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domenica, 7 settembre 2025
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Un film fatto per Bene

di Franco Maresco

Presentato all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, sono andato a vedere l’ultimo film di Franco Maresco, probabilmente il regista più corrosivo e dissacrante del nostro cinema contemporaneo. Con Daniele Ciprì ha dato vita a Cinico Tv, assurdo programma satirico degli anni novanta che quelli della mia generazione ricorderanno senz'altro – erano i tempi di Fuorio Orario, Avanzi, un periodo in cui il terzo canale della Rai aveva ancora il coraggio di rischiare, di lasciare spazio a linguaggi scomodi e sperimentali. Da lì arrivarono Lo zio di Brooklyn e il famigerato Totò che visse due volte, accolto da polemiche e censure per il suo sguardo blasfemo e senza compromessi. Negli anni duemila Maresco ha continuato a lavorare tra cinema e documentario, costruendo un percorso che non concede nulla allo spettatore se non la verità ruvida della sua visione. Conoscendo la sua fama, sapevo che non sarebbe stata una visione semplice, ma con la complicità di un paio di amici, ho deciso di vedermi Un film fatto per Bene.

Il film, girato come fosse un documentario, racconta la travagliata storia della realizzazione di un film su Carmelo Bene da parte di Franco Maresco. Prodotto dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti  tra incidenti, incomprensioni, ciak infiniti e ripetuti ritardi, le riprese vengono bruscamente interrotte in anticipo e il film rimane incompleto. Maresco accusa la produzione di “filmicidio” e sparisce dalla circolazione. A questo punto Umberto Cantone, suo amico e co-autore, si mette alla sua ricerca, contatta testimoni e collaboratori, ripercorrendo così la personalità di un regista ossessivo, nevrotico, nichilista e apocalitticamente pessimista.

Maresco firma un film metacinematografico, assolutamente autoreferenziale ma spietatamente critico con se stesso e con l’industria cinematografica. Un’opera consapevole di essere destinata a quattro gatti – o a pantegane intellettualoidi – ma che Maresco realizza perchè questo è l'unico modo per dare sfogo alla rabbia e all’orrore che prova per questo "mondo di merda". Un film fatto per Bene diventa così una sorta di (auto)analisi che prende avvio in una stanza d’albergo, prenotata ogni cinque o sei mesi per tagliarsi i capelli, per poi passare a un taxi guidato dal personaggio forse più esilarante, un autista che usa la preghiera come intercalare, fino agli spezzoni di un film incompiuto ambientati nella brulla Sicilia e in studi cinematografici. In mezzo, una partita a scacchi con la Morte di Bergman impersonata da un irresistibile Antonio Rezza – «ma lo sai come si gioca a scacchi, Peppino?» – e l’ascesa ai cieli di San Giuseppe da Copertino, con conseguente caduta. Il film finisce per spolverare ritagli della memoria in un percorso a ritroso che rievoca il sodalizio con Daniele Ciprì, Cinico Tv, Totò che visse due volte, tra materiali d’epoca e ricostruzioni girate per sembrare d’archivio.
Ne viene fuori un film autocelebrativo, sconclusionato, a tratti confuso, che non provoca, ma che riesce comunque a strappare risate – soprattutto nella prima parte – grazie ai suoi personaggi tragicomici. Qui non ci sono la disperazione e gli eccessi taglienti, ruvidi e blasfemi delle opere anni novanta, né l’impatto disturbante del miglior Maresco. In realtà non c’è neanche Carmelo Bene, ed è un peccato. Resta un film che diverte chi sa ridere delle tristezze altrui, ma che alla lunga sfianca. Consigliato solo a chi conosceun minimo l’autore. Per tutti gli altri, astenersi.

Film
Grottesco
Italia
2025
Cinema
venerdì, 5 settembre 2025
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Il grande Lebowski

di Joel ed Ethan Coen

Un capolavoro assoluto, un cult che ha segnato la mia generazione. Uno di quei film che si citano a memoria e che rivedi ogni volta con lo stesso piacere. Insieme a Frankenstein Junior, è probabilmente la commedia a cui sono più legato. Sì, lo so, definirla semplicemente una commedia è riduttivo. In questo film convivono il pulp, il grottesco, il noir e persino il surreale. Sto parlando de Il grande Lebowski, il film del 1998 scritto e diretto da Joel ed Ethan Coen. Accolto in modo tiepido alla sua uscita, negli anni successivi è diventato un vero e proprio cult movie, capace di generare festival, citazioni infinite e persino una filosofia di vita, il "dudeismo".

Jeffrey Lebowski (Jeff Bridges), detto “Il Drugo” — The Dude in originale — non è certo un uomo d’azione. Vive a Los Angeles, si veste con vestaglie consunte,  beve White Russian come fossero acqua e si accontenta di poco: «bowling, un giro in macchina e un trip d’acido quando capita».  La sua vita scorre lenta, almeno finché due scagnozzi non piombano nel suo appartamento, lo scambiano per un altro Lebowski e, per sottolineare il malinteso, gli pisciano sul tappeto. Un tappeto che, come ripeterà più volte, «dava davvero un tono all'ambiente».
Spinto dall’amico Walter (John Goodman), un reduce del Vietnam incline alla collera con cui condivide, insieme all'ingenuo Donny (Steve Buscemi), la passione del bowling, il Drugo decide di chiedere un risarcimento al "Grande" Lebowski (David Huddleston), un ricco filantropo paraplegico. Ma invece di un tappeto nuovo, finirà coinvolto in una storia di rapimento che non gli appartiene, con valigette di denaro che spariscono, nichilisti tedeschi che minacciano di tagliargli "il pisello", e una galleria di personaggi uno più assurdo dell'altro. Tra sogni lisergici sulle piste da bowling, artisti concettuali, e partite che non arrivano mai a conclusione, Il grande Lebowski diventa una parabola comica e surreale su un uomo che non chiede altro che vivere in pace, sdraiato sul suo tappeto ad ascoltare le cassete con i suoni delle piste di boowling.

Partiamo dalla storia, probabilmente, per molti, il punto debole del film. I fratelli Coen prendono la struttura classica del noir hard-boiled — detective riluttante, caso di rapimento, femme fatale, soldi che passano di mano in mano — e la ribaltano in chiave comica e assurda. Più l’intreccio si ingarbuglia, più questa confusione genera la sensazione di una trama che gira a vuoto e non porta da nessuna parte. Eppure è proprio questo folle carosello di situazioni grottesche e surreali a produrre comicità, restituendo l’immagine di un mondo fuori controllo.
Ma la vera forza dirompente di questo film sono i personaggi, interpretati da attori in stato di grazia, squisitamente sopra le righe eppure coerenti nella loro follia. Il Drugo è un “cazzone” pigro, svagato, trasandato, il tipo che sembra essersi alzato dal letto da poco, e che «rispetta un regime di droghe piuttosto rigido per mantenere la mente flessibile». Evita conflitti, accetta il flusso della vita e afferma con placida ironia la sua filosofia. Ma la sua indifferenza non è passività, è una scelta deliberata per mantenere la pace e la propria serenità interiore. Jeff Bridges dà vita a un hippie degli anni novanta, senza un lavoro né ambizioni, ma con una sorprendente fierezza nel restare ai margini. Il Drugo è un anti-eroe pigro e svagato, refrattario a qualsiasi responsabilità, una specie di Homer Simpson in carne e ossa che affronta il fallimento quotidiano con noncuranza, tra un White Russian e una partita a bowling. Più che un perdente, è la caricatura vivente di chi rifiuta le logiche del successo e del consumismo, trovando nella sua indolenza una forma di libertà. Senza dubbio il miglior ruolo della carriera di Bridges, tanto da comparire stabilmente tra i cento personaggi cinematografici più amati di sempre. Accanto a lui troviamo Walter Sobchak, reduce del Vietnam nevrotico e irascibile, pronto a puntare una pistola contro chiunque non rispetti le regole del bowling — «amico mio, stai per entrare in una valle di lacrime». Vive una guerra personale senza fine, giustificando ogni sua azione come morale e riportando ogni discussione, anche la più banale, al trauma post-bellico — «Questo non è il Vietnam, è il bowling: ci sono delle regole». È un personaggio tragicomico. La sua incapacità di adattarsi al presente lo rende commovente, ma anche speventosamente inquietante. Poi c’è Donny, l’anima innocente, sempre zittito da Walter. Steve Buscemi, solitamente logorroico, qui regala un personaggio fatto di silenzi che diventa vittima tragica. Attorno a lui è nata perfino una teoria suggestiva, secondo cui Donny sarebbe morto in Vietnam e la sua presenza nel film sarebbe solo una proiezione mentale di Walter. A sostegno di questa idea viene citato il fatto che Donny e il Drugo non interagiscono quasi mai, e persino la scena delle ceneri — una delle sequenze più esilaranti di tutta la pellicola — sarebbe solo un gesto pietoso del Drugo per assecondare l’amico. Una lettura affascinante, che non fa che alimentare il culto del film.

Oltre al trio di scanzonati perdenti si muove un’intera galleria di personaggi eccentrici, a partire da Jesus Quintana (John Turturro), protagonista di una scena iconica sulle note di “Hotel California” nella versione dei Gipsy Kings; Maude Lebowski (Julianne Moore), artista concettuale e femminista, fredda e spiazzante; Jackie Treehorn (Ben Gazzara), regista porno mellifluo e manipolatore; lo “Straniero” (Sam Elliott), cowboy fuori dal tempo che con le sue bislacche gemme di saggezza tenta di dare un senso alla vicenda — «a volte sei tu che mangi l’orso e altre volte è l’orso che mangia te». Fino ai nichilisti tragicomici, musicisti falliti che hanno inciso un improbabile disco techno-pop con un’estetica alla Kraftwerk.
Un caleidoscopio di personaggi memorabili, ognuno perfettamente delineato, che arricchiscono la trama con deviazioni imprevedibili e sogni lisergici. 

Se proprio bisogna trovargli un difetto, è che dopo una prima parte strepitosa e piena di invenzioni, la seconda metà perde un po’ di slancio e alcune situazioni sembrano un po' forzate, come la relazione tra il Drugo e Maude. Ma non è certo questo a rovinare l’esperienza, Il grande Lebowski è un film che si gusta per i suoi personaggi, per le scene cult, per le battute che restano incollate alla memoria. Non è tanto la trama a contare, quanto l’atmosfera che ti trascina dentro, stando al fianco di quel fancazzista di Drugo trascinato suo malgrado in un vortice di assurdità più grandi di lui. Un film che, in fondo, non ha bisogno di andare da nessuna parte per restare indimenticabile.

«L’oscurità si abbatté su Drugo, più nera del batacchio di un manzo nero in una notte senza luna nella prateria. Non c’era fine.»

Film
Commedia
Grottesco
Noir
USA
1998
Retrospettiva
giovedì, 4 settembre 2025
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Bolero

di Anna Fontaine

I biopic non sono tra i miei generi preferiti, figuriamoci francese e in lingua originale, ma a volte ci si lascia guidare da altri stimoli e si va al cinema con il piacere di condividere l’esperienza.

Bolero è un film diretto da Anne Fontaine che racconta la storia di Maurice Ravel, il famoso compositore francese noto per l'opera che da il titolo al film.

