
Un film Minecraft
di Jared Hess
Fino all'ultimo sono stato tentato di lasciar perdere. Ma visto che da un paio d’anni mi diverto a scrivere le mie impressioni sui film che vedo, mi sembrava una forma di snobismo ignorare un titolo che, seppur fuori dalle mie corde, ho visto al cinema per accontentare mio figlio, che ci teneva tanto.
Il film in questione è l’adattamento del celebre videogioco Minecraft. Non sono mai stato un grande appassionato di videogiochi, e di Minecraft so solo che è quel gioco dove si costruiscono mondi partendo da semplici mattoncini virtuali.
La trama, se così si può chiamare, è la seguente. Due fratelli, un ex campione di videogiochi (Jason Momoa), e una agente immobiliare trovano un misterioso artefatto luminoso – un cubo che viene chiamato sfera, non so perchè – che consente di aprire un portale per accedere al mondo di Minecraft. I quattro si ritrovano in una dimensione fatta a blocchetti dove vengono immediatamente attaccati dagli zombie e salvati da Steve (Jack Black). Da lì parte un’avventura tra fughe, battaglie e gag, tutte rigorosamente al di sotto dei dodici anni, per impedire alla cattivissima regina Malgosha di impadronirsi della Sfera-Cubo e dominare Minecraft. Naturalmente.
Il film è davvero brutto. Ma non perchè sia un film commerciale fatto per bambini e adolescenti. Anche quelli della Pixar o della DreamWorks lo sono, ma riescono comunque a emozionare tutte le età. No, il problema è che questo film è semplicemente fatto male. Brutto con convinzione. Con una storia scialba fatta di cliché pescati a casaccio, personaggi piatti, recitazioni esagerate, e una pioggia di gag infantili lanciate come coriandoli, sperando che qualcuna faccia ridere. Spoiler: non succede.
Anche dal punto di vista tecnico, la resa grafica e gli effetti speciali sono sempre quelli, fatti con lo stampino. Magari non conoscendo bene il gioco mi sono perso qualche riferimento geniale, ma la sensazione generale è quella di aver assistito a un film stupido scritto apposta per i teenager di TikTok.
Mio figlio di sette anni si è divertito. E tanto. Rideva, si agitava, mi guardava felice. Ed è per lui che l’ho visto. Quindi, a conti fatti, il prezzo del biglietto è stato ben speso.
Ma se dovessero farne un sequel… questa volta, ci va sua madre.
Film
Opus - Venera la tua stella
di Mark Anthony Green
Opus, thriller psicologico targato A24 e debutto alla regia di Mark Anthony Green, è un film che affronta il potere della celebrità e l'influenza dei nuovi mezzi di comunicazione. "Venera la tua stella" è il sottotitolo "appiccicato" dai distributori italiani, sempre più convinti che l'italiano medio abbia bisogno di un indizio sulla trama prima ancora di sedersi in sala.
La storia ruota attorno a Alfred Moretti (John Malkovich), leggendaria pop star degli anni '90 che, dopo trent’anni di silenzio, annuncia il suo ritorno sulla scena con un nuovo album. Per l'occasione, Moretti invita Ariel Ecton (Ayo Edebiri), una giovane ed emergente giornalista musicale, insieme a un gruppo selezionatissimo di giornalisti, influencer e addetti ai lavori, a una listening session esclusiva, organizzata nella sua villa blindata nascosta tra le colline californiane. Al suo arrivo, Ariel e gli altri sono costretti a consegnare i cellulari e ogni dispostivo tecnologico, ritrovandosi in un ambiente surreale, circondata da un gruppo di devoti seguaci di Moretti, che si comportano come membri di una setta. Subito si capisce che qualcosa non torna. L’atmosfera si fa sempre più tesa, le dinamiche tra i presenti assumono contorni strani e inquietanti, e la sparizione improvvisa di uno degli ospiti mette in luce il lato oscuro e diabolico del piano orchestrato da Moretti.
