnerabilità e la complessità del legame tra Minato e Yori, l'altro bambino protagonista della storia, preso di mira perché effemminato. Il regista giapponese, con delicatezza e profondità, racconta il passaggio dall’innocenza dell’infanzia, l'incomprensioni delle relazioni, e il peso delle apparenze, lasciandoci con una verità che si dimostra ingannevole, soggettiva, e mai definitiva, in cui ognuno diventa il "mostro" dell'altro.
Film
Love Life
di Koji Fukada
Love Life è un film giapponese del 2022 diretto da Koji Fukada e presentato in concorso alla 79° Mostra d'arte Cinematografica di Venezia.
Il film racconta la storia di una giovane coppia, Taeko e Jiro che vive in un piccolo appartamento situato in un quartiere periferico di una indefinita città giapponese. I due si sono sposati da poco ma i genitori di Jiro non vedono di buon occhio il matrimonio, in quanto Taeko ha un figlio nato da un precedente matrimonio: Keita, un bambino di otto anni brillante giocatore di Othello. La vita della famiglia sembra scorrere in una calma apparente, fino a quando un tragico incidente causa la morte del bambino spezzando il fragile equilibrio, e costringendo Taeko e Jiro ad affrontare non solo il lutto, ma anche le difficoltà e le incomprensioni che hanno sempre cercato di evitare.
Il film esplora con delicatezza il tema del lutto, soffermandosi sui silenzi e sugli sguardi che dicono ciò che le parole non riescono a esprimere. È un'opera profondamente "giapponese", nel senso che per comprenderla appieno è necessario entrare in sintonia con la loro cultura. Le emozioni sono misurate, controllate, tanto che i protagonisti appaiono freddi, quasi glaciali. Fukada lavora per sottrazione, lasciando che siano i gesti e i silenzi a raccontare la sofferenza. La scena della morte del bambino è un esempio magistrale di questo approccio: ambientata nel bagno di casa, la telecamera, posizionata in una stanza adiacente, si muove lentamente attraverso la porta aperta, mentre la tragedia si consuma in silenzio. È un momento di grande intensità che apre un vuoto emotivo incolmabile. La tragedia genera un vuoto che amplifica il senso di colpa e l’incapacità di comunicare di Taeko che non riesce a trovare nel marito il conforto di cui ha bisogno. Il ritorno inaspettato di Park, padre biologico di Keita, sordomuto coreano senza fissa dimora, offre a Taeko un'ancora di salvezza, un interlocutore che comprende il suo dolore perché lo condivide. La lingua dei segni, utilizzata da Park, diventa il mezzo attraverso cui Taeko riesce a esprimere se stessa, a parlare quando le parole sembrano inutili.
Unico appunto ma non meno rilevante, la parte finale, quella in cui Taeko insegue l'ex marito fino in Corea per quello che si rivela essere non un funerale, ma un matrimonio, non è proprio riuscita. La figura di Park, scivola progressivamente verso la caricatura e l'intera sequenza, che dovrebbe concludere il viaggio emotivo della protagonista, appare invece forzata e discutibile, minando in parte l’equilibrio emotivo costruito fino a quel momento.
Un film silenzioso passato inosservato.

La cerimonia della vita
Murata Sayaka
La cerimonia della vita è una raccolta di racconti di Murata Sayaka, scrittrice giapponese che ho apprezzato ne I Terrestri e il recente Parti e omicidi.
Sono dodici racconti ambientati in un imprecisato futuro dispotico in cui le convenzioni sociali sono ribaltate e situazioni che potrebbero sembrare estreme o assurde rappresentano la normalità.
Il racconto che mi ha colpito di più è quello che dà il titolo alla raccolta. In questa storia, è tradizione che, alla morte di un proprio caro, si celebri un rito funebre durante il quale gli invitati consumano il corpo del defunto per poi accoppiarsi e procreare. Un modo insolito di elaborare il lutto, trasformando la morte in simbolo di rinascita. Ciò che potrebbe sembrare disgustoso viene narrato con una naturalezza sorprendente, quasi fosse la cosa più normale del mondo, arricchita da un significato profondo.
Gli altri racconti, almeno quelli che più mi sono rimasti impressi, sono "Materiale di prima qualità" che racconta di come i corpi dei defunti vengono utilizzati per realizzare gioielli, oggetti di arredamento e vestiti, "Un lauto banchetto", la storia di una donna convinta di essere un aliena nella sua vita precendente abituata a cucinare i piatti tradiziononali del suo pianeta di origine, "Gli amanti del vento" che racconta la storia d'amore tra una ragazza e la tenda appesa alla finestra della sua camera da letto, e infine "La schiusa" in cui una ragazza, in modo spontaneo, ha una personalità diversa per ogni situazione non sapendo come comportarsi quando si ritrova a invitare tutti i conoscenti al suo matrimonio.
I dodici racconti si alternano tra storie provocatorie, grottesche e surreali a storie decisamente più delicate e umoristiche. Tutte sono contradistinte dal tema dell'anticonformismo sociale e del ribaltamento di quella che viene definita normalità. Anche se non tutte le storie mi hanno colpito allo stesso modo, l'originalità di Murata continua a emergere, sopratutto nei racconti più spiazzanti e visionari, rendendo questa raccolta un'esperienza comunque stimolante e fuori dagli schemi
Libri
Confessions
di Tetsuya Nakashima
Thriller psicologico giapponese del 2010 diretto dal giapponese Tetsuya Nakashima basato sul romanzo omonimo di Kanae Minato.