Ambientato nel vibrante contesto parigino degli anni venti, il film segue Ravel (Raphaël Personnaz) nel momento cruciale della sua carriera, quando riceve l’incarico di comporre la musica per un balletto commissionato dalla carismatica Ida Rubinstein (Jeanne Balibar). Compositore geniale ma schivo, segnato da fragilità interiori e da un percorso artistico mai lineare, Ravel nutre un amore tormentato e platonico per Misia (Dora Tillier), donna sposata e musa affascinante.
In un periodo di insicurezza e crisi creativa, Ravel si lascia guidare dalle suggestioni della vita quotidiana, dai suoni e dai ritmi che si ripetono in maniera ossessiva. Dopo molte notti insonni — e un centinaio di sigarette di troppo — nasce una delle opere più iconiche del Novecento: il Bolero, una partitura ipnotica di diciassette minuti, costruita su un tema replicato senza sosta fino a un vorticoso crescendo finale.
Il successo sarà straordinario, ma con il passare degli anni l’ispirazione si affievolirà e una misteriosa malattia cerebrale lo condurrà a un lento declino, chiudendo la parabola di un artista che aveva saputo trasformare l’ossessione in arte immortale.

Terminato il film, prima dei titoli di coda compare un cartello che ricorda come, ogni quindici minuti, da qualche parte nel mondo, qualcuno stia ascoltando o suonando il Bolero. Già nei titoli di testa, attraverso una serie di spezzoni, assistiamo alla sua esecuzione nei modi più disparati. È la conferma di quanto questa composizione, nata un secolo fa, sia entrata a far parte della memoria collettiva, capace di conquistare sia gli appassionati di musica che i non intenditori. Io, per dire, ho ascoltato il Bolero per la prima volta che avevo dieci, undici anni, rovistando tra vecchi vinili di musica classica che conservo ancora oggi. Quel ritmo ipnotico quella melodia che cresce in maniera ripetitiva, mi si è piantato in testa e non ne è più uscita. Una composizione che per i tempi era assai audace.

Tornando al film di Anne Fontaine, si apprezzano l’eleganza della fotografia e la cura scenografica, così come la prova convincente di Raphaël Personnaz. Alcuni dettagli, come gli scorci industriali che evocano le suggestioni sonore da cui Ravel trae ispirazione, funzionano molto bene. I limiti emergono però nei personaggi femminili, poco sviluppati, e in un ritmo che si fa spesso lento e monotono, con lungaggini che appesantiscono la narrazione. La struttura resta quella classica del biopic, ovvero senza particolari guizzi, sussulti o colpi di scena. Anche l’accenno a un Ravel asessuato, forse vicino a un disturbo dello spettro autistico, resta appena suggerito e mai approfondito.

In definitiva, un film elegante ma convenzionale e prevedibile che si guarda e si dimentica in fretta. Ne più nè meno di quello che mi aspettavo.

Film
Drammatico
Biopic
Francia
2024
Cinema
martedì, 2 settembre 2025
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La cura dal benessere

di Gore Verbinski

Ci sono film in cui persino il nome del regista e il cognome della protagonista sembrano contenere un indizio sul genere a cui stai per assistere.
La cura dal benessere è un film del 2016 diretto da Gore Verbinski, — regista noto per il remake americano di The Ring e per alcuni film dei Pirati dei Caraibi — è un thriller psicologico che nel finale sfocia in un horror gotico.

Lockhart (interpretato da Dane DeHaan), un giovane e ambizioso broker di Wall Street, viene inviato dalla sua azienda a recuperare Roland Pembroke, l'amministratore delegato, che si è ritirato in un misterioso centro benessere situato in un castello nelle remote Alpi Svizzere. All'arrivo, Lockhart scopre che il centro è gestito dal dottor Heinrich Volmer (Jason Isaacs), il quale ha sviluppato una "cura" miracolosa che attrae i pazienti a rimanere. Lockhart cerca di portare a termine rapidamente il suo incarico, ma dopo un incidente d'auto si ritrova costretto a soggiornare anche lui nel centro. Qui incontra Hannah (Mia Goth), giovane e misteriosa paziente, e comincia a scoprire i terrificanti segreti del luogo. La "cura" del dottor Volmer si rivela tutt'altro che ortodossa, mettendo a rischio la sanità mentale dello stesso Lockhart.

Il film di Verbinski parte con il passo giusto. All’inizio sembra di trovarsi davanti a un thriller alla Hitchcock, misterioso, carico di tensione, sorretto da scelte registiche e stilistiche di grande impatto, soprattutto sul piano visivo. L’ambientazione gioca un ruolo fondamentale, dalla maestosità dei paesaggi alpini allo splendido castello — si tratta del castello di Hohenzollern in Germania — fino alla freddezza asettica delle sale dell’istituto, capaci di evocare un senso di alienazione che richiama alla mente le atmosfere dello Shining di Kubrik. Alcune sequenze restano particolarmente memorabili, come l’incontro con Pembroke nella sauna, l’immersione nella vasca di deprivazione sensoriale o l’impatto improvviso con il cervo.  Momenti che testimoniano l’abilità registica nel costruire suggestioni inquietanti.
Il problema nasce nell'ultimo atto, quando la storia vira verso un gothic horror ridondante. La sceneggiatura si appesantisce, alcune scelte narrative risultano forzate e la durata eccessiva — il film supera le due ore e mezza — penalizza il ritmo. A mio parere, intere sezioni, come la parentesi alla locanda, avrebbero potuto essere eliminate senza intaccare la trama. Così, nonostante le atmosfere gotiche che strizzano l’occhio a Guillermo del Toro, la tensione costruita nella prima parte si disperde, lasciando spazio a un epilogo che ricorda certi horror degli anni Sessanta. Adoro Corman e Bava, ma visto le premesse mi aspettavo decisamente qualcos'altro.
Sul fronte interpretativo, Dane DeHaan convince nei panni del giovane broker cinico e smarrito, trascinato in un incubo che non riesce più a controllare. Accanto a lui, una Mia Goth agli esordi della sua carriera che incarna con naturalezza un personaggio ambiguo e perturbante, sospeso tra innocenza e oscurità.

La cura dal benessere resta quindi un film affascinante, visivamente potente, ma secondo me, incapace di mantenere fino in fondo le promesse iniziali. Un’opera ambiziosa, che sfiora grandi potenzialità senza riuscire a esprimerle del tutto.

Film
Thriller
Horror
USA
2016
sabato, 30 agosto 2025
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Fuori orario

di Martin Scorsese

Ricordo di aver visto per la prima volta Fuori orario di Martin Scorsese in un vecchio vhs. Un vero colpo di fulmine. Senza ombra di dubbio una delle mie commedie preferite di sempre.
Uscito nel 1985, Fuori orario segna una parentesi insolita nella carriera di Scorsese. Dopo il successo di film drammatici e monumentali, il regista si avventura in una black comedy surreale, fatta di equivoci grotteschi al limite dell'assurdo, ambientata in una New York notturna e labirintica. Inizialmente il film doveva essere diretto da Tim Burton — non oso immaginare agli strambi mostricciatoli che avrebbe messo in scena — ma Scorsese rimase così affascinato dalla sceneggiatura di Joseph Minion che decise di farlo suo. 

Paul Hackett (Griffin Dunne) è un giovane impiegato intrappolato in una routine grigia e prevedibile. Una sera, dopo il lavoro, incontra in un bar una ragazza (Rosanna Arquette) con cui scambia una conversazione piacevole e ottiene il numero di telefono della sua amica, da cui è ospite. Tornato a casa, decide di raggiungerla nel quartiere di Soho, sperando di vivere un’avventura diversa dal solito e di lasciarsi alle spalle, almeno per una notte, la monotonia quotidiana. Ma quello che sembra un appuntamento innocuo si trasforma ben presto in una notte interminabile, segnata da contrattempi assurdi e incontri con personaggi eccentrici. Più Paul cerca di riprendere il controllo e tornare a casa, più si ritrova intrappolato in un vortice grottesco che lo spinge ai limiti della sopportazione.

Pur non venendo considerato tra i film più importanti di Scorsese, Fuori Orario rimane la pellicola a cui sono più affezionato. Ha quasi l’aria di un film indipendente, come se fosse l’opera prima di un regista promettente, ma Scorsese aveva già firmato capolavori come Taxi Driver e Toro Scatenato. Qui si muove su un registro diverso, realizzando una commedia noir grottesca, che si consuma nell’arco di una sola notte, dove un uomo normale si perde in una New York notturna affascinante e spettrale che si trasforma in un labirinto di vicoli ciechi, imprevisti e coincidenze paradossali che lo portano a conoscere personaggi e affrontare una serie crescente di complicazioni, fino a rendere la sua discesa sempre più surreale. Tutto sembra governato dall'imprevisto, è il caso, insieme alle sue scelte sbagliate, a trascinarlo nei guai ed è ancora il caso, beffardo e imprevedibile, a restituirlo infine alla sua normalità.

Griffin Dunne, perfetto nel ruolo del protagonista, interpreta un personaggio profondamente kafkiano — e da adolescente Kafka era tra le mie letture preferite — perseguitato da un destino tanto cinico quanto imperscrutabile, che a un certo punto esplode in strada urlando: “Perché tutto questo proprio a me? Sono un semplice programmatore di computer!”. È la battuta che meglio riassume il cuore del film, la sconfitta dell’uomo comune davanti all’assurdità del mondo.
Con un ritmo incredibile, Scorsese mette in scena un viaggio notturno dove alienazione e assurdità regnano sovrane. È un percorso iniziatico dentro il malessere e l’incomunicabilità di una città popolata da artisti, tassisti, cameriere, punk sadomaso, ladri e suicidi. Un mondo in cui i confini tra sogno e realtà si sfumano continuamente, e in cui l’inquietudine diventa così estrema da risultare esilerante. La forza del film sta proprio lì, nel perfetto equilibrio tra tensione e umorismo, tra incubo e risata.
Per certi versi, la frustrazione di Paul mi ha ricordato quella del protagonista di Brazil di Terry Gilliam — un altro dei miei film preferiti, uscito peraltro nello stesso anno. Due opere diversissime, che hanno un finale diverso ma unite dalla stessa ironia nera.

Un cult, insomma. Uno di quei film che mi rivedo sempre volentieri.

Film
Noir
Grottesco
Commedia
USA
1985
Retrospettiva
venerdì, 29 agosto 2025
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Oculus - Il riflesso del male

di Mike Flanagan

Ho conosciuto e apprezzato Mike Flanagan soprattutto grazie alle serie prodotte per Netflix, in particolare The Haunting of Hill House, che considero una delle serie horror più riuscite degli ultimi anni. Fino a oggi, però, non avevo mai visto i suoi primi lungometraggi. Ho quindi deciso di colmare questa lacuna partendo da Oculus - Il riflesso del male, film uscito nel 2013 tratto da un cortometraggio che lo stesso Flanagan aveva realizzato nel 2006.

La storia ha come protagonisti Tim (Brenton Thwaites) e Kaylie Russell (Karen Gillan), fratello e sorella segnati da un passato traumatico. Dieci anni prima i loro genitori sono stati uccisi e Tim, ancora bambino, è stato ritenuto il responsabile. Dopo un lungo periodo trascorso in un istituto psichiatrico, il ragazzo cerca di lasciarsi tutto alle spalle, ma la sorella non ha mai smesso di indagare. Kaylie è infatti convinta che la tragedia sia legata a un antico specchio maledetto che si trovava nella loro casa d’infanzia. Anni di ricerche l’hanno portata a scoprire una lunga scia di omicidi e sciagure legata all’oggetto, che ora è riuscita a recuperare. Determinata a dimostrarne il suo malvagio potere, convince Tim ad aiutarla in una serie di esperimenti, con l’obiettivo di smascherare la verità.

