
Die Wilde Jagd
Uhrwald Orange
Da qualche giorno sto ascoltando a ripetizione questo disco.
Die Wilde Jagd è il progetto musicale del tedesco Sebastian Lee Philipp, polistrumentista noto inizialmente come metà del duo electropop Noblesse Oblige.
Uhrwald Orange è il secondo album, uscito nel 2018 per l'etichetta Bureau B.
Il titolo, che può essere tradotto come "Clockwood Orange", suggerisce un'immersione in un paesaggio notturno e misterioso, tematica che pervade l'intero lavoro.
L'album, prevalentemente strumentale, presenta lunghe tracce elettroniche che si collocano tra krautrock e kosmische musik, intrecciate a beat minimalisti e arricchite dall'uso di strumenti e influenze eterogenee. Le tracce, alcune delle quali superano i dieci minuti, si sviluppano gradualmente attraverso sequenze elettroniche ripetitive e loop psichedelici, evolvendosi in una tessitura sonora che combina atmosfera, estasi e malinconia.
Tra i miei pezzi preferiti ci sono la tenebrosa "Kreuzgang", la minimale "Fremde Welt" e la malinconica ballata "Ginsterblut", che insieme a "2000 Elefanten" è una delle due tracce cantate da Philipp.
Nei prossimi giorni è prevista l'uscita del nuovo album di Die Wilde Jagd in collaborazione con la Metropole Orkest. Il pezzo di lancio che ho ascoltato non mi ha convinto. Vediamo cosa ci riserverà il disco completo.
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Loma
How Will I Live Without A Body?
Loma è il progetto musicale di Emily Cross, Dan Duszynski e Jonathan Meiburg, un trio nato in Texas all'attivo dal 2017. How Will I Live Without A Body? è il titolo del loro terzo album, registrato interamente in un'ex falegnameria sulla costa meridionale dell’Inghilterra. È lì che i tre si sono riuniti, dopo essersi sparsi in paesi diversi per seguire percorsi personali e artistici.
La musica dei Loma è riflessiva, malinconica e minimale. Un post rock con attitudini folk, che evoca atmosfere intime e sognanti. Le sonorità mi hanno ricordato i Low, mentre la voce eterea e sussurata di Emily Cross me la avvicinano alla Gibbons dei Portishead. Niente di nuovo ed eclatante, ma è proprio nella loro semplicità che queste canzoni si sono insinuate lentamente in profondità rivelando nuovi dettagli a ogni ascolto.
Brani come "How It Starts", "Swallowed a Stone", e "Unbraiding" sono quelli che ho preferito ma in realtà l'intero disco emerge per la sua crepuscolare bellezza.
Un album affascinante, ideale per un viaggio musicale notturno e contemplativo.
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The Cure
Songs of a Lost World
Sono cresciuto con i Cure, la band che più di ogni altra ha segnato la mia formazione musicale. Li ho visti dal vivo numerose volte, e ogni concerto è stato un'esperienza indimenticabile. Tuttavia, il mio entusiasmo per Robert Smith e compagni si è affievolito dopo Wish, con gli album successivi che mi hanno lasciato piuttosto indifferente, per usare un eufemismo. Trent'anni senza una nuova canzone dei Cure capace di riaccendere la scintilla (l'ultima è stata From the Edge of the Deep Green Sea) sono davvero tanti. É una generazione.
Del nuovo album si parlava ormai da anni, e i continui rinvii lo avevano trasformato quasi in un oggetto misterioso. Alla fine, però, dopo sedici anni dall'ultimo lavoro in studio, è arrivato Songs of a Lost World, preceduto da due brani usciti il mese scorso. Molti dei brani presenti nell'album sono stati suonati dal vivo durante il recente tour dei Cure ed essendo stati pubblicati su YouTube i fans più accaniti hanno potuto farsi una idea di quale sarebbe stato il "mood" di questo tanto atteso album.