La storia ruota attorno a Yuko Moriguchi (Takako Matsu), una insegnante di scuola media la cui vita viene devastata dal ritrovamento del cadavere della propria figlia di quattro anni affogata nella piscina scolastica. Inizialmente considerato un incidente, la morte della bambina si rivela presto essere un omicidio, commesso da due studenti della stessa classe dove insegna.
Nel giorno del suo ultimo discorso prima di lasciare l'insegnamento, la signora Moriguchi rivela alla sua classe di essere a conoscenza della vera natura della morte della figlia e dell'identità dei colpevoli. Sapendo che in Giappone i minori non possono essere incriminati, Moriguchi inizia a elaborare un lento ed inesorabile piano di vendetta avviando una catena di eventi che porterà entrambi i colpevoli a confrontarsi con le conseguenze delle loro azioni in modi profondamente disturbanti e tragici.
Confessions è un revenge movie che offre molteplici spunti di riflessione sul fallimento del sistema scolastico e familiare giapponese, esplorando tematiche come il bullismo, la solitudine e la violenza tra i giovani. Le azioni crudeli compiute dagli adolescenti nel film rivelano una complessità e un malessere esistenziale profondi. Temi come il suicidio, l'isolamento e la costante pressione competitiva sono ricorrenti sia nella letterature che nel cinema e riflettono problemi ben radicati nella società giapponese.
Dal punto di vista realizzativo Nakashima confeziona un film visivamente bello da vedere ma con una fotografia, un montaggio e sopratutto un uso smodato del rallenty che richiama un pò troppo l'estetica dei videoclip. Sembra come che il regista si sia fatto un pò prendere la mano, enfatizzando e portando all'estremo alcuni virtuosismi e soluzioni visive che, se non dosate bene, perdono della lora efficacia finendo per appesantire - anzi in questo caso il termine adatto è rallentare - una storia che secondo me poteva essere molto più cupa e cruda di quanto non sia stata raccontata.
Film
Tomie
Junji Ito
Pubblicato da J-Pop nel 2017 questo corposo volume - siamo intorno alle 700 pagine - raccoglie una ventina di storie scritte e disegnate da Junji Ito tra il 1987 e il 2001. Protagonista è Tomie, una giovane ragazza poco più che adolescente, che con la sua bellezza e il suo fascino riesce a far innamorare ogni uomo che incontri, per poi portarlo alla follia e all'incomprensibile desiderio di ucciderla e farla brutalmente a pezzi. La particolare caratteristica di Tomie è che la ragazzina possiede delle strabilianti capacità rigenerative che gli permettono non solo di guarire in tempi brevi da ogni ferita, ma addirittura di riprodurre un'altra copia di se stessa da ogni pezzo del suo corpo mutilato. Non si capisce bene se sia una mutante, un demone, oppure un immortale parassita. La cosa certa è che Tomie è una seducente manipolatrice dall'irresistibile bellezza e dall'anima crudele, una giovane viziata, vanitosa, cinica e arrogante, che si nutre di consenso e ammirazione e il cui unico scopo è quello di provocare una sfrenata passione, soprattutto tra gli uomini, che si conclude con accessi di follia omicida, sangue e mutilazioni.
Nelle storie di Junji Ito il desiderio sessuale viene sostituito dalla morte e dall'annichilimento. Gli uomini, tutti umiliati e privati della loro virilità, sono dei manichini dagli occhi cerchiati che manifestano il loro amore malato e ossessivo per la spietata ragazza trovando appagamento e soddisfazione solo nella sua morte e nella negazione della sua femminilità. Un perpetuo femminicidio dove il corpo della donna viene mutilato e ridotto a pezzi, poiché solo così il maschio riesce ad affermare sé stesso e possedere ciò che non può avere né controllare.
E' una tematica forte che però Junji Ito esplora fino a un certo punto preferendo ripetere in ogni episodio l'orrore ciclico di morte e rinascita della nostra protagonista senza soffermarsi sul lato psicologico e sugli istinti primordiali nei confronti del sesso di una società giapponese pudica e repressiva.
Le storie che compongono questo volume sono quasi tutte autoconclusive e se c'è una trama che li unisce risulta sottile e poco delineata. I primi episodi, realizzati da Junji Ito al suo esordio come mangaka, risultano semplici e acerbi ma pagina dopo pagina sia la scrittura che i suoi disegni si fanno sempre più dettagliati, disturbanti e visionari fino ad acquisire quell'inconfondibile stile artistico che lo ha consacrato in tutto il mondo come l'indiscusso maestro del manga horror contemporaneo.
Da questo manga sono stati realizzati ben nove film, tutti scritti sotto la supervisione dello stesso Ito, che vorrei presto recuperare.
Fumetti

Godzilla Minus One
di Takashi Yamazaki
"Godzilla Minus One", diretto da Takashi Yamazaki, è un film giapponese dedicato al celebre mostro Godzilla.