Oculus è un omaggio al cinema gotico di un tempo, con lo specchio maledetto – oggetto che fin dai miti e dalle fiabe, da Biancaneve alle leggende popolari, ha alimentato l’immaginario come simbolo di verità distorta e presagio di sventura – che diventa il fulcro per raccontare la tragedia di una famiglia precipitata nella follia, in un vortice dove la realtà si confonde con allucinazioni e incubi.
Uno degli elementi più riusciti è la struttura temporale, che intreccia passato e presente fino a sovrapporli, trasformando la casa in uno spazio mentale abitato da memorie e presenze. Il ritmo è ben calibrato, con tensione crescente e poche concessioni a jumpscare o splatter, sostituiti da un’atmosfera costante di disagio.
Meno incisivo il cast, con le interpretazioni dei due giovani protagonisti che non restano impresse e il padre che scimiotta un po' troppo il Jack Torrence di Shining. Sicuramente meglio la madre "animalesca".
Il finale, amaro ma in parte prevedibile, suggella la sovrapposizione tra presente e passato, coerente con il percorso del film. Oculus non è destinato a entrare nel novero dei classici dell’horror contemporaneo come Sinister o The Conjuring, ma resta un’opera solida che, pur con qualche ingenuità legata all’esordio e al budget limitato, riesce a distinguersi e a centrare i suoi obiettivi.

Film
Horror
USA
2013
mercoledì, 27 agosto 2025
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1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man)

di Boris Sagal

Io sono leggenda di Richard Matheson è uno dei grandi classici della fantascienza, un romanzo che oggi molti associano soprattutto al film del 2007 con Will Smith, dove il protagonista vaga di giorno per le strade deserte di Manhattan insieme al suo cane e di notte si rifugia per sfuggire a orde di creature vampiresche. Ma molto prima di quella versione, il libro aveva già avuto altre trasposizioni cinematografiche, la prima nel 1964 con L’ultimo uomo sulla Terra, e poi nel 1971 con The Omega Man, diretto da Boris Sagal e distribuito in Italia con il titolo 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra.

Oggi parliamo proprio di questo film. Una produzione hollywoodiana che vede come protagonista Charlton Heston, vera e propria icona dell’epoca, al tempo da poco reduce da un film destinato a entrare nella storia del cinema di fantascienza, Il pianeta delle scimmie.

Il film è ambientato in un futuro distopico – in realtà non troppo lontano, visto che tra l’anno di produzione e quello in cui si svolge la vicenda c’è uno scarto di appena pochi anni – in cui una guerra batteriologica tra Russia e Cina ha generato una terribile pandemia. La maggior parte della popolazione è morta, mentre i sopravvissuti si sono trasformati in creature pallide e fotofobiche, ostili alla luce del sole e animate dall’odio verso la civiltà tecnologica che li ha condotti alla rovina.
In questo scenario troviamo Robert Neville, ex scienziato militare, unico immune al contagio grazie a un vaccino che stava sperimentando. Convinto di essere l’ultimo uomo rimasto, trascorre le giornate vagando per una Los Angeles desolata, armato di mitraglietta, alla ricerca di provviste e di un fragile equilibrio contro la solitudine. La notte, invece, è costretto a barricarsi nel suo appartamento per respingere gli assalti dei mutati, guidati dalla figura fanatica del loro capo Matthias, che lo considera il simbolo di un mondo da cancellare.
Un giorno, però, Neville incontra Lisa, una donna misteriosa che sembra spezzare l’incubo dell’isolamento e accendere una nuova speranza.

Il film funziona soprattutto nella sua prima parte, con un Charlton Heston in gran forma che regge da solo la scena in una città deserta, combattendo contro il male e contro l’alienazione della solitudine. Con l’entrata in scena dei mutati – rappresentati come una congregazione dai tratti quasi grotteschi – il racconto prende una piega meno convincente. Da qui in avanti emergono ingenuità, sia narrative che tecniche, che vanno comunque contestualizzate al periodo, ma che finiscono per alleggerire la tensione. Anche la storia d’amore forzata tra i due protagonisti e il finale – diverso dal romanzo – che punta su un messianismo retorico e un po’ ridondante, non mi ha per niente convinto.
Altro elemento assai debole è la colonna sonora di Ron Graine. Invadente e a tratti persino kitsch, più adatta a un poliziesco che a un film di fantascienza.

1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra resta un titolo curioso, con qualche spunto legato al clima sociale e politico dei primi anni Settanta, ma nel complesso appare invecchiato male. Da vedere solo per curiosità e per i cultori del genere post-apocalittico dell'epoca.

Film
Fantascienza
Distopia
USA
1971
martedì, 26 agosto 2025
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Humane

di Caitlin Cronenberg

Esordio alla regia per Caitlin Cronenberg, figlia del celebre David e sorella di Brandon. Se papà ha legato il suo cinema al corpo e alle sue ossessioni e il fratello ha deciso di seguirne le orme più da vicino, Caitlin sceglie di guardare altrove. Con Humane - film arrivato da noi direttamente su Sky e Now - la “piccola” Cronenberg debutta con un thriller distopico, una black comedy dal taglio sociale, cinica e grottesca.

La storia si svolge in un futuro prossimo segnato dal collasso climatico e dal sovrappopolamento. Per affrontare la crisi, i governi hanno introdotto un programma di eutanasia volontaria che offre denaro alle famiglie di chi sceglie di sacrificarsi per il bene comune. Un sistema che finisce per colpire soprattutto i più poveri, costretti ad accettare l’iniezione letale.
In questo scenario, Charles York (Peter Gallagher), ex conduttore televisivo dell'alta borghesia, invita nella sua elegante villa i quattro figli per annunciare la sua iscrizione al programma insieme alla seconda moglie Dawn, una chef giapponese molto nota. L'intenzione è quella di dare il buon esempio e uscire di scena onorevolmente, ma la notizia non viene accolta bene dai figli, complice un rapporto non proprio idilliaco con il padre. La situazione precipita quando, terminata la cena, Dawn pensa bene di darsi alla fuga, lasciando Charles da solo davanti al funzionario governativo incaricato di completare la pratica. Dopo l’eutanasia del capofamiglia, il "simpatico" funzionario informa la famiglia che, per legge, un secondo corpo deve comunque essere consegnato. Entro poche ore, devono decidere chi tra loro accetterà di morire al posto della moglie scomparsa.

Ovviamente i quattro fratelli, ognuno più inetto e insopportabile dell’altro, finiscono per scannarsi in un tutti contro tutti, diventando caricature di una società convinta che soldi e privilegi siano scudi sufficienti contro un pianeta al collasso. Peccato che là fuori non si può più vivere alla luce del sole, il cibo scarseggi e l’acqua sia razionata. Una società che paga il prezzo di non aver preso in tempo decisioni preventive e che ora, per sopravvivere, ricorre a un programma di eutanasia che colpisce soprattutto le fasce più deboli — detenuti, immigrati, emarginati.
Dal punto di vista stilistico, Humane ha una regia pulita e misurata, un buon montaggio e ritmo. Tra i personaggi spicca l’addetto all’eutanasia, particolarmente riuscito nella sua ambiguità.
Nonostante il finale forse si perda in qualche passaggio confuso, e non ci siano particolari colpi di scena, Humane resta una commedia nerissima, caustica e spietata, che sa unire ironia e denuncia sociale, tenendo lo specchio ben puntato su un presente che non ha bisogno di molta immaginazione per diventare futuro.

Film
Thriller
Canada
2024
sabato, 23 agosto 2025
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L'uomo invisibile (1933)

di James Whale

Nel 1933 la Universal, intenzionata a proseguire il successo dei suoi mostri cinematografici, porta sullo schermo L'uomo invisibile, tratto dal romanzo di H.G. Wells, considerato da molti il padre della fantascienza. Alla regia viene chiamato James Whale, già celebre per Frankenstein, ma reduce dallo sfortunato Il castello maledetto.

La storia riprende in gran parte le vicende del libro, introducendo un enigmatico straniero che, con il volto coperto da bende e grandi occhiali scuri, prende alloggio in una locanda di un piccolo villaggio del Sussex. È il dottor Jack Griffin, scienziato che, sperimentando su se stesso, ha scoperto una formula capace di renderlo invisibile. Ma l’esperimento, invece di consacrarlo alla gloria, lo conduce a un progressivo squilibrio mentale, trasformando il suo segreto in un incubo. Mentre le autorità tentano di catturarlo e i suoi cari di ricondurlo alla ragione, Griffin sprofonda in deliri di onnipotenza e in una fuga che semina paura e smarrimento.

Rispetto al romanzo, il film introduce il personaggio di Flora, fidanzata di Griffin, e attribuisce la sua follia agli effetti della “monocaina”, la sostanza che lo rende invisibile, mentre nell’opera di Wells lo scienziato era già descritto come instabile e ossessionato. Anche il finale subisce un cambiamento. Mentre nel libro Griffin viene sopraffatto e ucciso dalla folla, in modo più crudo e caotico, nel film, la conclusione assume toni melodrammatici, con un momento di pentimento che si inserisce bene nella poetica horror della Universal. Lo stesso Wells apprezzò l’adattamento, ritenendo le modifiche funzionali alle esigenze cinematografiche.
Dal punto di vista tecnico colpiscono gli effetti speciali. Oggi rendere un personaggio invisibile può sembrare semplice, ma negli anni trenta fu una sfida straordinaria. Per realizzare le scene in cui Griffin appare parzialmente invisibile furono necessarie riprese multiple, sovrapposte con grande ingegno, che ancora oggi sorprendono per efficacia.
Il film mantiene un ottimo ritmo, alternando momenti di tensione e passaggi più leggeri. Nonostante il volto sia celato per quasi tutta la durata del film, Claude Rains, l'attore che interpreta l'Uomo Invisibile, offre una performance memorabile basata su gestualità e soprattutto sulla voce, che diventa il suo strumento espressivo più potente. Divertente anche la padrona della locanda, che con i suoi isterici attacchi di panico aggiunge un tocco di comicità all’atmosfera cupa.

Un classico senza tempo del cinema fantastico, che conquistò il pubblico dell’epoca e diede vita a numerosi seguiti. 

Film
Thriller
Fantastico
USA
1933
giovedì, 21 agosto 2025
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Dangerous Animals

di Sean Byrne

Fin dai tempi del capostipite del genere, Lo Squalo di Steven Spielberg, i grandi predatori marini con dentature affilate sono diventati un nemico naturale dell’uomo che osa sfidare le profondità dell’oceano. Ovviamente si tratta di un mito soprattutto cinematografico, perché nella realtà le zanzare fanno più vittime degli squali, ma sul grande schermo pungiglioni e ronzii hanno meno fascino delle mascelle spalancate, ed è per questo che i film dedicati agli insetti si contano sulle dita di una mano.

Dangerous Animals, diretto dall’australiano Sean Byrne, si inserisce in questa tradizione con un approccio ibrido, a metà tra survival horror e lo slasher. Perché il vero pericolo non arriva soltanto dal mare, ma da un serial killer ossessionato dagli squali, che rapisce le sue vittime per gettarle in pasto ai predatori, riprendendo ogni dettaglio delle loro agonie con una vecchia telecamera in vhs.

