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lunedì, 27 ottobre 2025
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The End? L'inferno fuori

di Daniele Misischia

Mi sono recuperato questo interessante horror zombesco italiano prodotto dai Manetti Bros. The End? L’inferno fuori (noto in fase di lavorazione come In un giorno la fine) è un film del 2017 diretto da Daniele Misischia e scritto insieme a Cristiano Ciccotti.

Ambientato a Roma, il fim si svolge prevalentemente all'interno di un ascensore durante una epidemia di zombie.
Il protagonista della storia è Claudio Verona (interpretato da Alessandro Roja, il Dandi di Romanzo Criminale), un cinico e rampante manager che si appresta a raggiungere l’ufficio per un importante appuntamento di lavoro. Salito sull’ascensore, improvvisamente questo si blocca e Claudio si ritrova intrappolato tra due piani. Quello che sembrava un fastidioso contrattempo si rivelerà invece la sua salvezza. All’esterno, infatti, un misterioso virus sta trasformando le persone in creature affamate di carne: gli infetti invadono le strade e nessuno è più al sicuro. Rinchiuso nella cabina, Claudio assiste al disastro attraverso lo schermo del suo smartphone, tra notizie frammentarie e messaggi disperati della moglie, mentre osserva con terrore, attraverso la fessura delle porte, l’aggressione dei suoi colleghi e la loro orribile trasformazione in zombi famelici che tentano di penetrare in quello che è ormai diventato il suo rifugio.

Prima ancora del tentativo di rinascita dell’horror italiano degli ultimi anni – il cui picco, a mio parere, resta ancora A Classic Horror Story – nel 2017 Daniele Misischia e i Manetti Bros. hanno avuto il coraggio (o la follia) di proporre un film di zombie tutto italiano, indipendente e realizzato con una sorprendente dose di intelligenza produttiva. La scelta di ambientare quasi tutto in un ascensore, oltre a risolvere in un colpo solo il problema del budget, è una trovata geniale per far salire la tensione e quel senso di claustrofobia, il vero motore emotivo del film. Certo, non è un’idea nuovissima – il primo titolo che viene in mente è Devil di John Erick Dowdle – ma funziona, e funziona pure bene.
La visione del mondo esterno filtrata dalla fessura delle porte – una sorta di Camera Caffè in salsa horror – poteva forse essere giocata meglio per farci saltare sulla sedia, ma tant’è. Qualche ingenuità qua e là, dialoghi che a volte arrancano e una recitazione un po’ sopra le righe non mancano, ma guardando il bicchiere mezzo pieno – e quando si tratta di un film di genere italiano, coraggioso e dichiaratamente low budget, tendo sempre a essere indulgente – The End? si fa apprezzare per la cura visiva, per la fotografia ben calibrata e soprattutto per l’idea di fondo: un uomo arrogante e antipatico costretto a guardarsi dentro mentre fuori esplode l’apocalisse.
Le scene splatter sono presenti il giusto, magari un po’ troppo educate per i miei gusti – un paio di budella in più non avrebbero guastato – ma è nel finale che arriva la vera chicca. Vedere Roma, la mia città, trasformata in una landa deserta infestata dai cadaveri di zombi (o infetti, scegliete voi) è un colpo d’occhio notevole. Un po’ come 28 giorni dopo, ma con il lungotevere, ponte Sisto e Castel Sant Angelo sullo sfondo.

Film
Horror
Zombi
Italia
2017
domenica, 26 ottobre 2025
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Dogman

di Matteo Garrone

Matteo Garrone è uno dei registi italiani più apprezzati degli ultimi anni. Nei suoi film racconta spesso persone ai margini e situazioni difficili, alternando storie molto realistiche a visioni più fiabesche. Dal successo di Gomorra fino a Il racconto dei racconti, il suo cinema si riconosce per lo stile potente e per l’attenzione ai dettagli visivi.
Dopo L’imbalsamatore e Primo amore, Garrone torna con Dogman a ispirarsi a un fatto di cronaca nera, quello del cosiddetto "Canaro della Magliana", che negli anni ottanta sconvolse l’Italia per la brutalità del delitto.

Ambientato in un quartiere periferico di una imprecisata città meridionale (il film è stato girato a Castel Volturno), Dogman racconta la storia di Marcello (Marcello Fonte), un uomo tranquillo, minuto e apparentemente mite, benvoluto dai suoi concittadini, che gestisce un piccolo negozio di toelettatura per cani. Marcello conduce una vita semplice, scandita dal lavoro e dall’affetto per la figlia e per gli animali che accudisce con dedizione. La sua quotidianità, fatta di piccoli gesti e silenzi, viene però turbata dalla presenza di Simone (Edoardo Pesce), un ex pugile dal carattere violento con la passione della cocacina e del furto che domina con la forza il quartiere. Tra i due nasce un rapporto ambiguo, fatto di soggezione e complicità forzata, che finisce per trascinare Marcello in una spirale di tensione e paura sempre più opprimente.

In Dogman, Matteo Garrone affronta una delle storie più cupe della cronaca italiana trasformandola in una parabola di solitudine e umiliazione. Non c’è compiacimento né spettacolarizzazione della violenza — decisamente attenuata rispetto al fatto di cronaca — ma la volontà di raccontare una desolazione sociale corrosa dalla povertà e dall’indifferenza. Le strade abbandonate, i palazzi consumati dal sale e dal vento, i volti segnati degli abitanti delineano una comunità di sconfitti che sopravvive a fatica ai margini di tutto. In questo luogo senza tempo dal cielo perennemente plumbeo, Marcello è una figura tragica e fragile, un uomo mite ma ambiguo, diviso tra il desiderio di piacere e la paura di opporsi. Solo la figlia, con la sua innocenza, rappresenta un piccolo spiraglio di luce, l’unico legame con una dimensione umana ancora intatta.
Tecnicamente impeccabile, Dogman è un’opera di rigore e misura. Garrone asciuga i dialoghi fino all’essenziale, lascia che siano i silenzi e i gesti a parlare, costruisce inquadrature che sembrano scolpite nel cemento. La fotografia, cupa e lattiginosa, amplifica la sensazione di abbandono, mentre la regia segue i personaggi con sguardo attento e implacabile, capace di coglierne ogni crepa, ogni esitazione, senza mai emettere giudizi.
Marcello Fonte, premiato a Cannes per la sua interpretazione, dà vita a un protagonista di rara intensità. La sua recitazione, spontanea e dolorosamente autentica, regge l’intero film e trasforma una storia di degrado in una tragedia universale. Dogman è una delle più potenti storie di vendetta mai raccontate dal cinema italiano, ma soprattutto è un western della solitudine, il ritratto di un’umanità dimenticata, dove la violenza diventa l’unico linguaggio possibile e la fragilità un lusso che non ci si può permettere.
Davvero notevole.

Film
Drammatico
Noir
Italia
2018
sabato, 25 ottobre 2025
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Possesor

di Brandon Cronenberg

Possessor, secondo film di Brandon Cronenberg, prosegue l’eredità paterna spingendosi verso territori di inquietudine tecnologica e identità frammentata.

Il film ha per protagonista Tasya Vos (Andrea Riseborough), un’agente al servizio di una misteriosa organizzazione segreta che utilizza impianti neurologici per prendere il controllo dei corpi di altre persone e compiere omicidi su commissione. Nonostante i segni di instabilità dopo la sua ultima missione, la sua superiore le affida un nuovo incarico, entrare nella mente di Colin Tate (Christopher Abbott), un uomo destinato a sposare l’ereditiera Ava Parse, con il compito di eliminare il padre di lei, un potente magnate del data mining. Ma l’operazione sfugge presto al controllo, e Tasya rimane intrappolata nel corpo dell’ospite, che tenta di rigettare l’intruso in una battaglia mentale tra due coscienze in lotta per la stessa identità.

Alla sua seconda pellicola, Brandon Cronenberg conferma di non vivere all’ombra del padre, ma di muoversi con passo deciso in un territorio personale. Possessor è un lucidissimo incubo sulla perdita dell’identità, dove la fantascienza diventa strumento per parlare di controllo, alienazione e potere. L’idea di prendere possesso delle menti altrui per compiere omicidi non è nuova, ma lo è la sua messa in scena algida, ipnotica e visionaria. Un’estetica che mi ha ricordato Refn per l’uso dei colori e per la freddezza emotiva, in cui Cronenberg non lesina violenza e sangue a cui è difficile restare impassibili. 
A tratti un po’ contorto e surreale, non esente da un certo autocompiacimento, ma con una forte densità simbolica che restituisce profondità e inquietudine, sostenuto dall’ottima prova dei due protagonisti.
Possessor è un fanta-thriller autoriale che parla di disumanizzazione e perdita del sé, un’esperienza tanto cerebrale quanto viscerale.

Film
Thriller
Fantascienza
Horror
Canada
2020
venerdì, 24 ottobre 2025
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Caught Stealing - Una scomoda circostanza

di Darren Aronofsky

Ho un rapporto un po’ contrastante con Darren Aronofsky. Ho amato i suoi primi due film, mentre altri mi hanno lasciato parecchio perplesso. Senza dubbio mi pare sia un autore parecchio eclettico, capace di spostarsi con disinvoltura dal dramma paranoico all'horror psicologico, fino alla dimensione più visionaria e allegorica. Nel 2025 decide di adattare il romanzo A tuo rischio e pericolo di Charlie Huston e realizzare Caught Stealing - Una scomoda circostanza, un thriller action urbano dalle spiccate influenze tarantiniane, che segna una nuova deviazione nel suo percorso cinematografico.

La storia è ambientata nel 1998, nel Lower East Side di Manhattan, e segue le disavventure di Henry “Hank” Thompson (Austin Butler), ex promessa del baseball la cui carriera è stata stroncata da un incidente stradale. Ora Hank lavora come barista in un pub, affoga le giornate nell’alcol, frequenta una giovane infermiera (Zoë Kravitz), ed è legato alla madre, che gli ha trasmesso la passione per il baseball. La sua esistenza tutto sommato tranquilla prende una piega inaspettata quando il suo vicino di casa punkettone, Russ (Matt Smith), gli chiede di badare al suo gatto per qualche giorno. Da quel momento, Hank si ritrova improvvisamente braccato da gangster, poliziotti corrotti e criminali senza scrupoli, trascinato in una spirale di violenza, inseguimenti e paranoia di cui non riesce a capire le ragioni.