Il disco si apre con "Alone", una potente ballata che affronta la mortalità. Ecco, questi sono i miei Cure, quelli che riconosco e che non ascoltavo da tempo. Tutto è condensato in otto minuti, con un intro lunghissmo ed emozionante che sfocia con la voce di Robert Smith che canta l'angoscia di sapere che giovinezza e innocenza sono irrimediabilmente perdute. Il miglior brano dell'album così come il loro pezzo migliore degli ultimi trent'anni. (Sì, lo so qualcuno potrà dire ci voleva poco). Il secondo brano, "And Nothing is Forever", parte con un'atmosfera più melodica con pianoforte e archi, per poi esplodere in tutta la sua potenza. Forse un pò stucchevole. "A Fragile Thing" è il secondo singolo ed probabilmente il pezzo più leggero dell'album, anche se molto lontano dai classici brani pop dei Cure del passato. In "Warsong" Smith affronta il tema degli attuali conflitti del mondo in un brano che con quelle chitarre distorte, feedback e organo in apertura mi ha riportato indietro a Disintegration. "Drone: No Drone" è il pezzo più rock del disco, ma francamente a un primo ascolto mi dice ben poco. Il dolore personale di Smith emerge in "I Can Never Say Goodbye" un tributo straziante al fratello scomparso, Richard. Un pianoforte a scandire la linea melodica, stessa batteria secca di "Alone", ma con una composizione meno convincente. "All I Ever Am" ha un ritmo vivace e la chitarra classica di Smith in un brano che, nel complesso, risulta piacevole. L'album si chiude con "End Song", un trascinante brano di oltre dieci minuti, in cui la batteria scandisce ipnoticamente ogni battuta, culminando in un crescendo polifonico di chitarre distorte. Insieme a "Alone", è il brano più emozionante e coinvolgente dell’intero disco.
Queste sono le mie impressioni a caldo dopo un paio di ascolti, anche se molti pezzi li avevo già assimilati nelle versioni live. È un album cupo e solenne, dove il tema della morte ricorre in ogni traccia. Scritto in un periodo difficile per Smith, segnato dalla perdita dei genitori e del fratello maggiore, Songs of a Lost World è un disco che guarda al passato e che probabilmente non aggiunge nulla di nuovo a quanto i Cure hanno già fatto nei loro momenti migliori. Ma tra i tanti gruppetti che oggi popolano il sottobosco dark underground, loro rimangono gli originali e i migliori. E poi, nonostante l’aspetto segnato e il rossetto sbavato, ormai quasi una caricatura del personaggio che fu, la voce di Robert Smith è rimasta praticamente immutata.
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Trentemøller
Dreamweaver
Agli esordi, il nome di Trentemøller era associato alla house, alla techno minimale e alla musica elettronica. A partire dal 2013, il compositore danese, pur mantenendo il suo sofisticato approccio elettronico, ha iniziato a virare verso sonorità indie, con influenze darkwave e shoegaze.
Da poche settimane è uscito Dreamweaver – titolo che inevitabilmente mi richiama alla mente il software che uso per lavoro – un album che presenta dieci pezzi di cui otto sono cantati da DISA (Disa Jakobs), cantante islandese che da tempo collabora con Trentemøller affiancandolo durante i suoi concerti e che porta un tocco di delicatezza e malinconia che si sposa perfettamente con le atmosfere del disco.
Ascoltando l'album, emerge chiaramente come il percorso iniziato con Lost e interrotto momentaneamente con Memoria trovi qui una nuova evoluzione. Le sonorità elettroniche che un tempo definivano l’identità di Trentemøller lasciano spazio a sfumature dreampop, dove gli echi di Beach House, Slowdive e persino This Mortal Coil si fanno sempre più presenti. Tuttavia, pur apprezzando la delicatezza onirica che permea ogni traccia, sento che manca la tensione ritmica che caratterizzava i suoi lavori precedenti e rendeva il tutto più dinamico.
Dreamweaver, per quanto raffinato e ben eseguito, rischia di perdersi nel vasto mare di produzioni simili che popolano l’attuale scena musicale. Le melodie sono piacevoli, ma non riescono a lasciare quel segno indelebile a cui mi aveva abituato. La classe di Trentemøller è indiscutibile, ma in mezzo a questi viaggi onirici e sospesi, mi sembra che una parte del suo tocco inconfondibile si sia smarrita.