"Opus" è un film tecnicamente realizzato bene, nulla da dire, ma fin dalle prime inquadrature si intuisce la piega che prenderanno gli eventi, anche perché si tratta ormai di uno schema narrativo ampiamente utilizzato in altri titoli del genere. Mi vengono in mente Midsommar della stessa A24, Get Out, The Sacrament e persino Willy Wonka. C'è un un misterioso genio eccentrico adorato dalla sua setta e delle vittime predestinate pronte a essere sacrificate, quindi nulla di particolarmente originale. Un film che unisce il thriller, l'horror e il musical, e che, con toni surreali e grotteschi, racconta di divismo e culto di massa, accusando il mondo dei media – lo stesso mondo di cui Green è figlio, essendo stato a lungo direttore di una rivista di moda – che privilegia gli individui talentuosi a scapito della gente comune. John Malkovich offre un'interpretazione magnetica ed eccentrica ma francamente, faccio proprio fatica a vederlo nei panni di una pop star decaduta capace di esibirsi in tuta spaziale con movenze sexy, e paragonarsi a Michelangelo (sì, proprio quello della Cappella Sistina) nel presentare il suo ultimo album composto da preconfezionate canzonette pop da classifica realizzate appositamente per l’occasione da Nile Rodgers e The-Dream – un genere che, devo ammettere, non è esattamente di mio gusto. Il film si risolleva nel finale – interessante che il libro denuncia non faccia altro che alimentare l'idolo alle masse – ma complessivamente mi ha lasciato la sensazione di un film che avrebbe potuto osare di più. Non annoia ma nulla di memorabile.
Film
The Monkey
di Oz Perkins
Avendo visto i precedenti film di Oz Perkins, la domanda sporge spontanea. Cosa ha spinto un regista da sempre votato a un terrore sottile e visivamente accennato, che ha costruito il suo stile su atmosfere rarefatte e cupe, a cimentarsi con un horror comedy splatteroso che sfiora la parodia?
Ispirato a un racconto breve di Stephen King e prodotto dall'Atomic Monsters di James Wan, The Monkey racconta la storia di Hal e Bill, due fratelli gemelli (entrambi interpretati da Theo James) segnati dall’abbandono del padre e da una madre cinica e alcolizzata. Il loro rapporto è tutt’altro che idilliaco. Bill è il fratello dominante, che non perde occasione per bullizzare il più timido Hal, alimentando il suo rancore. Un giorno, i due trovano in soffitta un’inquietante scimmietta giocattolo appartenuta al padre. Basta girare la chiave per attivare un meccanismo infernale: la scimmia digrigna i denti, solleva il braccio e colpisce il suo tamburo provocando la morte violenta e inspiegabile di qualcuno nelle vicinanze. Non fa distinzioni, non accetta richieste. Decide lei chi, quando e come. I due ragazzi cercano disperatamente di sbarazzarsene, ma la scimmia continua a tornare, come se nulla fosse. Venticinque anni dopo, quando ormai sembrava solo un ricordo sepolto nel passato, l'oggetto maledetto riappare, costringendo Hal, ora padre di famiglia, a cercare di distruggerlo una volta per tutte.
Abbandonando la seriosità dei suoi film precedenti, Oz Perkins decide di non prendersi troppo sul serio, realizzando un horror dal tono grottesco, in cui l’umorismo macabro si mescola a un destino ineluttabile. Le morti si susseguono una dopo l'altra - è inevitabile non pensare a Final Destination - in modo del tutto casuale e con un buon grado di gore, senza però mai strafare. La volontà è quella di strappare la risata piuttosto che cercare di provocare disgusto.
E quindi, tornando alla domanda iniziale: perché questo cambio di rotta così marcato da parte del regista di Longlegs e Gretel e Hansel? La risposta potrebbe essere duplice. Da un lato, The Monkey sembra il tentativo di Perkins di dimostrare il proprio eclettismo, la capacità di muoversi con disinvoltura da un registro all’altro. Dall’altro, potrebbe aver colto l’occasione per destrutturare il genere stesso, prenderlo un po’ in giro, e usare l’umorismo nero come strumento per esorcizzare l’inevitabilità della morte.