Strizzando l’occhio al Fuori orario di Scorsese — che omaggia con il cameo di Griffin Dunne nei panni del proprietario del pub — Aronofsky prova a mescolare l’umorismo nero dei fratelli Coen, il pulp sanguinolento di Tarantino e il gangster crime di Guy Ritchie, per confezionare un film tutto azione, situazioni esasperate, toni da commedia grottesca e personaggi sopra le righe. Volendo, anche divertente, ma che io, personalmente, l'ho trovato di poca sostanza.
Mi pare che Aronofsky abbia voluto realizzare un polpettone derivativo più per voglia di distrarsi che per raccontare un storia capace di scuotere davvero qualche corda emotiva. Alla fine è ancora la storia dell’atleta (dopo il wrestler, questa volta un giocatore di baseball, sport che non ho mai capito e non ho neanche troppa voglia di sforzarmi di capire) che ha perso la sua occasione e si ritrova sbandato, trascinato in un vortice di situazioni assurde e sempre più fuori controllo.
Di buono c’è la ricostruzione del Lower East Side di New York di fine anni novanta, sporco, malfamato, pieno di spazzatura e palazzi fatiscenti. Poi c’è il gattone, che a tratti diventa il vero protagonista del film, e la musica degli Idles, perfetta per accompagnare il caos.
Troppo poco, però, per evitargli l’insufficienza.

Film
Action
Thriller
Pulp
USA
2025
giovedì, 23 ottobre 2025
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Eddington

di Ari Aster

Ari Aster, autore di Hereditary, Midsommar e Beau ha paura, è ormai considerato uno dei registi più interessanti del cinema di genere contemporaneo. Fin dai primissimi anni della sua carriera aveva in mente di realizzare Eddington, con l’intento di raccontare l’America di oggi attraverso un western contemporaneo. Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film ha suscitato reazioni fortemente contrastanti. Alcuni critici hanno elogiato l’audacia politica e la volontà di usare il genere per parlare del presente, altri lo hanno definito sbilanciato, confusionario e dispersivo.
Io l’ho visto al cinema e devo dire che ancora lo devo metabolizzare... proverò a farlo scrivendo questa recensione.

Il film è ambientato durante la pandemia di Covid-19, nell’estate del 2020, in una cittadina immaginaria del Nuovo Messico chiamata Eddington, poco più di duemila abitanti. Lo sceriffo locale, Joe Cross (Joaquin Phoenix), non sembra particolarmente incline a rispettare le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria (come l’obbligo di indossare la mascherina) e finisce per scontrarsi con il sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal), uomo dagli interessi poco chiari legati alla costruzione di un gigantesco data center nei pressi della città, impegnato nella campagna per la propria rielezione. Tra i due non corre buon sangue nemmeno sul piano personale, per vecchie ruggini che riguardano la moglie dello sceriffo, Louise (Emma Stone), una donna segnata dalla depressione, che secondo la madre di quest'ultima, figura ossessiva e complottista, sarebbe stata violentata da Garcia quando erano ragazzi.
Più per rivalsa che per reale convinzione politica, Cross decide di candidarsi a sindaco contro di lui. Mentre Eddington si frantuma sotto il peso delle paure collettive, dell’isolamento, della disuguaglianza e delle proteste del movimento Black Lives Matter (seguite alla morte di George Floyd da parte della polizia), Joe Cross, ferito anche dall’abbandono della moglie, attratta da Vernon Jefferson Peak (Austin Butler), un carismatico guru a capo di una setta che accoglie vittime di abusi, inizia a covare un senso di rivalsa che presto esploderà in tutta la sua violenza.

Insomma, come si intuisce da questa sinossi (e manca tanto altro, ve lo assicuro) qui c’è davvero tanta carne al fuoco. Sono molti i protagonisti, le storie e le sottotrame che si intrecciano. Eddington non è un film complesso, come poteva esserlo Beau ha paura, ma sicuramente è molto stratificato. Aster ingloba più generi, passando dal western alla satira, dalla commedia grottesca al thriller politico-sociale, usandoli con grande abilità per costruire un affresco beffardo e minaccioso sull'America di oggi.
La pandemia di Covid-19 — primo film di un certo peso a trattare esplicitamente questo tema — è solo il punto di partenza per isolare la cittadina del Nuovo Messico in una bolla, un microcosmo dove il razzismo, le disuguaglianze, i complotti, i guru, le proteste e la disinformazione diventano specchio deformante del paese intero. È un mondo dove un senzatetto ubriaco, presunto portatore del virus, può sparire senza che nessuno si chieda che fine abbia fatto, e dove l’edificio più grande del paese è un’armeria. Un'America in miniatura, dove i social network e la manipolazione dell’informazione sono dominanti (non credo sia un caso che più di una volta compare Trump mentre il protagonista scorre le notizie sul suo cellulare). Un video su Instagram può cambiare la percezione pubblica di un evento, una fotografia  può essere usata come prova per incastrare il nero di turno, e la verità diventa solo un’altra narrazione da manipolare.
Il film si divide sostanzialmente in due parti. Nella prima, Aster introduce i personaggi — quasi tutti moralmente discutibili — e imposta i temi centrali con una messa in scena dilatata, statica, fatta di dialoghi e tensioni sotterranee. È un’esposizione volutamente lenta, dove la provincia americana viene ritratta come una terra stanca, piena di frustrazioni e paranoia. Nella seconda parte, Eddington cambia tono e ritmo, la storia si trasforma in un thriller politico con tratti da western urbano, fino a culminare in un epilogo amaro e disperato. Aster spinge sull’azione e la tensione diventa tangibile, quasi fisica. Splendida, per esempio, la sequenza in cui lo sceriffo, ansimante e armato di tutto punto, si muove tra i colpi dei cecchini mentre la macchina da presa si muove intorno a lui cercando di capire dove si trovino.
Joaquin Phoenix offre un’interpretazione di grande intensità, mostrando insieme fragilità, rabbia e bisogno di riscatto. Pedro Pascal è altrettanto convincente nel ruolo del sindaco Garcia, ambiguo e viscido quanto basta. Emma Stone, invece, rimane più ai margini, diventando una pedina funzionale alle svolte narrative.

Eddington è un film ambizioso, a metà strada tra Tarantino e i fratelli Coen, che mescola satira sociale, noir e western moderno per dissacrare la società americana, prendendo in giro tanto i conservatori quanto i progressisti, i complottisti quanto i moralisti della giustizia sociale. È sicuramente un film che, per la mole di temi e sfumature, richiede più di una visione. Non credo di essere il solo ma Eddington mi ha ricordato Una battaglia dopo l’altra per la sua capacità di raccontare la crisi americana contemporanea attraverso il caos e l’ironia. Personalmente gli preferisco Anderson, ma va riconosciuto ad Aster il coraggio di essersi spinto oltre il suo territorio consueto, firmando un film d’autore ironico, feroce, e amaramente lucido. Un viaggio dentro l’America ferita e paranoica del presente, raccontata con l’occhio cinico e beffardo di chi non crede più a nessuna verità.

Film
Western
Commedia
Thriller
Grottesco
Ari Aster
USA
2025
Cinema
mercoledì, 22 ottobre 2025
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Under the Shadow - L'ombra della paura

di Babak Anvari

Prima volta che mi trovo di fronte a un horror iraniano, e devo dire che mi sorprende come questo genere riesca a oltrepassare ogni confine, adattandosi alle culture più diverse pur restando fedele a un linguaggio comune capace di dare forma alle nostre paure più intime. 
Under the Shadow, uscito in Italia con il titolo L'ombra della paura, è un horror soprannaturale del 2016 scritto e diretto da Babak Anvari, che rielabora la paura delle presenze demoniache attraverso la cultura iraniana.

Ambientato a Teheran alla fine degli anni '80, durante la guerra tra Iran e Iraq, il film ha per protagonista Shideh (Narges Rashidi), una giovane madre musulmana alla quale, a causa del suo passato attivismo politico all’università, è stato impedito di proseguire gli studi di medicina. Delusa per non poter realizzare il sogno della madre, recentemente scomparsa, Shideh si ritrova sola quando il marito, medico, viene mandato al fronte.
Con la città sotto la costante minaccia dei bombardamenti, la donna cerca di proteggere la figlia Dorsa, ma la tensione cresce quando un missile colpisce l’edificio in cui abitano. L’ordigno non esplode, ma apre una crepa nel soffitto e con essa sembra spalancarsi un varco invisibile. Shideh inizia a sospettare che presenze maligne — i djinn, spiriti della tradizione mediorientale — si siano insinuate nel suo appartamento, prendendo di mira la bambina e facendo sparire la sua bambola preferita.
Privata del suo giocattolo, Dorsa si rifiuta di lasciare la casa, alimentando un crescente conflitto con la madre e trasformando la loro quotidianità in un claustrofobico incubo domestico.

Under the Shadow è un ottimo horror psicologico che si muove su più livelli di lettura. Da una parte c’è il ritratto di una donna frustrata e isolata, costretta a cavarsela da sola con una bambina difficle, inquieta (e fastidiosamente piagnucolosa) che sostiene di vedere una presenza legata ad antiche leggende. L’appartamento in cui vivono diventa una trappola mentale e fisica, uno spazio opprimente che richiama, pur con sensibilità diversa, l’atmosfera di Babadook.
Dall’altra parte c’è lo sfondo politico e sociale dell’Iran degli anni ottanta (e non che oggi la situazione sia molto cambiata), dove la donna è oppressa e privata dei propri diritti, costretta a muoversi entro limiti imposti dal patriarcato e dalla religione. Anche un gesto dettato dal panico, come uscire in strada senza velo, può essere punito con le frustate. Il tutto mentre Teheran è travolta dalla guerra, tra sirene, esplosioni e rifugi che diventano l’unico riparo possibile.
In questo contesto la protagonista — una convincente Narges Rashidi — affronta un progressivo crollo emotivo. È una madre insoddisfatta, sola, schiacciata dal senso di colpa e da un rapporto sempre più teso con la figlia, che rappresenta insieme amore e ostacolo ai suoi desideri di libertà. La scelta di non abbandonare la casa diventa così un gesto simbolico, l’ultimo tentativo di conservare la propria indipendenza.
I demoni che la perseguitano potrebbero essere reali, frutto della mente o metafora della guerra stessa. Anvari è abile nel mantenere il dubbio, sospendendo lo spettatore tra realtà e incubo.

Under the Shadow è un esordio sorprendente e intelligente, capace di creare tensione senza ricorrere al sangue, grazie a una buona regia e un uso sapiente dello spazio e del non detto. Un paio di momenti fanno davvero sobbalzare, ma ciò che resta è la forza del suo sottotesto politico e umano: il modo in cui la paura diventa metafora della condizione femminile e, più in generale, della sopravvivenza sotto ogni forma di oppressione.
Un eccellente esempio di come l’horror possa farsi veicolo di riflessione, senza mai rinunciare alla sua potenza emotiva.

Film
Horror
Iran
2016
martedì, 21 ottobre 2025
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Vicious - I tre doni del male

di Bryan Bertino

Vicious – I tre doni del male è un horror psicologico a tinte demoniache uscito direttamente su Paramount+, diretto da Bryan Bertino, un regista di genere che ha già all'attivo un paio di film.