Distribuito malamente in Italia, il film, in attesa che approdi sulla piattaforma Netflix, è diventato rapidamente una delle pellicole più piratate dell'anno. E poi ci lamentiamo.
Prodotto dalla Toho, la rinomata casa di produzione giapponese che ha realizzato tutti i film di Godzilla, il film di Yamazaki è un chiaro omaggio al primo Godzilla del 1954. Nonostante un budget limitato rispetto ai corrispettivi film statunitensi, il film si è aggiudicato un Oscar per gli effetti speciali.
La storia è ambientata in Giappone duranta la fine della seconda guerra mondiale. Koichi Shikishima (Ryunosuke Kamiki), un ex pilota kamikaze, è tormentato dall'orrore della guerra e dal senso di colpa per non essere stato abbastanza coraggioso da sacrificare la sua vita. L'incontro con la mostruosa creatura chiamata Godzilla, avvenuto durante la sua ultima missione nell'isola di Oda, ritorna nei suoi incubi e quando torna a casa, in una città devastata dai bombardamenti, neanche la compagnia di una donna e di una piccola orfanella riesce a placare la sua angoscia. A seguito di una serie di test nucleari condotti dagli Stati Uniti nell'atollo di Bikini, Godzilla viene involontariamente potenziato. Diventato ancora più potente e gigantesco a causa delle radiazioni, la creatura si dirige verso Tokyo.
Non ho visto tutti i trenta e passa film su Godzilla, ma tra tutti i remake e le varie rivisitazioni di cui mi ricordo il film di Yamazaki è sicuramente quello che più ho apprezzato. Innanzitutto, Godzilla è un'icona giapponese, profondamente radicata alla loro cultura. Se un tempo gli effetti speciali di Hollywood avevano un senso, oggi, con il Giappone che ha acquisito sia le capacità tecniche che l'esperienza necessarie per realizzare un disaster movie con la stessa spettacolarità visiva dei colleghi americani, le varie produzioni di quest'ultimi legate al MonsterVerse, un universo cinematografico in stile Marvel incentrate sul lucertolone giapponese, mi pare produca solo film di intrattenimento caciarone senza alcun spessore.
Godzilla non è solo un mostro gigantesco che distrugge metropoli e infesta i mari, è una allegoria della bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki, che rappresenta le paure e le ansie di un intero popolo legate all'energia nucleare e alla distruzione che può portare. Ambientato in un Giappone post bellico, un paese traumatizzato e devastato dalla guerra, il film affronta il tema delle conseguenze psicologiche dei sopravissuti esprimendo una chiara ed evidente critica al proprio paese che in nome di uno spirito nazionalistico con la figura dei kamikaze ha portato al sacrificio del suo popolo. Non è un caso che alla fine il mostro non venga sconfitto dalle forze militari del governo bensì dalla società civile, rappresentata da Shikishima, che in cerca di riscatto affronta, in una delle scene meglio realizzate, il demone del proprio presente con la volontà di sopravvivere.
"Godzilla Minus One" celebra il film originale attraverso una serie di citazioni, senza nascondere omaggi a "Lo Squalo" di Spielberg, mettendo in mostra un repertorio di effetti speciali all’avanguardia che restituiscono la forza della distruzione e la sensazione di trovarsi in mezzo al disastro causato dalla furia di una creatura primordiale.
In conclusione, ritengo "Godzilla Minus One" una delle migliori opere dedicate al Re dei Mostri, un film che celebra i settant'anni del franchise, non solo rendendo giustizia all'iconico mostro giapponese, ma offrendo anche una riflessione potente e attuale sulle conseguenze della guerra.
Film
Parti e omicidi
Murata Sayaka
Finito di leggermi I terrestri di Murata Sayaka mi sono precipitato in libreria per prendermi un altro libro di questa visionaria scrittrice giapponese contemporanea. Esposto in bella vista ho trovato Parti e omicidi, uscito fresco di giornata, e senza esitazione me lo sono portato a casa. Letto in un giorno.
Il libro è una raccolta di racconti del 2014, quindi antecedenti a I terrestri, ambientati a Tokyo in un futuro distopico, che hanno come comune denominatore la morte, il sesso e la riproduzione.
In Parti e omicidi il governo ha istituito un bizzarro incentivo per spingere la popolazione - in diminuzione a causa del calo delle nascite - a procreare e generare nuove vite. In pratica chi diventa "gestante" e porta a termine con successo dieci gravidanze ha la possibilità di uccidere una persona a sua scelta. Anche gli uomini possono contribuire allo sviluppo demografico tramite l'impianto di un utero artificiale.
Triade racconta di come i rapporti di coppia siano ormai fuori moda e tra i giovani si tende sempre più spesso ad avere una relazione con due partner contemporaneamente, le cosidette "troppie".
Un matrimonio pulito racconta del tentativo di una coppia sposata di avere il loro primo figlio. I due non hanno fatto mai sesso e non hanno intenzione di farlo, fanno sesso con dei partner al di fuori del loro matrimonio ma sono disgustati dalla prospettiva di farlo con il proprio coniuge. Fortunamente esiste una soluzione ai loro bisogni che non è la procreazione assistita.