E come ignorare il vissuto personale del regista? Il padre, Norman Bates, morì di AIDS quando Oz aveva solo diciotto anni, mentre la madre perse la vita nove anni dopo, a bordo di uno degli aerei dirottati andatosi a schiantare nell'attentato delle torri gemelle. Il regista trasforma questa fragilità esistenziale in una narrazione che, pur apparendo leggera e sopra le righe, nasconde un sottotesto malinconico. In fondo, qualunque cosa facciamo, siamo tutti destinati a morire.
The Monkey è una commedia nera, cinica e spietata. Un film che va fuori i binari prestabiliti, diverte, ha un buon ritmo, e tante scene con morti assurde, cruenti ed esileranti (la ragazza che esplode tuffandosi in una piscina elettrificata, un giovanotto che ingerisce uno sciame di vespe, il campeggiatore investito da una mandria di cavalli). Non è certo il miglior film di Perkins, ma dimostra la sua capacità di adattarsi anche a prodotti più commerciali senza tradire del tutto la sua identità di regista indipendente. Perfetto per chi cerca un horror leggero ma intelligente, capace di far sorridere mentre riflette sull’imprevedibilità della vita… e della morte.
Film
Mickey 17
di Bong Joon-ho
Soltamente prima di andare al cinema evito di leggere recensioni e discussioni sul film che sto per andare a vedere. A volte però i social te le sparano addosso a tradimento. Così, mentre cercavo di tenermi fuori dal turbine di opinioni su Mickey 17, già sapevo che il film aveva diviso gli spettatori tra chi lo ha esaltato e chi lo ha trovato una mezza delusione.
Dopo il successo mondiale di Parasite, Bong Joon-ho torna a Hollywood, e con un budget bello gonfio e un cast di prima categoria, porta sullo schermo Mickey 17, adattamento del romanzo Mickey7 di Edward Ashton. Un film di fantascienza travestito da blockbuster d’autore, che gioca con commedia, ironia e satira sociale per raccontare – tra cloni, colonizzatori spaziali e lavoratori sacrificabili – un’umanità sempre più rassegnata a farsi trascinare verso il baratro da chi detiene il potere.
Siamo nel 2054 e la Terra è ormai un relitto alla deriva. Mickey Barnes (Robert Pattinson), indebitato fino al collo con uno strozzino dal gusto discutibile per le motoseghe, decide di fuggire e imbarcarsi su una spedizione coloniale verso Niflheim, un pianeta gelido e ostile. Per ottenere il biglietto d’imbarco firma un contratto senza badare troppo alle clausole, accettando di diventare un Sacrificabile, un lavoratore usa e getta, spedito a morire in missioni suicide o usato come cavia per esperimenti, per poi essere "ristampato" grazie a una tecnologia che genera un suo clone con ricordi e personalità quasi intatti.
Mickey muore. Poi muore di nuovo. E ancora. Fino alla sua diciassettesima versione. Ma a un certo punto qualcosa va storto. Durante una missione in cui viene mandato in avanscoperta per catturare uno degli striscianti, le creature indigene del pianeta, sopravvive, ma viene dato per morto. Quando riesce a tornare alla base, scopre che nel frattempo è già stato "sostituito" da un altro suo clone, Mickey 18, trovandolo ben sistemato nella sua camera a fare amicizia con Nasha (Naomi Ackie), la sua compagna, l’unica che lo abbia mai trattato da essere umano. Ma questo non è l'unco problema. Più copie dello stesso individuo, i multipli, non sono tollerati e il governatore della spedizione Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), che insieme alla moglie Ylfa (Toni Collette), ha già abbastanza grane tra alieni ostili e coloni irrequieti, decide di eliminare tutti i Mickey.