La storia vede come protagonista Polly (Dakota Fanning), una donna in chiara fase depressiva che vive da sola in una casa in disordine, senza lavoro, senza legami, priva di qualsiasi slancio verso la vita. Una notte riceve la visita di un’anziana sconosciuta che le consegna una scatola di legno e una clessidra, avvertendola che ha un’ora di tempo per mettere nella scatola una cosa che odia, una di cui ha bisogno, e una che ama, o morirà. 
Da quel momento, la sua abitazione diventa un labirinto di incubi e visioni, dove passato e presente si intrecciano, ricordi dolorosi riaffiorano e figure familiari si manifestano come presenze demoniache. La solitudine che da tempo la imprigiona assume contorni sempre più minacciosi, fino a trasformarsi in una trappola psicologica.
Mentre la sabbia nella clessidra scorre inesorabile, Polly è costretta a guardare dentro se stessa e a scegliere cosa sacrificare per salvarsi, scoprendo che il vero male non sempre proviene dall’esterno, ma spesso nasce proprio da ciò che portiamo dentro.

Vicious è un horror soprannaturale con una buona dose di tensione, qualche scena sanguinosa e un paio di jumpscare piuttosto telefonati — ironico, considerando che nel film i telefoni squillano di continuo. Bryan Bertino punta tutto sull’atmosfera angosciante e claustrofobica, costruendo un racconto sospeso tra realtà e allucinazione, dove il dubbio che tutto avvenga nella mente della protagonista diventa il vero motore del film.
Dakota Fanning è brava e regge da sola l’intera messa in scena, mentre la regia di Bertino si mantiene solida e funzionale, senza particolari guizzi ma coerente con il tono della storia. Peccato che, dopo un inizio promettente, Vicious finisca per arenarsi, dilatando troppo i tempi e smarrendo la forza del suo spunto iniziale. Il risultato è un filmetto appena sufficiente, corretto nella forma ma destinato a scivolare via senza lasciare traccia.

Film
Horror
USA
2025
lunedì, 20 ottobre 2025
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Arrival

di Denis Villeneuve

Arrival di Denis Villeneuve è uno dei film di fantascienza più interessanti degli ultimi anni. Tratto dal racconto Storia della tua vita di Ted Chiang, sceglie di rinunciare alla spettacolarità a favore di un approccio più adulto e introspettivo, dove la vera minaccia non arriva dallo spazio ma dalla nostra incapacità di comunicare e di ascoltarci davvero.

Dodici astronavi aliene di forma ovulare si posano in punti diversi del pianeta. Per contenere il panico collettivo e tentare un contatto, le autorità militari reclutano la linguista Louise Banks (Amy Adams), incaricata di comunicare con la specie aliena e di comprendere il motivo del loro arrivo sulla Terra. Con l’aiuto dello scienziato Ian Donnelly (Jeremy Renner), la Banks inizia a decifrare la loro scrittura circolare, costruendo un ponte fragile non solo con gli eptopodi ma anche tra le varie nazioni coinvolte. Man mano che apprende il linguaggio, i confini tra presente e futuro si confondono, e la narrazione svela la dimensione personale della protagonista che si va a intrecciare con la crisi geopolitica.

Arrival racconta il possibile incontro dell'umanità con una civiltà aliena, ma è incentrato soprattutto sulla comunicazione e su quanto sia indispensabile trovare le "parole" giuste. Nel film la lingua degli extraterrestri non è solo un codice da decifrare, ma uno strumento capace di rimodellare la coscienza temporale di chi la comprende. La protagonista, interpretata da una bravissima Amy Adams, nel cogliere la logica del loro linguaggio, inizia a percepire il tempo come lo percepiscono loro, ovvero in maniera non lineare, dove il tempo scorre in entrambe le direzioni. Il film abbraccia una delle teorie più affascinanti del mondo quantistico, dove eliminando l’ordine di causa ed effetto, viene meno anche il concetto stesso di futuro, e con esso l’illusione di poterlo modificare.
Attraverso la splendida fotografia di Bradford Young e una regia sobria ma estremamente consapevole, Villeneuve conferisce alla narrazione una profondità che va oltre le dinamiche del contatto con gli alieni, esplorando le zone più intime dell’animo umano. Tra le pieghe del racconto si insinuano riflessioni sul tempo che ci è concesso e sulla libertà di scelta, sull’accettazione del dolore come parte integrante della vita.
Alla fine Arrival parla dell’importanza vitale della comunicazione e, inevitabilmente, della sua assenza, ovvero quella incomunicabilità causa primaria di conflitti, fraintendimenti e paure. La fantascienza diventa così un semplice scenario, un linguaggio metaforico per raccontare l’uomo e la sua condizione, la capacità di affrontare la perdita e di dare un senso alla propria esistenza attraverso il contatto con l’altro.
Un film affascinante, visivamente curato, con effetti speciali sofisticati e mai invasivi, al servizio della storia, ma non privo di difetti. Alcune scelte narrative, come l’esplosione a bordo di una delle astronavi o la rappresentazione dei Russi e dei Cinesi sempre pronti alla guerra, le ho trovate un po' stereotipate. Anche il personaggio interpretato da Jeremy Renner, l'ho trovato insignificante e ha un ruolo marginale solo nel finale, quasi a giustificare una presenza altrimenti superflua.
Rimane comunque un film interessante, un tassello importante nel percorso di Villeneuve, che partendo idealmente da Incontri ravvicinati del terzo tipo, passando per Contact e arrivando fino a Interstellar, costruisce  la sua storia universale fatta di linguaggio e di teorie sulla concezione del tempo come strumento di conoscenza e come dimensione emotiva prima che fisica.

Film
Fantascienza
USA
2016
Retrospettiva
sabato, 18 ottobre 2025
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La grande guerra

di Mario Monicelli

Recentemente mi sono accorto che molti dei film italiani del passato a cui, in un modo o nell’altro, sono legato, portano la firma di Mario Monicelli. Mi riferisco a I soliti ignoti, L’armata Brancaleone, Amici miei, ma anche a Il marchese del Grillo. Film che ho visto e rivisto in passato quando passavano in televisione, senza però rendermi conto che dietro a quelle storie tanto diverse c’era lo stesso regista.
Spulciando la sua filmografia, mi sono reso conto di non aver mai visto uno dei suoi titoli più celebrati, La grande guerra. Probabilmente perché non ho mai amato il neorealismo italiano, tantomeno i film di guerra. Ma ogni tanto, per ampliare i propri orizzonti e riscoprire le radici del nostro cinema, vale la pena uscire dalla propria comfort zone cinematografica.

Il film racconta la storia di due uomini comuni, Giovanni Busacca e Oreste Jacovacci, interpretati rispettivamente da Vittorio Gassman e Alberto Sordi, catapultati nella tragedia della Prima guerra mondiale. Diversi per indole e provenienza — uno milanese sbruffone, l’altro romano opportunista e pavido — si ritrovano arruolati nello stesso battaglione, uniti più dal desiderio di sopravvivere che da un autentico spirito patriottico.

Attraverso le loro disavventure, Monicelli costruisce un racconto corale che mescola ironia e dramma, restituendo la quotidianità di una guerra assurda e spietata, fatta di fame, paura e disillusione. Leone d’Oro per il miglior film al Festival di Venezia, La grande guerra non ebbe vita facile fin dalla sua produzione, venendo osteggiato da critici, giornalisti e politici perché, per la prima volta, mostrava con realismo e cinismo le reali condizioni dei soldati italiani — spesso analfabeti, male armati e peggio equipaggiati — mandati a morire in un conflitto di cui non comprendevano fino in fondo le ragioni.
Rispetto ai corrispettivi film di guerra hollywoodiani del periodo, non c’è il clima epico e celebrativo, bensì un realismo amaro e disincantato, dove i protagonisti non sono eroi ma due uomini comuni, pavidi e opportunisti, che cercano in ogni modo di scansare il pericolo e tirare a campare. Eppure, proprio loro, nel finale, finiranno per affrontare la morte con un coraggio che non hanno mai mostrato in vita.
Una pellicola dissacrante su un tema fino ad allora intoccabile, che demolisce la retorica patriottica e mette a nudo i massacri della Grande Guerra e le miserie dell’esercito italiano, stemperando il tutto con un uso intelligente e calibrato della commedia.
Tra le tante sequenze, mi ha colpito un piano sequenza in cui una fucilazione avviene sullo sfondo mentre intorno la vita del campo continua come se nulla fosse, oppure la scena del soldato ucciso perchè costretto a consegnare una lettera dal comando agli ufficilali con gli auguri di Natale e l’ordine di distribuire grappa ai reparti.
Meno necessarie, secondo me, le parti più sentimentali, quelle che coinvolgono il personaggio di Silvana Mangano, che spezzano un po’ il ritmo e la coerenza del tono generale.
La grande guerra non rientra  tra i "miei" film — non è il tipo di cinema che soddisfa i miei gusti — ma ne risconosco il suo valore storico e culturale. È un film che cammina costantemente sul filo tra dramma e commedia, capace di trovare un equilibrio raro, sostenuto dall'interpretazioni straordinarie di Gassman e Sordi.
I due, insieme, restituiscono un ritratto autentico dell’Italia dell’epoca, fatto di dialetti che si intrecciano tra soldati di ogni regione, di piccoli espedienti per tirare avanti e di quella miscela di ingenuità e furbizia che, nel bene e nel male, ha sempre contraddistinto il nostro paese.
Un film che ricorda quanto la guerra, anche quando è raccontata con ironia, resti sempre una tragedia collettiva fatta di uomini qualunque. 

Film
Drammatico
Commedia
Italia
1959
sabato, 18 ottobre 2025
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The Raven (1935)

di Lew Landers

The Raven è uno di quei film che hanno contribuito a consolidare la leggenda dell’horror targato Universal negli anni trenta. Diretto da Lew Landers nel 1935, nasce nel solco di The Black Cat dell’anno precedente, ispirandosi alle opere di Edgar Allan Poe e riunendo la stessa coppia di interpreti — Boris Karloff e Bela Lugosi — ma distinguendosi per una maggiore crudezza e per una più marcata ossessione morbosa.

Il dottor Richard Vollin (Bela Lugosi) è un neurochirurgo geniale che vive nel culto di Poe, tanto da aver ricreato nel proprio scantinato gli strumenti di tortura descritti nei racconti dello scrittore. Quando salva la vita di una giovane donna, se ne innamora perdutamente e sogna di farne la sua musa. Di fronte al rifiuto, la sua mente cede e con l’aiuto del criminale Bateman (Boris Karloff) — che egli stesso sfigura per piegarlo al proprio volere — architetta una vendetta raffinata e sadica, attirando la ragazza, il padre e altri ospiti in una trappola degna del suo autore preferito.

The Raven è un film di specchi e riflessi, dove i due protagonisti diventano il doppio distorto l’uno dell’altro. Vollin vede in Bateman la propria mostruosità interiore, e in lui trova la materia su cui esercitare la sua poetica della crudeltà. Karloff è il corpo, Lugosi è la mente, e tra i due si consuma una danza macabra che anticipa, per certi versi, l’horror psicologico moderno.
Lew Landers, pur meno celebrato dei suoi colleghi Whale o Browning, dirige un film dall’atmosfera torbida e ossessiva, in cui l’istrionico Lugosi domina la scena rispetto a Karloff — costretto a rinverdire i fasti di Frankenstein — muovendosi con eleganza follia all’interno di un incubo teatrale, tra camere segrete e torture meccaniche. Tra queste spicca, ancora prima di Roger Corman, la celebre tortura del pozzo e del pendolo.