Infine in Ultimi momenti di vita, breve racconto di un paio di pagine, i progressi della scienza ha permesso alla popolazione di non morire più di vecchiaia o per qualunque sia la causa del decesso, venendo semplicemente riportati in vita. Chi desidera morire riempie un modulo e si sceglie la sua morte.
Le storie di Murata Sayaka sono dei bizzarri esperimenti sociali che si svolgono in un mondo apparentemente familiare, in cui il sesso è quasi repulsivo mentre il corpo, la carne e il sangue provocano una morbosa attrazione.
In queste storie c'è una forte critica alla società giapponese dove, secondo la visione di Murata Sayaka, le donne sono considerate delle macchine da parto e il sesso e l'orgasmo è solo uno "scarico di liquidi". Nei suo racconti c'è un evidente desiderio di fuggire dagli schemi imposti dalla società e per quanto alcune situazioni possono risultare grottesche ammetto, pur con estremo disagio, che in alcune parti mi sono pure ritrovato.

I terrestri
Murata Sayaka
Murata Sayaka è una scrittrice giapponese autrice del bestseller La ragazza del convenience store. Non l'ho ancora letto ma conto di farlo in un prossimo futuro.
Mi sono avvicinato a questo romanzo senza conoscere l'autrice e senza sapere cosa aspettarmi. Leggendo la sinossi del libro e guardando la copertina uno si aspetterebbe di leggere una storia con protagonista una sorta di Lamù o Sailor Moon. Niente di più sbagliato.
Natsuki è una ragazzina di undici anni convinta di essere una maga e di possedere dei poteri magici grazie a un portacipria e una bacchetta donati da un pupazzo di peluche chiamato Piyut proveniente dal pianeta Pohapipinpobopia. Natsuki vive con i suoi genitori e una sorella capricciosa ed egoista di un paio di anni più grande. La madre sembra nutrire affetto solo per la primogenita riversando su Natsuki tutte le sue frustrazioni e amarezze. Il padre è assente e la sua presenza si limita solo nell'infliggergli punizioni. Costantemente criticata e umiliata dai suoi genitori Natsuki sembra trovare un motivo di esistere solo nel suo mondo fantastico.
Ogni estate la famiglia si riunisce insieme a tutti i fratelli e cugini nella casa dei nonni paterni tra le montagne di Akishina per la festa degli Obon (la festa giapponese che commemora e ricorda i defunti). Questo è l'unico luogo in cui Natsuki si sente felice perchè ha l'occasione di condividere le sue fantasie con il cugino coetaneoYuu, un ragazzo che proviene da una famiglia disagiata convinto di essere un extraterrestre in attesa che qualcuno lo porti sul suo pianeta d'origine. Nei mesi successivi Natsuki subisce degli abusi sessuali da parte del suo insegnante - non venendo creduta dalla madre che l'accusa di voler attirare l’attenzione - e il suo corpo reagisce perdendo prima il gusto e poi l’udito da un orecchio. L'estate successiva Natsuki e Yuu si ritrovano e il loro legame profondo viene sugellato da un "matrimonio" segreto comprensivo di rapporto sessuale che, non appena scoperto, scatena l'ira degli adulti, segna una rottura tra le loro famiglie e porta alla loro separazione.
Nella seconda parte del romanzo ritroviamo Natsuki, ormai trentenne, sposata con Tomohiko, personaggio ancora più dissociato convinto che gli individui sono ingranaggi di una grande fabbrica che li obbliga a lavorare e generare figli.
Non vado oltre perchè il romanzo, sopratutto nel finale, prende una piega inaspettata e degenerativa alquanto inquietante.
Il romanzo di Murata Sayaka sembra in superficie una fiaba (che sfocia nell'orrore) con protagonista una moderna Cenerentola ma in realtà è una critica feroce nei confronti della società giapponese che emargina coloro che non sono allineati e non seguono le regole (istruzione, lavoro, matrimonio, figli) facendoli sembrare dei veri e propri alieni, al cospetto de "i terrestri". Stiamo parlando del malessere sociale che da tempo dilaga in Giappone, e che per certi versi si può riscontrare anche in occidente, di una generazione oppressa nel dimostrare di essere all'altezza del modello sociale che gli viene imposto e che li vuole tutti belli, felici e vincenti.
Natsuki, Yuu e Tomohiko, entrambi traumatizzati dalle loro famiglie, decidono di infrangere queste regole eliminando tutti i limiti imposti dalla società, e nel cercare la loro via di fuga e ribellione finiscono per perdere ogni tipo di inibizione e... umanità, d'altra parte sono alieni.
Un romanzo provocatorio che parla di disagio e diversità. Suggestivo, sconcertante e parecchio straniante.

Perfect Days
di Wim Wenders
Perfect Days, premiato all’ultimo Festival di Cannes, è un film di produzione giapponese diretto dal regista tedesco Wim Wenders.
Molto singolare la storia dietro questo film. In occasione delle Olimpiadi in Giappone del 2020, degli architetti di fama internazionale sono stati incaricati di progettare più di una decina di bagni pubblici nei parchi di Tokyo. Si tratta di vere e proprie opere d'arte, alcune davvero innovative (come il bagno di vetro colorato trasparente che diventa opaco quando è occupato) realizzati con l'intento di mostrare al mondo, attraverso la riqualificazione dei bagni pubblici notoriamente luoghi sgradevoli, la tradizionale cultura giapponese dell'accoglienza (e della pulizia).
