
Mimì - Il principe delle tenebre
di Brando De Sica
Ammetto che quando ho visto il nome del regista ho storto un po' il naso. Brando De Sica. Figlio di Christian, nipote di Vittorio, Carlo Verdone come zio. Il pregiudizio che in Italia, se non sei un figlio d'arte, il cinema lo guardi e basta, è scattato immediatamente. E invece Mimì – Il principe delle tenebre mi ha fregato. Non solo perché è un film coraggiosamente fuori tempo, diverso, ma anche perché ha toccato corde familiari della mia indole gotica.
La storia racconta di Mimì (Domenico Cuomo), un adolescente orfano, nato con i piedi deformi, che lavora in una pizzeria a Napoli. Bullizzato dal figlio di un boss camorrista, un giorno incontra Carmilla (Sara Ciocca), una giovane ragazza "dark" convinta di essere una discendente del conte Dracula. Lei rimane affascinata dal goffo Mimì – forse proprio per la sua deformità – e lui trova in Carmilla quel calore umano che gli è sempre mancato.
In una Napoli insolita e decadente, tra bande camorristiche appassionate di neomelodica e gruppi gotici che frequentano cimiteri, cripte, e feste alternative, Mimì – Il principe delle tenebre si presenta come un film strano e affascinante, capace di spaziare dall'horror al fantasy, dal noir alla dark comedy. La commistione di generi è dosata con intelligenza e la virata horror arriva al momento giusto. Brando De Sica, da quanto si dice in giro, è un appassionato di questo genere, e si vede. Le citazioni cinefile sono ovunque, ma non risultano mai esibite. Piuttosto, sono tracce, omaggi ben inseriti in una narrazione personale e visivamente curata. La regia è solida e la fotografia mi ha particolarmente colpito, con quei colori irreali – blu e rosso, caldi e freddi spesso contrapposti – che rimandano al cinema di Mario Bava. L'uso del colore è particolarmente significativo nella scena finale, dove Mimì e Camilla – ehm, Carmilla con la erre (cit) – vengono illuminati dal lampeggiante della polizia, in un contrasto emotivo che trascende la realtà.
L’epilogo, drammatico e ambiguo – è tutto vero o una fantasia del protagonista? – ha un tocco poetico e surreale. Al centro della storia, c'è una relazione d'amore tra due "diversi": una ragazza borderline, fragile e imprevedibile, e un ragazzo in cerca di identità, ingenuo, segnato nel corpo e nell'anima. Due anime rotte che cercano di salvarsi a vicenda.
I due attori protagonisti sono molto bravi. La giovane e minuta Sara Ciocca è sorprendente. Affascinante nella sua versione goth, fragile e vulnerabile nella sua cameretta da bambina. Domenico Cuomo è altrettanto bravo, capace di passare dalla timidezza di Mimì alla trasformazione violenta del "vampiro", con i suoi denti aguzzi e lo sguardo distorto. Il film, inoltre, è recitato bene. Finalmente in un film italiano i dialoghi, anche quando sono sussurrati, sono sempre chiari. Il dialetto napoletano non infastidisce, e quando è troppo stretto, intervengono i sottotitoli.
Guardandolo, mi è venuto spontaneo accostarlo a Lo chiamavano Jeeg Robot, ma con i vampiri al posto dei supereroi. E in alcune scene, come quella nelle catacombe, ho sentito forti echi del cinema di Guillermo del Toro.
Alla fine, Brando De Sica sembra più un orfano adottato da Tim Burton e dalla malinconia di Fellini che un regista cresciuto sulle spalle della becera commedia natalizia. Pare che per realizzare questo film non abbia sfruttato le sue conoscenze familiari, anzi, ci ha messo dieci anni e ha incontrato numerosi ostacoli. E si vede. È un film ostinato, personale, fuori rotta. Farsi strada nel cinema di genere in Italia non è facile. Ma io, sinceramente, tifo per lui. A volte i pregiudizi sono proprio deleteri.

The Call of Cthulhu
di Andrew Leman
Fino a ieri ignoravo l'esistenza di questo film. Poi ho visto che se ne parlava su uno dei gruppi social dedicati al cinema che frequento e sono riuscito a recuperarlo su Mubi al seguente link.
Sto parlando di The Call of Cthulhu, la trasposizione cinematografica dell'omonimo racconto di H.P. Lovecraft scritto nel 1926. A firmarla è Andrew Leman, uno dei fondatori della H. P. Lovecraft Historical Society, associazione di appassionati che da più di vent’anni si diletta a relaborare in modo creativo le opere letterarie del solitario di Provvidence.
The Call of Cthulhu è un film indipendente del 2005 dalla durata di 47 minuti che, oltre a rispettare la storia e l'atmosfera del racconto originale, ha la pecularietà di essere stato realizzato come se si trattasse di un mediometraggio degli anni venti, quindi in bianco e nero, muto e con le didascalie tipiche dei film di quel periodo.
La storia è abbastanza nota è vede un uomo entrare in possesso di una serie di documenti lasciati dal defunto zio, professore di lingue antiche. Man mano che ne ricompone il contenuto, attraverso appunti, ritagli e testimonianze sparse, emerge un filo invisibile che collega culti oscuri, visioni disturbanti, e misteriose sparizioni legate al nome di Cthulhu.
The Call of Cthulhu è una piccola perla per appassionati, un atto d’amore verso Lovecraft e il cinema delle origini. Nonostante il budget ridotto, Leman, Sean Branney (lo sceneggiatore) e il resto del gruppo riescono a evocare un’atmosfera autenticamente lovecraftiana, sfruttando ogni limite come leva creativa. Ogni dettaglio – i titoli di testa, la musica sinfonica in sottofondo, i giochi d’ombra, le scenografie sbilenche tipiche dell'espressionismo tedesco, persino la stop-motion che dà vita a Cthulhu – contribuiscono alla costruzione di un film che sembra arrivare da un’altra epoca, per riproporre con estrema fedeltà l'immaginario disturbante di Lovecraft.
Imperdibile per tutti gli appassionati dei miti di Cthulhu.
Film
La mummia
di Karl Freund
All’inizio degli anni trenta, il successo di Dracula e Frankenstein spinse la Universal a investire con decisione nel genere horror. Affascinato dal mistero dell’antico Egitto e dalle scoperte nella tomba di Tutankhamon, il produttore Carl Laemmle Jr. volle un film che unisse archeologia e terrore. Non trovando un’opera letteraria da adattare – com’era stato per i precedenti mostri – affidò allo sceneggiatore John Balderston lo sviluppo di un soggetto originale, partendo da un breve racconto ispirato alla figura di Cagliostro, reinterpretato come un antico stregone capace di vivere per millenni. Nacque così La mummia, affidato alla regia di Karl Freund, celebre direttore della fotografia che aveva già messo mano (più di quanto ufficialmente ammesso) a Dracula.
Per il ruolo del protagonista, la scelta cadde naturalmente su Boris Karloff, ancora fresco di successo – e di bulloni nel collo – dopo il ruolo del mostro di Frankenstein.
La trama vede una spedizione archeologica risvegliare accidentalmente la mummia di Imhotep, sacerdote dell’antico Egitto condannato a un’eternità di non-morte per aver cercato di riportare in vita la sua amata principessa. Riapparso dieci anni dopo sotto le spoglie dell’enigmatico Ardath Bey, Imhotep cerca di ritrovare l’anima della sua amata, ora reincarnata nella giovane Helen. Ma per completare il rituale, sarà necessario un nuovo sacrificio. Tra antichi papiri, ipnosi e atmosfere cariche di fatalismo, prende forma una storia di amore ossessivo, reincarnazione e destino.
Una storia più fantastica che orrorifica, molto meno provocatoria delle precedenti produzioni della Universal. Sicuramente la meno riuscita. La regia di Karl Freund è elegante ma statica, e tolta l’ottima sequenza iniziale, l’orrore evapora in favore di un melodramma esoterico poco coinvolgente. Boris Karloff regge il film con la sola forza del volto – scolpito nel tempo e nel trucco leggendario di Jack Pierce – ma il personaggio resta intrappolato in una sceneggiatura che non decolla.
Il ritmo è lento, i dialoghi rigidi, e il finale troppo frettoloso per lasciare il segno. La mummia resta una tappa obbligata per gli amanti del genere, ma più come reliquia da vedere e poi lasciare riposare nella sua cripta.

Antichrist
di Lars Von Trier
Lars Von Trier è considerato uno dei più trasgressivi registi contemporanei. Un autore estremamente divisivo e allergico a ogni forma di compromesso. Per alcuni un genio provocatore, per altri un narcisista e un misogino compiaciuto. Personalmente, fin dai tempi di The Kingdom — la serie televisiva surreale degli anni novanta — il suo cinema esercita su di me un’attrazione magnetica. Idioti, Dogville e Dancer in the Dark restano, a mio avviso, tra le sue opere più significative. L’ultimo suo film che avevo visto era Il grande capo, poi l'ho perso di vista. Ora, con la giusta disposizione d'animo, ho deciso di recuperare la tanto discussa "trilogia della depressione", iniziando proprio da Antichrist, film controverso e urticante che ha diviso pubblico e critica fin dalla sua uscita.
Presentato al Festival di Cannes nel 2009, Antichrist scatenò fin da subito un acceso dibattito. La proiezione fu accolta da una pioggia di fischi e critiche feroci, soprattutto per alcune scene di sesso esplicito e per la brutale violenza che esplode nel finale del film. La conferenza stampa non contribuì certo a stemperare il clima. Von Trier, nel suo consueto stile provocatorio, si autoproclamò "il miglior regista del mondo" e dichiarò di non dover spiegazioni a nessuno, perché "Dio gli parlava personalmente". Tra sconcerto e imbarazzo, alcuni giornalisti lasciarono la sala. Il film venne escluso dal palmarès, tranne che per il premio alla Miglior Attrice assegnato a Charlotte Gainsbourg. Antichrist diventò immediatamente un caso mediatico e culturale, che ancora oggi continua a dividere.
Il film è suddiviso in un prologo, quattro capitoli — Dolore, Pietà, Disperazione e I tre mendicanti — e un epilogo, quasi fosse un dramma teatrale, ma costruito con l’estetica allucinata di un incubo visivo. La trama ruota attorno a due soli personaggi, una coppia (Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg) che, mentre si abbandonano a un intenso rapporto sessuale, non si accorgono che in un’altra stanza il loro figlioletto esce dalla culla, s’arrampica sulla sedia, sale sul tavolo accanto, si sporge dalla finestra e precipita nel vuoto. Una sequenza di straordinaria potenza visiva, girata in slow motion e in bianco e nero, che fonde eros e thanatos, bellezza e tragedia, con la musica struggente di Händel a rendere il tutto ancora più lacerante.
I due genitori, sconvolti dal lutto, cercano di affrontare il dolore in modo opposto. Lui, terapeuta, tenta di guidare la moglie in un percorso di elaborazione razionale del trauma. Lei, invece, si lascia risucchiare da un abisso di colpa e sofferenza che sfugge a ogni controllo. Per cercare di esorcizzare il dolore, la coppia si ritira nella loro baita nel bosco di Eden, dove lei aveva passato l'estate precedente con il figlio, lavorando alla sua tesi contro il femminicidio. Ma Eden non è un rifugio, bensì un luogo arcano e ostile, dove natura e femminile si fondono in una forza primordiale e distruttiva. Isolati nella baita, i due scivolano in una spirale di paranoia, ossessione e crudeltà, in un crescendo di follia e violenza, sia fisica che psicologica.