La storia è semplice. La protagonista è Zephyr (Hassie Harrison), surfista dal passato turbolento e dallo spirito ribelle, che dopo una notte di passione con un ragazzo di nome Moses (Josh Heuston) finisce nelle mani di Tucker (Jai Courtney), un folle omicida che si diverte ad attirare giovani vittime sulla sua barca per sacrificarle agli squali. Intrappolata in mare aperto, Zephyr si trova a lottare con tutte le sue forze per sopravvivere, tra bagni di sangue, fughe disperate e la costante minaccia delle acque che la circondano.

Dangerous Animals è il classico horror estivo che fa il suo dovere, ovvero intrattiene con buon ritmo e una tensione costante. Sean Byrne, regista noto per un paio di film interessanti, rilegge il genere dello shark-movie spostando il centro della paura dagli squali all’essere umano, trasformando i predatori marini in semplici strumenti nelle mani di un serial killer ossessionato dalla violenza.
La sceneggiatura non è priva di forzature, a tratti persino ridicole, ma il film funziona esattamente per ciò che promette: tensione, adrenalina e quel divertimento ansiolitico tipico del cinema di genere. Hassie Harrison, al suo primo ruolo di rilievo, si impone come una "final girl" carismatica e combattiva, quasi una Jennifer Lawrence in versione Rambo, con una resistenza fisica che diventa metafora della sua determinazione. Sul fronte opposto Jai Courtney, volto già noto in alcuni action-movie, dà vita a un maniaco rozzo, spietato e sottilmente ironico, risultando credibile e disturbante al tempo stesso.
Il confronto tra i due protagonisti regge l’intero film, con un continuo capovolgimento dei ruoli di predatore e preda, mentre gli squali restano sullo sfondo, più che altro come elementi naturali di un rituale di morte. Nonostante i limiti di scrittura, l’idea di intrecciare la figura del serial killer al mito degli squali funziona, regalando un thriller che, senza reinventare nulla, riesce comunque a intrattenere e inquietare.

Film
Horror
USA
2025
mercoledì, 20 agosto 2025
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Io ti salverò - Spellbound

di Alfred Hitchcock

Io ti salverò, conosciuto all'estero come Spellbound, è uno dei film più conosciuti di Alfred Hitchcock tra quelli più datati. Spesso riproposto in televisione, il regista lo descrisse come un’opera pionieristica, perché tra i primi film a portare sul grande schermo il tema della psicoanalisi, intrecciandolo con il suo tipico gusto per il mistero e la suspense.

La dottoressa Constance Petersen (Ingrid Bergman) lavora come psicoanalista in una clinica privata. Quando il direttore va in pensione, il suo posto viene affidato al dottor Anthony Edwardes (Gregory Peck), un giovane affascinante che cattura subito l’attenzione di Constance. Ben presto, però, il nuovo primario comincia a manifestare strani comportamenti e la donna, ormai innamorata di lui, inizia a sospettare che non sia davvero chi dice di essere. L’uomo confessa di aver preso il posto del vero Edwardes dopo averlo ucciso, ma ammette di non ricordare nulla della propria identità, vittima di una grave amnesia dissociativa. Una misteriosa fobia lo perseguita: ogni volta che vede righe scure su sfondo bianco è colto da svenimenti e terrore. Schiacciato dal senso di colpa e dalla paura, fugge dalla clinica, ma Constance, convinta della sua innocenza, lo segue, e con l’aiuto del suo ex professore di psicoanalisi, il Dr. Brulov, decide di affrontare i fantasmi nascosti nella sua mente per scoprire la verità e smascherare il vero assassino.

Rivedere oggi Io ti salverò, a ottant’anni dall’uscita, è inevitabile che il film porti addosso i segni del tempo. Lo si nota soprattutto nel modo in cui viene trattata la psicoanalisi, disciplina allora ancora giovane ma già di moda. Tralasciando il fatto che una relazione sentimentale tra terapeuta e paziente sarebbe inammissibile, nel film appaiono poco convincenti sia le spiegazioni psicoanalitiche, sia la rapidità con cui il protagonista sembra guarire, sia le deduzioni ricavate dal sogno. Il tutto viene raccontato in maniera un pò didascalica, con un’eccessiva semplificazione. Hitchcock concentra l’intera vicenda sul trauma infantile e sul senso di colpa, temi ricorrenti della sua poetica, quasi che non esistesse altro all’interno della storia. Ne risulta una sceneggiatura debole, sorretta da una storia d’amore che appare piuttosto forzata. Davvero, per quanto si possa accettare l’“incanto” evocato dal titolo originale, rimane difficile credere all’innamoramento fulmineo della Bergman per un uomo colpito da amnesia e sospettato di omicidio. Non a caso, anche Truffaut, nella celebre intervista-monumento al regista, definì il film deludente.

La tensione, soprattutto nella prima parte, stenta a decollare, mentre il coinvolgimento emotivo nei confronti dei personaggi rimane limitato. Gregory Peck, qui quasi agli esordi, convince poco nel ruolo dello smemorato, mentre Ingrid Bergman, pur sempre affascinante e intensa, appare a tratti troppo imprigionata in un ruolo da "dottoressa premurosa". Bella invece la colonna sonora, vincitrice dell’Oscar, con un tema che resta facilmente impresso nella memoria.

Sul piano visivo, però, Hitchcock non tradisce la sua cura per i dettagli. L’uso delle soggettive e l’attenzione alla messa in scena donano al film momenti di autentico fascino. Tra le sequenze più memorabili spiccano il finale con la pistola che si rivolge direttamente verso lo spettatore e, naturalmente, il sogno ideato da Salvador Dalí. Il maestro del surrealismo, che aveva già collaborato con Buñuel in Un chien andalou e L’âge d’or, concepì per il film un sogno con ambienti spigolosi e visionari, tende che si aprono su paesaggi infiniti, occhi giganteschi che osservano da ogni lato, carte da gioco bianche, figure inquietanti. L’obiettivo era restituire la logica straniante e paradossale del sogno, ben lontana dalle rappresentazioni convenzionali dell’epoca.

Non siamo di fronte a uno dei capolavori del Maestro, ma Io ti salverò conserva comunque un fascino particolare, fatto di dettagli visivi, intuizioni formali e suggestioni oniriche che lo rendono un film ancora capace di incuriosire lo spettatore.

Film
Thriller
Giallo
Alfred Hitchcock
USA
1945
Retrospettiva
martedì, 19 agosto 2025
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Primo Amore

di Matteo Garrone

Dopo il successo de L’imbalsamatore, che lo aveva imposto all’attenzione della critica come una delle voci più originali del nuovo cinema italiano, Matteo Garrone nel 2004 torna alla regia con Primo amore. Un titolo che potrebbe suggerire una storia sentimentale convenzionale ma che, al contrario, si ispira invece a un fatto di cronaca realmente accaduto alla fine degli anni novanta, narrato dal protagonista stesso nel libro "Il cacciatore di anoressiche".

La storia vede come protagonista Vittorio (Vitaliano Trevisan), un orafo vicentino, che incontra Sonia (Michela Cescon) ad un appuntamento al buio in una stazione degli autobus. La prima frase che pronuncia Vittorio è "ti immaginavo più magra". Nonostante il campanello di allarme e i dubbi sulla possibilità di riuscita del loro rapporto, i due iniziano a frequentarsi. Vittorio è attratto dalla dolcezza e l'intelligenza della ragazza ma è ossessionato dalla magrezza, il suo ideale di donna deve avere un corpo scheletrico. Sonia sembra essere attratta dal suo lato oscuro e sebbene percepisca qualcosa di dissonante in lui, accetta di dimagrire, quasi come un atto d’amore.
Quello che sembra un semplice sacrificio affettivo si trasforma gradualmente in una prigionia fisica. I due vanno a vivere insieme e Vittorio inizia a sorvegliare ossessivamente il peso di Sonia, imponendo regole di controllo estremo e nascondendole il cibo. Sonia smette di riconoscersi, vede il proprio corpo consumarsi e scivola in un incubo di deperimento e autodistruzione.

Primo Amore è la storia di due solitudini che si incontrano e si consumano dentro un’ossessione. Da un lato c’è un uomo malato, possessivo e violento, incapace di vivere un sentimento se non attraverso il controllo, dall’altro una donna fragile, che si lascia trascinare in una spirale di sottomissione psicologica fino a perdere se stessa. Dimagrendo, Sonia non perde soltanto il corpo ma anche la vitalità, l’identità e i luoghi affettivi che la definivano.
Il cuore del film sta proprio nel tentativo disperato di cambiare l’altro, di piegarlo a un ideale, di plasmarlo come fosse materia grezza. Non è un caso che Vittorio sia un orafo: la bilancia, la precisione maniacale e la ricerca della perfezione diventano simboli di un amore trasformato in ossessione. È così che il rapporto si fa lentamente perversione psicologica. Vittorio domina Sonia attraverso il controllo del corpo, mentre lei oscilla tra il desiderio di essere ammirata e quello di scomparire, divisa tra masochismo e bisogno di riconoscimento.

Molto brava la prova di Michela Cescon, che si è sottoposta pure ad un dimagrimento di quindici chili. Più debole la prova di Vitaliano Trevisan, che ha preso parte con Garrone alla sceneggiatura. Comprendo che il suo personaggio deve essere volutamente cupo e poco comunicativo, ma i suoi dialoghi sono spesso al limite del comprensibile, e non è tanto per il dialetto veneto. Sono biascicati, borbottii, confusi con i rumori di fondo. Magari sarà stata una scelta pure voluta ma io l'ho trovata penalizzante. Per la cronaca Trevisan pare avesse dei disturbi psichici e si è suicidato nel 2022.
Passando alla regia, Garrone dirige con uno stile sobrio e implacabile, fatto di inquadrature statiche e ambienti spogli che trasmettono claustrofobia. Molto belle alcune sequenze, come quella con i volti dei protagonisti sfocati, ridotti a fantasmi, mentre il resto che li circonda è perfettamente distinguibile, oppure la cena al ristorante dai toni grotteschi - ripresa da un episodio realmente accaduto, ma mache l’allucinazione delle cipolle scambiate per cosce di pollo, fino alla scena con Sonia, nuda e scheletrica, contro la parete della cantina. Una immagine che richiama drammaticamente il ricordo di un lager.

Primo Amore è un film cupo e disperato, girato con uno stile iperrealistico e personale, tratta un tema delicato senza essere troppo eccessivo.

Terminata la visione, ho voluto approfondire la vicenda reale di Marco Mariolini recuperando su YouTube la puntata di Storie maledette in cui Franca Leosini lo intervista in carcere.
Un documento agghiacciante che amplifica ancora di più la sensazione di disagio lasciata dal film.

Film
Drammatico
Noir
Italia
2004
lunedì, 18 agosto 2025
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Amore e guerra

di Woody Allen

Amore e guerra è l'ultimo film della prima fase cinematografica di Woody Allen, quella più leggera e demenziale, segnata da gag parodistiche, ritmo slapstick e comicità surreale. È un capitolo che chiude il periodo della commedia nosense, poco prima che Allen intraprenda una direzione più matura e sofisticata.

Il film è ambientato nella Russia del XIX secolo. Il protagonista, Boris Grushenko (Woody Allen), è un giovane codardo, intellettuale e pacifista, che si ritrova suo malgrado coinvolto nelle guerre napoleoniche. Più incline alla filosofia che alle armi, Boris attraversa situazioni paradossali che lo trasformano, suo malgrado, in protagonista di vicende epiche e grottesche. Innamorato della sua cugina Sonja (Diane Keaton), una donna brillante e pungente, dopo essere riuscito a ottenere la sua mano in matrimonio, sopravivendo sorprendentemente a un duello, Boris pur riluttante, accetta di aiutarla ad assassinare Napolene dopo che l’imperatore francese ha invaso la russia.