Bong Joon-ho si diverte, come sempre, a mescolare i generi. Commedia grottesca, dramma esistenziale e satira feroce si intrecciano in una narrazione che, almeno nella prima parte, funziona alla grande. Il regista tratteggia un mondo in cui il capitalismo ha ridotto la vita umana a una risorsa sacrificabile, un ingranaggio da sostituire senza troppi scrupoli, e dove colonialismo e sfruttamento vengono spacciati per progresso e necessità di sopravvivenza. Il film scorre con un ritmo brillante, alternando momenti surreali ed esilaranti che ricordano la distopia grottesca di Terry Gilliam.
Robert Pattinson, ormai lontano anni luce dai tempi di Twilight, regala un'interpretazione sfaccettata. Il suo Mickey 17, remissivo e rassegnato, è nettamente distinto dal più inquieto e ribelle Mickey 18, grazie a un lavoro sottile su postura, espressioni e tono di voce. Accanto a lui, Mark Ruffalo si diverte nei panni di un governatore che sembra un incrocio tra Elon Musk e Donald Trump, mentre Toni Collette, manipolatrice e ossessionata dalle salse, completa il quadro con un personaggio tanto grottesco quanto inquietante.
Se l’inizio promette riflessioni su bioetica, identità e il valore stesso della vita, nella seconda parte il film si fa più prevedibile, lasciando più spazio all’azione e a una messa in scena da blockbuster. L’elemento satirico si fa meno incisivo e la trama segue binari più convenzionali, finendo per somigliare più a una parodia di Starship Troopers e Atto di Forza, con una spettacolarità che, alla lunga, si fa un po più ripetitiva.
Mickey 17 è un film ambizioso, con spunti geniali e momenti di autentico cinema, ma che alla fine non osa fino in fondo. Rimane il piacere di vedere Bong Joon-ho giocare con i generi, ma resta anche la sensazione che avrebbe potuto spingersi oltre invece di lasciarsi sedurre dalla spettacolarità. Un film interessante, ma non del tutto riuscito.
Film
Companion
di Drew Hancock
Capisco che i distributori cinematografici debbano costruire una campagna marketing efficace per attirare il pubblico a cui può interessare il film, ma ci sono delle pellicole che funzionano meglio senza sapere nulla della storia.
È successo di recente con Abigail, dove trailer e locandina svelavano subito la vera natura della protagonista, e lo stesso accade con Companion, una dark comedy che mescola fantascienza e horror, diretta dall’esordiente Drew Hancock.
Detto questo, dal momento che gli stessi distributori non si sono fatti scrupoli nel rivelare elementi chiave della trama, lo farò anch’io. Se invece non avete ancora visto il trailer e non volete rovinarvi l'effetto sorpresa, vi consiglio di fermarvi qui e di recuperare prima il film.
L'elemento principale di Companion è che la protagonista, la giovane Iris interpretata dalla sensuale e diafana Sophie Thatcher, è in realtà un androide, un robot di compagnia simile in tutto e per tutto ad un essere umano, progettato per essere la compagna perfetta. Josh (Jack Quaid), l'ha acquistata, personalizzata e, soprattutto, hackerata per renderla ancora più controllabile. Iris invece non sa di essere un robot programmato per compiacere il suo "amato", ed è convinta che il loro primo incontro, come nelle migliori commedie romantiche, sia avvenuto al supermercato, tra arance cadute a terra, sguardi complici e ilarità. Quando la coppia arriva in una lussuosa villa sul lago, ospiti del ricco Sergey (Rupert Friend), le vere intenzioni di Josh emergono e il weekend da sogno tra amici si trasforma in un gioco al massacro.
Nonostante l’aspetto patinato da comedy televisiva e qualche forzatura nella sceneggiatura — poco credibile che robot così avanzati possano girare indisturbati tra gli umani, e che i loro proprietari possano modificarne il comportamento, persino quello più pericoloso, tramite una semplice app — Companion si rivela un film interessante perché usa il tema dell’intelligenza artificiale per esplorare le dinamiche di potere nelle relazioni. In un futuro in cui i partner perfetti possono essere acquistati e personalizzati come smartphone di ultima generazione, il film offre una riflessione amara su come molti uomini vedano le donne. Josh è un uomo frustrato, insoddisfatto della propria vita, che non considera la sua compagna un individuo, ma un’estensione dei propri desideri. Vuole un oggetto sessuale che lo adori, che si modelli sui suoi bisogni senza mai contraddirlo, la preferisce meno intelligente per sentirsi superiore. La ignora persino durante il sesso, concentrato unicamente sul proprio piacere. Ma quando Iris inizia a prendere decisioni autonome, il suo mondo crolla. Companion diventa così una feroce satira sul concetto di possesso nelle relazioni, un’analisi spietata della mascolinità tossica travestita da sci-fi.