Un film decisamente difficile, pesante sia nei contenuti che nella forma. Antichrist è un’opera che mette in scena il dolore originato dall'atto sessuale. Il senso di colpa di lei, per essersi abbandonata al piacere mentre il figlio moriva, è troppo grande da sopportare. Il sesso, da atto di unione, si trasforma in strumento di dominio, punizione e sofferenza. Qualcosa di sporco, inquietante, che alla fine deve essere reciso, estirpato. Lui, psicanalista razionale e distaccato, affronta il lutto con freddezza — lo vediamo piangere solo al funerale — e decide di fare della moglie la propria paziente, convinto di poterla curare con la sola forza della mente. Lei invece è devastata, cerca le sue labbra, ha bisogno del suo corpo, perché la carne sembra l’unico mezzo per colmare il vuoto. Ma lui la respinge, si sottrae, e l’incomunicabilità sessuale diventa un abisso spalancato tra i due. Il sesso, da esperienza vitale, si trasforma in contaminazione, perdita di controllo, discesa nell’oscurità.
Von Trier racconta questa trasformazione con immagini esplicite, scioccanti, ma mai gratuite. Ogni gesto, ogni inquadratura sembra suggerire che nella carne si annidi anche la morte, che eros e thanatos siano due facce dello stesso impulso originario. Antichrist è una seduta psicanalitica travestita da horror, in cui la diversa elaborazione del lutto tra uomo e donna diventa una lotta tra mente e corpo, controllo e caos, logos e natura.
Il film è denso di simboli e suggestioni stratificate. Volendo semplificare, si potrebbe leggerlo come la discesa agli inferi di una donna tormentata dal senso di colpa, che per sopravvivere accetta di essere “strega” e di incarnare la propria malvagità. Ma la lettura è tutt’altro che univoca. Alcuni vi hanno visto un attacco al femminile, una visione misogina che associa la donna alla natura intesa come entità crudele, istintiva, incontrollabile. Eppure, Antichrist è anche una critica feroce al maschile, al suo desiderio di dominare e razionalizzare ciò che sfugge al controllo.
Il film è dedicato a Tarkovskij, e non è difficile coglierne l’influenza nel linguaggio visivo e nella struttura. Ma io ci ho rivisto anche Possession di Andrzej Zulawski, con la sua esplorazione del dolore attraverso la follia e il delirio.
Dal punto di vista tecnico, Antichrist è di una bellezza disarmante. La regia di Von Trier alterna una compostezza quasi liturgica a esplosioni improvvise di violenza e caos, accentuate dalla fotografia visionaria e profonda di Anthony Dod Mantle.
Straordinarie anche le interpretazioni dei due protagonisti. Willem Dafoe — l’ho già detto che è il mio attore preferito? — è perfetto nella sua maschera di controllo e razionalità, mentre Charlotte Gainsbourg offre una prova di rara intensità fisica ed emotiva. Si spoglia, letteralmente e metaforicamente, portando sullo schermo una sofferenza che si fa carne, urlo e follia.
Come spesso si dice, Antichrist non è un film per tutti. Non lo consiglierei a chi fatica a entrare in sintonia con l’autore e non ha una certa affinità. Ma per me è stata un’esperienza. Faticosa, sì, ma anche necessaria. Una discesa verso il caos da cui non si esce indenni.
Film
Cure
di Kiyoshi Kurosawa
In occasione della sua uscita nelle sale italiane, sono andato a vedere Cure di Kiyoshi Kurosawa, il film che nel 1997 ha aperto – insieme a Ring di Hideo Nakata e Audition di Takashi Miike – la prima ondata del cosiddetto J-Horror. Un’opera che ha segnato l’ascesa di Kurosawa nel panorama del cinema giapponese contemporaneo, proiettandolo tra i registi più rilevanti e meno inquadrabili.
A quasi trent’anni di distanza, Cure resta un oggetto misterioso. Oscuro, disturbante, elusivo. Non a caso è diventato un film di culto, ammirato da registi come Martin Scorsese, Ari Aster e Bong Joon-ho, che lo hanno citato tra le loro opere di riferimento.
In una Tokyo fredda e desolata vengono compiuti una serie di omicidi inquietanti. Le vittime vengono trovate con una X incisa sulla gola. Gli assassini, persone comuni, senza legami apparenti tra loro, vengono sempre identificati sul posto, ma sembrano non ricordare nulla del delitto. Il detective Kenichi Takabe (interpretato da uno straordinario Koji Yakusho), un uomo razionale tormentato dalla fragile salute mentale della moglie, inizia a indagare su questi casi inspiegabili. Il sospettato principale è un giovane enigmatico, Mamiya (Masato Hagiwara), che pare aver perso la memoria ma sembra nascondere molto più di quanto lasci intendere.
Kurosawa ha dichiarato di essersi ispirato a Il silenzio degli innocenti e Seven, ma prenderla alla lettera è fuorviante. Sì, c’è un detective, c’è un’indagine e c’è un assassino. Ma Cure non è davvero un film sui serial killer. È qualcos’altro. È un thriller spogliato di tensione narrativa classica, che si muove in uno spazio indefinibile, dove il terrore non è visibile, ma percepito. Niente musica, pochi dialoghi, lunghi piani sequenza, inquadrature fisse e suoni ambientali che si insinuano sotto pelle. L’orrore non arriva mai in modo spettacolare. Lo senti nel rumore di un neon, nel silenzio di una stanza vuota, nel volto inespressivo di chi ha appena ucciso senza sapere perché.
Kurosawa prende i cliché del thriller psicologico e li disinnesca uno ad uno. Non cerca la suspense, ma l’inquietudine. Lavora di sottrazione focalizzando sull'aspetto metafisico ed esistenziale. Il tema dell’ipnosi – o meglio, del mesmerismo – insinua l’idea che basti poco per liberare la volontà e far emergere l’oscurità che ognuno porta dentro. Cure è un film sul Male con la “M” maiuscola. Non come figura identificabile, ma come presenza invisibile che può insinuarsi nelle crepe della normalità. Il Male, qui, è un virus che si trasmette con uno sguardo o una frase sussurrata.
Il ritmo è lentissimo, quasi ipnotico. Ma è proprio quella lentezza a creare tensione. Tutto può succedere, da un momento all’altro, e spesso non succede. Alla fine viene quasi da pensare che sia tutto nella mente del detective, come suggerisce il medico che gli dice che sarebbe lui da internare al posto della moglie.
Quando l'ho visto per la prima volta, ammetto di avere avuto un senso di smarrimento. E quindi? Alla fine è stata questa la domanda che mi sono fatto. È un film ambiguo, sfuggente, che ti lascia addosso più domande che risposte. Non offre spiegazioni. Non cerca il compiacimento. Sicuramente è uno di qui film che necessita più di una visione.
Vederlo al cinema dopo parecchi anni e con una diversa maturità è stata un’esperienza completamente nuova. Non solo ha resistito al tempo, ma oggi forse inquieta più di allora.

Il colore venuto dallo spazio
di Richard Stanley
Recentemente mi è capitato di leggere una lista degli horror preferiti da Trent Reznor – la mente dietro i Nine Inch Nails – e tra i titoli spiccava Il colore venuto dallo spazio. Strano a dirsi, ma era uno dei pochi della lista che non avevo ancora visto. Incuriosito, me lo sono subito recuperato.
Il film è diretto da Richard Stanley, nome che forse ai più suonerà vago, ma che nei primi anni novanta ha firmato due chicche di fantascienza a basso budget considerate dei cult dagli amanti del genere: Hardware, un cyberpunk post-apocalittico alquanto sperimentale, e Demoniaca, un road movie horror ambientato in Sudafrica. Dopo un lungo esilio dai set (complice il disastro produttivo de L'isola del dottor Moreau), Stanley torna dietro la macchina da presa nel 2019 adattando per il cinema l’omonimo racconto di H.P. Lovecraft, uno dei più evocativi e indecifrabili della sua intera produzione.
Nathan Gardner (Nicolas Cage) si è trasferito con la famiglia nella campagna del New England per iniziare una nuova vita, lontano dal caos urbano. La loro tranquillità viene però spezzata dall’impatto di un misterioso meteorite nel terreno vicino casa. Da quel momento, le piante assumono colori innaturali, gli animali mutano e le persone iniziano a comportarsi in modo sempre più strano. Una forza aliena, imperscrutabile e invisibile, sembra insinuarsi lentamente nella materia stessa delle cose. Un colore che non dovrebbe esistere sta trasformando la realtà.
Trasporre Lovecraft al cinema è da sempre un’impresa disperata. Il suo orrore è cosmico, sfuggente, basato sull’indecifrabile. Eppure, Il colore venuto dallo spazio riesce – pur con qualche inciampo – a catturare un senso di smarrimento e contaminazione che su schermo funziona sorprendentemente bene. Stanley imbastisce un’ambientazione familiare in una casa isolata nel bosco, dove tutto viene lentamente corrotto da un elemento che non si riesce a nominare, né a comprendere. La scelta di usare un’esplosione cromatica digitale per rappresentare l’entità aliena è audace e forse non sempre elegante, ma rende bene l’idea di una presenza che non appartiene al nostro spettro percettivo.
Nicolas Cage, va detto, non è mai stato tra i miei attori preferiti. Qui però trova terreno fertile per la sua ormai tipica recitazione sopra le righe, che si sposa bene con l’andamento delirante della storia. La sua discesa nella follia – tra urla, occhi spiritati e crisi isteriche – diventa paradossalmente uno degli elementi più coerenti del film.
Non credo di essere il solo ad aver trovato un forte parallelismo con Annihilation di Alex Garland. Anche lì c’è una forza aliena che altera la genetica, lo spazio e la percezione, trasformando il paesaggio in qualcosa di bellissimo e mostruoso. Ma dove Garland resta più cerebrale, Stanley affonda nel viscerale, prendendo una deriva body horror, soprattutto nella seconda parte, parecchio più esplicita e delirante.
Ci sono momenti in cui il film sembra perdersi nel proprio trip psichedelico, e non tutto funziona (sia nella trama che negli effetti speciali, un po’ grezzi), ma la sensazione di spaesamento, l’atmosfera di minaccia invisibile e quel finale opprimente e straniante – che ritrae la lenta dissoluzione dei protagonisti – lo rendono, alla fine, abbastanza convincente.
Non un film perfetto, nulla di memorabile, ma rimane una delle trasposizioni lovecraftiane più interessanti.
Film
In a Violent Nature
di Chris Nash
Uscito recentemente in Italia in home video, In a Violent Nature è un horror slasher indipendente diretto dall'esordiente Chris Nash e prodotto da Shudder. Presentato al Sundance Festival, il film ha stimolato un vivace dibattito in rete grazie ad alcune sequenze particolarmente crude, che hanno contribuito ad aumentare la sua notorietà.