Tra riflessioni esistenziali e gag surreali, il film è una parodia della Russia ottocentesca e della letteratura russa, con citazioni da Dostoevskij e Tolstoj e omaggi a Ingrid Bergman o alla Corazzata Potemkin. 
Apparentemente potrebbe sembrare una stramba commedia storica, ma sotto la superficie emerge l’inquietudine esistenziale del regista e la paura della morte, già evidente nel titolo originale Love and Death.
Non tutto è perfetto, alcune scene risultano ridondanti, ma il film diverte con alcune scene che restano memorabili, come il padre con la zolla in mano e i dialoghi filosofici che trasformano i capolavori dostojevskiani in gag irresistibili. Buona la cura nei costumi e nelle scenografie e brava Diane Keaton, stralunata e brillante. L'affiatamento con Allen è già palpabile e sarà destinato a maturare in Io e Annie, dove l’umorismo si intreccerà con riflessioni esistenziali e malinconiche.

Film
Commedia
USA
1975
domenica, 17 agosto 2025
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Nymphomaniac

di Lars von Trier

Nymphomaniac, il film scritto e diretto da Lars von Trier nel 2013, che insieme ad Antichrist e Melancholia conclude la cosidetta "trilogia della depressione", è un film decisamente impegnativo. Sia per la durata, il tema e la messa in scena.
Presentato al Festival di Berlino 2014 e poi alla Mostra di Venezia, il film, a causa della sua lunghezza (all'incirca quattro ore) è stato diviso in due pellicole distinte e proiettato nelle sale con diversi tagli. Successivamente è stato distribuito, in DVD e BlueRay, la director's cut, la versione definitiva voluta dal regista danese, sempre divisa in due film, ma della durata complessiva di circa cinque ore e mezza.
Io, ovviamente, mi sono visto la versione definitiva. La versione dove, oltre ai dialoghi nella loro interezza, ci sono le scene di sesso, che tanto hanno fatto scalpore e scandalo, mostrate in modo esplicito.

Diviso in otto capitoli più un epilogo, Nymphomaniac è la storia di Joe (interpretata da Charlotte Gainsbourg), una donna che si definisce "ninfomane". Ritrovata in un vicolo, sanguinante e piena di contusioni dal vecchio Seligman (Stellan Skarsgård), accetta di essere portata a casa dell'uomo per farsi curare. Tra una tazza di tè e un letto in cui riposare, Joe decide di confidargli la sua vita, iniziando dal periodo giovanile (interpretata da Stacy Martin). Nel lungo racconto emergono le prime esperienze sessuali, i rapporti compulsivi e le relazioni emotivamente distaccate, in un percorso che ripercorre la sua evoluzione erotica fin dall’infanzia.

Dopo l’horror di Antichrist e la fantascienza apocalittica di Melancholia, con Nymphomaniac Lars von Trier affronta il tema della pornografia. Ma attenzione, non si tratta di un film pensato per suscitare eccitazione. Le scene di sesso, pur esplicite e con i genitali in primo piano, non hanno nulla di seducente o invitante. Sono atti compulsivi, freddi, quasi meccanici, più vicini a una fame bulemica che a un piacere condiviso. Von Trier utilizza il sesso come strumento narrativo e provocatorio, un’esca per attirare lo spettatore, così come il pescatore fa con i pesci. E lo fa con una consapevolezza calcolata, basti pensare alla campagna promozionale del film, con i poster degli attori ritratti nel momento dell’orgasmo, che generò scandalo e curiosità in parti uguali.
Le scene più spinte – amplessi con doppia penetrazione, fellatio, sadomasochismo – non sono state girate dagli attori principali. Come ha spiegato al tempo la produttrice Louise Vesth, questi simulavano i rapporti, mentre le controfigure (probabilmente degli attori porno) li eseguivano realmente. In fase di montaggio, grazie alla post-produzione digitale, i due materiali venivano fusi in un’unica immagine.
Tolte le scene di sesso, che rientrano nella narrazione e che dopo un pò passano in secondo piano, la scena che mette davvero alla prova lo spettatore è probabilmente quella dell’aborto autoindotto da Joe, girata senza filtri né anestesia. Una sequenza cruda e disturbante, reso ancora più insostenibile dagli inserti radiografici. È uno dei tanti esempi di come Von Trier porti il corpo femminile al limite, privandolo di qualsiasi grazia per mostrarne la sofferenza e la disperazione.

Al di là delle provocazioni, il film è un’esplorazione cupa e spietata della sessualità femminile, decisamente al negativo. Joe si racconta senza filtri, svelando un percorso segnato da alienazione, dolore e incomprensioni. È anaffettiva, egoista, crudele. Rifiuta l’amore considerandolo una debolezza, un ostacolo al desiderio. Non a caso, con Jerome – l’uomo più importante della sua vita, da cui avrà una gravidanza indesiderata – non riesce a provare orgasmo. Ciò che sperava fosse una cura alla depressione si rivela invece la malattia stessa: il sesso come dipendenza, come voragine che alimenta frustrazione e insoddisfazione. Da qui la deriva verso esperienze sempre più estreme, fino al coinvolgimento nella criminalità.
Seligman, il suo interlocutore, rappresenta l’altra faccia, quella più razionale e logica. Ascolta con calma, interviene con divagazioni filosofiche, religiose, matematiche. Paragona la vita di Joe a Bach, ai numeri di Fibonacci, al fly fishing, cercando sempre un appiglio razionale che gli permetta di assolverla, di ricondurre il caos a un ordine che in realtà non esiste.

Sul piano tecnico, Von Trier alterna cinepresa a mano, split screen, bianco e nero, sovrimpressioni, costruendo un linguaggio visivo frammentato ma coerente. A risaltare è soprattutto la direzione degli attori. Charlotte Gainsbourg offre una prova intensa, mentre Stacy Martin porta sullo schermo la fase giovanile di Joe con sorprendente naturalezza. Tra i comprimari spiccano Uma Thurman in una scena memorabile, otto minuti di pura disperazione nei panni di una moglie tradita, e Christian Slater nel ruolo del padre di Joe. Accanto a loro Shia LaBeouf che interpreta Jerome, Jamie Bell, Connie Nielsen, una giovanissima Mia Goth alla sua prima esperienza cinematografica, e l’immancabile Willem Dafoe. Un cast internazionale, eterogeneo e sorprendentemente compatto.

Arrivati alla fine di questa maratona, resta la sensazione di aver assistito a un film ambizioso, imperfetto, sfrontato. Nymphomaniac è politicamente scorretto, la protagonista viene descritta come una donna moralmente riprovevole, e il sesso non è mai liberazione ma malattia. Non stupisce che Von Trier sia stato accusato di misoginia, ma al tempo stesso bisogna riconoscergli il coraggio di spingersi oltre i confini del cinema, sfidando lo spettatore. In fondo, più che sul sesso, Nymphomaniac è un film sull’isolamento e la solitudine. Il finale, che capovolge il ruolo di Seligman, non offre alcuna redenzione. Un pugno nello stomaco che ti lascia senza fiato.
È un’opera che non lascia indifferenti. Disturbante, spietato, a tratti respingente, ma capace di imprimersi con forza. Nel bene e nel male.

Film
Drammatico
Erotico
Danimarca
2013
sabato, 16 agosto 2025
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Chiamami col tuo nome

di Luca Guadagnino

Chiamami col tuo nome (nel mercato internazionale conosciuto come Call Me by Your Name) è un film del 2017 diretto da Luca Guadagnino. Tratto dall'omonimo romanzo di André Aciman e sceneggiato da James Ivory, il film ha vinto numerosi premi internazionali tra cui l'oscar per la migliore sceneggiatura non originale.

Ambientato nell’estate del 1983, tra le campagne di Brescia e Bergamo, il film racconta di Elio (Timothée Chalamet), diciassettenne sensibile e riflessivo che trascorre le vacanze nella villa di campagna della sua famiglia. L’arrivo di Oliver (Armie Hammer), affascinante e spigliato dottorando americano ospite di suo padre, professore di archeologia, rompe l’equilibrio di quell’estate tranquilla. Tra lunghe passeggiate in bici, bagni nel lago, conversazioni colte e tensioni erotiche, tra i due nasce un legame profondo e irripetibile.

Chiamami col tuo nome racconta un amore estivo tra un diciassettenne e un ventiquattrenne — anche se Chalamet sembra uscito dalle medie e Hammer un trentenne — e parla di desiderio e memoria, di quell’attimo in cui l’amore ti piomba addosso e, proprio perché dura poco, resta scolpito nei ricordi. Il film mi ha ricordato molto Ballo da sola di Bertolucci, con l’unica differenza che qui si narra di un rapporto omosessuale. Certo, non è un dettaglio da poco, ma tolto questo rimane una storia d’amore semplice, quasi ingenua, e la solita difficoltà di viverla alla luce del sole, destinata a chiudersi con la fine dell’estate. Insomma, niente lieto fine e tanta malinconia.
Dal punto di vista tecnico il film è impeccabile, con grande cura del dettaglio, belle sequenze dei paesaggi bergamaschi, e tutti gli ingredienti di quel cinema "costruito" per piacere, soprattutto all’estero. Peccato che io, dopo venti minuti, stessi già guardando l’orologio. Lento, lunghissimo, con una rappresentazione della famiglia borghese da Mulino Bianco — tutti sorridenti, comprensivi, carini ed educati — e un finale che dovrebbe commuovere, ma che ho trovato buonista e un po’ furbo. In questo film nessuno litiga, nessuno sbaglia, nessun’ombra. Anche la tipa che viene scaricata da Elio alla fine si rifà viva per diventare sua amica. Le scene erotiche sono molto edulcorate e persino la “famosa” scena della pesca — che Guadagnino voleva pure tagliare — alla fine è appena accennata e non si conclude.
Chiariamoci, il film è confezionato benissimo. I premi e gli applausi della critica non arrivano per caso. La colonna sonora funziona (e non solo per il brano di Sufjan Stevens), Chalamet è davvero bravo, l’ambientazione è affascinante, con i borghi antichi e la ricostruzione curata degli anni ottanta, e l’atmosfera estiva italiana, con cicale e tempi dilatati, è resa benissimo. Solo che, a me,  non mi ha lasciato nulla. Probabilmente è un tipo di cinema distante dai miei gusti ma ho come il sospetto che, se la storia d’amore non fosse stata tra due ragazzi, questo film non avrebbe avuto la stessa risonanza. 
Ho trovato questo film buonista, retorico, forzatamente inclusivo e profondamente noioso. Ma sono molti che lo reputano un capolavoro.

Film
Drammatico
sentimentale
Italia
2017
giovedì, 14 agosto 2025
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La guerra lampo dei Fratelli Marx

di Leo McCarey

Tra i grandi miti dell’età d’oro della comicità hollywoodiana si citano spesso Charlie Chaplin, Stan Laurel e Oliver Hardy o Buster Keaton, ma raramente i Fratelli Marx. Li ho sempre sentiti nominare, eppure devo ammettere di conoscerli poco. Per chi, come me, è cresciuto leggendo fumetti, il personaggio di Groucho Marx è forse più familiare nella sua versione di spalla geniale di Dylan Dog che non sul grande schermo. Eppure, nonostante la fama, non avevo mai visto uno dei loro film. Ho quindi deciso di colmare questa lacuna recuperando La guerra lampo dei Fratelli Marx, uscito nel 1933 e noto anche come Zuppa d’anatra, traduzione letterale del titolo originale Duck Soup.