Brani preferiti: In a Storm
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Romance
Fontaines D.C.
Avevo apprezzato parecchio a "A Hero's Death" di qualche anno fa.
Sono passati solo quattro anni e da allora questi cinque ragazzi irlandesi guidati dal carismatico Grian Chatten ne hanno fatto di strada - dove per strada intendo tanta produzione e parecchia notorietà.
"Romance" è il quarto album in studio dei Fontaines D.C. preceduto da una manciata di singoli con altrettanti video. Il gruppo ha adottato un look sgargiante e colorato e già con il precedente album ha raggiunto una grande popolarità.
Ho ascoltato il disco una decina di volte ed evitando di fare lo snob – quelli che si allontanano da un autore nel momento in cui questo viene apprezzato da tutti – cerco di analizzare "Romance" con obiettività ed estrema sintesi.
Il disco è un buon prodotto, ben confezionato e si ascolta piacevolmente, ma a mio avviso traspare l'intenzione di voler piacere a tutti i costi al grande pubblico acquisito. La voce di Chatten che, con le sue dissonanze e quel suo modo strascicante di cantare, caratterizzava la band, si appiattisce, omologandosi al cantato di tante altre indie band inglesi del momento. I pezzi perdono di incisività e spaziano tra il brit-pop, lo shoegaze e l'indie rock più accessibile. Il breve brano di apertura, che dà il titolo all'album, è quello che preferisco, forse perché ricorda in maniera sfacciata i Depeche Mode di Black Celebration. Anche il successivo, "Starbuster", non mi dispiace. Per il resto, ci sono alcuni pezzi interessanti qua e là, come per esempio "In the Modern World", ma passando da "Sundowner", che si rifà agli Slowdive, a "Favorite", che ricorda i Cure più commerciali, in tutto questo calderone di generi quello che manca, a mio parere, è proprio la genuinità.
Se dovessi dargli un voto, sarebbe un sei e mezzo.
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Musick to play in the dark, vol 1
Coil
John Balance e Peter Christopherson sono stati i Coil, influente gruppo britannico di musica industrial sperimentale attivo dal 1982. La loro produzione è caratterizzata da una miscela di campionamenti, suoni elettronici, testi criptici e tematiche occulte, che hanno dato origine a diversi album e delle "canzoni" decisamente fuori dagli schemi convenzionali.
Nel 2000 Balance e Christopherson, con il supporto del polistrumentista Thighpaulsandra, danno alla luce Musick to play in the dark, vol 1, il primo dei due album lunari, che segna un deciso cambiamento nel loro stile e nella loro estetica sonora. Sei pezzi dilatati per un totale di sessanta minuti in cui l'ascoltatore sprofonda in un mondo oscuro e misterioso, dove suoni ambientali, synth eterei e voci sussurrate creano un'atmosfera ipnotica e onirica. A mio avviso si tratta di uno degli album più rappresentativi e affascinanti dei Coil, un disco notturno e avvolgente che dietro l'apparente quiete nasconde una lucida follia.
L'album si apre con "Are You Shivering?" in un cui una voce frammentata viene piegata dal suono cupo e minaccioso di un drone prima che Balance inizi a recitare i suoi criptici deliri esistenziali. La successiva "Red Birds Will Fly Out of the East and Destroy Paris in a Night" è un omaggio alla musica cosmica strumentale in cui un incalzante giro elettronico ci trascina in un viaggio lisergico che si conclude in un crescendo apocalittico. "Red Queen", invece, ha un ritmo più lento e sensuale in cui la profonda voce di Balance e un pianoforte jazzato ci conducono attraverso un paesaggio sonoro noir e di atmosfera. "Broccoli" è un pezzo bizzarro e crepuscolare, dove la voce narrante di John Balance recita sopra un tappeto sonoro minimalista e pulsante. "Strange Birds" è un esperimento sonoro e rumorisitico che per certi versi mi ricorda "Several Species of Small Furry Animals.." di pinkfloydiana memoria. Il pezzo che conclude l'album è affidato a "The Dreamer is Still Asleep", una lunga e ipnotica ballata in cui il 'sognatore' descritto da Balance potrebbe benissimo essere il Cthulhu di Lovecraft.