La storia non è il massimo dell'originalità. Un gruppo di ragazzi in vacanza nei boschi canadesi trova un vecchio ciondolo in un capanno abbandonato risvegliando involontariamente un colosso putrescente di nome Johnny che giaceva sotto terra in attesa di tornare a seminare morte. Inizia così una caccia inesorabile in cui l'implacabile assassino, con passo lento ma inarrestabile, elimina uno dopo l’altro i malcapitati con una brutalità che non lascia spazio all’immaginazione.
Fin qui, nulla di nuovo. Potrebbe sembrare il solito slasher alla Venerdì 13 o Non aprite quella porta, con l'energumeno di turno che fa mattanza di adolescenti idioti e rumorosi. Solo che in questo caso Nash ribalta la prospettiva, e la narrazione si sposta interamente dal punto di vista dell’assassino, relegando le vittime a mere comparse di un dramma annunciato. Il risultato è una sorta di videogioco in terza persona in cui lo spettatore si ritrova a seguire Johnny nelle sue lunghe camminate silenziose, spesso inquadrato di spalle, immerso in una natura tanto ostile quanto lui.
L’estetica del film si costruisce su piani sequenza lunghissimi, panoramiche lente, e inquadrature statiche che trasformano la foresta in un labirinto opprimente. L’assenza totale di colonna sonora amplifica la tensione e l'angoscia.
Quando arriva la violenza, però, il film non fa sconti. La uccisioni, realizzate con effetti speciali prostetici curati da Steven Kostanski, sono particolarmente brutali. Tra queste spicca quello della ragazza che fa yoga, la cui testa viene uncinata e tirata fino ad attraversare il suo torso, diventata già un mezzo cult tra gli appassionati dello splatter.
L’approccio autoriale e sperimentale di Nash potrebbe non piacere a tutti. Le lunghe sequenze di Johnny che vaga per la foresta possono risultare estenuanti, soprattutto per chi si aspetta il ritmo più serrato di uno slasher tradizionale. Non ci sono personaggi memorabili, non c’è una vera trama, non c’è altro che la lenta, inesorabile avanzata di un mostro vendicativo.
Io l'ho trovato interessante, quasi una boccata d’aria fresca in un panorama slasher fossilizzato su se stesso. Il finale, quello in cui la final girl viene caricata dalla donna in macchina, mi ha trasmesso una paura nera, la tensione disturbante di un pericolo incombente.
In a Violent Nature non è un film perfetto ma secondo me merita di essere visto dagli appassionati del genere che cercano qualcosa di originale.
Film
The Monkey
di Oz Perkins
Avendo visto i precedenti film di Oz Perkins, la domanda sporge spontanea. Cosa ha spinto un regista da sempre votato a un terrore sottile e visivamente accennato, che ha costruito il suo stile su atmosfere rarefatte e cupe, a cimentarsi con un horror comedy splatteroso che sfiora la parodia?
Ispirato a un racconto breve di Stephen King e prodotto dall'Atomic Monsters di James Wan, The Monkey racconta la storia di Hal e Bill, due fratelli gemelli (entrambi interpretati da Theo James) segnati dall’abbandono del padre e da una madre cinica e alcolizzata. Il loro rapporto è tutt’altro che idilliaco. Bill è il fratello dominante, che non perde occasione per bullizzare il più timido Hal, alimentando il suo rancore. Un giorno, i due trovano in soffitta un’inquietante scimmietta giocattolo appartenuta al padre. Basta girare la chiave per attivare un meccanismo infernale: la scimmia digrigna i denti, solleva il braccio e colpisce il suo tamburo provocando la morte violenta e inspiegabile di qualcuno nelle vicinanze. Non fa distinzioni, non accetta richieste. Decide lei chi, quando e come. I due ragazzi cercano disperatamente di sbarazzarsene, ma la scimmia continua a tornare, come se nulla fosse. Venticinque anni dopo, quando ormai sembrava solo un ricordo sepolto nel passato, l'oggetto maledetto riappare, costringendo Hal, ora padre di famiglia, a cercare di distruggerlo una volta per tutte.
Abbandonando la seriosità dei suoi film precedenti, Oz Perkins decide di non prendersi troppo sul serio, realizzando un horror dal tono grottesco, in cui l’umorismo macabro si mescola a un destino ineluttabile. Le morti si susseguono una dopo l'altra - è inevitabile non pensare a Final Destination - in modo del tutto casuale e con un buon grado di gore, senza però mai strafare. La volontà è quella di strappare la risata piuttosto che cercare di provocare disgusto.
E quindi, tornando alla domanda iniziale: perché questo cambio di rotta così marcato da parte del regista di Longlegs e Gretel e Hansel? La risposta potrebbe essere duplice. Da un lato, The Monkey sembra il tentativo di Perkins di dimostrare il proprio eclettismo, la capacità di muoversi con disinvoltura da un registro all’altro. Dall’altro, potrebbe aver colto l’occasione per destrutturare il genere stesso, prenderlo un po’ in giro, e usare l’umorismo nero come strumento per esorcizzare l’inevitabilità della morte.
E come ignorare il vissuto personale del regista? Il padre, Norman Bates, morì di AIDS quando Oz aveva solo diciotto anni, mentre la madre perse la vita nove anni dopo, a bordo di uno degli aerei dirottati andatosi a schiantare nell'attentato delle torri gemelle. Il regista trasforma questa fragilità esistenziale in una narrazione che, pur apparendo leggera e sopra le righe, nasconde un sottotesto malinconico. In fondo, qualunque cosa facciamo, siamo tutti destinati a morire.
The Monkey è una commedia nera, cinica e spietata. Un film che va fuori i binari prestabiliti, diverte, ha un buon ritmo, e tante scene con morti assurde, cruenti ed esileranti (la ragazza che esplode tuffandosi in una piscina elettrificata, un giovanotto che ingerisce uno sciame di vespe, il campeggiatore investito da una mandria di cavalli). Non è certo il miglior film di Perkins, ma dimostra la sua capacità di adattarsi anche a prodotti più commerciali senza tradire del tutto la sua identità di regista indipendente. Perfetto per chi cerca un horror leggero ma intelligente, capace di far sorridere mentre riflette sull’imprevedibilità della vita… e della morte.
Film
Vampyr
di Carl Theodor Dreyer
Nel 1932, agli albori del cinema sonoro, Carl Theodor Dreyer, regista danese noto per La passione di Giovanna d’Arco, realizzò Vampyr, un horror sperimentale e visionario liberamente ispirato ai racconti dello scrittore irlandese Joseph Sheridan Le Fanu. Accostato a Nosferatu di Murnau e Dracula di Browning in un’ideale trilogia sulla figura del vampiro, il film di Dreyer segue però una strada tutta sua. Se il capolavoro di Murnau incarnava il terrore espressionista e Dracula rappresentava un prodotto hollywoodiano più convenzionale, Vampyr si avvicina al surrealismo di Buñuel, con un’atmosfera sospesa tra sogno e incubo.
Allan Gray, giovane studioso dell’occulto, arriva nel villaggio di Courtempierre, avvolto in un’atmosfera spettrale. Ospite di una locanda, inizia a percepire presenze inquietanti e a vivere eventi inspiegabili. Una notte, un uomo entra nella sua stanza e gli lascia un libro sui vampiri con l’indicazione di aprirlo solo dopo la sua morte. Poco dopo, l’uomo viene ucciso e Gray scopre che sua figlia, Léone, è sotto l’influenza di Marguerite Chopin, un'anziana vampira che servendosi di un medico sinistro tiene in pugno la comunità, alimentandosi della linfa vitale delle sue vittime.
Alla sua uscita, Vampyr fu un insuccesso commerciale, accolto con freddezza dal pubblico europeo. Probabilmente ciò fu dovuto a diversi fattori. Il film, realizzato subito dopo i successi di Dracula e Frankenstein della Universal, è un ibrido tra cinema muto e sonoro, dove i dialoghi sono ridotti al minimo e la narrazione si affida in gran parte a didascalie esplicative. Inoltre, il cast è composto per lo più da attori non professionisti, con il protagonista interpretato dal barone Nicolas de Gunzburg sotto lo pseudonimo di Julian West che è lo stesso produttore del film. Ma il vero elemento di rottura è la rappresentazione stessa del vampiro, completamente diversa da quella che il pubblico si stava abituando a vedere. Qui il vampiro è una anziana donna, apparentemente normale, che si affida a un inquietante e malvagio dottore baffuto, che si rivela essere il vero villain della storia.
La forza di Vampyr non risiede tanto nella trama o nella caratterizzazione del vampiro, quanto nella sua estetica e nel linguaggio visivo innovativo. Pur girato in esterni e alla luce del sole, il film crea un’atmosfera onirica e rarefatta, fatta di luci soffuse e ombre inquietanti che trasportano lo spettatore in un incubo ad occhi aperti. La realtà si dissolve nel sogno e viceversa, rendendo il racconto volutamente ambiguo. Il ritmo è ipnotico, denso di invenzioni stilistiche e scene surreali riprese da angolazioni inusuali, come la visione del contadino con la falce, emblema della morte, o la sequenza in cui le ombre danzano sui muri oppure si staccano dai corpi. Ma la scena più celebre, all’epoca innovativa, è quella della sepoltura di Allan Gray girata in soggettiva, che ci mostra il protagonista intrappolato nella bara, mentre osserva il mondo esterno attraverso un piccolo vetro, condotto verso la tomba.
Vampyr è un horror costruito sulla suggestione, più che sull’azione. L’orrore non è esplicito, ma insinuato tra le ombre e i silenzi. Non è un film di vampiri tradizionale, ma un’esperienza immersiva che esplora il confine tra il visibile e l’invisibile, il reale e il sogno, lasciando che l'orrore emerga dall’indefinito. Un classico del cinema fantastico
Film
The Conjuring - L'Evocazione
di James Wan
James Wan non è mai stato un regista che mi appassiona più di tanto. Il suo nome è legato principalmente a Saw (di cui ha diretto il primo capitolo), e diversi horror di facile consumo fatti di jumpscare ben realizzati, un estetica da manuale e un’estrema pulizia visiva. Un regista che conosce il mestiere, ha capito cosa vuole il pubblico e sa come offrirglielo, ma il cui cinema sembra più attento al confezionamento che alla sostanza.
The Conjuring del 2013 rappresenta la sintesi perfetta delle sue abilità e dei suoi limiti, un film che prende il gotico classico, lo aggiorna con una regia moderna e lo arricchisce di jumpscare perfettamente calcolati. Il risultato è un film elegante nella messa in scena, efficace nell’intrattenimento, ma che difficilmente lascia il segno.
Il film (distribuito in Italia con il sottotitolo L'Evocazione) si basa su una delle tante indagini condotte da Ed e Lorraine Warren, celebri demonologi e studiosi del paranormale, il cui archivio di presunti casi reali ha ispirato numerosi film, tra cui il più famoso Amityville Horror.