Film
Horror
Universal
USA
1935
venerdì, 17 ottobre 2025
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Saw - L'enigmista

di James Wan

All’inizio degli anni zero, ovvero nel primo decennio del XXI secolo, l’horror americano non se la passava tanto bene. A parte poche eccezioni, erano gli anni di Scream e delle sue infinite imitazioni, film che giocavano più sulla parodia del genere che sulla sua reinvenzione. L’estetica era patinata, i personaggi adolescenti e i colpi di scena telefonati. L’horror aveva perso la sua anima sporca, il suo odore di sangue e paura autentica.
Poi, nel 2004, arrivò Saw. Un film piccolo, quasi indipendente, che con un budget ridicolo e un’idea semplice ma brutale riuscì a risvegliare il genere dal torpore. James Wan, all’epoca ventisettenne, e lo sceneggiatore Leigh Whannell riportarono l’orrore nelle stanze chiuse, nei corpi mutilati, nelle scelte morali impossibili.

La storia inizia con due uomini che si risvegliano in un bagno fatiscente, incatenati ai lati opposti della stanza. Al centro, il corpo senza vita di un uomo disteso in una pozza di sangue, una pistola e un registratore a cassette. Lawrence (Cary Elwes) è un medico oncologo. Adam (lo stesso Whannell che interpreta uno dei protagonisti) è un giovane fotografo. Nessuno dei due ricorda come sia finito lì.
Quando riescono ad ascoltare il messaggio inciso sul nastro, scoprono di essere le pedine di un gioco orchestrato da una mente sadica che li costringe a confrontarsi con la propria sopravvivenza. L’assassino, noto come Jigsaw, non uccide direttamente le sue vittime ma le sottopone a prove estreme, costringendole a scegliere se vivere o morire.

"Vivere o morire? Fate la vostra scelta."

Prendiamo l’atmosfera torbida e il thriller investigativo di Seven, la morbosità e la tensione claustrofobica di Cube, aggiungiamo un colpo di scena degno de I soliti sospetti e una sceneggiatura a incastri piena di indizi ed enigmi (quella che, insieme al film di Natali, avrebbe ispirato anni dopo il fenomeno delle escape room). Versiamoci dentro una buona dose di sangue e violenza, e soprattutto un serial killer affascinante, una sorta di carnefice-purificatore che – con le fattezze di un inquietante pupazzo – punisce attraverso trappole tanto ingegnose quanto terrificanti chiunque ritenga non dia sufficiente valore alla vita.
Infine, confezioniamo il tutto con una regia dinamica e un montaggio dal gusto videoclipparo, figlio dei tempi e vicino all’estetica disturbante dei video dei Tool o di Marilyn Manson. Il risultato è Saw - L’enigmista, uno dei maggiori successi horror degli anni duemila, capace di incassare oltre cento milioni di dollari nel mondo a fronte di un budget irrisorio. Un film che ha riportato l’orrore alla sua dimensione più carnale, fisica e splatter, recuperando quella sporcizia visiva e quella crudeltà morale che avevamo conosciuto negli anni settanta.

Non sarà un capolavoro di originalità, ma a James Wan e Leigh Whannell va riconosciuto il merito di aver ridato sangue a un genere che negli Stati Uniti stava morendo. Da Saw in poi sarebbe arrivata un’intera ondata di sequel, più o meno discutibili – se ne contano una decina, ma personalmente al terzo ho gettato la spugna – e il film avrebbe aperto la strada al torture porn degli anni duemila, con Hostel come erede più diretto. In ogni caso, tutto parte da qui: da un bagno sudicio, due uomini incatenati e un’idea semplice ma spietata, che ha cambiato il volto dell'horror moderno.

Film
Thriller
Horror
USA
2004
Retrospettiva
giovedì, 16 ottobre 2025
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La mesita del comedor - The Coffe Table

di Caye Casas

Ogni tanto mi piace spulciare tra quei film poco conosciuti, quelli di nicchia, passati magari in qualche rassegna di cinema di genere e mai arrivati nelle sale. E' il caso di La mesita del comedor, un film spagnolo del 2022 diretto da Caye Casas, conosciuto a livello internazionale come The Coffe Table, disponibile in Italia su MyMovies One, la piattaforma streaming di MyMovies. Il film ha guadagnato un certa notorietà quando Stephen King l’ha consigliata sui social, definendola uno dei film più macabri che avesse mai visto.
E che faccio, me lo perdo? Non sia mai.

La storia è semplice, ma non per questo meno sconvolgente. Si svolge quasi interamente all’interno di un appartamento.
Jesus (David Pareja) e María (Estefanía de los Santos) sono una coppia che da poche settimane ha avuto un figlio. Si sono appena trasferiti nella loro nuova casa e Jesus, per celebrare l’arrivo del bambino, decide di comprare un tavolino di vetro — un oggetto di dubbio gusto, che il commerciante descrive come “pregiato e indistruttibile” — nonostante l’esplicito disappunto della moglie.
Il tavolino, un oggetto apparentemente banale e insignificante, sarà l'inizio della loro tragedia.

Il regista Caye Casas ha descritto il suo film come "un’opera scomoda e politicamente scorretta, con un umorismo estremamente nero, una tragedia basata sulla crudeltà casuale della vita reale e su un destino avverso".
Da qui in avanti mi è impossibile parlarne senza entrare nel territorio degli spoiler. Posso dire soltanto che, da padre, questo film ha toccato corde particolarmente sensibili e che per tutta la visione ho provato un disagio crescente, aspettando la sua conclusione per potermi finalmente liberare della tensione accumulata.
Arrivati a questo punto, è chiaro che il bambino muore. Mentre Jesus inizia a montare il tavolino, María esce per fare la spesa, lasciandolo solo col neonato per la prima volta. Poi accade la tragedia: un banalissimo incidente domestico che, nel giro di pochi secondi, trasforma la quotidianità di questa coppia in un incubo irreversibile. Jesus inciampa e cade sul tavolino di vetro, decapitando il bambino che aveva in braccio. Una scena che rimane fuori campo e che mi ha ricordato quella di Love Life di Koji Fukada.
La perdita di un figlio, violenta e provocata, è un dolore troppo grande per essere accettato. Si prova a negarlo, a rimuoverlo, a fingere che non sia mai accaduto. Ed è ciò che fa Jesus, che sotto shock ripone il corpo del neonato nella culla, pulisce il sangue dal tappeto, raccoglie i vetri ma non ha il coraggio di toccare la testa del piccolo, finita sotto la poltrona. Quando María rientra, le racconta di essersi ferito durante il montaggio del tavolo, di aver messo a dormire il piccolo, aiutandola a preparare il pranzo per il fratello e la nuova compagna, arrivati proprio per conoscere il bambino.
È una strada senza via d’uscita, che non fa che rimandare l’inevitabile. Casas costruisce una tensione insostenibile, che cresce scena dopo scena fino a un finale che ha il sapore amaro della liberazione. La mesita del comedor è un film di una potenza emotiva devastante, sorretto da due interpretazioni straordinarie. Pur muovendosi sul confine del grottesco, mantiene una ferocia realistica, come una satira crudele sull’assurdità della vita, sulla fragilità del caso e sulla violenza del dolore umano.
Uno di quei film che ti rimane addosso.

Film
Drammatico
Disturbante
Spagna
2022
mercoledì, 15 ottobre 2025
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Revenge

di Coralie Fargeat

Prima ancora del grande successo di The Substance, la regista francese Coralie Fargeat aveva già catturato l’attenzione con Revenge, il suo folgorante esordio del 2017. Un film che reinventa un genere con un linguaggio visivo potente e un approccio sorprendentemente contemporaneo, trasformando una storia di violenza in un’esplosione di rivendicazione fisica e simbolica.

Jen (Matilda Lutz), giovane americana, ha una relazione con Richard (Kevin Janssens), un uomo ricco e sposato. Richard la porta in una lussuosa villa nel deserto per un weekend bollente, ma l’intimità viene interrotta dall’arrivo anticipato dei suoi amici, Stan (Vincent Colombe) e Dimitri (Guillaume Bouchède), intenzionati a una battuta di caccia. Quando Richard si allontana, uno dei due amici aggredisce Jen e la stupra. Al ritorno dell’uomo, Jen minaccia di denunciare l’accaduto e chiede di tornare a casa. Richard si rifiuta, le offre denaro per farle dimenticare tutto, ma lei rifiuta e tenta di fuggire. Inseguita, viene spinta in un dirupo, ma sopravvive e, incazzata nera, decide di intraprendere una vendetta spietata contro i suoi aggressori.

A partire da I Spit on Your Grave, in Italia noto come Non violentate Jennifer, sono stati diversi i film che raccontano donne vittime di violenza sessuale che trasformano il loro trauma in una feroce e sanguinosa vendetta. Si tratta di un vero e proprio genere, il rape & revenge, nato negli anni settanta in stile shock exploitation, spesso a basso budget, caratterizzato da violenza esplicita, sangue e scene estreme, pensato per impressionare lo spettatore.
Revenge di Coralie Fargeat segue le stesse coordinate narrative, ma con la particolarità di essere il primo film del genere diretto da una donna. Fargeat trasforma una ragazza provocante, frivola e ingenua in una sorta di Rambo al femminile. Se vi aspettate realismo su come una giovane possa sopravvivere a ferite devastanti e diventare esperta di sopravvivenza e armi letali, probabilmente rimarrete delusi: come in molti film degli anni ottanta, qui si chiede allo spettatore la sospensione dell’incredulità.
Accettato questo patto, gli amanti dell’action più estremo troveranno tutto ciò che cercano: scene di sangue a profusione, tensione costante senza un attimo di tregua e uno scenario suggestivo che diventa teatro della violenza. Tecnicamente e visivamente, il film è girato con eleganza estrema, quasi patinata. L’iperrealismo cromatico rende la violenza al contempo estetica e catartica, rileggendo il genere in chiave contemporanea.
Personalmente avrei spinto di più sull’aspetto allucinogeno, deformando il punto di vista della protagonista per accentuare il suo stato di alterazione, ma evidentemente il budget ha imposto dei limiti.
Una menzione particolare va a Matilda Lutz, già apprezzata in A Classic Horror Story, capace di fornire un’interpretazione intensa, soprattutto fisica, passando da vittima a spietata macchina da guerra. È lei che regge il film sulle proprie spalle.
Interessante anche la figura dello stupratore, un Tuco contemporaneo uscito da un western di Leone, simbolo di una mascolinità tossica e animalesca che la Fargeat non esita a ridicolizzare.

Per gli appassionati del genere, Revenge resta un film imprescindibile, capace di unire estetica, violenza e empowerment femminile in una chiave moderna e spettacolare.