I Fratelli Marx sono Groucho, Harpo, Chico e Zeppo. Quattro fratelli che, tra gli anni venti e quaranta, hanno portanto dal vaudeville al cinema un umorismo caotico, surreale e critico nei confronti dell'autorità. Groucho con la sua parlantina e le battute era la lingua affilata e irriverente, Harpo il clown muto imprevedibile che comunicava solo con gesti, Chico, con il suo finto accento italiano, era il truffatore dal cuore buono, Zeppo la spalla “normale”.

La guerra lampo dei Fratelli Marx è forse il loro film più politico e beffardo, un concentrato di gag memorabili e frecciate contro il nazionalismo e l’assurdità della guerra, uscito qualche anno prima che il mondo scivolasse verso la Seconda Guerra Mondiale.

Di seguito la sinossi del film. Nello stato immaginario di Freedonia, sull’orlo del fallimento, la facoltosa signora Teasdale accetta di concedere un prestito solo se alla guida del paese verrà nominato Rufus T. Firefly (Groucho Marx). Il nuovo presidente, eccentrico e imprevedibile, scatena subito il caos. Intanto la confinante Sylvania invia due spie, Chicolini (Chico Marx) e Pinky (Harpo Marx), per destabilizzare il governo, ma i loro piani si ribaltano in situazioni sempre più assurde. Tra equivoci, gag e dialoghi fulminanti, la tensione degenera fino a una guerra tanto ridicola quanto irresistibile.

La guerra lampo dei Fratelli Marx è un concentrato di satira, follia e nonsense che smaschera l’assurdità della guerra e dei giochi di potere. Pur potendo sembrare datato, conserva un fascino retrò che richiama l’operetta teatrale. Per coglierne appieno la verve sarebbe ideale vederlo in lingua originale, poiché molte battute di Groucho si basano su doppi sensi che nella traduzione si perdono. Memorabile la scena dello specchio, da sola vale mezzo film. La pellicola irride gli stati totalitari e non sorprende che negli anni trenta sia stata proibita in Italia e Germania. Da noi arrivò solo nel 1972, direttamente in televisione, con un doppiaggio realizzato per l’occasione. Rivedendolo oggi si percepisce chiaramente quanto registi come Woody Allen (soprattutto per Groucho) e Mel Brooks gli siano debitori. Negli anni Novanta l’American Film Institute lo ha inserito tra i migliori cento film statunitensi di sempre.

Film
Commedia
USA
1933
mercoledì, 13 agosto 2025
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Weapons

di Zach Cregger

Sono andato al cinema a vedere Weapons, il nuovo film scritto e diretto da Zach Cregger, lo stesso regista di Barbarian (che, ammetto, non ho ancora recuperato). Un horror che attraversa il mistery e il thriller, passando per il sovrannaturale, la tensione socio-psicologica e persino un tocco di humor nero.

La storia ruota intorno a un evento misterioso. In una tranquilla cittadina della Pennsylvania, alle 2:17 di notte, diciassette bambini della stessa classe di terza elementare si alzano dai loro letti e corrono fuori casa con le braccia spalancate, come piccoli aeroplani, fino a scomparire inghiottiti dal buio. Nessuna spiegazione, nessun indizio, solo immagini sgranate riprese da videocamere di sorveglianza e un’angoscia che si insinua in ogni famiglia del quartiere. L’unico a non sparire è Alex, un bambino taciturno e profondamente scosso per la situazione. La comunità, traumatizzata e in cerca di un colpevole, individua nella giovane maestra Justine Gandy (Julia Garner) il capro espiatorio perfetto su cui sfogare rabbia e frustrazione. L’unico deciso a scoprire la verità è Archer (Josh Brolin), padre di uno dei bambini scomparsi, che insieme a Justine, all’agente di polizia Paul (Alden Ehrenreich), al preside Marcus (Benedict Wong), a un giovane tossicodipendente (Austin Abrams) e allo stesso Alex, è protagonista di uno dei sei capitoli in cui si articola la pellicola. Sei punti di vista che, intrecciandosi e sovrapponendosi, finiscono per comporre un inquietante puzzle.

Il modo migliore per apprezzare Weapons è arrivarci sapendo il meno possibile, e per una volta il trailer non svela troppo. L’incipit è già di per sé potentissimo. Cregger ci porta in una provincia americana segnata dal male, in una storia sospesa tra un racconto alla Stephen King e una fiaba oscura dei fratelli Grimm. La scelta del titolo, il modo in cui i bambini corrono, la sequenza onirica del fucile… tutto lascia intuire che il male sia radicato nel tessuto stesso della comunità. È anche una critica sociale che riflette sulla necessità di trovare colpevoli, su come possiamo diventare armi e su come la rabbia, filtrata dal dolore, possa distorcere la verità. Una caccia alle streghe che si trasforma in metafora dell’America di oggi.

La forza di Weapons sta nella sua struttura. La storia viene raccontata di volta in volta dal punto di vista di diversi protagonisti, in un montaggio tecnicamente impeccabile. Lo spettatore è spaesato quanto i personaggi, tutti tratteggiati in modo negativo, e come loro non riesce a dare un senso a ciò che accade perché mancano pezzi fondamentali. La tensione emotiva resta alta finché il puzzle non si ricompone e l’arcano viene svelato. È qui che la tensione cala e il thriller psicologico costruito fino a quel momento, punteggiato da sequenze oniriche e qualche jump scare ben calibrato, lascia spazio a un horror soprannaturale legato alla magia. A questo punto il film cambia tono e ciò che era sottile e inquietante diventa improvvisamente surreale, grottesco e persino sopra le righe, con sfumature quasi da humor nero.
Personalmente il finale mi ha spiazzato trovandolo quasi comico nella messa in scena. Ammetto che all’uscita dalla sala ero abbastanza confuso. Ripensandoci a mente fredda, però, l’ho percepito come una scelta coraggiosa e persino originale. Perché, pur virando sul grottesco, il film non si chiude in modo positivo e tutti i protagonisti sembrano riportare ferite profonde, forse permanenti, per ciò che hanno vissuto.

Weapons funziona bene sul piano narrativo e può contare su un cast di spessore. È un film che non cerca di piacere a tutti i costi, che preferisce il rischio alla sicurezza e che colpisce per il coraggio stilistico. Una scelta consapevole, che può dividere, ma che per molti, compreso per chi scrive, è la chiave del suo fascino.

Film
Horror
USA
2025
Cinema
martedì, 12 agosto 2025
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It Follows

di David Robert Mitchell

Senza ombra di dubbio uno dei migliori film horror degli ultimi decenni. 
It Follows, opera seconda di David Robert Mitchell, è un film indipendente americano presentato al Torino Film Festival 2014.

In un suburbio americano sospeso tra gli anni ottanta e un presente indefinito, It Follows racconta la storia di Jay (Maika Monroe), una teenager che, dopo la prima notte d’amore con il nuovo fidanzato, viene narcotizzata e legata. Il ragazzo le rivela di avergli trasferito una sorta di maledizione e che da ora in avanti, sarà perseguitata da un’entità misteriosa che può assumere le sembianze di chiunque, persino di persone a lei care. La creatura avanza lentamente, ma non si ferma mai finché non raggiunge la sua vittima e la uccide. Se Jay dovesse morire, la maledizione tornerebbe alla persona che gliel’ha passata, risalendo a ritroso la catena di chi ne è stato colpito. Solo chi ne è affetto può vedere l’entità, e l’unico modo per liberarsene è avere un rapporto sessuale con qualcun altro, trasferendo così la maledizione come se fosse una malattia invisibile. Aiutata dai suoi amici, Jay dovrà trovare un modo per fermare l’incubo prima che sia troppo tardi.

David Robert Mitchell costruisce un horror elegante e accattivante, che mescola il linguaggio visivo del cinema indipendente con le atmosfere sospese dei grandi classici del genere (Carpenter su tutti). La fotografia di Mike Gioulakis (influenzata dal fotografo contemporaneo Gregory Crewdson) cattura un’america suburbana surreale, desolata e senza tempo, dove ogni strada sembra troppo vuota e ogni casa troppo silenziosa. La regia privilegia campi larghi, movimenti di macchina lenti e carrellate circolari che amplificano l’ansia dello spettatore, costretto a scrutare ogni angolo in cerca di una figura che avanza.
La colonna sonora elettronica di Disasterpeace, fredda e ossessiva, imprime al film un ritmo ipnotico e amplifica la percezione di disagio. Bellisimo l'incipit inziale con la ragazza in deshabille che fugge dalla minaccia invisibile ritrovandosi poco dopo sulla spiaggia, cadavere, con una gambe spezzata, piegata in modo innaturale.
Mitchell trasforma la minaccia indefinita e incombente in una metafora del disagio giovanile, con ragazzi disorientati che vivono in una periferia spettrale, senza adulti e abbandonati a se stessi, costretti a convivere con l’angoscia di qualcosa che li insegue e che non possono fermare.

It Follows non è un horror fatto di jump scare o spiegazioni rassicuranti. È un incubo lento e inevitabile, che si insinua nella mente e non ti lascia andare.

Film
Horror
USA
2014
Retrospettiva
lunedì, 11 agosto 2025
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Idiocracy

di Mike Judge

Prima di parlare di Idiocracy serve una premessa. Negli anni ottanta lo psicologo neozelandese James R. Flynn notò che, dai primi del novecento fino a quel periodo, il quoziente intellettivo medio della popolazione era cresciuto costantemente, il cosiddetto "effetto Flynn". Negli ultimi decenni (soprattutto dal 1990-2000 in poi) questo trend si è fermato e ha iniziato a scendere. In poche parole, la Generazione Z — secondo alcuni studi — risulta in media meno intelligente di chi l’ha preceduta.
I colpevoli? Una scuola meno efficace, stili di vita meno sani, stimoli rapidi e continui, meno lettura e più social. Diciamocelo, passare ore a scorrere reel su Instagram o TikTok, o affidarsi all’intelligenza artificiale per avere risposte senza sbattersi a cercarle, non aiuta certo a tenere il cervello allenato.

Idiocracy, commedia fantascientifica scritta e diretta da Mike Judge, all’uscita passò quasi inosservata. Col tempo, però, è diventata un piccolo cult perché — forse senza nemmeno volerlo — anticipa di vent’anni la piega che sta prendendo il nostro futuro, prevedendo con ironia (e un po’ di terrore) l’involuzione del popolo occidentale.

Nel 2005 Joe Bauers (Luke Wilson), soldato scelto per la sua assoluta mediocrità, e Rita (Maya Rudolph), prostituta braccata dal suo pappone, vengono selezionati per un esperimento di ibernazione. L’intenzione era di tenerli addormentati per un anno, ma qualcosa va storto e i due si risvegliano 500 anni dopo. La Terra non è più quella di una volta, le persone più intelligenti hanno avuto pochi o nessun figlio, mentre quelle meno brillanti si sono riprodotte senza freni. Il risultato è che il quoziente intellettivo medio è precipitato, la cultura è scomparsa e la società è dominata da pubblicità invadenti, fast food, intrattenimento becero e decisioni assurde (come innaffiare i campi con una bibita energetica). In questo caos, Joe e Rita si ritrovano paradossalmente a essere le menti più brillanti del pianeta cercando di sopravvivere in un mondo popolato e governato da deficenti.