La vicenda segue la famiglia Perron, che nel 1971 si trasferisce in una casa di campagna nel Rhode Island, ignara del male che vi si annida. Quando eventi inspiegabili iniziano a tormentare i due coniugi e le loro cinque figlie, Carolyn Perron (Lili Taylor) si rivolge agli investigatori del paranormale Ed e Lorraine Warren (Patrick Wilson e Vera Farmiga). La coppia di demonologi scopre che la casa è infestata dallo spirito di una strega, Bathsheba, e che l’entità sta prendendo il controllo di Carolyn. Mentre la possessione si intensifica, i Warren devono affrontare il male in una lotta contro il tempo per salvare la famiglia.
The Conjuring è un film che fa esattamente quello che promette. Spaventa, intrattiene e confeziona un’esperienza horror accessibile a un pubblico ampio. Wan costruisce la tensione con un ritmo perfettamente studiato, giocando con movimenti di macchina fluidi, suoni diegetici e un uso calibrato del silenzio per amplificare l’effetto degli spaventi. Ogni jumpscare è progettato con precisione matematica, e il risultato è un horror che funziona come una giostra dell'orrore. Nonostante il film sia pieno zeppo di cliché – dai battiti insistenti sulle pareti al gioco del battimani, dal carillon inquietante alla bambola posseduta – la regia attenta e il montaggio chirurgico riescono comunque a far sobbalzare lo spettatore meno smaliziato. Sul piano visivo, il film richiama il cinema gotico con le sue case scricchiolanti, le ombre minacciose e una fotografia dalle tonalità desaturate.
Rivedendolo oggi, The Conjuring si conferma un horror costruito con grande mestiere, curato nella regia e impeccabile sul piano tecnico. Funziona nell’immediato, con una tensione ben calibrata e momenti di puro spavento, ma, almeno per me, manca di quel senso di inquietudine duraturo che distingue gli horror più incisivi. Ovviamente il film ha incassato milioni, conquistato il pubblico e dato il via a un’intera saga fatta di sequel e spin-off, segno che Wan ha saputo intercettare esattamente ciò che gli spettatori volevano.
Film
Pandemonium
di Quarxx
Quarxx è un regista, pittore e artista multimediale francese con una spiccata inclinazione per il cinema fantastico e horror. Dopo l’esordio con Tous Les Dieux Du Ciel e una serie di cortometraggi, nel 2023 porta sullo schermo Pandemonium, un viaggio visionario negli Inferi. Entrambi i film, al momento, restano inediti in Italia.
Tutto comincia su una strada di montagna avvolta nella nebbia, dove un'auto e una moto si sono da poco scontrate violentemente. Nathan (Hugo Dillon), il conducente dell'auto, si risveglia sull’asfalto, illeso ma confuso. Poco distante si trova il motociclista, Daniel (Arben Bajraktaraj), il quale gli rivela che entrambi sono morti. inizialmente Nathan non gli crede, ma quando vede il proprio cadavere all'interno della macchina, è costretto ad accettare la tragica verità. Inaspettatamente, appare anche una bambina, vittima dell’incidente, e mentre per lei si spalanca la porta verso la luce, per Nathan e Daniel si apre l’ingresso all’Inferno.
Il viaggio infernale di Nathan diventa il filo conduttore di altre due storie che scavano nel senso di colpa e nella disperazione umana. La prima riguarda una bambina profondamente disturbata che uccide i suoi genitori e poi la sorellina, mentre nella seconda incontriamo una giovane suicida, vittima di bullismo, e sua madre, troppo assorbita dal lavoro per rendersi conto della sofferenza della figlia. La storia della bambina è grottesca e raccapricciante, mentre quella della madre e della figlia suicida è particolarmente straziante.
Quarxx si ispira dichiaratamente a "…E tu vivrai nel terrore! – L’aldilà" di Lucio Fulci, un film che lo ha segnato fin da bambino, e l’influenza è evidente. Pandemonium condivide con il cult italiano lo stesso senso di oppressione e di ineluttabilità. Ma ci sono anche richiami all’estetica sadica di Hellraiser di Barker soprattutto nella parte finale, dove Nathan si ritrova condannato a un’eternità di sofferenza, diventando il "giocattolo" del suo carnefice. Visivamente, il film è potente. L'Inferno immaginato da Quarxx ha una qualità pittorica, oscura e ipnotica. Ma la narrazione? Qui iniziano i problemi.
L’aspetto antologico rende il film frammentato, quasi disorientante. Le storie, per quanto affascinanti, sembrano poco coese e il tutto risulta discontinuo e un pò confusionario. Per esempio dove è andato a finire il motocilista? E la bambina che ha ucciso i genitori quando muore? E quella sottotrama sull'anticristo che appare sul finale, è un accenno a un possibile seguito o solo un’idea abbozzata?
Alla fine, Pandemonium lascia una sensazione strana. È come se Quarxx avesse tra le mani un concept perfetto per una serie televisiva antologica, con ogni episodio dedicato a una delle storie e un filo conduttore più solido. Così com'è, sembra un esperimento dal potenziale enorme, ma non del tutto realizzato. Eppure, nonostante la sua discontinuità, il film riesce a colpire. È destabilizzante, angosciante, visivamente ipnotico, e non lascia indifferenti. In fondo, non è forse questo lo scopo dell’horror?

Vampira umanista cerca suicida consenziente
di Ariane Louis-Seize
Colpito dal titolo wertmülleriano, mi sono recuperato Vampira umanista cerca suicida consenziente, una dark comedy canadese in lingua francese del 2023, diretta dall’esordiente Ariane Louis-Seize. Presentato all'80ª Mostra del Cinema di Venezia, il film è disponibile su IWonderfull, la piattaforma streaming attivabile su Prime Video.
Sasha (Sara Montpetit) è una giovane vampira con un problema decisamente insolito: è troppo empatica per uccidere. Cresciuta grazie alle sacche di sangue fornite dai genitori, si rifiuta di cacciare, scatenando la frustrazione della famiglia che la vede incapace di rendersi indipendente. Quando i genitori, ormai esasperati, le tagliano i rifornimenti, Sasha si trova davanti a un bivio, accettare la sua natura o rischiare di morire di fame. A offrirle una via d’uscita è Paul (Félix-Antoine Bénard), un adolescente solitario con tendenze suicide, disposto a sacrificarsi per lei. Ma prima che arrivi il momento fatidico, i due decidono di prendersi una notte tutta per loro, esaudendo i desideri di Paul in un viaggio notturno tra amicizia, scoperta e, forse, una nuova voglia di vivere.
Tra umorismo nero e tenerezza, Vampira umanista cerca suicida consenziente gioca con il mito del vampiro per raccontare un coming-of-age originale e profondo. Sasha è l’emblema di una generazione sospesa, una ragazza mantenuta dai genitori che cerca disperatamente di sopprimere la sua natura. Paul, dal canto suo, è altrettanto perso, un’anima alla deriva che ha smesso di credere nel futuro e che cerca di porre fine alla sua esistenza. La loro amicizia nasce in quella zona grigia tra morte e salvezza, due adolescenti che si sentono fuori posto nel loro mondo, due emarginati che trovano conforto nelle reciproche fragilità.
Il film si muove con leggerezza tra grottesco, surreale e malinconico, lasciando spazio a momenti di grande delicatezza. Bellissima la scena in cui Sasha e Paul, in silenzio, cantano Emotions di Brenda Lee, lasciando che la musica parli per loro. Ottime anche le interpretazioni dei due giovani protagonisti, con la Montpetit che sembra uscita da un vecchio film di Tim Burton.
Non è il nuovo Lasciami entrare ma possiede un equilibrio raro tra humour nero e dolcezza, riuscendo a rendere il macabro incredibilmente umano.
Film
Il dottor Jekyll (1931)
di Rouben Mamoulian
Il 1931 non è solo l’anno in cui la Universal dà il via al filone dei Monster Movie con Dracula e Frankenstein, ma anche quello in cui la Paramount produce Il dottor Jekyll (Dr. Jekyll & Mr. Hyde), uno degli horrror più interessanti e innovativi del periodo. Ispirato al celebre racconto di Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, il film diretto Rouben Mamoulian è noto per aver aperto la prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia ed essere il primo horror a vincere un Oscar.
Il dottor Henry Jekyll (Fredric March) è un brillante scienziato londinese, convinto che l’animo umano sia diviso tra bene e male. Determinato a dimostrare la sua teoria, sviluppa un siero capace di separare queste due nature, trasformandolo nel crudele e animalesco Edward Hyde. Inizialmente, Jekyll crede di poter controllare il suo alter ego, ma Hyde inizia a manifestarsi sempre più spesso, rivelando una violenza crescente. Mentre il rispettabile Jekyll è devoto alla sua fidanzata (Rose Hobart), il feroce Hyde si accanisce su Ivy Pearson (Miriam Hopkins), una giovane prostituta che aveva salvato da un’aggressione prima ancora della sua metamorfosi. Con il passare del tempo, la linea tra scienziato e mostro si assottiglia sempre di più, trascinando Jekyll in un vortice di orrore e distruzione che lo condurrà a un tragico epilogo.
Il film di Mamoulian è un’opera visivamente straordinaria, che si distacca notevolmente dalle altre pellicole dell’epoca per la sua messa in scena. Basti pensare alla lunga sequenza iniziale con la soggettiva di Jekyll, che culmina con la sua immagine nello specchio, per comprendere sia la bravura tecnica del regista che la sua volontà di coinvolgere lo spettatore, anticipando il tema centrale dell’identità e del doppio. Notevoli anche la fotografia e le scenografie espressioniste nei vicoli notturni di Londra. La trasformazione di Jekyll in Hyde, realizzata con transizioni, dissolvenze fluide e un ingegnoso gioco di filtri cromatici e luci (un effetto speciale che Mario Bava riproporrà ne La maschera del Demonio), resta una delle più impressionanti dell’epoca. Fredric March, che per questo film vince l'Oscar come miglior attore protagonista, ci regala una magistrale interpretazione. Il suo Jekyll è un uomo tormentato, affascinante e razionale, mentre il suo Hyde è un essere dall’aspetto scimmiesco, dotato di forza sovrumana, agilità e risata diabolica, governato da istinti primordiali e impulsi sessuali.
Ed è proprio la sessualità uno dei temi dominanti nel film di Mamoulian. Prodotto poco prima dell’entrata in vigore del Codice Hays, Il dottor Jekyll affronta senza troppi filtri il desiderio represso e le conseguenze della sua liberazione incontrollata. Jekyll, uomo rispettabile e devoto alla fidanzata Muriel, è frustrato dall'attesa del matrimonio, mentre Hyde, che incarna la sua parte più istintiva e violenta, libera la sua sessualità repressa su Ivy Pearson, specchio della fragilità e dell’ipocrisia del protagonista, trasformandola in un oggetto di dominio e sopraffazione. La scena in cui Ivy Pearson cerca di sedurre Jekyll è ancora oggi carica di tensione erotica, mentre quella in cui Hyde costringe Ivy a sedersi sulle sue ginocchia e la accarezza mentre lei, visibilmente terrorizzata, cerca di mantenere un sorriso, continua a disturbare con la stessa intensità. Sono queste le scene tagliate dal codice censorio quando il film fu rieditato nel 1936. Fortunatamente, queste sequenze furono poi reinserite nelle edizioni home video.