Film
Thriller
Drammatico
Francia
2017
martedì, 14 ottobre 2025
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Under the Skin

di Jonathan Glazer

Diciamolo chiaramente: la prima volta che ho visto Under the Skin mi aspettavo un film di fantascienza come tanti di quel periodo, con protagonista la bella Scarlett Johansson. Ovviamente sono rimasto spiazzato, come credo sia capitato a molti. Ma mentre altri ne sono usciti confusi o infastiditi, io sono rimasto affascinato da quell'estetica ipnotica, seducente e inquietante al tempo stesso, che per certi aspetti mi ha ricordato molto Lynch.

Ispirato al romanzo Sotto la pelle di Michel Faber, Under the Skin è un film inglese del 2013 diretto da Jonathan Glazer - prima del suo acclamato La zona d’interesse -  che ha diviso pubblico e critica. Accolto inizialmente con perplessità, ha col tempo conquistato un seguito di culto e numerosi riconoscimenti, entrando di diritto tra i film più discussi e significativi della fantascienza contemporanea.

Un'entità aliena assume le sembianze di una donna misteriosa (interpretata da Scarlett Johansson) che vaga per le strade e le campagne della Scozia. Vestita da donna umana ma aliena nel corpo e nell’anima, la protagonista si aggira alla guida di un furgone bianco di notte, attirando uomini isolati e vulnerabili. Questi vengono sedotti, invitati a seguirla in un luogo remoto e poi condotti in una sorta di camera oscura, un ambiente straniante, dove la luce e il suono si deformano, e dove le sue vittime sono spellate dalla loro identità, immersi in un liquido nero primordiale, consumate e soppresse.

Under the Skin è un film di fantascienza dal ritmo lento, quasi privo di dialoghi, che potrebbe risultare noioso o schiacciato dalla pretenziosità di "autorialità". È un’opera che mette a dura prova la pazienza dello spettatore, che può sembrare criptica, ma che in realtà è abbastanza lineare, quasi ripetitiva. Al posto di David Bowie a cadere sulla Terra, qui abbiamo un alieno che assume le fattezze di una donna bellissima — per me Scarlett Johansson con i capelli neri raggiunge in questo film l’apice della sua bellezza — che, come una vedova nera — ehm, scusate il riferimento alla sua interpretazione "vendicativa" — vaga per attirare giovani uomini, poi fatti scomparire in un lago di pece amniotica.
In sostanza, la storia è questa: l’osservazione della vita reale degli esseri umani dal punto di vista di un alieno freddo e privo di emozioni.  Tra i giovanotti incontrati dalla nostra bella aliena, oltre agli ignari scozzesi, ripresi da una telecamera nascosta mentre la Johansson si aggira per le strade, troviamo un ragazzo dal viso completamente deforme, interpretato da Adam Pearson, affetto realmente da neurofibromatosi.
L’estetica del film è così perturbante e pervasiva da costituire, di fatto, l’intera pellicola. Under the Skin gioca sul confine tra desiderio e pericolo, bellezza e disgusto. Anche la colonna sonora di Mica Levi fa la sua parte, creando un’atmosfera di straniamento e incastrandosi con gli scenari urbani e naturali, dalle strade deserte alle spiagge nebbiose, dalle foreste silenziose ai locali notturni.
Conosciuto anche per il nudo integrale di Scarlett Johansson, Under the Skin è più di un film di fantascienza, è un’esperienza visiva, quasi corporea. Un’opera ermetica, fredda e silenziosa, priva di spiegazioni chiare e con una struttura ellittica che vive di tensioni, fragilità e domande che restano aperte.

Film
Drammatico
Fantascienza
UK
2013
Retrospettiva
sabato, 11 ottobre 2025
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Io e Annie

di Woody Allen

Mi sono rivisto Io e Annie di Woody Allen senza sapere che, poche ore dopo, Diane Keaton ci avrebbe lasciati. Una coincidenza singolare per un film che non è soltanto una commedia romantica, ma una dichiarazione d’amore scritta da Allen su misura per lei. In Annie Hall, la Keaton ha saputo incarnare come poche attrici la leggerezza e l’intelligenza, l’eccentricità e la vulnerabilità del mondo femminile.
Vincitore di quattro premi Oscar – miglior film, regia, sceneggiatura originale e attrice protagonista – Io e Annie è l’opera che ha consacrato Woody Allen tra i grandi del cinema americano, raccontando con ironia e malinconia il mistero delle relazioni umane: la difficoltà di amarsi senza ferirsi, di restare sinceri quando tutto si complica. Un film fortemente autobiografico per entrambi, intriso di una dolce malinconia.

Alvy Singer (Woody Allen) è un comico newyorkese brillante e nevrotico, ossessionato dall’analisi di sé e del mondo che lo circonda. Annie Hall (Diane Keaton) è una giovane donna solare, spontanea, un po’ disordinata ma piena di fascino. Si incontrano quasi per caso, si innamorano, vivono una relazione intensa fatta di entusiasmi, incomprensioni e piccole manie quotidiane.
Attraverso una narrazione frammentata, fatta di ricordi, dialoghi interiori, salti temporali e momenti surreali, Allen ricostruisce la loro storia d’amore dal punto di vista di Alvy, cercando di capire dove e perché le cose si siano incrinate. Il risultato è un racconto personale e universale allo stesso tempo, una riflessione sull’amore, la memoria e l’impossibilità di afferrare davvero ciò che ci ha resi felici.

Io e Annie segna una svolta nella carriera di Woody Allen, che abbandona le commedie surreali e farsesche degli inizi per un racconto più intimo e malinconico. È il film in cui il suo cinema diventa adulto, più introspettivo, intellettuale e nevrotico. Sono gli elementi che lo contraddistingueranno e diventeranno la cifra essenziale della seconda parte della sua carriera.
La storia d’amore tra Alvy e Annie è raccontata come un mosaico di ricordi, frammenti e riflessioni. Allen rompe continuamente la linearità del racconto, sfonda la quarta parete parlando direttamente allo spettatore, interagisce con la propria memoria, entra nei flashback e mescola realtà e immaginazione. Questo gioco metacinematografico, allora innovativo, restituisce perfettamente la confusione emotiva e la nostalgia che accompagnano ogni relazione finita. È un film che mette a nudo la fragilità dell’essere umano, incapace di razionalizzare l’arrivo dell’amore così come la sua perdita.
Diane Keaton, con la sua naturalezza e un’elegante goffaggine, dà vita a un personaggio indimenticabile. È la controparte perfetta del nevrotico Alvy, e la loro chimica, fragile e autentica, rimane una delle più sincere del cinema.
Allen alterna umorismo e malinconia con ritmo brillante, a tratti logorroico ma sempre arguto e sagace. Tra battute e riflessioni, tra pessimismo e leggerezza, parla dell’amore come di un’illusione necessaria, un’esperienza che, anche quando finisce, ci lascia qualcosa di vero. Riguardato oggi, il film conserva intatta la sua forza, quella di raccontare la solitudine e il desiderio di comprendersi, con la grazia di chi non pretende risposte ma accetta la confusione dei sentimenti. Dove anche l’amore più complicato può essere bellissimo.

Film
Commedia
sentimentale
USA
1977
Retrospettiva
venerdì, 10 ottobre 2025
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La vestale di Satana

di Harry Kümel

All’inizio degli anni settanta il cinema europeo attraversa una fase in cui l’horror e il mito del vampiro abbandona il gotico tradizionale per trasformarsi in un simbolo di desiderio, trasgressione ed erotismo esplicito, spesso con sfumature lesbiche. Film come Vampyros Lesbos di Jesús Franco, Vampiri amanti di Roy Ward Baker o Violenza ad una vergine nella terra dei morti viventi di Jean Rollin incarnano perfettamente questa tendenza, dove il sangue e l’erotismo si confondono, e il femminile assume una forza ipnotica e perturbante.
In questo clima nasce Les Lèvres Rouges, film del 1971 noto in Italia come La vestale di Satana, diretto dal belga Harry Kümel.

Stefan e Valérie, una giovane coppia in viaggio di nozze, fanno tappa a Ostenda e trovano rifugio in un grande hotel, deserto a causa della bassa stagione. L’atmosfera è sospesa, come se il tempo avesse smesso di scorrere. Poco dopo arriva un’altra ospite, la contessa Elizabeth Bathory (Delphine Seyrig), donna dal fascino magnetico, accompagnata dalla sua misteriosa assistente Ilona. La contessa, elegante e inquietante, esercita un’attrazione irresistibile su entrambi i giovani, mentre efferati delitti si susseguono nella zona. Man mano che Stefan sprofonda nell’attrazione per la contessa, Valérie viene risucchiata in un gioco inquietante, dove la bellezza, il desiderio e la paura si mescolano. Omicidi sanguinosi di giovani ragazze incombono, e la verità sulla vera natura della contessa diventa sempre più evidente.

Chi ama il genere e conosce il fascino oscuro del mito dei vampiri sa bene chi fosse Elizabeth Bathory, la contessa ungherese del XVI secolo che, secondo le leggende, torturava e uccideva giovani fanciulle per bagnarsi nel loro sangue, convinta che ciò le avrebbe garantito eterna giovinezza e bellezza. Harry Kümel riprende questa figura storica e la fonde con l’archetipo della vampira femminile di Carmilla di Le Fanu, dando vita – attraverso l’interpretazione magnetica di Delphine Seyrig, all’epoca sua compagna – a una donna elegante, misteriosa e pericolosa. Insieme alla sua devota assistente Ilona, sorta di schiava del piacere, la contessa riesce a soggiogare una giovane coppia di sposi ospite di un maestoso e silenzioso albergo affacciato sul mare di Ostenda. 
Kümel accenna anche a una sottotrama che rimane poco sviluppata, in cui il giovane Stefan sembra nascondere torbidi segreti familiari, in particolare legati al rapporto con la madre. In una breve ma significativa scena telefonica, la madre appare come un uomo truccato, ambiguo e teatrale, dettaglio che amplifica il senso di inquietudine e doppiezza che percorre tutto il film.

La vestale di Satana vive principalmente di atmosfere, dialoghi calibrati e silenzi densi di tensione. Il ritmo è lento ma preciso, e il gusto estetico di Kümel si apprezza non solo nelle composizioni sceniche e nei costumi, ma anche nell’alternanza di colori vividi e ombre notturne. Il rosso, per esempio, simbolo di sangue, eros e morte, viene addirittura usato in diverse dissolvenze – splendido nella scena della camera da letto in cui l'assistente di Elisabath posa il suo foulard rosso sull’abat-jour e il rosso avvolge la stanza lasciando intendere una notte di passione.

È un film che seduce più con l’immagine che con la trama, più con il ritmo ipnotico e l’estetica decadente che con l’orrore esplicito. Lento, elegante e sensuale dove la paura nasce dalla bellezza e dal mistero, più che dal sangue o dal terrore.