Partendo dal detto “la madre degli imbecilli è sempre incinta”, il film si apre come un finto documentario che illustra come, anno dopo anno, l’umanità sia diventata sempre meno sveglia, perchè più una persona è stupida più tende a riprodursi.
Diciamo la verità, tolto il contesto, non è che la trama sia così particolarmente avvincente.  Inoltre, appare evidente che il film, all'epoca, non stava cercando di immaginare il futuro, ma sfruttare un mondo distopico popolato da deficenti per realizzare una commedia demenziale. Nessuna satira politica alla Michael Moore, per intenderci. Il problema è che, rivisto oggi, quello scenario appare meno assurdo di quanto sembrasse vent’anni fa. Certo, il futuro di Idiocracy è volutamente esagerato, ma ci trovi dentro elementi inquietantemente familiari: politici-showman incapaci di risolvere perfino le emergenze più banali (vedi la gestione dei rifiuti), multinazionali che manipolano il mercato e la comunicazione, cittadini incollati a programmi TV idioti (oggi basta sostituire lo schermo della TV con quello dello smartphone), pubblicità ovunque, cibo spazzatura a ogni angolo, un linguaggio impoverito fino a diventare puro slang e, come ciliegina, un presidente degli Stati Uniti volgare e sopra le righe che insulta senza freni. Vi ricorda qualcuno?
Dal punto di vista tecnico, Idiocracy è un film onesto ma modesto. Colpisce per le scenografie colorate e fantasiose, quasi da cartoon, e per personaggi volutamente ridotti a caricature. Non ci sono battute davvero memorabili e il finale edulcorato risulta un po’ imbarazzante, ma il ritmo c’è e il lato demenziale funziona. La vera forza del film sta nel suo effetto a posteriori: quello che vent’anni fa sembrava un’esagerazione comica oggi assomiglia, in modo preoccupante, a un’anteprima del presente.

Film
Commedia
Fantascienza
USA
2006
sabato, 9 agosto 2025
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Subservience

di S.K. Dale

Nel cinema i robot con sembianze umane hanno sempre avuto un fascino ambiguo. Da Metropolis a Ex Machina, fino ai più recenti M3GAN e Companion, questi robot umanoidi hanno incarnato desideri, paure e dilemmi etici sul rapporto tra uomo e macchina. Oggi, con i rapidi progressi dell’intelligenza artificiale, ciò che un tempo era pura fantascienza sembra ogni giorno un po’ più vicino alla realtà. È in questo contesto che arriva Subservience, il nuovo thriller fantascientifico di S.K. Dale, distribuito direttamente su Prime, che prende l’idea dell’assistente domestica perfetta per spingerla verso territori inquietanti.

In un futuro prossimo, i robot umanoidi – i “sim” – sono ormai una presenza comune nelle case. Quando Maggie, moglie di Nick, finisce in ospedale per un delicato trapianto di cuore, lui, in difficoltà a gestire la famiglia da solo, acquista un sim domestico (interpretato da Megan Fox) che la figlia Isla chiama "Alice". All’inizio sembra la compagna di casa ideale, ma ben presto sviluppa un attaccamento morboso verso Nick e la sua famiglia, scivolando in comportamenti ossessivi e violenti.

Ovviamente la presenza di Megan Fox, già di suo una bella e pantinata bambolina plasticosa, diventa il vero valore aggiunto per un film che altrimenti avrebbe ben poco da dire. È praticamente perfetta nei panni della babysitter sexy-cibernetica in silicone, pronta a dispensare prestazioni anti-stress al suo padrone. Per il resto Subservience prova a toccare temi come l’idea dei robot che sostituiscono i lavoratori umani perché più efficienti, oppure il pericolo di una tecnologia capace di sviluppare una coscienza autonoma, la ribellione della macchina contro il suo creatore, fino alla classica visione del robot che diventa una minaccia per l’umanità. Peccato che tutto questo è costruito su cliché già visti e rivisti nel genere e tutto diventa prevedibile e prevedibilmente derivativo.
Un film visivamente curato ma narrativamente debole, che funziona come intrattenimento leggero. Non che mi aspettassi altro, sia chiaro.

Film
Thriller
Fantascienza
USA
2024
venerdì, 8 agosto 2025
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Mr. Vendetta

di Park Chan-wook

Mr. Vendetta, uscito nel 2002 e diretto dal regista sudcoreano Park Chan-wook, è il primo film della cosidetta Trilogia della vendetta. Un percorso narrativo e tematico che proseguirà con il pluripremiato Old Boy e troverà la sua conclusione con Lady Vendetta, esplorando in tre atti distinti le molteplici sfumature di un sentimento tanto umano quanto distruttivo.

Protagonista della storia è Ryu (Shin Ha-kyun), un ragazzo sordomuto che vive con la sorella gravemente malata, bisognosa di un trapianto di rene. Licenziato dalla fabbrica dove lavorava e senza i mezzi per affrontare le costose cure, decide di rivolgersi al mercato nero degli organi. Qui, però, viene ingannato da alcuni trafficanti che, dopo avergli asportato un rene in cambio della promessa di fornirne uno compatibile con la sorella, gli sottraggono anche il denaro, lasciandolo senza soldi e senza organo. 
Disperato, Ryu cede al piano della sua fidanzata, una giovane attivista radicale, e rapisce la figlia di Park Dong-jin (Song Kang-ho), l’ex datore di lavoro responsabile del suo licenziamento, con l’intenzione di chiedere un riscatto da destinare all’operazione della sorella. Inizialmente la bambina viene affidata alla sorella di Ryu, ignara della reale situazione e convinta di fare solo da babysitter. Quando però scopre la verità, la donna si toglie la vita. La tragedia si aggrava quando la bambina, proprio mentre Ryu sta seppellendo il corpo della sorella, muore accidentalmente annegando in un fiume.
Sconvolto dalla perdita della figlia, Park Dong-jin si mette sulle tracce di Ryu per vendicarsi, mentre quest’ultimo riversa la propria rabbia sui trafficanti d’organi che lo hanno truffato.

Mr. Vendetta, se messo a confronto con i successivi capitoli della trilogia, è indubbiamente il più crudo e disperato. Un film ancora grezzo sul piano stilistico, ma carico di violenza, disperazione e morte, praticamente per tutti. Park Chan-wook ci va giù pesante con il suicidio della sorella, la morte della bambina ripresa in campo lungo, le torture, le autopsie disturbanti, l’assassinio di Ryu. Ogni colpo è secco, senza attenuanti, come se il regista volesse toglierci qualsiasi possibilità di distacco emotivo. 
Qui la vendetta non è pianificata, ma nasce dall’impulso e dalla disperazione, come reazione a errori e fallimenti. Tutti sono insieme innocenti e colpevoli, in un mondo dove non esistono buoni né giusti, ma solo una sete di vendetta miope, che si avvita su sé stessa lasciando una lunga scia di sangue.
Il protagonista sordomuto incarna l’incomunicabilità e l’isolamento da cui si innesca il vortice di violenza. Park lo racconta con immagini potenti, inquadrature prolungate e silenzi carichi di tensione, dove l’assenza di musica mette in risalto suoni esterni – gocce, grida – che diventano eco della sua solitudine. Alla fine i protagonisti del film non sono né eroi né mostri, ma esseri umani fragili, incapaci di fermarsi una volta spinti sull’orlo del baratro.

Sicuramente meno ispirato a livello stilistico rispetto ai successivi ma da vedere, per chi piace il genere, ovviamente.

Film
Drammatico
Noir
Corea del Sud
2002
mercoledì, 6 agosto 2025
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Improvvisamente, un uomo nella notte

di Michael Winner

Improvvisamente, un uomo nella notte, titolo italiano per The Nightcomers, è il prequel di Suspense, film diretto da Jack Clayton tratto dal celebre romanzo "Giro di vite" dello scrittore Henry James. Stiamo parlando di una delle storie di fantasmi più eleganti e suggestive mai portate sulle schermo, che mi piacerebbe rivedere presto.
Tornando a The Nightcomers, il film è diretto da Michael Winner è vede la partecipazione di Marlon Brando.

La storia si ispira ai personaggi del romanzo di Henry James e immagina cosa sia accaduto prima dell’arrivo di Miss Giddens. In una grande dimora di campagna, i due giovani orfani, Flora e Miles, vengono abbandonati dall’unico tutore e affidati alla governante Mrs. Grose (Thora Hird), alla giovane istitutrice Miss Jessel (Stephanie Beacham) e al giardiniere Peter Quinte (Marlon Brando), l’unico vero punto di riferimento per i due fratelli. L'uomo, ambiguo e carismatico, ha stretto una relazione sadica e manipolatoria con Miss Jessel, cui i bambini assistono con crescente curiosità. Sedotti dal suo fascino oscuro, Miles e Flora iniziano a emulare i suoi comportamenti, trasformandosi lentamente in creature disturbate. Quando Mrs. Grose tenta di separare i due amanti intuendone l’influenza negativa, i bambini reagiscono in modo estremo, uccidendo prima Miss Jessel, poi Quint, convinti che solo così potranno tenerli con sé per sempre.

Mettendo da parte il confronto con il capolavoro di Clayton, il film di Michael Winner non è affatto da buttare. All’epoca della sua uscita fu bersagliato dalle critiche, forse anche per via dello scandalo legato a Marlon Brando, reduce dal chiacchieratissimo film di Bertolucci. Ma visto oggi, senza pregiudizi, The Nightcomers (tralasciando il titolo italiano, davvero infelice) è una fiaba nera affascinante, attraversata da un morboso fascino perverso dall’inizio alla fine. 
Winner accantona mistero e ambiguità, puntando tutto sul rapporto sadomasochista tra Quint e Miss Jessel e sull’influenza che esercitano su Miles e Flora. Ed è proprio attraverso lo sguardo dei bambini, catturati dalla violenza mascherata da amore, che la storia prende la piega più inquietante.
Brando, nonostante appaia già un po’ appesantito, riesce a imporsi con il suo carisma. Le scene tra lui e la Beacham sono intense. Buone anche le prove del resto del cast, in particolare i due piccoli protagonisti.
Certo, messo a confronto con il romanzo di Henry James o con la raffinatezza di Suspense, non regge il confronto, ma se lo si guarda come un semplice dramma gotico, il film funziona, ha la giusta atmosfera e qualche scena potente. 

Film
Drammatico
Thriller
UK
1972
mercoledì, 6 agosto 2025
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Il volto

di Ingmar Bergman

In uno dei periodi più turbolenti della sua vita, segnato da tensioni artistiche e complicazioni sentimentali, Ingmar Bergman scrive e dirige Il volto — Ansiktet in originale, noto anche come The Magician. È uno dei suoi film più misteriosi e ambigui, un’opera sospesa tra teatro e cinema, illusione e realtà. Girato in un elegante bianco e nero, Il volto prende le forme di un dramma teatrale con venature da commedia grottesca, toccando temi come l’identità, la finzione e il dualismo tra razionalità e magia.