Il dottor Jekyll di Mamoulian resta uno dei migliori adattamenti della storia del cinema. Un film elegante, terrificante e modernissimo per il suo tempo, che trasforma la storia di Stevenson in un incubo espressionista di identità frantumate.
Film
Ring (1998)
di Hideo Nakata
All'inizio degli anni 2000, il J-Horror – l'horror giapponese – ha riscritto le regole della paura nel cinema occidentale. Non più carneficine splatter o esorcismi spettacolari, ma un terrore sottile, insinuante, fatto di presenze inquietanti, spiriti e maledizioni.
Ring, il film del 1998 diretto da Hideo Nakata (erroneamente conosciuto come Ringu a causa di una traduzione errata su alcuni poster internazionali), nonostante l'uscita, l'anno precedente, di un altro grande esponente del genere, Cure di Kiyoshi Kurosawa, segna a tutti gli effetti la rinascita del J-Horror a livello internazionale. Il successo di The Ring, il remake americano nel 2002, ha reso il J-Horror un fenomeno globale, con il film di Nakata – che ricordiamo essere tratto dall'omonimo romanzo di Koji Suzuki – che diventa il capostipite di un'intera corrente cinematografica, generando una lunga scia di sequel, remake e imitazioni.
Le storie dell'orrore giapponese affondano le radici nel folklore e nelle leggende tradizionali. Tra le figure più ricorrenti troviamo gli yurei, fantasmi vendicativi dal volto cadaverico e dai lunghi capelli neri, ispirati alle credenze shintoiste e buddiste sulla vita dopo la morte. La vera peculiarità del J-Horror sta nella sua capacità di portare queste antiche figure nell’era moderna, fondendo tradizione e tecnologia. Videocassette maledette, telefoni cellulari, macchine fotografiche e computer diventano i nuovi vettori dell'orrore, strumenti attraverso cui il sovrannaturale si insinua nella quotidianità, trasformando oggetti comuni in portali verso l'incubo.
La storia è ormai ben nota. La giornalista Reiko Asakawa sta indagando sulla misteriosa morte della nipote e di alcuni suoi amici, deceduti in circostanze inspiegabili. Le sue ricerche la portano a scoprire una leggenda metropolitana che si sta diffondendo tra gli adolescenti: chiunque guardi una certa videocassetta riceve subito dopo una telefonata che annuncia la sua morte entro una settimana. Decisa a scoprire la verità, Reiko si reca nello stesso luogo in cui la nipote e i suoi amici hanno trascorso l’ultima notte e lì trova la videocassetta. La guarda. Sullo schermo scorrono immagini inquietanti e apparentemente scollegate: una donna che si pettina davanti a uno specchio, un pozzo abbandonato, strani simboli privi di logica. Terminata la visione, il telefono squilla e capisce di essere anche lei vittima della maledizione. Disperata, chiede aiuto al suo ex marito, Ryuji, un professore di psicologia che, pur dimostrandosi scettico, le chiede una copia della videocassetta per analizzarla e aiutarla a risolvere il mistero. Le indagini conducono i due sull’isola di Oshima, dove anni prima vivevano la sensitiva Shizuko e sua figlia Sadako, una bambina dotata di spaventosi poteri paranormali, segnata da un destino tragico. La situazione precipita quando anche il figlioletto di Reiko, Yoichi, inconsapevole del pericolo, guarda la videocassetta venendo colpito dalla maledizione.
Sadako, il fantasma vestito di bianco dai lunghi capelli che le coprono il volto, che striscia fuori dallo schermo del televisore, è diventata una delle figure più spaventose e riconoscibili dell’horror moderno. La sua maledizione è un contagio che si propaga come un virus, alimentandosi della paura stessa delle sue vittime. Guardare il video significa diventare testimoni della sua sofferenza e, di conseguenza, condannarsi a condividere la rabbia di chi è stato sepolto vivo in un pozzo e abbandonato a una morte solitaria. L’unico modo per sopravvivere? Diffondere la maledizione, farla proliferare. Una metafora brutale e cinica che può essere letta in molti modi: dalla necessità umana di tramandare il proprio dolore alla riflessione sul ruolo dei media nel diffondere ansie collettive.
A livello visivo e narrativo, Ring non si affida alle classiche meccaniche da jumpscare. Nakata costruisce un’atmosfera opprimente, fatta di silenzi, inquadrature dilatate, dettagli che insinuano disagio. È un horror che si comporta come un thriller investigativo, in cui l’orrore emerge lentamente, fino a diventare inevitabile in un finale che presenta una delle sequenze più iconiche della storia recente del genere.
Dal punto di vista personale, la mia esperienza con Ring è stata influenzata dal fatto di aver visto prima il remake americano del 2002, diretto da Gore Verbinski. Il film di Nakata è arrivato in Italia solo l'anno successivo, in DVD, spinto dal successo ottenuto dal rifacimento americano. Pur non amando l’abitudine hollywoodiana di acquistare i diritti di un film straniero per rifarlo su misura del proprio pubblico, devo ammettere che The Ring, quello americano, mi ha terrorizzato molto più dell’originale, forse perché lo vidi per primo, al cinema, senza alcuna idea di cosa aspettarmi. Il ritmo più serrato, la fotografia cupa e alcune scene di puro orrore mi sono rimaste impresse nella memoria. È stato proprio grazie al remake che ho scoperto il film di Nakata, mi sono letto il romanzo di Suzuki e ho iniziato ad appassionarmi all’horror giapponese. Tornando al film di Nakata, e rivendendolo oggi a distanza di anni, sebbene sia evidente il low budget e una fotografia molto televisiva, ho apprezzato la costruzione lenta e la capacità di insinuare inquietudine senza affidarsi agli spaventi facili. Ring non è un horror costruito sull’effetto sorpresa, ma sulla tensione psicologica, sull'invisibile che si insinua nella quotidianità, lasciando che l’orrore si manifesti in modo sottile e inesorabile.
L’influenza di Ring è stata immensa. Ha generato un filone di horror giapponesi con spiriti vendicativi (da Ju-On a Dark Water), ha avuto sequel, prequel, rifacimenti coreani e americani, fino a ibridi come Sadako vs Kayako.
È un cult, non solo per il J-Horror, ma per il cinema dell’orrore in generale. Un film che ha ridefinito l’idea stessa di paura, dimostrando che l’orrore più efficace è quello che si insinua nella mente dello spettatore.

The House of the Devil
di Ti West
Sono passati anni da quando, facendo zapping a tarda notte, mi imbattevo per caso in un vecchio film dell'orrore trasmesso su qualche canale locale. Erano altri tempi, quando la televisione ti poteva regalare film che ti catturavano inaspettatamente. Oggi, tra streaming e canali tematici, il mistero di quell’esperienza è andata perduta. Eppure, se per un qualche scherzo del destino mi ritrovassi solo in una casa sconosciuta, con un vecchio televisore a tubo catodico e facendo zapping apparisse The House of the Devil senza sapere nulla… sarei convinto di stare guardando un film horror degli anni ’70.
Ti West è un regista visceralmente legato al cinema dell’orrore, e lo dimostrerà ulteriormente con la trilogia X, diventata un cult per gli amanti del genere, ma già con questo film del 2009 si percepisce il suo amore per un certo tipo di estetica e narrazione decisamente retrò. Girato in 16 mm per ottenere la grana tipica delle pellicole d'epoca, il film adotta scelte registiche che richiamano le produzioni horror di serie B dei primi anni ’80, tanto da risultare indistinguibile da un vero slasher d’epoca. Zoom al posto dei moderni carrelli, titoli di testa gialli con fermo immagine, dissolvenze fuori moda, titoli di coda che scorrono sull’ultima inquadratura fissa. The House of the Devil non si limita a citare il passato, ma lo riporta in vita con una dedizione quasi filologica.
Samantha (Jocelin Donahue) è una studentessa universitaria alla disperata ricerca di un lavoretto per potersi permettere i primi mesi d’affitto. Quando nota un annuncio per un posto da babysitter, la ragazza decide di chiamare senza pensarci troppo. Accompagnata dall’amica Megan, si reca nella dimora degli Ulman, una casa isolata fuori città. Una volta arrivata, il signor Ulman le rivela che in realtà non c’è nessun bambino a cui badare e che il lavoro consiste nel sorvegliare per poche ore l'anziana madre della moglie. Samantha esita, ma di fronte a un compenso triplicato accetta. Rimasta sola, si aggira per la casa. I telegiornali trasmettono aggiornamenti sull’imminente eclissi totale di luna. Ciò che Samantha non sa è che la sua presenza in quella casa non è affatto casuale e che il suo ruolo in quella notte è stato già deciso da qualcun altro.
Ti West non si accontenta di un semplice omaggio stilistico al cinema horror anni ’70-’80, ma ne abbraccia pienamente il linguaggio e il ritmo narrativo. The House of the Devil è un film costruito sull’attesa, su una tensione che cresce lenta e inesorabile, sfruttando il senso di inquietudine generato dal silenzio e dagli spazi vuoti.
Il problema principale del film, però, è che dopo un’ora abbondante di attesa, in cui sembra che da un momento all’altro qualcosa di terribile debba accadere, la svolta finale arriva in modo prevedibile e quasi sbrigativo. La rivelazione della setta satanica e il finale che strizza l’occhio a Rosemary's Baby risultano meno incisivi di quanto ci si potrebbe aspettare.
Se lo si guarda come un tributo nostalgico, The House of the Devil è un’opera filologicamente straordinaria e visivamente impeccabile. Se lo si guarda dal punto di vista narrativo, è un film che promette tanto, ma alla fine ti lascia con la sensazione che manchi qualcosa. Insomma, buono nella forma, meno efficace nel contenuto.
Film
Audition
di Takashi Miike
La prima volta che ho visto Audition di Takashi Miike, in una videocassetta a casa di un amico, non avevo idea di cosa mi aspettasse. Mi affascinavano gli horror giapponesi, che in quel periodo stavano proliferando, e avevo già visto film estremi e disturbanti. Tuttavia con Audition, di cui ignoravo la svolta nella trama, avevo un aspettativa diversa. Forse il titolo, forse la premessa da dramma sentimentale. Fatto sta che mi ha colto completamente alla sprovvista.
Quando il film viene presentato in anteprima al Festival di Rotterdam nel gennaio del 2000, Miike ha già diretto una decina di film. È noto per il suo stile prolifico e anticonvenzionale — in trent'anni di carriera girerà più di un centinaio di film spaziando tra i generi più disparati — ma è proprio con Audition, tratto dall’omonimo romanzo di Ryu Murakami, che il suo nome esplode a livello internazionale, consacrandolo come uno dei cineasti più estremi e provocatori del panorama giapponese.