Capolavoro.
This is moon music in the light of the moon
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Noesis
Clock DVA
Arrivo tardi per segnalare questo disco uscito nel 2023 che segna il ritorno di un gruppo storico della scena industrial britannica.
Adi Newton è la mente dietro i Clock Dva che insieme ai Cabaret Voltaire e i Throbbing Gristle ha partecipato nei primissimi anni ottanta a quella sferzante ondata sperimentale che combinava il post-punk con la musica industriale emergente.
Dopo un paio di album e una serie di cambiamenti nella formazione, Newton ricostituisce i Clock DVA alla fine degli anni '80 facendo uscire "Buried Dreams", un album che segna una svolta verso un suono più accessibile, contradistinto da una elettronica dai suoni cupi e ambient che tocca temi cyberpunk e tecnologie emergenti.
A distanza di trent'anni, Adi Newton insieme a Maurizio 'TeZ' Martinucci, artista che usa le nuove tecnologie come strumenti di esplorazione audiovisive, pubblica Noesis, album che si distingue dall'accurato packaging e che nella versione CD contiene quattro tracce in più. Il disco riprende il discorso lasciato in sospeso proiettandolo in un futuro in cui l'intelligenza artificiale rischia di disumanizzare la produzione musicale.
Il disco alterna brani dark ambient dalle ritmiche techno industriali con la voce "narrante" di Newton che affronta il lato oscuro delle nuove tecnologie. Un viaggio cinematico futuribile e visionario di grande spessore. Bentornato.

Lives Outgrown
Beth Gibbons
Beth Gibbons, nota per essere stata la cantante dei Portishead con i quali ha realizzato dei veri e propri capolavori, ha da poco pubblicato il suo primo album da solista, Lives Outgrown.
Fa un pò strano pensare che a parte alcune collaborazioni in trent’anni di carriera questo sia il primo album a suo nome.
Lives Outgrown ha avuto undici anni di gestazione, un periodo durante il quale l'autrice inglese ha vissuto dei lutti, accarezzando il mutamento della vita, i limiti del proprio corpo e la triste consapevolezza della inevitabile mortalità. Un momento della vita in cui immaginare il futuro non provoca più le stesse emozioni e in cui prevale una maggiore propensione alla propria accettazione.
L'album è abbastanza cupo e, come giusto che sia, non ha richiami ai Portishead. Non saprei neanche classificarlo in un genere, diciamo un folk post-rock molto stratificato. C'è la sua voce inconfondibile è questo basta già a farmelo apprezzare. I dieci brani che compongono l'album sono belli e intensi, ma come un buon vino bisogna farlo decantare. Sicuramente ha bisogno di tempo e di molti ascolti. Un disco intimo e malinconico.
Al momento mi piacciono molto Floating on a Moment, Lost Changes, vagamente pinkfloydiano, e sopratutto l'evocativo pezzo che chiude l'album, Whispering Love.

The Pilgrim, Their God and The King Of My Decrepit Mountain
Tapir!
Album di esordio di questo gruppo inglese chiamato Tapir! (come l'animale con il naso a proboscide). Provengono da Londra e sono in sei, sempre ritratti, sia nei video che nelle fotografie, con delle maschere rosse che fa molto folk horror. Il disco raccoglie tre ep presentati come tre atti e racconta la storia di una creatura immaginaria - The Pilgrim, precisamente - che si avventura in un mondo fantastico, viaggiando tra mari tempestosi e montagne popolate da strani animali e divinità. Una fiaba moderna che potrebbe collocare il disco in territori progressive se non fosse che musicalmente i dodici pezzi che compongono l'album non sono caratterizzati da particolari eclettismi e cavalcate ritmiche, tutt'altro. Sono brani folk, pacati, sognanti e bucolici che potrebbero ricordare un Nick Drake ma con inserti elettronici alla Radiohead e degli accenti postrock alla Godspeed you black emperor sopratutto nel pezzo che chiude l'album.