Film
Horror
Erotico
Vampiri
Belgio
1971
giovedì, 9 ottobre 2025
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L'Uomo Invisibile (2020)

di Leigh Whannell

Insieme a Dracula, la Mummia e il Mostro di Frankenstein, l’Uomo Invisibile è tra le creature più iconiche dell’universo horror targato Universal Pictures. Ispirato all’omonimo romanzo di H. G. Wells, il personaggio, a partire dal classico di Whale del 1933, ha conosciuto nel tempo numerose reincarnazioni cinematografiche, con risultati spesso altalenanti.
Nel 2020, dopo il naufragio del progetto "Dark Universe" — il tentativo di creare un universo condiviso dedicato ai mostri Universal sul modello dei Marvel Studios — la casa di produzione decide di ripartire da zero. A raccogliere la sfida è la Blumhouse Productions di Jason Blum, che affida la regia e la sceneggiatura a Leigh Whannell, già noto per Upgrade e per aver co-creato la saga di Saw.

La storia si potrebbe riassumere in poche parole. Una donna viene perseguitata dal suo ex, un brillante e ricco milionario con una villa alla Tony Stark e una tuta che lo rende invisibile.

Cecilia Kass (Elisabeth Moss) è vittima di una relazione violenta e controllante con Adrian Griffin (Oliver Jackson-Cohen), un ingegnere nel campo dell’ottica. Una notte, approfittando del sonno di Adrian, lo droga e fugge con l’aiuto della sorella Emily, trovando rifugio presso l’amico d’infanzia James Lanier e sua figlia Sydney. Dopo due settimane, le autorità comunicano che Adrian si è suicidato, lasciando a Cecilia un’eredità di cinque milioni di dollari, amministrata dal fratello Tom.
Ma la quiete è solo apparente, e quando strani eventi iniziano a tormentarla, Cecilia comincia a sospettare che Adrian sia ancora vivo e che abbia trovato un modo per renderla prigioniera della propria paura. Nessuno le crede, finché l’incubo non diventa reale.

L’Uomo Invisibile di Leigh Whannell è una buona reinterpretazione del mito classico, che trasforma la figura del mostro in quella di un marito violento, manipolatore e ossessivamente controllante. Whannell riesce nell’impresa di rendere attuale una storia già nota, evitando di appoggiarsi agli effetti speciali o ai soliti jumpscare, e puntando invece su una tensione psicologica costante, costringendo lo spettatore a scrutare ogni angolo dell'inquadratura alla ricerca di un segnale, anche solo un impercettibile movimento tra le ombre.
Al netto di qualche incongruenza nella sceneggiatura, di una durata forse eccessiva e di un cast secondario poco incisivo, il film mantiene un ritmo solido e una tensione sempre viva. Elisabeth Moss offre un’interpretazione intensa, capace di reggere l’intero impianto narrativo con una gamma di emozioni che va dalla paura alla rabbia, dalla fragilità alla determinazione.
Il risultato è un thriller psicologico con venature sci-fi che si distacca dai canoni del mito originale per diventare un racconto di violenza domestica, gaslighting e isolamento, riflesso di un presente in cui le donne spesso non vengono credute quando denunciano abusi. Personalmente, avrei preferito che Whannell giocasse di più sul dubbio e sulla paranoia della protagonista, ma capisco che il tema del patriarcato, il femminicidio e lo stalking sia molto attuale in questo periodo per non farci l'ennesimo film.

Film
Thriller
Fantastico
USA
2020
martedì, 7 ottobre 2025
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Bones and All

di Luca Guadagnino

Primo film ambientato negli Stati Uniti per Luca Guadagnino, che dopo Suspiria torna all'horror con Bones and All, film del 2022 tratto del romanzo Fino all'osso di Camille DeAngelis. Specifichiamo, il genere horror in questo film è solo il pretesto per raccontare una storia d'amore tra due adolescenti – affetti da una particolare condizione – che viaggiano nelle strade polverose di un america di provincia alla ricerca della loro identità.

Il film segue le vicende di Maren (Taylor Russell), una diciottenne che fin dall’infanzia manifesta istinti cannibali. Dopo l’ennesimo episodio, il padre decide di abbandonarla, lasciandola sola con una cassetta in cui gli racconta la sua storia e il suo certificato di nascita. Inizia così il viaggio di Maren attraverso gli Stati Uniti, alla ricerca della madre e di un’origine che possa spiegare la sua diversità. Durante questo viaggio scopre altri suoi simili tra i quali Sully (Mark Rylance) un anziano ma inquietante cannibale in cerca di compagna, Jake (Michael Stuhlbarg) un cannibale psicopatico ed efferrato e sopratutto Lee (Timothée Chalamet), un ragazzo tormentato dal passato, in fuga tanto dagli altri quanto da sé stesso. Insieme, Maren e Lee attraversano l’America profonda, affrontando le proprie paure, le pulsioni, e il rapporto con la diversità e l’emarginazione.

Tra horror cannibalesco, dramma on-the-road e racconto di formazione, Bones and All è una storia di solitudine, desiderio di appartenenza e disperata ricerca d’amore. Guadagnino costruisce un film che riflette sull’emarginazione e sulla diversità, scegliendo di raccontarle attraverso una sensibilità più emotiva che realmente horror.
Dal punto di vista visivo il film è curatissimo. La fotografia è calda e malinconica, le inquadrature ampie restituiscono l’immensità dell’America rurale, e la regia conferma la grande padronanza tecnica di Guadagnino, capace di trasformare ogni scena in un quadro sospeso. Tuttavia, dietro questa eleganza formale, ho trovato una certa debolezza narrativa. La sceneggiatura procede in modo lineare, senza veri slanci e particolari evoluzioni. Brava e convincente Taylor Russell, meno Chalamet mono espressivo. Anche la loro storia d’amore, pur attraversata da momenti di intensità, non riesce a coinvolgere del tutto, per colpa di una scrittura che tende a ripetersi e a scivolare verso un melò adolescenziale dai toni prevedibili.
Le scene horror, dosate con attenzione, non cercano mai la paura quanto piuttosto il disagio. I momenti di autentica tensione arrivano quasi esclusivamente grazie alla presenza magnetica di Mark Rylance, unico personaggio davvero inquietante del film. Tutto il resto si muove su un piano più sentimentale ed esistenziale, dove il cannibalismo diventa metafora della fame interiore, del bisogno d’amore, della difficoltà di accettare ciò che di noi stessi non vogliamo vedere.

La colonna sonora firmata da Trent Reznor e Atticus Ross accompagna con discrezione, ma non lascia il segno come in altri loro lavori.
Bones and All resta quindi un film interessante e ben realizzato, visivamente affascinante ma che alla fine non è riuscito a coinvolgermi veramente. 

Film
Drammatico
Horror
Italia
2022
lunedì, 6 ottobre 2025
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I 400 colpi

di François Truffaut

Quando si parla di Nouvelle Vague si pensa subito a un momento di rottura, a un cinema che, alla fine degli anni cinquanta, iniziò a ribellarsi alle regole del racconto classico e alle convenzioni tradizionali per cercare di rappresentare la realtà sociale in modo più autentico, attraverso forme e tecniche espressive nuove. François Truffaut, con I 400 colpi – il suo film d’esordio, uscito nel 1959 – ne divenne uno dei volti simbolo, raccontando la giovinezza con uno sguardo inedito, personale e insieme universale.
Ricordo di averlo visto per la prima volta molti anni fa, ma allora non mi aveva colpito. Mi era parso quasi estraneo al mio modo di intendere il cinema. Non mi lapidate, so che sto parlando di uno dei cento film più importanti della storia del cinema, ma da ragazzino ero più attratto dall’immaginifico, dal surreale, che dalla rappresentazione cruda e talvolta impietosa della realtà. Rivedendolo oggi, con uno sguardo più maturo e consapevole del contesto storico, I 400 colpi mi è apparso un film sorprendentemente vitale, di una freschezza registica ancora intatta, capace di raccontare con amarezza e sincerità la fragilità di un’età sospesa tra innocenza e disillusione.
Vincitore del premio per la Migliore regia al Festival di Cannes, il titolo del film, tradotto alla lettera in italiano, ne fa perdere il senso originale, dal momento che in francese Les Quatre Cents Coups è un modo di dire che significa più o meno "fare il diavolo a quattro", in riferimento alle avventure turbolente del suo giovane e ribelle protagonista.

Il film racconta la storia di Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud), un ragazzino parigino che vive un’adolescenza inquieta tra scuola, casa e strada. Trascurato dai genitori, più preoccupati di impartirgli regole che di offrirgli affetto, e frainteso da ottusi insegnanti, Antoine cerca di ritagliarsi un suo spazio di libertà, ma ogni suo tentativo di ribellione lo porta sempre più ai margini. L’unico vero legame affettivo è quello con René, l’amico con cui condivide le giornate fatte di assenze da scuola e scorribande per le strade di Parigi. Tra piccole fughe, bugie e punizioni, la sua vita diventa un lento percorso di esclusione che culmina qunado viene sorpreso a rubare una macchina da scrivere, e viene mandato in un riformatorio. Qui subisce umiliazioni e punizioni, fino a quando riesce a scappare, correndo verso il mare, simbolo di una libertà tanto desiderata quanto irraggiungibile.

Primo capitolo di un ciclo di cinque film con Jean-Pierre Léaud nei panni di Antoine Doinel – attore destinato a diventare uno dei volti simbolo del cinema di Truffaut – I 400 colpi è un racconto di formazione che mette in scena il malessere inquieto di un ragazzino che si ribella a ogni forma di autorità. Chiaramente autobiografico, e pilastro del cinema futuro del regista francese, il film racconta con sincerità disarmante l’ipocrisia della famiglia, del mondo adulto e delle istituzioni educative. Truffaut osserva tutto con uno sguardo lucido, privo di moralismi e pietismi, restituendo il netto distacco tra il mondo dei grandi e quello degli adolescenti. Ne nasce il ritratto di un disagio esistenziale profondo, vissuto con dignità da un ragazzo che nessuno sembra davvero comprendere.
Le sue piccole trasgressioni – almeno quelle iniziali – vengono amplificate dalle figure autoritarie che lo circondano, riflesso di una famiglia frammentata: una madre frustrata, segnata da una maternità non voluta, un patrigno assente e mediocre, e una scuola governata da insegnanti bigotti e conservatori. L’unico luogo in cui Antoine trova un po’ di pace è il cinema, che gli offre l’illusione di una fuga possibile, un rifugio dove tutto può ancora essere reinventato.
Straordinaria la prova del giovane Jean-Pierre Léaud, che con spontaneità e istinto riesce a rendere la fragilità e la rabbia di un adolescente in cerca d’amore. Truffaut cattura con sensibilità rara l’incomprensione e la solitudine, ma anche quelle piccole crudeltà quotidiane che segnano l’infanzia. Indimenticabile la scena del colloquio con la psicologa, girata con lei fuori campo, e ancor di più il celebre finale: la corsa verso il mare, simbolo di libertà, che si chiude con quello sguardo in macchina – fermato nel fotogramma finale – in cui si concentra tutta la tensione tra desiderio e impossibilità di essere davvero liberi.
Curioso che la foto che Antoine ruba all’uscita del cinema sia quella di Harriet Andersson, protagonista di Monica e il desiderio di Bergman, altro film rimasto nella storia per un intenso sguardo in macchina, quasi un dialogo ideale tra due adolescenti del cinema europeo.