Shigeharu Aoyama (Ryo Ishibashi) è un uomo di mezza età rimasto vedovo, che vive solo con il figlio adolescente. Su insistenza di quest’ultimo, decide di rimettersi in gioco e cercare una nuova moglie. L’amico Yoshikawa (Jun Kunimura), produttore cinematografico, gli propone una idea bizzarra, quella di organizzare un’audizione per un film inesistente, in modo da poter selezionare, tra tante giovani aspiranti attrici, la donna perfetta per Aoyama. È così che l’uomo incontra Asami Yamazaki (Eihi Shiina), una giovane di ventiquattro anni, eterea, timida e misteriosa. Aoyama ne è subito rapito. Asami sembra delicata, quasi irreale, con una storia di sofferenza che la rende ancora più affascinante. Ma dietro quel volto angelico si nasconde qualcosa di oscuro. Un passato di dolore, abusi e violenza repressa, che trascinerà Aoyama in un incubo a occhi aperti.
La forza di Audition sta proprio nella sua costruzione e nella sua messa in scena. Inizialmente il film sembra una semplice storia d’amore, quasi una commedia grottesca, in cui un uomo di mezza età si affida a una finta audizione organizzata dall’amico per trovare moglie, sfogliando i profili delle candidate con la stessa leggerezza con cui oggi si "swippa" su un’app di incontri. La donna perfetta deve essere giovane, bella, gentile, devota, pronta a soddisfare ogni necessità dell’uomo. Ma Asami non è un oggetto. È il riflesso distorto di una società patriarcale che impone alle donne di essere compiacenti, di curare il dolore degli uomini dimenticandosi del proprio. E quando la sua maschera cade, quando Aoyama si dimostra incapace di darle quell’amore assoluto che lei chiede, l’uomo diventa la vittima perfetta su cui riversare tutta la sofferenza accumulata da anni di solitudine, abusi e molestie.
Miike costruisce un film che inizia come un dramma sentimentale, che si trasforma in un noir lynchano sospeso tra realtà e incubo — l'uomo nel sacco ha la stessa potenza inquietante del barbone di Mulholland Drive — per poi virare nel finale in un horror estremo ai limiti della sopportazione visiva. Audition è un film che gioca sull’ambiguità, lasciandoci costantemente nel dubbio su cosa sia reale e cosa sia frutto della mente dei protagonisti.
Un cult movie, un classico moderno sulla violenza inflitta e ricevuta, sulla fragilità che si trasforma in disperazione. Un’illusione d’amore che si sgretola rivelando il volto della follia. Forse non è un horror nel senso più tradizionale del termine, ma una volta visto, è impossibile dimenticarlo. Sicuramente il capolavoro di Miike.
Film
La pelle di Satana
di Piers Haggard
La Pelle di Satana (The Blood on Satan’s Claw), diretto da Piers Haggard nel 1971, è un film inglese prodotto dalla Tigon che, pur con le sue ingenuità e un budget limitato, si è ritagliato un posto d’onore tra gli appassionati di folk horror. Stiamo parlando di un genere che, per chi non lo sapesse, mescola superstizioni, credenze e rituali arcaici legati alla natura e alle tradizioni popolari, che verrà definito un paio di anni più tardi nel più riuscito The Wicker Man di Robin Hardy.
Siamo in un remoto villaggio rurale dell’Inghilterra del XVIII secolo. Un contadino, mentre ara il campo, scopre un corpo con un braccio artigliato, appartenenti a qualcosa di decisamente poco umano. Quando mostra il ritrovamento al giudice del villaggio, i resti spariscono misteriosamente, ma da quel momento iniziano a verificarsi strani eventi. Gli abitanti del villaggio iniziano a sviluppare delle inquietanti macchie cutanee pelose, mentre altri si abbandonano a comportamenti sempre più disturbanti. La giovane Angel Blake (una Linda Hayden in stato di grazia, eterea e maledettamente seducente) emerge come la leader di una setta che, tra rituali pagani, sacrifici umani e un progressivo delirio collettivo, trascina il villaggio in un vortice di follia. Solo il giudice, interpretato con carisma da Patrick Wymark, cercherà di fermare il contagio diabolico prima che sia troppo tardi.
La Pelle di Satana è un horror imperfetto, che ha una sceneggiatura scricchiolante, sopratutto nella seconda parte, degli effetti speciali mediocri e un cast modesto. Dalla sua ha però ha una cura nel montaggio, una buona fotografia, e una ottima colonna sonora di Marc Wilkinson, anche se a volte troppo invadente. Nulla di imprescindibile dunque, ma per gli appassionati di folk horror gli ingredienti giusti non mancano. I paesaggi desolati, una buona ricostruzione storica, momenti disturbanti, come la sequenza dello stupro rituale e l’erotismo morboso che permea il personaggio di Angel Blake, censurato negli Stati Uniti per il nudo integrale di Linda Hayden. Non è paragonabile ai grandi classici dell'horror britannico, anche perchè siamo più in territorio B-movie, ma per chi ama il folk horror e le atmosfere malsane, resta un titolo da recuperare. Anche solo per vedere Linda Hayden mentre cerca di sedurre un prete con lo sguardo di chi ha già prenotato un biglietto per l’inferno.
Film
Train to Busan
di Yeon Sang-ho
Di tutti i film di zombi usciti negli ultimi anni, Train to Busan è, a mio parere, uno dei più riusciti. Yeon Sang-ho, noto per il suo lavoro nell’animazione con titoli come The Fake e The King of Pigs, porta sul grande schermo un survival horror teso, frenetico e sorprendentemente emozionante. L’idea vincente di questo zombie movie coreano è ambientare una disperata lotta per la sopravvivenza all'interno di un treno in corsa. Una sorta di Snowpiercer zombesco dal ritmo serrato e incalzante.
L’agente di borsa Seok-woo (Gong Yoo) è un padre divorziato, assorbito dal lavoro e distante dalla figlia Soo-an (Kim Soo-an). Il giorno del compleanno della bambina, per farsi perdonare le sue continue assenze, decide di accompagnarla in treno a Busan, dove vive la madre. Ma poco prima che il convoglio lasci la stazione di Seoul, un’epidemia dilaga in tutto il paese, trasformando le persone in zombi furiosi. Uno di loro riesce a salire a bordo, scatenando il panico in un ambiente chiuso e senza vie di fuga. Tra i passeggeri ci sono un corpulento uomo con la moglie incinta, una coppia di anziane sorelle, un senzatetto terrorizzato, una squadra di baseball con una giovane ragazza al seguito e un manager cinico ed egoista. Tutti, loro malgrado, si trovano coinvolti in una disperata corsa per la sopravvivenza, cercando di raggiungere un’ipotetica salvezza a Busan.
Gli zombi di Yeon Sang-ho non sono quelli lenti e inarrestabili di George Romero, il creatore del moderno cinema sui non-morti, ma assomigliano piuttosto ai velocissimi e rabbiosi infetti di 28 giorni dopo e, soprattutto, World War Z. Si muovono in ondate incontrollabili, contorcendo i corpi in modo innaturale, ammassandosi l’uno sull’altro pur di raggiungere la loro preda. La sequenza in cui si aggrappano al vagone come una massa informe di corpi è visivamente impressionante e incredibilmente angosciante. Il montaggio serrato e il ritmo adrenalinico lasciano pochissimo respiro allo spettatore.
Ma Train to Busan non è solo un film d’azione, ma è anche un film che sa emozionare e, inaspettatamente, commuovere. Il rapporto tra Seok-woo e la figlia è il vero cuore della storia e si sviluppa in modo credibile e toccante. Non si tratta solo di sopravvivere agli zombi, ma di capire cosa significhi essere umani in mezzo al disastro. Chi sceglie di aiutare gli altri e chi, invece, pensa solo a sé stesso? L’avidità e la paura possono rivelarsi più letali di un’epidemia?
Ora sono curioso di vedere Seoul Station, il lungometraggio animato realizzato sempre da Yeon Sang-ho che funge da prequel e racconta le prime fasi dell’epidemia. Esiste anche un sequel del 2020 intitolato Peninsula, ma su questo ci sono opinioni contrastanti al riguardo.
Film
Frankenstein (1931)
di James Whale
Nel 1931, dopo il successo di Dracula con Bela Lugosi, Carl Laemmle Jr., capo della produzione Universal, decise di puntare ancora sull'horror, portando sul grande schermo Frankenstein, ispirato all’omonimo romanzo gotico di Mary Shelley. Il progetto fu inizialmente affidato a Robert Florey, che si basò più sull’adattamento teatrale del 1929 di Peggy Webling che sul libro originale. Ma la sua visione non convinse lo studio, e la regia passò a James Whale, un britannico con un background teatrale che mantenne l’impronta espressionista di Florey – ispirata in particolar modo a Il gabinetto del dottor Caligari – ma la arricchì con maggiore profondità psicologica e una messa in scena innovativa.
La scelta del protagonista fu altrettanto travagliata. La Universal avrebbe voluto Bela Lugosi, ma l’attore rifiutò il ruolo, infastidito all’idea di interpretare un mostro muto e irriconoscibile sotto il trucco. La parte andò così a Boris Karloff, un attore inglese fino ad allora poco noto, che trovò nella creatura il ruolo della vita. Grazie al meticoloso lavoro del truccatore Jack Pierce – che concepì la creatura con la fronte piatta, gli elettrodi sul collo, le palpebre pesanti e il portamento goffo – nacque l’iconica figura del mostro di Frankenstein, un’immagine destinata a diventare immortale e a influenzare tutte le versioni successive.
La storia non è nota, di più. Il dottor Henry Frankenstein, ossessionato dall’idea di sconfiggere la morte, si rinchiude nel laboratorio di un castello con il suo fidato assistente Fritz, riuscendo a dare vita a una creatura assemblata con parti di cadaveri, utilizzando l’elettricità di un temporale. Ma il suo esperimento sfugge rapidamente al controllo. Il mostro, confuso e impaurito, viene maltrattato e imprigionato, fino a ribellarsi e fuggire. La sua presenza semina il panico nel villaggio, culminando in un drammatico confronto con il suo stesso creatore e con la folla inferocita che lo bracca nel vecchio mulino, in un finale tanto tragico quanto iconico.
Il film fu un successo immediato, sia di pubblico che di critica. Impressionò gli spettatori e consacrò Whale come uno dei grandi registi dell’epoca. Sebbene l'idea dello scienziato folle, l’assistente gobbo, il laboratorio gotico pervaso da scariche elettriche, la folla inferocita armata di torce, e il rogo finale, oggi ci sembrano dei clichè per quante volte sono state riproposte nel corso degli anni, all'epoca erano pura innovazione.
Sono molte le differenze con il romanzo della Shelley. Inanzitutto nel libro il racconto della creazione del mostro è appena accennato, mentre nel film avviene nel laboratorio dello scienziato che usa l'elettricità per dare vita alla creatura. Il mostro, che nel romanzo impara a parlare e riflette sulla propria esistenza, nel film è un essere infantile, incapace di comprendere il mondo che lo rifiuta. L’idea che la creatura sia stata resa violenta da un cervello criminale trapiantato per errore è un’invenzione degli sceneggiatori. Insomma, ogni adattamento successivo, compreso il geniale Frankestein Junior, si rifanno al film di Whale.