La fondazione giapponese che si è occupata di queste opere ha contattato Wim Wenders - che negli ultimi anni si è dedicato nella realizzazione di numerosi documentari, anche in Giappone - chiedendogli di girare una serie di brevi cortometraggi per la campagna di comunicazione. Colpito da queste particolari toilette, il regista tedesco decide di scriverci su una storia con protagonista un uomo di mezza età che ogni giorno si occupa della loro pulizia con cura e devozione.
La vita di Hirayama (interpretato da Koji Yakusho), addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, è scandita da una routine semplice e precisa. Ogni giorno si sveglia, mette a posto il futon, si lava faccia e denti, annaffia con uno spruzzino le sue piantine, prende un caffè in lattina dal distributore automatico sotto casa, sale sul suo furgone, ascolta delle vecchie musicasette (Velvet Underground, Otis Redding, Patti Smith e musica giapponese anni settanta) e si reca a lavoro iniziando a pulire la prima delle diverse toilette del suo giro. Nonostante pulire i bagni pubblici possa essere considerato un lavoro poco graticante, Hirayama lo fa con impegno, dedizione e attenzione meticolosa. Il suo lavoro gli piace. In pausa pranzo si siede su una panchina, mangia un tramezzino, e con una vecchia fotocamera analogica fotografa gli scorci di luce fra gli alberi e la natura circostante. Hirayama è un uomo tranquillo e disponibile, sempre sorridente, un uomo solitario e di poche parole - quasi muto rispetto al suo insopportabile giovane collega - che non esita ad aiutare il prossimo e coloro che si trovano in difficoltà. Finito il suo turno va a lavarsi in uno dei bagni pubblici giapponesi (onsen), cena sempre alla stessa tavola calda, torna nella sua umile ed essenziale casa, legge un libro e infine si addormenta. Ogni giorno le sue giornate si ripetono nello stesso modo, serene, tranquille e apparentemente uguali, con dei piccoli avvenimenti (come giocare a Tris con qualcuno che non si conosce, accogliere la nipote adolescente fuggita di casa, e calpestare le ombre con un uomo che ha bisogno di essere consolato) che le rendono uniche e metteno in risalto il valore della semplicità e del vivere il momento.
Ho trovato questo film delizioso. Un film che con la sua semplicità mi ha colpito nel profondo e mi ha trasmesso un senso di serenità inaspettata. Il film non è privo di ombre, perchè Hirayama è un uomo che deve avere sofferto, ma il protagonista nel suo essere schivo e riservato ha trovato il suo equilibrio in se stesso e una perfetta armonia con l'ambiente circostante. E' un film nostalgico in cui la tecnologia viene rimpiazzata dall'analogico e la frenesia delle nostre vite viene sostituita con il gusto di vivere e apprezzare l'attimo della nostra esistenza. "Un'altra volta è un'altra volta, adesso è adesso" dice il nostro protagonista alla nipote che vorrebbe andare al mare.
Nonostante la lunghezza, i silenzi e le ripetitive scene di vita ordinaria, il film di Wim Wenders è riuscito a tenermi incollato allo schermo coinvolgendomi emotivamente.
La scena finale con il volto di Yakusho - grande interpretazione la sua - che esprime nello stesso momento gioia e dolore (mi ha ricordato Mia Goth in Pearl anche se stiamo parlando di film completamente differenti) raffigura in modo magistrale le esperienze della vita, oppure, e questa è un altra chiave di lettura, la triste ma serena consapevolezza di vivere in un mondo dentro il mondo, unico e isolato.
Un film che nella sua essenzialità è stato capace di toccare le corde giuste e trasmettermi profonde emozioni.

IQ84
Haruki Murakami
Senza dubbio Haruki Murakami è il mio scrittore contemporaneo preferito.
Da quando, parecchi anni fa, lessi Tokyo Blues ogni suo libro mi ha coinvolto emotivamente fino a raggiungere l'apice con quelli che ritengo i suoi capolavori, L'uccello che girava le viti del mondo e La fine del mondo e il paese delle meraviglie. Scorrendo la sua bibliografia vedo che me ne mancano molti degli anni duemila che vorrei presto recuperare.
1Q84 è una trilogia. I primi due libri sono stati pubblicati in Giappone in contemporanea nel 2009, mentre il terzo è uscito l'anno successivo. Nell'edizione che ho io, Einaudi, i primi due libri sono stati accorpati in un unico libro. In totale siamo sulle 1200 pagine circa.
La storia, ambientata nel 1984, è quella di Aomame e Tengo, compagni di classe alle elementari, innamorati l'uno dell'altro, senza che l'altro lo sappia. I due non si vedono da vent'anni ma entrambi si ricordano di un particolare evento, una semplice, breve stretta di mano che ha segnato la loro esistenza e che, anche da adulti, rivivono con una intensa passione.