Brani preferiti On A Grassy Knoll (We'll Bow Together), Broken Ark e Untitled.
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Another Day on Earth
Brian Eno
Riordinando tra i dischi della mia collezione digitale mi è capitato tra le "mani" un vecchio disco di Brian Eno del 2005.
A parte gli esordi con i Roxy Music e quel capolavoro che è "Before And After Science", ho sempre associato la figura di Brian Eno alla musica ambient.
Another Day on Earth in realtà non è tanto distante a essere un disco ambient ma ha la particolarità di essere cantato e questo lo rende più caldo e intimo. Un disco pop venato di malinconia a metà tra l'easy listening e la musica elettronica cinematica che secondo me nasconde delle piccole perle.
Tralasciando This, il brano di apertura più immediato, segnalo l'evocativa How Many Worlds, la sognante And The So Clear e sopratutto la suggestiva Just Another Day.
Un disco che contribuisce a ristabilire un senso di pace interiore e aiuta a riconciliarti con te stesso. Peccato solo per il largo uso del vocoder.

Effigy
Talk Show
Disco di debutto per questo gruppo inglese che suona un post-punk parecchio contaminato che attinge molto agli anni novanta.
Tra le tante proposte di questa ennesima ondata post-punk e indie-rock britannica il disco di questi Talk Show è quello che in questo periodo ascolto più volentieri.
L'album si apre con Gold, un pezzo dalla solida base elettronica bello tirato, proseguendo con altri pezzi energici, tipo Red/White, che ricorda i Fontaines DC ma virati all'elettronica, oppure Got Sold, un pezzo alla Rage Against the Machine .
I miei pezzi preferiti sono però Oil at the Bottom of a Drum, una brano "strisciante" decisamente trip-hop, la coinvolgente Small Blue World, e l'ipnotica Catalonia che chiude il disco.
Nel complesso un disco fresco e trascinante, Niente di troppo eclatante ma piacevole da ascoltare.
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Parquet
Sparkles & Mud
Consigliatomi dalla nona amica, ascolto con interesse questo album molto particolare.
Sono nove tracce, tutte strumentali, in cui si utilizza basso, batteria, chitarre elettriche e poco altro, per creare dei lunghi e ripetivi pattern sonori simile all'elettronica e alla techno che danno vita a dei pezzi fortemente ritmati in cui emergono di tanto in tanto elementi noise e post-punk.
I tizi sono dei francesi e mi pare che questo sia il loro album di esordio. Non male.
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Idles
Tangk
Ho provato sin dal primo album a farmeli piacere ma la musica sporca, aggressiva e urlata a squarciagola da Joe Talbot, non mi ha mai preso più di tanto.
L'ultimo disco degli Idles, gruppo di Bristol che incarna la ribellione (post) punk di questi anni, si discosta un pochino dai precedenti, forse perchè meno ruvido e un pò più variegato.
Ecco quindi che tra pezzi "cafoni" come Hall & Oates e quelli da pogo sfrenato come Gratitude e Gift Horse, che sembrano essere messi lì per accontentare i fan ed essere suonati dal vivo, ci sono brani che ho trovato molto più interessanti come la "radioheadiana" Pop pop pop - si sente la mano di Nigel Godrich che produce il disco, l'accorata ballata Roy e sopratutto Grace, quello che reputo il pezzo più bello dell'album.
Ovviamente il mio giudizio è limitato alla musica e alla sensazione che mi trasmette. Salvo alcuni casi non approfondisco i testi delle canzoni che ascolto e quindi nel caso degli Idles, i cui testi e le tematiche affrontate mi dicono avere uno spessore rilevante, la mia valutazione è sicuramente parziale.

She Reaches Out To She Reaches Out To She
Chelsea Wolfe
Settimo album per la musa goth dell'attuale millennio.