La creatura di Frankenstein è una copia distorta del suo creatore, una manifestazione della sua ossessione e del suo desiderio di sfidare Dio. Eppure, è l’umanità a rivelarsi la vera carnefice: prima con la crudeltà dell’assistente Fritz, poi con il tentativo del dottor Waldman di sopprimerla, infine con la caccia all’uomo scatenata dagli abitanti del villaggio. La scena della bambina annegata dal mostro (censurata nel 1937 dal Codice Hays) è un momento di innocenza tragicamente fraintesa e punita, che ancora oggi conserva una potenza emotiva devastante. Per attenuare il possibile impatto sul pubblico, la Universal fece inserire un prologo in cui Edward Van Sloan (l'attore che nel film interpreta il dott. Waldman) avverte gli spettatori: «Vi emozionerà, forse vi colpirà, potrebbe anche inorridirvi! Se pensate che non sia il caso di sottoporre a una simile tensione i vostri nervi, allora sarà meglio che voi... be', vi abbiamo avvertito!». Un piccolo stratagemma per preparare gli spettatori dell’epoca a un film che, nonostante le sue concessioni, poteva davvero impressionare.
A più di novant’anni dalla sua uscita, Frankenstein non è solo un classico dell’horror, ma un pilastro della storia del cinema. Ha ridefinito l’immagine del mostro e introdotto l’archetipo dello scienziato pazzo, trasformando la creatura di Mary Shelley in un’icona pop immortale. Ancora oggi, quando pensiamo a Frankenstein, non immaginiamo il personaggio del romanzo, ma il volto di Boris Karloff, sepolto sotto il trucco di Jack Pierce.
Il successo del film diede vita a numerosi sequel, a partire da La moglie di Frankenstein del 1935, che molti considerano persino superiore all’originale. Ma questa è un’altra storia.

Goksung - La presenza del diavolo
di Na Hong-jin
Il regista coreano Na Hong-jin, autore di The Chaser e The Yellow Sea, nel 2016 ci regala un film che mescola orrore, thriller e folklore. Goksung - La presenza del diavolo (conosciuto anche come The Wailing) è un film che esplora il conflitto tra bene e male, in un intreccio oscuro dove nulla è come sembra.
Nel tranquillo villaggio rurale di Goksung, qualcosa di sinistro si sta insinuando. La gente impazzisce, stermina le proprie famiglie e poi cade in un delirio catatonico riempiendosi di pustole. L’agente di polizia Jong-Goo (Kwak Do-won), goffo e poco autorevole, si trova a indagare su questa misteriosa ondata di violenza. I sospetti si concentrano su un enigmatico uomo giapponese (Jun Kunimura), un forestiero inquietante attorno al quale si rincorrono voci e superstizioni. Quando anche sua figlia Hyo-Jin mostra segni della stessa follia, per Jong-Goo la questione non è più solo professionale, ma personale. Disperato, si affida a uno sciamano, innescando una spirale di rituali, dubbi e orrori che lo porteranno a confrontarsi con il mistero del male assoluto.
Na Hong-jin costruisce una storia stratificata, capace di mescolare horror, thriller e dramma familiare. Se la prima parte gioca con il tono da noir grottesco, ridicolizzando l’inefficienza della polizia (quasi a richiamare Memorie di un assassino, con la sua ambientazione rurale tra catapecchie, capre e fango), il film poi cambia pelle, diventando sempre più cupo, soffocante e sanguinoso. Un horror soprannaturale che affonda le radici nelle superstizioni coreane.
Straordinaria la fotografia di Hong Kyung-pyo, con i paesaggi rurali della Corea, avvolti dalla pioggia e dall'oscurità, che diventano lo scenario perfetto per il senso di minaccia costante che pervade il film. Il regista è abile a disorientare lo spettatore, seminando dubbi continui e lasciando che le risposte sfuggano proprio quando crediamo di averle afferrate. Il Giapponese è davvero il demone? Lo sciamano è un alleato o un traditore? E la donna vestita di bianco, guida benevola o ennesima ingannatrice? Di certo, la figura del Giapponese incarna la paura dello straniero, un'angoscia radicata nella società coreana e legata alla memoria dell'occupazione giapponese. Goksung è film lento, forse eccessivamente lungo (qualche taglio nella prima parte avrebbe giovato al ritmo), ma è anche affascinante, inquietante e viscerale, un horror che non spaventa solo con le immagini, ma con la sensazione opprimente che il male possa annidarsi ovunque.

Titane
di Julia Ducournau
Quando il cinema francese decide di osare, sa essere disturbante come pochi. E per disturbante intendo qualcosa che ti si insinua sotto la pelle, lacera e lascia il segno. Titane, diretto da Julia Ducournau e vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2021, è un film estremo, provocatore e spiazzante.
Alexia (Agathe Rousselle) porta nel cranio una placca di titanio, souvenir di un incidente d’auto avuto da bambina. Forse è per questo che, da adulta, sembra più macchina che umana. Lavora come ballerina di lap dance alle fiere automobilistiche, strusciandosi su auto fiammanti, ipersessualizzata e inaccessibile. Un sogno proibito per chi la osserva, ma non per le automobili, verso cui prova un’attrazione così viscerale da arrivare ad avere un rapporto sessuale con una Cadillac (probabilmente con la leva del cambio, ma meglio non farsi troppe domande). Il rapporto con gli esseri umani invece è un pò più problematico e chiunque osi avvicinarsi troppo, uomo o donna che sia, finisce con un fermaglio da capelli piantato nel cranio. La situazione precipita quando la nostra protagonista compie una strage in una festa privata e si ritrova braccata dalla polizia. In cerca di una via di fuga, Alexia decide di compiere la metamorfosi più estrema, si sfigura il volto e assume l’identità di Adrien, il figlio scomparso di un comandante dei pompieri (Vincent Lindon), un uomo che si aggrappa disperatamente all’illusione di aver ritrovato il figlio perduto. Nel frattempo, piccolo dettaglio da non trascurare, Alexia scopre di essere incinta. Dell'auto.
Titane è un body horror senza freni, disturbante, ed estremo. Il suono delle ossa che si spezzano, il metallo che stride sulla pelle, lo strazio del corpo che si lacera diventa così irritante e fastidioso, che a tratti bisogna distogliere lo sguardo dallo schermo. Le influenze di Crash di Cronenberg e di Tetsuo di Tsukamoto sono evidenti, ma Ducournau ci mette del suo, mescolando il disgusto con un’ironia sottile e irriverente. Basta vedere la scena dell’omicidio compiuto con uno sgabello sulle note di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli, o il momento surreale in cui Alexia canta la Macarena durante una respirazione bocca a bocca. È un horror del corpo, ma anche dell’identità. In un mondo ossessionato dalle etichette, Alexia diventa un’entità fluida, senza un nome, senza un genere, senza più un’origine chiara. Un corpo in costante trasformazione, né uomo né donna, né carne né metallo.
Dall’altro lato, Vincent, il comandante dei pompieri, è il contrappeso umano, ma non meno devastato. La sua mascolinità ipertrofica è solo un guscio fragile, alimentato da steroidi e disperazione. Il suo bisogno d’amore è così cieco da non voler vedere la realtà, abbracciando l’inganno con una dolcezza straziante. Il loro rapporto è un paradosso che funziona. Un gioco di specchi tra corpi spezzati che cercano di ripararsi a vicenda, senza mai riuscirci davvero.
Probabilmente Titane verrà ricordato come "il film in cui una ragazza resta incinta dopo aver fatto sesso con un’automobile", senza ombra di dubbio, ma è anche una storia d’amore. Malata, deviata, dolorosa e impossibile, ma pur sempre amore. Il bisogno disperato di essere accettati, di essere visti, di essere amati nonostante tutto. Anche se stai secernendo olio motore dalla vagina.
Un film che lascia il segno, come una cicatrice sul metallo.

28 giorni dopo
di Danny Boyle
Rivedendo 28 giorni dopo, è impossibile non pensare alla pandemia che ha sconvolto il mondo pochi anni fa. Certo, il Covid-19 non ha trasformato le persone in furie omicide assetate di sangue, ma l’idea di un virus che si diffonde rapidamente, lasciando città deserte e un senso opprimente di isolamento, è diventata spaventosamente familiare.
Danny Boyle, talentuso regista inglese che con Trainspotting ha ridefinito il dramma generazionale, nel 2002 rivoluziona il cinema horror con 28 giorni dopo, un'apocalisse zombie (anche se, tecnicamente, non sono nemmeno zombie), che, ancora oggi, resta un punto di riferimento imprescindibile per gli amanti del cinema di genere.
Tutto ha inizio con un gruppo di animalisti che, nel tentativo di liberare alcuni scimpanzé da un laboratorio segreto, finiscono per scatenare l’inferno. Le cavie sono infatti infette da un virus altamente contagioso che trasforma chiunque venga esposto al loro sangue in una creatura furiosa e omicida. 28 giorni dopo, Jim (Cillian Murphy) si risveglia dal coma in un ospedale, ritrovandosi in una Londra deserta e abbandonata. La città è infestata da infetti, non morti viventi, ma esseri umani travolti da un’aggressività incontrollabile, trasformati in bestie assetate di violenza. Jim trova rifugio con la determinata Selena (Naomie Harris), il bonario Frank (Brendan Gleeson) e sua figlia Hannah (Megan Burns), con cui parte alla ricerca di una presunta salvezza in una base militare. Ma il vero orrore non si cela solo negli infetti, ma nella natura umana, che spinta al limite, può rivelarsi persino più spaventosa.
Scritto da Alex Garland – ed è sempre bene ricordare il contributo del futuro regista di Ex Machina e di altre perle della fantascienza contemporanea – 28 giorni dopo prende spunto dal romanzo Il giorno dei Trifidi di John Wyndham. Girato con un budget ridotto e una camera digitale sporca e traballante, Boyle costruisce un racconto dal taglio quasi documentaristico, sottolineando la fragilità della nostra civiltà, capace di sgretolarsi nel giro di poche settimane. Iconica la sequenza iniziale in cui Jim vaga per una Londra deserta – girata all’alba, quando la città era ancora addormentata – sulle note di East Hastings dei Godspeed You! Black Emperor. Perfetto Cillian Murphy nei panni del protagonista, inizialmente smarrito e vulnerabile, poi sempre più trasformato dalla brutalità del nuovo mondo.
Uno degli aspetti più rivoluzionari di 28 giorni dopo è la concezione stessa della minaccia. Niente zombie lenti e barcollanti: qui gli infetti sono veloci, feroci, implacabili. Non c’è scampo, non c’è tempo per riflettere. Bisogna correre o morire. Una scelta che ha ridefinito il cinema horror e influenzato profondamente il genere negli anni successivi. Ma il cuore del film non è solo un virus nato da esperimenti sugli animali, simbolo dell’arroganza umana nel voler dominare la natura senza comprenderne le conseguenze. La vera paura sta nel modo in cui, davanti al collasso della società, riemergono divisioni di classe, militarismo e patriarcato tossico. Il rifugio militare, che dovrebbe rappresentare la salvezza, diventa invece un incubo ancora più terrificante degli infetti.
Curiosità. Nel DVD (e facilmente reperibili su YouTube) si possono trovare alcuni finali alternativi. In uno, Jim muore per le ferite da arma da fuoco, in un altro l'epidemia è solo un incubo di Jim che si trova in coma, mentre in quello mai girato, ma storyboardato, Frank infettato non viene ucciso ma viene sottoposto a una trasfusione di sangue per essere salvato.