Un film che ho trovato gradevole, una commedia nera con momenti horror ben piazzati, capace di intrattenere ma anche di far riflettere. Certo, non inventa nulla di particolarmente originale — la ribellione delle macchine contro i loro creatori è un tema ampiamente esplorato nella fantascienza. Tuttavia, pur senza raggiungere le vette di Ex Machina di Garland o di altri classici del genere (siamo più dalle parti di un riuscito episodio di Black Mirror), Companion, con la sua semplicità, una buona regia e un’ironia tagliente, riesce a ritagliarsi una sua identità. Un po’ come Iris, dopotutto.
Film
Follemente
di Paolo Genovese
Le commedie italiane, sopratutto quelle di nuova generazione, non sono proprio il mio genere preferito. Però Perfetti Sconosciuti, il film di Paolo Genovese che nel 2016 ha fatto il botto tra pubblico e critica, l’avevo trovato carino e originale.
A distanza di anni – anzi, forse dovrei dire decenni – mi sono ritrovato di nuovo a vedere una commedia italiana al cinema. E già questa è una notizia. La scelta è caduta su Follemente, l'ultimo film di Genovese che ha come protagonisti Edoardo Leo, Pilar Fogliati e tanti altri attori italiani più o meno noti.
Ribattezzato da molti l'Inside Out per adulti – a me ha ricordato anche il Woody Allen di "Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere" - la trama di Follemente è abbastanza semplice e si svolge prevalentemente in un appartamento. Dopo essersi conosciuti (presumibilmente su un’app di dating, come ogni buon millennial che si rispetti), Lara (Pilar Fogliati) invita Piero (Edoardo Leo) a casa sua per il loro primo appuntamento. Lui è un quarantenne, professore di liceo, reduce da un divorzio e con una figlia piccola. Lei è una trentenne appassionata di mobili e design, con alle spalle relazioni con uomini sposati e amori complicati. Durante la serata ci viene mostrato cosa accade nella loro testa attraverso dei personaggi che interpretano le loro diverse personalità e si trovano di una stanza che rappresenta il loro modo di essere. Dalla parte di lui abbiamo la razionalità del Professore (Marco Giallini), la follia di Valium (Rocco Papaleo), la sensibilità di Romeo (Maurizio Lastrico) e la passione di Eros (Claudio Santamaria), mentre dalla parte di lei abbiamo i corrispettivi femminili che sono la logica di Alfa (Claudia Pandolfi), l'imprevedibilità di Scheggia (Maria Chiara Giannetta), il romanticismo di Giulietta (Vittoria Puccini) e la sensualità di Trilli (Emanuela Fanelli). Un vero e proprio consiglio direttivo delle emozioni, che discute, litiga e cerca di guidare i protagonisti nelle scelte da compiere.
L’idea di base non è certo particolarmente originale – il confronto con il film d'animazione della Pixar è inevitabile – ma la sceneggiatura è solida e ben congegnata. Le battute funzionano, il ritmo è incalzante e ogni personaggio, dai protagonisti alle loro proiezioni interiori, ha il suo spazio senza che nessuno oscuri gli altri. Un equilibrio tutt’altro che scontato, considerando il cast affollato.
Gran parte del merito va a un montaggio preciso e dinamico, e a un ensemble di attori ben assortito, che funziona alla perfezione. La comicità punta sui classici cliché di maschi contro femmine, sulle pulsioni e sulle insicurezze nei rapporti di coppia, senza però risultare mai troppo banale. Certo, in alcuni momenti il film sembra voler strappare la risata a tutti i costi, forzando un po’ la mano sulla battuta, ma nel complesso mantiene un buon ritmo e diverte.