Aomame è una istruttrice di arti marziali e ginnastica distensiva che nel tempo libero si trasforma in una letale e spietata serial killer in minigonna e tacchi a spillo che uccide, con una tecnica micidiale e invisibile, gli uomini che hanno compiuto violenza sulle donne.
Tengo è un insegnante di matematica e aspirante scrittore che, contattato dal suo editore, accetta di riscrivere un romanzo intitolato "La crisalide d'aria", scritto da una ragazza di diciassette anni di nome Fukada Eriko che racconta di un mondo alternativo che ha due lune nel cielo e degli strani personaggi chiamati Little People.
Un giorno Aomame, mentre si appresta a raggiungere il suo prossimo obiettivo, rimane imbottigliata nel traffico, così per arrivare in tempo scende dal taxi in cui stava, prende una scala di emergenza della tangenziale, e non rendendosi subito conto si ritrova catapultata nella realtà alternativa di 1Q84, un mondo simile al suo tranne per alcuni particolare e per il fatto che nel cielo risplendono due lune.
Nei primi due libri ogni capitolo racconta, alternandosi, la storia di Aomame e Tengo, mentre dal terzo, subentra nella rotazione Ushikawa, un astuto investigatore privato dall'aspetto raccapricciante che ha il compito di trovare Aomame dopo che quest'ultima ha ucciso il leader di una misteriosa setta religiosa.
IQ84 contiene tutti i tratti che ho sempre apprezzato nei romanzi di Murakami, raccontando con una scrittura scorrevole e accattivante personaggi solitari e malinconici in un mondo surreale, fantastico e onirico. La prosa è ipnotica, alterna momenti intensi a passaggi quasi sospesi, a tratti rallentati dalla minuzia delle descrizioni – soprattutto nel secondo volume, che in alcuni punti rischia di perdersi un po’. Superata questa parte, però, la trama è tornata a catturarmi, e mi sono ritrovato ad affezionarmi visceralmente ai due protagonisti.
È stato un viaggio magico ed emozionante, che mi ha accompagnato in un momento di transizione della mia vita e che per me resterà una lettura da portare dentro per parecchio tempo.

Godzilla (1954)
di Ishirô Honda
In risposta a King Kong e ai vari mostri preistorici del cinema americano, in Giappone, nel 1954, il produttore dalla Toho, Tomoyuki Tanaka affidò al giovane regista Ishirô Honda il compito di realizzare un film su un gigantesco mostro che si risveglia dalle profondità dell'oceano e inizia a devastare la città di Tokyo. Nasce Gojira, l'enorme rettile mutante conosciuto in occidente come Godzilla.
A seguito di una serie di misteriosi naufragi e distruzioni di alcuni paesi della costa giapponese, alcuni scienziati scoprono l'esistenza di un gigantesco rettile preistorico risvegliatosi a seguito di test nucleari condotti nell'oceano. I militari cercano di fermarlo in ogni modo ma la creatura, alta cinquanta metri e capace di emettere dalla bocca un raggio letale, sembra inarrestabile scagliandosi contro Tokyo e provocando panico tra la popolazione. Alla fine, solo grazie a una potente arma - che lo scienziato che l'ha inventata inizialmente non vorrebbe usare temendo possa finire nelle mani dei militari - la minaccia di Godzilla viene fermata.
In Giappone il successo di Godzilla è tale che da questo film nasce un vero è proprio genere chiamato kaiju con un infinita serie di seguiti, remake e produzioni di ogni tipo tutti ispirati direttamente o indirettamente al film originale. Gli americani decisero di distribuire in patria la pellicola di Honda tagliandola di una ventina di minuti e inserendovi delle parti aggiuntive con l'attore Raymond Burr. Nasce così il fenomeno di Godzilla che diventa in breve tempo, oltre che una icona della cultura popolare giapponese, uno dei mostri più conosciuti del panorama cinematografico internazionale tanto da guadagnarsi la sua stella sulla walk of fame a Hollywood.
Analizzando il film, si nota chiaramente che il dolore e la devastazione causati da Godzilla rappresentano in modo metaforico le tragedie di Hiroshima e Nagasaki. Questo offre una riflessione dolorosa sulla recente guerra e sul timore che l'umanità non sia in grado di controllare le armi atomiche e le forze che ha scatenato. Oltre al suo significato, guardando il film oggi, si notano effetti speciali un po' datati, una sceneggiatura con una trama d'amore tra due dei protagonisti che appare forzata e poco integrata con la tragedia principale, e un'interpretazione talvolta esagerata, che nella sua drammaticità eccessiva può sembrare quasi comica, specialmente agli occhi degli spettatori occidentali. Tuttavia, se confrontato con i successivi capitoli, il film rimane sicuramente un punto di riferimento nel genere cinematografico fantastico, più per il suo status di pioniere che per il suo valore artistico intrinseco.
Film
Il ragazzo e l'airone
di Hayao Miyazaki
Ho visto al cinema Il ragazzo e l'airone, l'ultimo film del maestro dell'animazione giapponese Hayao Miyazaki.
Sono un pò spiazzato, ma andiamo con ordine provando a mettere insieme (o in equilibrio) i pezzi. Il ragazzo e l'airone è probabilmente l'ultimo film di Miyazaki, nel senso che difficilmente, visto l'età del grande autore, avrà il tempo di realizzarne un altro. Ma mai dire mai. Il titolo in originale è "E voi come vivrete?", ed è ispirato, ma solo il titolo, all'omonimo romanzo scritto da Genzabuo Yoshino che il cineasta giapponese lesse in gioventù.