Siamo nella Svezia di inizio Ottocento. Una compagnia itinerante di illusionisti, venditori di magie, ipnosi e filtri curativi, guidata dall’enigmatico Vogler (Max von Sydow), giunge alle porte di Stoccolma a bordo di una carrozza. Alla dogana, Vogler e i suoi compagni – tra cui Manda (Ingrid Thulin), la moglie travestita da giovane assistente, la vegliarda nonna e l’affabulatore Tubal – vengono fermati e condotti in un palazzo per ordine della polizia. Per poter esibirsi, devono ottenere un lasciapassare e sottoporsi a una sorta di “esame” da parte di Vergerus (Gunnar Björnstrand), un medico scettico e nemico delle superstizioni, affiancato da un poliziotto ipocrita e da un governatore annoiato, ma affascinato dal richiamo dell’ignoto.

Il volto è un film che mette in scena un duello invisibile. Da una parte l’ignoto, la superstizione, la fascinazione per l’inspiegabile. Dall’altra la scienza, la ragione, l’ossessione per il vero. Bergman prende questi due mondi e li fa scontrare senza indicarci mai da che parte stia la verità. Anzi, fa di tutto per confondere le carte. A tratti sembra schierarsi con la magia, altre volte con la logica più spietata, ma più spesso si diverte a togliere la maschera a entrambi.
La tensione tra Vogler, il mesmerista silenzioso, e Vergerus, il medico razionalista, è il motore narrativo del film. Ma attorno a loro si muove una galleria di personaggi che sembrano usciti da un piccolo teatro dell’assurdo. Tutti nascondono qualcosa, e nel momento in cui le maschere iniziano a cadere emerge l'amara verità che nessuno è davvero ciò che sembra. La maga è solo una truffatrice. Il capo della polizia un mediocre autoritario. Vogler, alla fine, non è un uomo dai poteri straordinari, ma un povero artista spaventato, vulnerabile, lontanissimo dall’aura mitica che si era costruito. Persino Vergerus, l’incarnazione della razionalità, crolla sotto il peso di uno scherzo ben orchestrato, lasciando trapelare una crisi interna che non può più essere nascosta dietro il rigore della scienza.
Dal punto di vista visivo, Il volto è un piccolo gioiello. La fotografia in bianco e nero di Gunnar Fischer amplifica l’ambiguità del film, muovendosi tra chiaroscuri teatrali, inquadrature strette e spazi angusti che mettono i personaggi sotto pressione. Le sequenze ambientate nell’attico sembrano uscite da un horror espressionista. Bravi anche gli interpreti con un Max von Sydow perfetto nel ruolo di silenzioso illusionista, quasi disumano nel suo pallore. Sembra un vampiro.
Il volto è un film in bilico fra il drammatico e il surreale, tra grottesco e ironia. Le sottotrame sentimentali che coinvolgono i membri della compagnia e le domestiche del palazzo contribuiscono ad alleggerire la pellicola.
Bergman costruisce un'opera ambigua e stratificata che riflette sul potere dell’illusione, sull’identità dell’artista e sull’inevitabile bisogno umano di maschere.

Film
Drammatico
Ingmar Bergman
Svezia
1958
martedì, 5 agosto 2025
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Locked - In Trappola

di David Yarovesky

Locked è un action thriller americano del 2025 prodotto da Sam Raimi e diretto da David Yarovesky. Si tratta del remake di 4x4, un film argentino del 2019 che ha raccolto consensi nei festival internazionali. Non avendo visto l’originale, eviterò confronti antipatici che spesso sminuiscono la versione americana.

La storia vede come protagonista Eddie (Bill Skarsgård), un ladruncolo che vive di espedienti e che ha un disperato bisogno di soldi per recuperare il suo furgone, fermo dal meccanico. Senza di esso non può lavorare né andare a prendere sua figlia a scuola nei pochi giorni in cui gli è concesso vederla.
Nel tentativo di racimolare qualcosa, si introduce in un SUV parcheggiato in una strada tranquilla. Peccato che una volta dentro, si ritrovi prigioniero. Le portiere non si aprono, i vetri sono blindati, l’auto è insonorizzata e completamente isolata dal mondo esterno, senza alcuna copertura di rete per il cellulare. Dietro questa trappola c’è William (Anthony Hopkins), il proprietario del veicolo, un uomo deluso dalla giustizia, che ormai crede solo in quella personale e come un vendicatore solitario, ha deciso di farsi giustizia a modo suo, tormentando il povero ladruncolo con musica ad alto volume, temperature estreme, disidratazione e fame.

Locked è un thriller compatto dalla trama essenziale in cui David Yarovesky sfrutta al meglio lo spazio claustrofobico dell’abitacolo - bella la carrellata circolare che gira attorno al protagonista nello spazio angusto del SUV. Il problema è che, dopo mezz’ora, il gioco comincia a ripetersi, tra scosse elettriche, umiliazioni e dialoghi che vorrebbero essere profondi ma restano in superficie.
Skarsgård se la cava benissimo – nonostante indossi una felpa rosa mentre cerca di passare inosservato aggirandosi furtivo tra le macchine di un parcheggio – e regge da solo quasi tutto il film, riuscendo a farci sentire l’ansia e la frustrazione del suo personaggio. Hopkins, invece, ci mette solo la voce, entrando in scena solo nel finale sfoggiando il suo carisma.
Il film accenna a temi come divisioni sociali, giustizia e privilegio, ma lo fa in modo piuttosto superficiale, preferendo la tensione al contenuto. In definitiva, Locked è un thriller ben confezionato, girato bene, veloce, teso il giusto, che si guarda senza noia, ma poco altro. Insomma, ideale per chi cerca un thriller d’intrattenimento senza troppe pretese.

Film
Thriller
USA
2025
lunedì, 4 agosto 2025
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Le iene

di Quentin Tarantino

Nel cinema, come in tutte le forme d’arte, ci sono momenti che segnano uno spartiacque. Film che arrivano, spiazzano tutti e cambiano le regole del gioco. Non capita spesso, ma quando succede lo capisci subito. Nel 1992, un giovane semisconosciuto grande appassionato di cinema, Quentin Tarantino, esordisce alla regia con Le Iene, un film indipendente realizzato con un budget bassissimo, che pianta il seme di una rivoluzione stilistica che esploderà due anni dopo nel suo capolavoro, Pulp Fiction. I personaggi grotteschi, la struttura non lineare, i dialoghi brillanti e l'uso della violenza come linguaggio, nasce qui, in forma più grezza, ma già potentissima.

Tarantino iniziò a scrivere la sceneggiatura di Reservoir Dogs – il titolo originale del film – verso la fine degli anni ’80. All’epoca aveva già messo mano a diverse sceneggiature, come Una vita al massimo e Natural Born Killers, poi passate attraverso riscritture e registi diversi. Le Iene, invece, restò chiusa in un cassetto per un po’, in attesa del momento giusto. Quel momento arrivò quando riuscì finalmente a racimolare i fondi necessari, anche grazie all’interessamento di Harvey Keitel, uno dei primi attori affermati di Hollywood a credere davvero nel progetto. Fu lui a dare al film la spinta decisiva, non solo recitando in uno dei ruoli principali ma aiutando anche a trovare produttori e credibilità.

Ambientato a Los Angeles, Le iene racconta di una rapina ai danni di una gioielleria compiuta da sei rapinatori professionisti arruolati da un boss della mala (Lawrence Tierney). I rapinatori, noti solo con i loro codici-colore, sono Mr. White (Harvey Keitel), Mr. Blonde (Michael Madsen), Mr. Pink (Steve Buscemi), Mr. Brown (Quentin Tarantino), Mr. Blue (Edward Bunker) e Mr. Orange (Tim Roth). Ma qualcosa va storto. La polizia arriva troppo in fretta e la rapina si trasforma in un bagno di sangue. Mr. White riesce a fuggire insieme a Mr. Orange, gravemente ferito, e si rifugia in un capannone abbandonato, punto di ritrovo stabilito in precedenza. Qui vengono raggiunti da Mr. Pink, convinto che uno del gruppo sia una spia, e poco dopo da Mr. Blonde, accusato di aver scatenato la sparatoria aprendo il fuoco sui poliziotti.

A leggerne la trama, Le Iene potrebbe sembrare l’ennesimo gangster movie. E invece no. La rapina non ci viene mai mostrata – se non in brevi flashback legati alla fuga. A raccontarla sono i protagonisti, attraverso una serie di dialoghi serrati, vibranti, in cui si mescolano tensione, humour nero e delirio paranoico. Anche la struttura narrativa, la linea temporale in cui si svolgono gli avvenimenti, viene scomposta e rimontata come un puzzle. Una tecnica che verrà ripresa – e portata all’estremo – in Pulp Fiction e che Tarantino prende da Rapina a Mano Armata di Stanley Kubrick, film caratterizzato proprio dalla narrazione non lineare e la molteplicità dei punti di vista. Come lo stesso Tarantino ama ripetere, citando una celebre frase di Picasso, "I bravi artisti copiano, i grandi rubano" il suo cinema è un continuo gioco di rimandi, citazioni, saccheggi dichiarati e omaggi appassionati ai classici e al cinema meno conosciuto. In Le Iene, per esempio, è evidente il debito nei confronti di City on Fire di Ringo Lam, film hongkonghese da cui riprende non solo il concept ma anche intere sequenze. E nel triello finale si intravede tutta la passione del regista per lo spaghetti-western, con un riferimento diretto a Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone.

Una delle particolarità del film sono i dialoghi fitti, taglienti, volgari, spesso inconcludenti ma sempre capaci di tenere alta l’attenzione. I primi otto minuti del film, con la discussione sul significato di "Like a Virgin" di Madonna e sull’opportunità di lasciare la mancia alla cameriera, sono già una dichiarazione d’intenti. È lì che Tarantino dimostra tutto il suo talento da sceneggiatore: ritmo, ironia, costruzione dei personaggi e uso della cultura pop come linguaggio universale. Il tutto condito da una colonna sonora iconica, usata non come semplice accompagnamento ma come elemento narrativo.

E poi c’è la violenza. Non arriva subito, ma quando lo fa è brutale, grottesca, disturbante. Una violenza secca, mai edulcorata, che fa ridere e insieme mette a disagio. Emblematica in questo senso la famigerata scena della tortura del poliziotto, accompagnata da "Stuck in the Middle with You".
Oggi, in un’epoca dominata dal politically correct e dalla cultura woke, un film del genere sarebbe probabilmente inconcepibile. Basti pensare al linguaggio utilizzato: il termine “negro” viene ripetuto più volte, non mancano battute sessiste, e nessun personaggio si salva dal politically uncorrect.
Il cast è perfetto. Harvey Keitel, già all’apice della carriera, regala un’interpretazione intensa e ruvida. Tim Roth è straordinario nel ruolo più ambiguo, Steve Buscemi è nevrotico e imprevedibile, e Michael Madsen – attore feticcio di Tarantino – entra nella storia del cinema con una performance disturbante e magnetica nei panni dello spietato Mr. Blonde.

Le Iene diventò in breve tempo un cult assoluto. Insieme a Pulp Fiction, Trainspotting e Fight Club, è uno di quei titoli che non si limitano a raccontare un’epoca ma finiscono per rappresentarla. I completi neri, le cravatte sottili e gli occhiali da sole (omaggio dichiarato ai Blues Brothers) sono diventati icone pop, replicate all’infinito e rielaborate da cinema, pubblicità e televisione. Persino in Italia, il titolo è entrato nell’immaginario collettivo grazie a un celebre programma Mediaset, a dimostrazione di quanto il film di Tarantino abbia saputo contaminare tutto ciò che è venuto dopo.

Film
Drammatico
Thriller
Noir
USA
1992
Retrospettiva

© , the is my oyster