Accontonato il folk acustico à-la Pj Harvey, la deriva metal delle sue ultime collaborazioni (Converge), e la partecipazione a colonne sonore (X di Ti West), la diafana compositrice californiana si ripresenta a cinque anni di distanza dal precedente lavoro di studio con un album parecchio diverso da come l\'avevo lasciata e, almeno per i miei gusti, decisamente più accattivante.
Fin dal primo ascolto mi rendo conto di trovarmi in territori a me più consoni. She Reaches Out To She Reaches Out To She è un disco colmo di synth oscuri e ritmiche rallentate dal sapore decisamente industrial. Nonostante sia quasi privo degli strati rumorosi e distorti che avevano caratterizzato le sue ultime produzioni, i brani non hanno perso minimamente di potenza. Anzi, la pulizia li rende ancora più incisivi. In pratica è come ascoltare i Nine Inch Nails al femminile e io non potevo che chiedere di meglio.
Un ritorno alle origini con la consistenza del proprio percorso.
Brani preferiti Whispers In The Echo Chamber, Everything Turns Blue, Salt e Dusk.
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Wall of eyes
The Smile
Secondo disco degli Smile, il progetto parrallelo dei due Radiohead, Thom Yorke e Jonny Greenwood, insieme al batterista Tom Skinner.
Notevole, davvero. Otto brani belli coinvolgenti. Inevitabilmente troviamo qua e là echi del passato di Yorke/Grenwood perchè la matrice è quella ma l'intenzione è quella di esplorare nuovi (o quantomeno diversi) orizzonti musicali addentrandosi in territori psichedelici e per certi versi quasi progressive grazie anche alla poliedrica e felpata batteria di Skinner. Molto meno elettronico del precedente e quindi decisamente più caldo e avvolgente.
Al momento non sento la mancanza dei Radiohead.
Brani preferiti Read the Roam, Under Our Pillows e Bending Hectic.
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This Stupid World
Yo La Tengo
Ammetto di conoscere poco della carriera ultra ventennale dei Yo La Tengo ma visto che il loro ultimo album viene riportato in numerose classifiche di fine anno decido di dargli un ascolto.
Decisamente interessante. Pezzi indie psichedelici, che per certi versi mi hanno ricordato i Velvet Underground, intervallati da delle ottime ballate - in Alestine la presenza di Nico è quasi inquietante.
Brani preferiti: Sinatra Drive Breakdown, la suite di apertura, Fall Out, l'ottimo singolo, e sopratutto Miles Away, la traccia che chiude l'album, uno shoegazer onirico e notturno che si discosta nettamente dagli altri pezzi del disco.
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Chalk
Conditions
Non so neanche come ci sono arrivato ma questo disco mi ha catturato. Il genere è un post punk molto tirato ed è suonato da un gruppo di Belfast che recentemente ha pubblicato il suo primo EP "Conditions".
Le sonorità richiamano molto gli anni novanta e i cinque brani che compongono l'ep hanno quasi tutte una linea ritmica ossessiva, potente con chitarre sporche, rumorose, quasi hardcore. A sentire questa tempesta di energia distorta non posso fare a meno di pensare a quanto sarebbe elettrizzante ascoltare questi pezzi dal vivo.
Brani preferiti Asking e Conditions.
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The Harmony Codex
Steven Wilson

The Dark Side Of The Moon Redux
Roger Waters
A distanza di cinquant'anni Roger Waters reinterpreta The Dark Side Of The Moon. Uno dei dischi più ascoltati dall'umanità. "Ma come osa un ottantenne rimettere mani a un capolavoro", "Una parodia di Cohen di un vecchio egocentico rancoroso", "un audiolibro con sottofondo musicale". Questi sono solo alcuni commenti che ho preso dai social. Una cosa è certa, Roger Waters ne ha di coraggio e di certo non si sottrae alle sfide (anche quelle perse in partenza).
Ho ascoltato il disco cercando di accantonare ogni tipo di pregiudizio. In questa nuova versione del capolavoro dei Pink Floyd, Roger Waters riduce all'essenziale la musica, la rallenta e la incupisce. Compie un opera di sottrazione, togliendo le chitarre di Gilmour, la voce di Clare Torry da The Great Gig in the Sky, e, ridotto all'osso la musica, reinterpreta le canzoni cantandole a voce bassa, profonda e cavernosa, un pò alla Tom Waits, inserendo qua e là numerosi monologhi.