In una Tokyo martoriata dal conflitto della Seconda Guerra Mondiale, il giovane Mahito assiste impotente alla morte della madre rimasta prigioniera in un incendio nell'ospedale in cui lavorava. Un anno più tardi, il padre del ragazzo si sposa con la sorella della defunta moglie, Natsuko, e insieme a Mahito si trasferisce nella sua bellissima casa in campagna. In attesa di un bambino, Natsuko, insieme a sette simpatiche vecchiette, accoglie amorevolmente Mahito che però, ancora segnato dal trauma della morte della madre, risulta freddo e distante. Appena arrivato, Mahito inizia ad essere perseguitato da uno strano airone cenerino che da lì a poco si trasformerà in una inquietante creatura antropomorfa. Nei giorni successivi, l'airone, promettendogli di ricongiungerlo con la madre, lo conduce in una torre abbandonata poco distante dalla villa. Quando Natsuko scompare misteriosamente, Mahito decide di cercarla nella torre ritrovandosi catapultato in un mondo fantastico popolato da strane creature (giganteschi parrocchetti, pellicani affamati e graziose creaturine, i Warawara). Un universo magico e colorato in cui il nostro protagonista incontra Himi, una giovane maga che controlla il fuoco, la coraggiosa piratessa Kiriko e sopratutto il suo prozio, il mago artefice di questo mondo parrallelo.
Questa, a grandi linee, è la trama.
Dal punto di vista tecnico e di animazione Il ragazzo e l'airone è impeccabile, oltre ai fondali che sembrano dei veri e propri dipinti impressionisti, la sequenza iniziale in cui Mahito corre verso le fiamme dalla madre penso sia una delle più emozionanti animazioni che abbia mai visto.
Molto bella anche la colonna sonora minimale di Joe Hisaishi.
"Ask Me Why" è già entrata nella mia playlist emotiva.
Ora veniamo alla sceneggiatura. Il film come struttura ricorda La Città Incantata - il capolavoro di Miyazaki che sento più mio e a cui sono più affezionato - dove la piccola Chihiro finiva in un mondo magico per salvare i genitori trasformati in maiali. In questo caso Mahito vuole salvare Natsuko finita nel fantastico mondo della torre. Un mondo che sembra ricordare il paese delle meraviglie di Alice e da cui si accede attraversando un portale dantesco. Rispetto alla sauna degli spettri della Città Incantata il mondo all'interno della torre è però decisamente più complesso e criptico rendendolo meno empatico al pubblico. Il ragazzo e l'airone è il testamento di Miyazaki, un film pieno di simbolismi nascosti e riferimenti ai suoi film passati. E' un film quasi autobiografico in cui Mahito rappresenta il giovane Miyazaki mentre il mondo della torre è la raffigurazione del suo mondo creativo, la prigione del suo creatore (il suo io vecchio) che con le sue opere ha dato vita a un mondo squilibrato in procinto di crollare (lo studio Ghibli). Le tredici forme probabilmente sono i suoi film - sì, è vero, al momento ne ha fatti dodici, ma non mi sorprenderebbe vedere tra qualche anno un suo film postumo. Il vecchio e stanco mago/Miyazaki ora è in cerca di un erede, solo che non esiste il suo successore e chi verrà dopo di lui dovrà necessariamente prendere un altra strada ed essere solo se stesso.
Il ragazzo e l'airone è un viaggio onirico e surreale nell'intimità di un creatore di mondi che con la sua opera conclusiva si prepara a salutarci. Sicuramente è il suo film più difficile e per certi versi il meno empatico perchè si presta a numerose interpretazioni di non facile lettura. A me piace il fatto che abbia voluto fare un film più per se stesso che per il pubblico ma non lo considero il suo film migliore. Tanto per intenderci è un film che non consiglierei a chi non ha visto nulla del maestro giapponese così come non consiglierei Inland Empire a chi non ha mai visto nessun film di David Lynch.
Film
Pulse (Kairo)
di Kiyoshi Kurosawa
Tra la fine degli anni novanta e l'inizio degli anni duemila il cinema horror giapponese ha invaso le sale cinematografiche di tutto il mondo sulla scia del successo di Ringu (The Ring) del 1998 e Ju-On (The Grudge) del 2002. Gli elementi comuni di questo sottogenere sono la presenza di fantasmi, bambini spettrali e maledizioni, spesso basati su leggende urbane e superstizioni giapponesi, calati in un ambientazione cupa e caratterizzati da una forte tensione emotiva.
Kairo (Pulse è il titolo usato per il mercato occidentale da non confondere con l’omonimo film americano di qualche anno più tardi che è un pessimo remake), è un film del 2001 diretto da Kiyoshi Kurosawa che, pur rientrando in questo sottogenere, si discosta nettamente dagli altri J-horror perché i fantasmi sono solo il pretesto per raccontare la solitudine del genere umano.