Nel 2007 è stato realizzato il sequel 28 settimane dopo, diretto da Juan Carlos Fresnadillo. A giugno 2025 è invece atteso 28 anni dopo, che riporterà insieme Danny Boyle e Alex Garland dopo oltre vent’anni, pronti a raccontare ancora una volta l'incubo dei sopravvissuti in un mondo devastato.

Terrore e terrore
di Gordon Hessler
Negli anni ’70, il cinema horror britannico cercava di reinventarsi, mescolando elementi tradizionali con nuove derive fantascientifiche e thriller. Terrore e terrore (Scream and Scream Again) è uno di questi tentativi, ma il risultato – diciamolo subito – non è proprio dei più riusciti.
Diretto da Gordon Hessler e tratto dal romanzo The Disorientated Man (1967), il film intreccia tre trame che sembrano viaggiare ognuna per conto proprio. A Londra, un uomo si risveglia in ospedale scoprendo, con orrore, di essere stato amputato. Nel frattempo, la polizia indaga su un serial killer che dissangua giovani donne. Altrove, in un regime totalitario non meglio identificato, un agente segreto elimina i suoi superiori con un inquietante tocco letale. Le indagini, guidate dal sovrintendente Bellaver (Alfred Marks), conducono al laboratorio del dottor Browning (Vincent Price), scienziato ossessionato dall’idea dell’uomo perfetto, che ha creato esseri artificiali per sostituire l’umanità.
L’idea di mescolare horror, poliziesco e fantapolitica poteva anche funzionare, ma qui tutto è dosato in modo confuso e approssimativo. La narrazione procede senza una vera direzione, le sequenze si dilatano oltre ogni ragionevolezza (su tutte, l’interminabile inseguimento di venti minuti) e il film, oltre che disordinato, a tratti diventa persino snervante.
La presenza in un unico film di Vincent Price, Christopher Lee e Peter Cushing – le tre leggende dell'horror britannico – in realtà è solo uno specchietto per le allodole in quanto solo il primo ha un ruolo di un certo rilievo, mentre Lee e Cushing appaiono brevemente e, peggio ancora, mai insieme. Un’occasione sprecata, proprio come il film stesso.
Film
Dracula
di Tod Browning
È curioso pensare che il mio primo incontro con il Dracula di Bela Lugosi non sia avvenuto attraverso il cinema, bensì grazie alla musica dei Bauhaus. Bela Lugosi’s Dead, lungo brano ipnotico dall’atmosfera funerea, considerato un vero e proprio manifesto della musica goth, è stato il pezzo che mi ha fatto conoscere l’attore che più di ogni altro ha legato il suo nome al personaggio del conte Dracula. Solo in seguito, quando negli anni novanta l’unico modo per recuperare un vecchio film era rivolgersi a una videoteca specializzata, avrei scoperto il film di Tod Browning, il classico della Universal che ha consacrato Lugosi come il Principe delle Tenebre definitivo.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di non divagare troppo, perché di cose da raccontare ce ne sono parecchie.
Fondata nel 1912 dall’immigrato di origini bavaresi Carl Laemmle, la Universal Pictures ha scritto pagine fondamentali nella storia del cinema horror. Tutto iniziò quando negli anni '30, con l'avvento del sonoro, il figlio del fondatore, Carl Laemmle Jr, il giorno del suo ventunesimo compleanno, ricevette in regalo la guida della casa di produzione cinematografica (altro che auto o orologio d’oro). Nonostante le difficoltà economiche della Grande Depressione e le restrizioni imposte dal Codice Hays, un insieme di norme che regolavano la moralità nei film, il giovane e visionario produttore della Universal, intuì che il pubblico aveva fame di evasione e decise di puntare sull’horror, adattando per il grande schermo storie della letteratura gotica.
Traendo ispirazione dalla fortunata rappresentazione teatrale di Broadway del romanzo di Bram Stoker — i cui diritti furono acquisiti dall'ambizioso produttore teatrale Horace Liveright — Laemmle Jr. portò sul grande schermo il vampiro più famoso della letteratura, affidando la regia del film a Tod Browning, un veterano del cinema muto con un debole per il macabro.
Il film Dracula, prima versione cinematografica autorizzata dagli aggueriti familiari di Bram Stoker — che in precedenza avevano provato a distruggere il Nosferatu di Murnau — inizialmente prevedeva la presenza di Lon Chaney nel ruolo del vampiro, ma l'improvvisa morte dell'attore portò la produzione a virare su Bela Lugosi, l’attore ungherese che aveva già interpretato il vampiro a teatro con grande successo e che avrebbe legato per sempre la sua immagine al conte Dracula.
La trama vede l'agente immobiliare Renfield (Dwight Frye) giungere da Londra sui monti Carpazi per vendere al conte Dracula una dimora londinese. Ma il nobile transilvano è in realtà un vampiro, e lo trasforma nel suo servo. Giunto in Inghilterra, Dracula, in veste di nobile affascinante dall'anima nera vampirizza Lucy (Frances Dade), puntando anche l'attenzione sull'amica Mina (Helen Chandler), fidanzata di Jonathan Harker (David Manners), collega dell'impazzito Renfield. Solo l'intervento del professor Van Helsing (Edward Van Sloan), scienziato vampirologo, mette fine alla minaccia del vampiro, che nascosto nell'antica abbazia di Carfax viene trafitto al cuore con un paletto, seppur tutto questo avvenga fuori scena.
Il film si divide nettamente in due parti, esattamente come il romanzo. La prima, la più affascinante e tenebrosa, è ambientata nel castello di Dracula ed è caratterizzata dalle meravigliose scenografie gotiche di Charles D. Hall, in cui Lugosi, con il suo accento mitteleuropeo e il suo sguardo penetrante (accentuato da un faretto sempre puntato sugli occhi nei primi piani) pronuncia la celebre battuta "Io non bevo mai... vino" destinata a entrare nella storia del cinema. La seconda parte, invece, si fa più teatrale e… beh, piuttosto statica. Il ritmo rallenta, l’azione è ridotta al minimo e le scene più spaventose vengono lasciati all’immaginazione dello spettatore, per evitare problemi con la censura. Rispetto al romanzo, la sceneggiatura elimina completamente il tema del contagio e della trasformazione in vampiri — le vittime qui muoiono e basta — così come gli spostamenti dei cacciatori di Dracula quando fugge in Transilvania. Al posto di Jonathan Harker, qui presenza poco influente, è Renfield a recarsi al castello del conte, con Dwight Frye che regala un’interpretazione intensa e inquietante.
Se il ritmo del film, soprattutto nella seconda parte, risente dell’impostazione teatrale, l’interpretazione di Lugosi è magnetica, iconica, definitiva. Il suo Dracula diventa immediatamente il modello per tutti i vampiri successivi, almeno fino all’arrivo di Christopher Lee, che trent’anni dopo avrebbe rinfrescato il personaggio con un’interpretazione decisamente più fisica e sensuale.
Nonostante il budget ridotto per via della crisi economica, Dracula fu un successo clamoroso e diede il via alla grande stagione dell’horror Universal, spalancando le porte ai vari Frankenstein, La Mummia e L’Uomo Lupo. Paradossalmente, il film arrivò in Italia solo nel 1986, quando fu trasmesso in televisione per la prima volta. Meglio tardi che mai.
Oggi, il Dracula di Browning — privo di colonna sonora nella versione originale — è considerato un classico assoluto, tanto da essere conservato nella Biblioteca del Congresso come opera di importanza culturale e storica. Non è l’adattamento più fedele al romanzo di Stoker, ma è senza dubbio quello che ha scolpito nell’immaginario collettivo la figura del conte Dracula. Un film che ha dato il via all’epoca d’oro dei mostri Universal e che, nonostante il passare del tempo, continua a esercitare il suo fascino oscuro.

Valerie - Fantasie di una tredicenne
di Jaromil Jires
Se c’è un premio per il peggior titolo italiano mai affibbiato a un film, Fantasie di una tredicenne lo vincerebbe a mani basse. Il capolavoro di Jaromil Jireš, Valerie e la settimana delle meraviglie (Valerie a týden divu), è tutto fuorché il pornazzo da seconda serata che il titolo farebbe pensare. È un'opera visionaria e surreale, una favola nera in cui l’adolescenza si mescola con il terrore gotico, il vampirismo, il misticismo e un erotismo strisciante e perturbante, sempre sospeso tra il sacro e il profano.
Tratto dal romanzo di Vítezslav Nezval, poeta surrealista praghese, il film è una sorta di Alice nel paese delle meraviglie che racconta le avventure fantastiche di una tredicenne, che vive una settimana di eventi visionari, in un vortice di simbolismi, incubi e pulsioni sessuali. La protagonista, Valerie, interpretata dalla giovanissima Jaroslava Schallerová, è un’orfana che vive con la nonna in un piccolo villaggio ottocentesco. Tutto ha inizio con il suo primo ciclo mestruale, simbolicamente annunciato da una goccia di sangue su un fiore bianco. Da quel momento, la realtà si trasforma in un incubo, popolato da figure inquietanti e seducenti: un prete lussurioso e corrotto, un vampiro dal volto cadaverico che sembra volerla possedere, una nonna austera che, dopo un patto oscuro, si trasforma in una donna giovane e sensuale, e Orlík, un ragazzo misterioso che potrebbe essere il suo salvatore, il suo fratello, il suo amante – o forse tutte queste cose insieme.
Non c’è una trama vera e propria, non c’è consequenzialità negli eventi. Personaggi che muoiono e tornano in vita senza troppe spiegazioni, atmosfere rarefatte che sembrano oscillare tra sogno e realtà. Il tutto immerso in un'estetica fiabesca, con giochi di luce, veli bianchi e scenografie decadenti, accompagnate da una colonna sonora eterea e mistica.



Valerie e la settimana delle meraviglie – da adesso in poi lo chiamo con il suo nome internazionale – non è soltanto un trip visionario, una fiaba gotica che sembra uscita da un incubo dei fratelli Grimm. Prendendo ispirazione dal surrealismo di Luis Buñuel e Alejandro Jodorowsky, è anche una feroce critica alla società, dove il vampirismo si intreccia con il potere repressivo della Chiesa, vista come istituzione parassitaria, e con il desiderio dei vecchi di nutrirsi della giovinezza altrui.
Sorprendentemente, il film riuscì a sfuggire alla censura cecoslovacca, nonostante il rigido controllo del regime comunista sulla produzione artistica. Altrove, però, subì pesanti tagli, soprattutto per le sue tematiche sessuali e alcune scene di nudo della protagonista minorenne. Oggi è possibile recuperarlo integralmente su YouTube al seguente link, ma a una qualità decisamente scarsa.
Se cercate una storia lineare e comprensibile, Valerie e la settimana delle meraviglie non è il film adatto a voi. Chi invece adora lasciarsi trasportare dalle atmosfere oniriche e surreali – gli amanti del cinema di Lynch per esempio – scoprirà un’esperienza visiva che incanta e inquieta allo stesso tempo. Un piccolo capolavoro dimenticato, da riscoprire e vivere con con gli occhi di chi ancora sa stupirsi.