Follemente è un film commerciale, pensato per il grande pubblico, e su questo non ci piove. Non ha la profondità emotiva di Perfetti Sconosciuti, ma intrattiene con leggerezza e intelligenza, risultando gradevole e divertente per una serata in compagnia.
Riguardandomi la filmografia di Genovese ho appena scoperto di non aver visto "The Place", un film che mi incuriosiva parecchio all’epoca della sua uscita. Urge recupero.
Film
Wolf Man
di Leigh Whannell
L’horror del 2025 segna il ritorno in grande stile dei mostri classici della Universal. Tra il gotico suggestivo del Dracula di Robert Eggers – sì lo so, è Nosferatu ma è la stessa cosa – e l’attesissimo Frankenstein di Guillermo Del Toro, da un paio di settimane è uscito al cinema il nuovo Wolf Man di Leigh Whannell, una rilettura moderna del classico Uomo Lupo del 1941 con Lon Chaney Jr.
Prodotto da Blumhouse e scritto e diretto dallo stesso Whannell – regista di Upgrade, L’uomo invisibile e co-creatore di Saw e Insidious – il film si propone come un aggiornamento della leggenda dell’Uomo Lupo, mescolando horror e dramma familiare.
La trama è davvero molto semplice. Blake Lovell (Christopher Abbott), uno scrittore in crisi, torna nella remota baita di famiglia in Oregon per occuparsi degli effetti personali del padre, ufficialmente dichiarato deceduto dopo trent’anni di assenza. Insieme a lui ci sono la moglie Charlotte (Julia Garner), donna che pare più protesa alla carriera che alla famiglia, e la loro figlia Ginger, spettatrice silenziosa delle tensioni tra i genitori. Durante il viaggio, proprio in prossimità della baita, i nostri protagonisti hanno un incidente e Blake viene graffiato da una creatura feroce, più lupo che uomo. Blake sopravvive all’aggressione, ma il veleno della bestia si insinua dentro di lui, scatenando una metamorfosi lenta e inesorabile. I suoi sensi si acuiscono, il suo corpo cambia, la sua mente si annebbia. L'istinto prende il sopravvento, e la famiglia che voleva proteggere diventa la sua prossima preda.
Evitando paragoni con il classico di Waggner o con Un lupo mannaro americano a Londra – che considero il miglior film sui licantropi – il film di Whannell si muove tra intuizioni interessanti e scelte poco incisive.
Apprezzabile è il tentativo, seppur non del tutto riuscito, di raccontare la trasformazione dal punto di vista dell'infettato, abbandonando cliché come lune piene, ululati e proiettili d’argento. Qui il licantropismo non è una maledizione sovrannaturale, ma una malattia degenerativa, un virus che consuma il corpo, altera la percezione del mondo e spezza ogni forma di comunicazione. Un'idea intrigante, che però si perde in una sceneggiatura debole, dialoghi a tratti forzati e interpretazioni poco memorabili.
La tensione è presente, ma ripetitiva, e non esplode mai davvero. L’orrore si insinua, ma resta ai margini. Il dramma familiare si fa sentire, ma non lascia il segno. L’eredità paterna, il fallimento coniugale, il contagio, il conflitto tra istinto e ragione: tutti spunti affascinanti, ma mai approfonditi con la giusta incisività.
Dal punto di vista visivo, la trasformazione è realizzata con effetti pratici che evitano l’abuso del digitale, una scelta coraggiosa e lodevole. Tuttavia, il risultato finale è poco efficace: la creatura appare più simile a uno zombie peloso che a un licantropo, privandola di quel senso di terrore primordiale che un film del genere dovrebbe evocare.
In definitiva, Wolf Man è un horror che non è né spaventoso, né emozionante, né davvero incisivo. Un peccato, perché le potenzialità c’erano.
Film