Dal punto di vista tecnico, I 400 colpi sorprende per la sua naturalezza. Truffaut filma con libertà e spontaneità, spesso con camera a mano, alternando primi piani ravvicinati a splendidi campi lunghi, come un testimone silenzioso delle inquietudini di Antoine. L’uso della luce naturale e delle strade di Parigi restituisce un realismo vibrante, mentre la fotografia in bianco e nero di Henri Decaë e la colonna sonora malinconica di Jean Constantin creano un’atmosfera sospesa tra dolcezza e disincanto, cifra inconfondibile del film.

Un grande esempio di cinema capace, attraverso la storia di un ragazzino incompreso, di raccontare una generazione che cambia e non viene capita. Un classico senza tempo che a più di sessant’anni dalla sua uscita continua a interrogarci sul significato della libertà e sul bisogno di essere visti, compresi, e amati.

Film
Drammatico
Francia
1959
Retrospettiva
venerdì, 3 ottobre 2025
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The Truman Show

di Peter Weir

Peter Weir, regista che ho amato più per l'onirico Picnic ad Hanging Rock che per il celebrato L’Attimo fuggente, alla fine degli anni novanta porta sullo schermo The Truman Show, una brillante satira sul potere dei media e sulla spettacolarizzazione della vita. Un film che anticipa di qualche anno l’esplosione dei reality e segna per Jim Carrey la svolta verso il suo primo ruolo drammatico di rilievo.

Truman Burbank vive a Seahaven convinto che la sua quotidianità sia naturale. In realtà la sua vita è il set di un programma televisivo in onda ventiquattro ore su ventiquattro, e ogni persona intorno a lui è attore o comparsa. Quando piccoli indizi cominciano a incrinare la sua percezione della realtà, Truman inizia a sospettare che il mondo che conosce sia costruito e decide di cercare una via d'uscita. La progressiva presa di coscienza mette in crisi l'intero sistema che ha fondato lo spettacolo, fino allo scontro finale tra il bisogno di verità dell'individuo e la macchina mediatica che lo ha creato.

The Truman Show è un classico degli anni novanta, un vero e proprio cult di una generazione. Rivederlo oggi, a distanza di decenni, forse attenua l’effetto sorpresa, ma resta una pellicola folgorante, capace di anticipare il fenomeno dei reality show — esploso poco dopo anche in Italia con il Grande Fratello, i talent e tutto quel mare di programmi spazzatura — mescolando fantascienza e commedia, spot pubblicitario e sit-com di altri tempi. In superficie appare come un film leggero e divertente, ma sotto la patina c'è una critca tagliente verso media e società. Il confine tra libertà e illusione viene mostrato come una prigione dorata, un acquario perfetto dove tutto è costruito, un surrogato di realtà da osservare per vivere le emozioni degli altri piuttosto che affrontare le proprie.
Jim Carrey offre una prova sorprendente, liberandosi dai ruoli comici che lo avevano reso celebre per incarnare un moderno Adamo intrappolato in una sorta di Eden orwelliano, manipolato da un dio distopico interpretato da un bravissimo Ed Harris. La sua ricerca della verità passa anche attraverso il ricordo di un'Eva perduta, unica traccia autentica in un mondo di menzogne.

Oggi, immersi in reel, tiktok e video generati dall’intelligenza artificiale, il film non colpisce più con la stessa forza profetica, ma rimane uno specchio scomodo in cui guardarsi, un monito sulla fragilità della nostra libertà di spettatori e individui.

Film
Commedia
Drammatico
satirico
USA
1998
Retrospettiva
giovedì, 2 ottobre 2025
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Una battaglia dopo l'altra

di Paul Thomas Anderson

Spinto dalle tante critiche entusiastiche mi sono andato a vedere al cinema Una battaglia dopo l'altra, l'ultima pellicola di Paul Thomas Anderson. Conosco poco i suoi lavori, ho un ricordo un pò sbiadito di Magnolia e poco altro, ma è considerato da più parti uno dei migliori registi americani contemporanei.

La storia è ambienta negli Stati Uniti, non si capisce bene se si tratta di un America distopica o quella Trumpiana contemporanea.
Pat Calhoun detto "Ghetto Pat" (Leonardo DiCaprio) e Perfidia Beverly Hills (Teyana Taylor) sono membri del gruppo rivoluzionario di estrema sinistra conosciuto come French 75. Dopo aver liberato gli immigrati detenuti da un centro di detenzione in California, Perfidia umilia il colonnello, Steven Lockjaw (Sean Penn), che sviluppa un'attrazione sessuale nei suoi confronti. Con il tempo Ghetto e Perfidia diventano amanti ma Lockjaw sembra ossessionato da Perfidia e dopo averla sorpresa mentre stava piazzando una bomba in una banca, la lascia andare dopo che lei accetta di fare sesso in un motel. Perfidia dà alla luce una bambina, Charlene (interpretata da Chase Infiniti nell’età adolescenziale), ma la donna vuole continuare la sua attività rivoluzionaria e poco dopo li abbandona.  Sedici anni dopo, il passato riaffiora e Ghetto si ritrova di nuovo in prima linea per proteggere sua figlia dall’ossessione di Lockjaw.

Il film mi è piaciuto? Sì, e pure molto. Ingannato dal titolo e dalle poche immagini che me lo aveva fatto accostare al Civil War di Garland, mi sono trovato davanti invece a un action-movie d’autore dal ritmo travolgente, capace di divertire, spaventare e commuovere.
Liberamente tratto da Vineland, romanzo di Thomas Pynchon, il film è stato prodotto dalla Warner Bros con un budget di oltre 150 milioni di dollari. Una buona fetta dev’essere finita nel cachet di DiCaprio, visto che non ci sono sequenze catastrofiche né scenografie monumentali da blockbuster. Poco importa, non faccio i conti alle case di produzione, soprattutto quando il risultato convince e il pubblico sembra gradire.
La sceneggiatura non è perfetta e a tratti mostra qualche debolezza, mi riferisco ad alcune ripetizioni e forzature nel finale. Ma i punti di forza del film sono altri. Innanzitutto nella regia e nel montaggio, magistrali, che fanno volare via due ore e quarantacinque minuti in un baleno. Poi negli attori con un grande DiCaprio che intrepreta un rivoluzionario nerd, appassionato di congegni esplosivi, che quindici anni dopo lo ritroviamo a fumarsi anche il cervello, dimenticandosi delle parole d’ordine. Ma è Sean Penn a rubare la scena, trasformato in una sorta di Popeye (Braccio di Ferro) militarizzato e razzista, che incute timore e insieme suscita una strana tenerezza. Una performance da Oscar la sua, che ho adorato, insieme alle dinamiche di sottomissione e trasgressione con Perfidia, la femmina ribelle e dominatrice interpretata dalla brava Teyana Taylor, che urla al mondo: "La fica è per la guerra, è un’arma". Da segnalare anche Benicio Del Toro nei panni assurdi di un sensei messicano, e la giovane Chase Infiniti, credibile nella parte della figlia.
Infine, la musica. La colonna sonora è firmata da Jonny Greenwood, già compagno di avventure di Anderson e polistrumentista dei Radiohead. È una partitura incalzante, che non accompagna semplicemente il ritmo del film ma lo detta, con momenti di sperimentazione jazz che trovano il loro culmine in una lunga sequenza costruita attorno a una singola nota ripetuta ossessivamente. La musica è parte integrante del film.
Il sottotesto politico e sociale è evidente e non serve dilungarsi troppo. Una battaglia dopo l’altra è il ritratto di un’America divisa, corrotta, fascista e sull’orlo del collasso.
Per il resto il film ha qualcosa dei fratelli Coen – il personaggio di DiCaprio ammicca chiaramente al Drugo de Il Grande Lebowski – di Tarantino, nelle situazioni grottesche ma mai eccessive, ma anche di Kubrick e Spielberg che insieme si mescolano in un racconto che resta sempre personale. 
Un film frenetico e pieno d’azione, tra inseguimenti automobilistici (memorabile quello sui dossi, con la macchina da presa che pare ondeggiare) e situazioni al limite del parossistico (come quella in cui un DiCaprio disperato è alla ricerca di una presa per ricaricare il cellulare). Anderson eleva l’action movie prendendolo anche in giro – la citazione su Tom Cruise è esilarante. Gioca con i generi, li piega al presente, mescolando satira e commedia nera, riuscendo a essere insieme epico e intimo.

Un film attuale, intelligente e godibile, con più piani di lettura a seconda dello spettatore. Non il capolavoro del decennio, come ho letto in giro, ma probabilmente uno dei migliori film dell’anno.

Film
Action
Thriller
USA
2025
Cinema
mercoledì, 1 ottobre 2025
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Together

di Michael Shanks

Together è il film di esordio per Michael Shanks, un altro regista australiano che dopo Sean Byrne e i fratelli Philippou si cimenta con l'horror contemporaneo. In questo caso si tratta di un body horror che affronta il tema della coppia, la dipendenza affettiva e la prigione emotiva.

Tim e Millie (interpretati rispettivamente da Dave Franco e Alison Brie) sono una giovane coppia che decide di trasferirsi in una casa in campagna. Lei è un insegnante che desiderà stabilità e un futuro insieme, lui è un musicista mancato segnato dalla perdita dei genitori. Prima di partire Millie ha fatto una proposta di matrimonio, ma Tim ha esitato, mettendola in imbarazzo di fronte agli amici. La coppia sta attraversando un periodo di crisi, i due non fanno sesso da tempo e lontano dalla città sperano di recuperare la loro relazione. Durante un'escursione vicino alla loro nuova casa, cadono in una grotta sotterranea durante un temporale e decidono di accamparsi lì per la notte. Al mattino Tim e Millie trovano le gambe parzialmente attaccate. E' l'inizio di un incubo in cui i loro corpi iniziano a fondersi, a incastrarsi l’uno nell’altro, rendendoli letteralmente inseparabili.