Ovviamente non si può fare il paragone tra i due album, lo dice lo stesso Waters «It’s not a replacement of the original which, obviously, is irreplaceable». Quindi cos'è Redux, oltre ad essere una versione mortifera e monotona, mi verrebbe da dire inutile, di una pietra miliare praticamente perfetta? Forse è solo la rilettura di un opera del passato di un uomo che, arrivato all'età di ottanta anni, preferisce guardare indietro piuttosto che andare avanti fregandose del giudizio e delle critiche di quello che ritiene il suo detestabile pubblico.

But, What Ends When The Symbols Shatter?
Death in June
Inizio da questo album a raccontarvi dei miei dischi preferiti, le mie personali pietre miliari.
Douglas Pearce, la mente dietro Death In June, è un personaggio molto particolare, complesso e contradditorio. Accompagnati da una estetica militare, un immaginario esoterico e da una iconografia con rimandi al fascismo e al nazismo decisamente provocatoria che nel corso degli anni gli ha provocato non pochi problemi, il progetto musicale dei Death in June è il capostipite di quel genere definito folk apocalittico o neofolk.
But, What Ends When The Symbols Shatter? esce nel 1992 e segna l'inizio di una nuova fase nella carriera dei Death in June. Dopo gli esordi negli anni ottanta all'insegna di un postpunk di matrice industrial (Nada) e quello che viene definita la trilogia della solitudine (The World That Summer, Brown Book e The Wall of Sacrifice), Douglas Pearce attraversa una profonda crisi creativa ed esistenziale che lo porterà a una lunga depressione. Invece di soccombere ai suoi demoni, Pearce li accoglie rimettendosi in gioco e dopo tre lunghi anni la sua anima tormentata concepisce questo album, una vera e propria ode alla bellezza.
Accontonate le percussioni in stile marziale, le sperimentazioni industriali e i riferimenti militaristici, But, What Ends When The Symbols Shatter? è una raccolta di malinconiche canzoni dove a prevalere è la chitarra acustica e la profonda voce di Douglas P. impreziosita da delicati interventi di tromba, percussioni ed eteree tastiere. Sono dodici gioielli acustici di rara bellezza, valorizzati da una produzione limpida e cristallina, che nel loro insieme creano un'atmosfera malinconica, sognante e quasi surreale capace di emozionarmi ormai ad ogni ascolto da parecchi anni. Per quanto mi riguarda l'album più ispirato dei Death in June.
Brani preferiti: "The Golden Wedding of Sorrow", "The Giddy Edge of Light", "Little Black Angel" e "Hollows of Devotion".
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I Inside The Old Year Dying
P J Harvey
Ma quanto sono affezionato a questa ragazza (peraltro mia coetanea)?
L'utimo album di Polly è un gioiello che brilla di una luce scura e ammaliante, dolce e ruvido alla stesso tempo. Rispetto agli ultimi dischi, la parte rock, ritmica e rumorosa si attenua lasciando spazio a dei brani folk, molto più intimi, misteriosi e intensi, dove la compositrice inglese ci regala una sorta di raccolta di poesie in musica. Questo disco è un abbraccio caldo ed emotivamente coinvolgente.
Mi sa che mi è piaciuto.
Curiosità: Alcuni testi sono cantati in un inglese aulico e si riallacciano a Orlam, il romanzo in versi pubblicato l'anno scorso.
Brani preferiti: Tutti.
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Everything Is Alive
Slowdive
Tornati nel 2017 dopo vent’anni di inattività, gli Slowdive, gruppo di punta della scena shoegazer e dream-pop degli anni novanta, hanno da poco pubblicato un nuovo album.