La trama inizia con il suicidio di un ragazzo che da giorni non si presentava a lavoro. Nel suo computer i suoi colleghi trovano delle foto inquietanti e dei riferimenti a una “stanza proibita”. Nel frattempo un altro ragazzo si collega per la prima volta a internet giungendo su un sito che mostra immagini e video di persone immobili in penombra, sono i fantasmi che urlano in silenzio l’angoscia della loro solitudine.
Il film ha un ritmo lento, forse un po’ troppo lento, ed è pervaso da un costante senso di angoscia, tristezza e rassegnazione. È un film grigio, esistenzialista, fortemente pessimista in cui l’uomo è destinato alla solitudine non solo nella vita ma anche nella morte. Molto bella la regia con dei piani sequenza lentissimi, una ottima composizione fotografica e una musica azzeccata. Ho trovato la trama poco chiara con delle ingenuità di sceneggiatura qua e là, ma in generale il film di Kurosawa risulta visivamente potente anticipando di vent’anni l’alienazione sociale dovuta alla tecnologia, internet e i vari social che invece di avvicinare le persone finisce per allontanarle.

Brivido e altre storie
Junji Ito
Considerato il maestro indiscusso del manga horror, Junji Ito, classe 1963, ha iniziato la sua carriera di mangaka negli anni ottanta affiancando questa passione al suo lavoro come dentista. Fin da subito le sue storie e il suo stile hanno riscosso un grande interesse in Giappone facendogli guadagnare premi e influenzando negli anni produttori di film, libri e manga horror. Ad oggi la sua produzione è vastissima e conta decine di fumetti, tra serie, volumi autoconclusivi e storie brevi.
Brivido e altre storie è un volume che raccoglie nove racconti di Ito, scelti e commentati dall’autore. Sono storie visionarie, grottesche, estreme, a volte nauseanti, pervase di un orrore corporale in cui i protagonisti diventano vittime predestinate di forze malvagie che vanno al di là della comprensione umana.
Tra le mie storie preferite ci sono "Palloncini appesi", "Lunghi sogni" e, per il senso di disgusto che mi ha provocato, "Gliceridi".
La prima è una storia apocalittica in cui un giorno dal nulla compaiono in cielo degli strani palloncini con le facce dei cittadini e un cappio appeso che vanno in giro per la città alla ricerca del loro corrispettivo umano per impiccarlo. In Lunghi sogni un uomo ricoverato in ospedale ha una strana malattia, ovvero quando dorme i suoi sogni e i suoi incubi sono sempre più lunghi fino a vivere un’eternità nello spazio di pochi istanti. Mentre Gliceridi è talmente disturbante e disgustosa che alla fine della lettura si sente l'irrefrenabile impulso di andare a farsi una bella doccia. La storia è quella di una famiglia che vive nel retro di una bettola. A causa della scarsa ventilazione, il cucinato e l'aria grassa si deposita in casa mentre il più grande dei fratelli inizia a bere litri di olio dalla bottiglia finché il suo viso non si ricopre di grandi e grottesche pustole.

Le storie di Ito sono davvero originali, bizzarre e inquietanti e questo è il volume perfetto per chi si approccia per la prima volta al maestro dell'orrore giapponese.
Temo che sarò costretto in tempi brevi a procurarmi altre sue produzioni.

Girl from the other side
Nagabe
Girl from the other side è un manga scritto e disegnato dall'esordiente Nagabe composto da undici volumetti.
É un manga atipico, una fiaba a tinte dark che sembra presa da un racconto dei fratelli Grimm. I disegni in bianco e nero molto contrastati sono suggestivi e conferiscono all'intera opera uno stile originale, quasi europeo, discostandosi nettamente dai soliti manga. Quando ho visto la copertina e ho iniziato a sfogliarlo ne sono subito stato rapito.
Volendo potremmo definirlo un fantasy medievale fiabesco che si svolge principalmente in una foresta, un villaggio e la roccaforte del re. Protagonisti sono Shiva, una candida, curiosa e solare bambina, e quello che lei chiama Maestro, una enigmatica e mostruosa creatura oscura che è stato colpito da una maledizione. Il Maestro ha un animo gentile e nutre un affetto sincero verso la bambina, stando bene attento a non sfiorarla, perché il solo contatto potrebbe riversare su di lei il terribile maleficio. I due vivono in una casetta in mezzo al bosco cercando di isolarsi dal regno "interno", dove gli esseri umani hanno trovato rifugio, e il regno "esterno", dove risiedono le creature del buio dall'aspetto bizzarro e animalesco.
Potrebbe sembrare un moderna variante sul tema de La Bella e la Bestia ma in realtà la storia parla del dualismo tra il bene e il male, la luce e il buio, la vita e la morte. Ha un ritmo molto lento e delicato, con pochi dialoghi. Le atmosfere cupe della fiaba vengono stemperate dal rapporto dolce, fatto di quotidianità e piccoli gesti tra i due protagonisti.
Il finale l'ho trovato poco chiaro, è vero che da delle risposte su chi siano e da dove provengono i due personaggi, ma francamente mi è parso un pò troppo cervellotico spaziando tra l'esistenziale e il filosofico.
Rimane un ottima lettura, dolce ed emozionante da apprezzare anche solo per la bellezza dei disegni.