Il corpo come specchio delle relazioni. È questa la chiave con cui Michael Shanks racconta Together, portando il body horror su un piano intimo ed emotivo. La fusione fisica di Tim e Millie diventa metafora dell’amore come dipendenza, della coppia come spazio in cui l’individualità rischia di dissolversi.
La regia alterna con intelligenza momenti di autentico orrore a sequenze di commedia nera, mantenendo sempre la tensione emotiva. Il gore è presente ma mai gratuito. Dave Franco e Alison Brie – coppia anche nella vita reale – sostengono il film con un’interpretazione credibile anche quando la vicenda sfocia nel grottesco, come nella scena del rapporto nel bagno della scuola o in quella in cui i due sono attratti l’uno all’altro come calamite. Lui fragile e irrisolto, lei determinata ma stanca, entrambi intrappolati in una danza che alterna cura e rancore. La loro chimica rende palpabile la contraddizione di un amore che nutre e al tempo stesso consuma.
Nonostante qualche incertezza narrativa, soprattutto nel finale, la miscela di generi funziona: la grotta, il rito pagano, la filosofia e persino le Spice Girls si integrano con sorprendente coerenza. Con effetti prostetici efficaci che rimandano a Cronenberg, Yuzna e più di recente The Substance, Shanks utilizza il romanticismo del mito platonico – l’essere umano incompleto che cerca l’altra metà – in chiave horror.

Together diventa così la storia di una relazione di dipendenza tossica, la paura di donarsi sacrificando parte del proprio ego per crescere come coppia. Un horror che parla al presente, gioca con i generi e non teme l’ironia. Ottimo esordio per Michael Shanks.

Film
Horror
Australia
2025
martedì, 30 settembre 2025
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The Mist

di Frank Darabont

Frank Darabont è un regista americano conosciuto per aver portato su pellicola alcune opere scritte da Stephen King. Nel 2007, dopo Le ali della libertà e Il miglio verde, Darabont trasporta sullo schermo cinematografico The Mist, racconto del Re del Brivido contenuto nella raccolta Scheletri.

Dopo un violento temporale che devasta la sua casa nel Maine, l’illustratore David Drayton (Thomas Jane) si reca in città con il figlioletto Billy per procurarsi cibo e provviste. Mentre si trovano all'interno di un supermercato, improvvisamente, una nebbia densa e innaturale avvolge l’intera area, rendendo ogni cosa invisibile. Ben presto si scopre che dietro quel velo lattiginoso si nascondono creature mostruose, letali e spaventose, provenienti da un’altra dimensione. La paura dilaga non solo all’esterno, ma anche tra le corsie del supermercato, dove il fragile equilibrio della comunità si incrina. Panico, tensioni e fanatismi portano alcuni a seguire le farneticazioni apocalittiche della signora Carmody (Marcia Gay Harden), mentre altri lottano per mantenere la ragione. In questo clima di crescente disperazione, David, Amanda (Laurie Holden), Billy e pochi altri decidono di rischiare il tutto per tutto avventurandosi all'esterno, preferendo affrontare le minacce che si nascondono nella nebbia.

The Mist non è soltanto un horror di mostri, ma soprattutto un film sull’uomo messo di fronte all’ignoto e alla paura. Darabont costruisce un microcosmo che riflette la fragilità della società, mostrando come il vero pericolo non provenga tanto dalle creature nascoste nella nebbia, quanto dal panico che dilaga tra gli uomini. È in questo clima che il fanatismo religioso, incarnato dalla signora Carmody, prende il sopravvento, rivelandosi più distruttivo e pericoloso delle minacce esterne.
La regia di Darabont, pur senza virtuosismi, mantiene un ritmo teso e costante, sfruttando al meglio gli spazi chiusi e la claustrofobia della situazione. Gli effetti speciali, limitati da un budget non elevato, non sempre convincono, ma riescono comunque a sostenere la narrazione. Per gran parte del film, confinato all’interno del supermercato, The Mist appare come una rivisitazione moderna del cinema horror degli anni settanta, da Romero a Carpenter, peraltro citati più volte. Un buon horror sulla natura umana e sui meccanismi sociali che emergono nelle crisi, dove i veri mostri sono quelli che si aggirano fra di noi. Se vogliamo nulla di particolarmente eclatante o originale… almeno fino al finale.

Lo dico subito e senza esitazione. The Mist ha uno dei finali più devastanti, spietati e memorabili del cinema. Al pari di capolavori come Fight Club, I Soliti Sospetti o addirittura Psycho, possiede una forza emotiva dirompente. Un epilogo completamente diverso da quello immaginato da King, ma che lo stesso autore ha dichiarato di aver apprezzato senza riserve.
Attenzione. Da qui in poi gli spoiler sono inevitabili.
Tutto si concentra negli ultimi tredici minuti. David, il figlio Billy e pochi superstiti abbandonano il supermercato e si avventurano nella nebbia a bordo di un’auto, attraversando una città deserta e devastata dalle creature. È in quel momento che, per la prima volta, irrompe la musica — fino ad allora la pellicola era stata priva di colonna sonora. Sono le note solenni di organo che introducono The Host of Seraphim dei Dead Can Dance. Un brano evocativo, quasi liturgico, in cui la voce ancestrale di Lisa Gerrard trasforma la fuga in un viaggio sospeso tra vita e morte. Per chi, come me, ha da sempre apprezzato la loro musica e considera questa una delle più grandi composizioni del gruppo, può immaginare quanto, sentirla per la prima volta nel finale straziante di questo film, sia stata un’esperienza di pura pelle d’oca.
Senza meta, immersi in un silenzio irreale e circondati da creature gigantesche, quasi uscite dall’immaginario lovecraftiano, i nostri sopravissuti vagano a bordo della macchina nella nebbia. Quando la benzina finisce e ogni speranza sembra svanita, David prende una decisione estrema. Per risparmiare ai suoi compagni e al figlio una morte orribile, li uccide con la pistola che aveva con sé. Rimasto senza proiettili, disperato e straziato dal dolore, esce dall’auto pronto a farsi divorare dai mostri. Ma è proprio in quell’istante che la nebbia si dirada e appare l’esercito, che ha sconfitto le creature e ristabilito l’ordine. La salvezza era a un passo, e David comprende di aver sterminato chi amava pochi secondi prima della liberazione. È un finale che colpisce come un pugno nello stomaco, ribaltando l’intero film in un epilogo di disperazione assoluta. Non c’è consolazione, non c’è sollievo, solo un crudele senso di beffa. Darabont nega allo spettatore il "lieto fine" a cui Hollywood ci ha abituato, lasciandoci invece con un vuoto insostenibile.

Un epilogo spietato, indimenticabile, che trasforma un buon horror in qualcosa di più. Un film che, a mio avviso, si avvicina al capolavoro.

Film
Horror
USA
2007
Retrospettiva
lunedì, 29 settembre 2025
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Hai mai avuto paura?

di Ambra Principato

Hai mai avuto paura? segna l’esordio alla regia di Ambra Principato. È un horror gotico liberamente ispirato al romanzo di Michele Mari "Io venìa pien d’angoscia a rimirarti", che porta sullo schermo atmosfere oscure e suggestioni letterarie.

La vicenda si svolge in un piccolo borgo italiano nel 1813. Giacomo (Justin Korovkin), giovane studioso dalla salute fragile con una passione per la poesia, è il primogenito di una famiglia nobile composta da una madre fortemente religiosa e bigotta, un padre autoritario che governa il territorio e i fratellini Orazio (Lorenzo Ferrante) e la piccola Pilla. Quando nelle notti di luna piena il bestiame viene trovato sbranato da una misteriosa creatura, la paura inizia a diffondersi tra i contadini. In questo clima compare Scajaccia (Mirko Frezza), uno zingaro proveniente dalle montagne, che propone riti pagani come difesa contro la bestia, mettendo in crisi la ragione e la religione della comunità. Intanto Orazio comincia a sospettare che dietro queste storie di bestie e maledizioni ci sia qualcosa che riguarda la famiglia: segreti taciuti, antenati rimossi, ombre che si allungano dal passato.

Hai mai avuto paura? è un tentativo lodevole di riportare in vita il gotico nostrano, intrecciando religione, superstizioni, paure ancestrali e letteratura. Interessante il richiamo alla figura di Giacomo Leopardi, evocato attraverso il fratello maggiore Giacomo, con la malattia, l’inclinazione poetica e il peso della parola come fuga e condanna. Non manca nemmeno Silvia, l’amata idealizzata, né la festa del villaggio che rimanda a scenari letterari. L’idea di fondo, quella di reinventare in chiave fantastica personaggi storici, è interessante e coraggiosa, ma in questo film di autentica paura ce n’è ben poca. Hai mai avuto paura? non scuote, non suscita terrore, non coivolge fino in fondo. L’ambientazione ottocentesca, i costumi e le scenografie restituiscono un’atmosfera suggestiva, ma la resa visiva, così come il cast, soffre di una certa patina da fiction televisiva. Il coraggio di affrontare un horror con mezzi ridotti è evidente, così come la scelta di puntare sulle atmosfere più che sulla presenza scenica. Tuttavia, le suggestioni gotiche legate alla licantropia si riducono a qualche pozzanghera rossa e a una suspense che raramente diventa autentica inquietudine.

In definitiva, un’opera prima con spunti interessanti e coraggiose ambizioni, ma che nel complesso non lascia davvero il segno.

Film
Horror
Italia
2023
sabato, 27 settembre 2025
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The Loved Ones

di Sean Byrne

The Loved Ones è il film di esordio del regista australiano Sean Byrne, uscito nel 2009. Si tratta di un horror particolarmente disturbante, che miscela elementi di teen movie con il torture-porn, esplorando ossessioni, rifiuto, amore non corrisposto, senso di colpa — in particolare legato al lutto — e i meccanismi della vendetta psicologica.

Il protagonista, Brent (interpretato da Xavier Samuel), è un ragazzo segnato da un trauma (la morte del padre in un incidente stradale di cui si sente responsabile). Quando rifiuta l’invito al ballo scolastico da parte di Lola Stone (Robin McLeavy), una coetanea solitaria, lei — con l’aiuto del padre — decide di trasformare il rifiuto in qualcosa di orribilmente personale: un ballo "tutto suo", fatto di prigionia, violenza e distorsione macabra della festa.

The Loved Ones si distingue da molti torture-horror per la capacità di Sean Byrne di evitare l’eccesso gratuito e puntare invece sull’atmosfera. La violenza c’è, ma spesso resta fuori campo, amplificata da silenzi, dettagli suggeriti e dal grottesco contrasto tra l’ambientazione domestica e l’orrore messo in scena. I protagonisti principali di questo film sono due, un lui e una lei. Brent, è segnato dal senso di colpa, non è solo una vittima, ma un ragazzo spezzato che sembra quasi predisposto alla punizione. Lola è un villain memorabile, una "principessa" in glitter rosa che trasforma un semplice rifiuto in un rituale di dominio e punizione, spalleggiata da un padre complice, ambiguo e incestuoso. 
La regia alterna tensione, humour nero e momenti disturbanti con notevole equilibrio, anche se alcune sottotrame secondarie — mi riferisco all'amico impacciato di Brent e l'uscita con la bella e triste darkettona — finiscono per diluire la compattezza del racconto. Nonostante questo, il ritmo serrato e la durata contenuta mantengono alta la tensione fino al finale.
Ne risulta un piccolo cult dell’horror australiano, un film disturbante, originale nel mescolare teen movie e torture, capace di consegnarci una delle psicopatiche più inquietanti degli ultimi anni. 

Film
Horror
Australia
2009

© , the is my oyster