Rispetto al precedente che non mi aveva colpito più di tanto, Everything Is Alive fin dalla prima traccia (la notevole Shanty che si dipana tra una minimale elettronica e un postrock alla Mogwai) lascia decisamente il segno. Pattern arpeggiati anche per l'accattivante Chained To A Cloud, mentre brani come Prayer Remembered e Andalucia Plays mi hanno riportato alle ballate malinconiche dei migliori Cure di Robert Smith. Ottimo anche il singolo Kisses supportato da un videoclip girato interamente a Napoli e The Slab, la traccia che conclude l'albo e che si perde in uno stratificato loop sonoro che pare infinito.
Everything Is Alive è un disco intimo, notturno e accogliente. Nulla di nuovo e originale ma relegato al suo contesto credo sia uno dei migliori dischi dreampop di questi ultimi anni.
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The Beggar
Swans
Un macigno.
L'ultimo album degli Swans di Michael Gira è davvero pesante, non tanto perche supera abbondantemente le due ore, ma perchè pare di ascoltare il testamento solenne di un artista (alla soglia dei settanta) prima della sua dipartita.
Ho ascoltato per la prima volta l'intero album in una sola notte e per poco non ci affogavo dentro quindi ho cambiato approccio e mi sono limitato ad escoltare una singola traccia di giorno in giorno (la maggiorparte delle tracce sono lunghe e dilatate con The Beggar Lover (Three) che per poco non raggiunge i quarantacinque minuti!).
The Beggar è prevalentemente un disco acustico in cui predomina la chitarra e la voce di Michael Gira. All'album, oltre agli storici compagni di avventura, partecipa Ben Frost che si occupa di ordire un sottofondo sonoro di droni. E' quasi del tutto assente la parte "rumoristica" che ha caratterizzato i dischi storici degli Swans mentre a farle da padrone sono le storte ballate folk composte da un accordo o un giro di accordi ripetuti all'infinito. Non è un disco facile anche se in un primo momento sembrerebbe piu accessibile rispetto ai dischi passati degli Swans.
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O Monolith
Squid
Secondo album degli inglesi Squid uscito da poche settimane dopo l'ottimo esordio di un paio di anni fa.
Già ascoltando il brano di apertura capiamo che ci troviamo di fronte a qualcosa di difficile catalogazione. Elettronica, garage punk, art rock, new wave, progressive, jazz. C'è davvero un po' di tutto, un incrocio tra i Radiohead, i Talking Heads e i King Crimson con i brani che partono in un modo e spesso finiscono per prendere un altra direzione in un crescendo di fiati, chitarre distorte e rumore alienante.
Brani preferiti Siphon Song, The Blades, e la funkeggiante Undergrowth.

The Waeve
The Waeve
Graham Coxon, ex chitarrista dei Blur, insieme a Rose Elinor Dougall, cantautrice inglese che ha alle spalle trascorsi nel gruppo indie pop tutto al femminile The Pippetes, danno vita a un album molto interessante.
Coxon e la Dougall si conoscono nel 2020 ad un concerto di beneficenza. Scatta la scintilla e oltre a iniziare a scrivere delle canzoni insieme, i due diventano una coppia e, da un paio di anni, genitori di due figli.
Nel 2023 esce The Waeve, il loro progetto musicale. I due si intendono a meraviglia e l'album si ascolta con piacere. A parte una paio di pezzi vigorosi, come l'ottimo singolo Kill My Again e Someone Up There, si tratta per lo più di sofisticate e malinconiche ballate indie in cui Coxon, oltre a suonare tutti gli strumenti e ad alternarsi alla voce con la Dougall, si diletta a suonare il sassofono (in alcuni casi con fraseggi melodici alla Bowie, in altri con virtuosimi alla Coltrane). Ottimo Can i call you, il brano che apre l'album e che inizia come un canzone folk per poi trasformarsi in un pezzo a metà tra i King Krimson e il Krautrock. Undine è un lentone riconducibile agli ultimi Portishead, Drowning è un pezzo psichedelico molto cinematografico mentre Alone e Free parte come un pezzo alla Twin Peaks per poi ricordare i Pink Floyd di Confortably Numb.
Un disco indie-rock molto elegante e raffinato.
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