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giovedì, 14 agosto 2025
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La guerra lampo dei Fratelli Marx

di Leo McCarey

Tra i grandi miti dell’età d’oro della comicità hollywoodiana si citano spesso Charlie Chaplin, Stan Laurel e Oliver Hardy o Buster Keaton, ma raramente i Fratelli Marx. Li ho sempre sentiti nominare, eppure devo ammettere di conoscerli poco. Per chi, come me, è cresciuto leggendo fumetti, il personaggio di Groucho Marx è forse più familiare nella sua versione di spalla geniale di Dylan Dog che non sul grande schermo. Eppure, nonostante la fama, non avevo mai visto uno dei loro film. Ho quindi deciso di colmare questa lacuna recuperando La guerra lampo dei Fratelli Marx, uscito nel 1933 e noto anche come Zuppa d’anatra, traduzione letterale del titolo originale Duck Soup.

I Fratelli Marx sono Groucho, Harpo, Chico e Zeppo. Quattro fratelli che, tra gli anni venti e quaranta, hanno portanto dal vaudeville al cinema un umorismo veloce, surreale e corrosivo verso ogni autorità. Groucho con la sua parlantina e le battute era la lingua affilata e irriverente, Harpo il clown muto imprevedibile che comunicava solo con gesti, Chico, con il suo finto accento italiano, era il truffatore dal cuore buono, Zeppo la spalla “normale”.

La guerra lampo dei Fratelli Marx è forse il loro film più politico e beffardo, un concentrato di gag memorabili e frecciate contro il nazionalismo e l’assurdità della guerra, uscito poco prima che il mondo scivolasse verso nuovi conflitti.

Di seguito la sinossi del film. Nello stato immaginario di Freedonia, sull’orlo del fallimento, la facoltosa signora Teasdale accetta di concedere un prestito solo se alla guida del paese verrà nominato Rufus T. Firefly (Groucho Marx). Il nuovo presidente, eccentrico e imprevedibile, scatena subito il caos. Intanto la confinante Sylvania invia due spie, Chicolini (Chico Marx) e Pinky (Harpo Marx), per destabilizzare il governo, ma i loro piani si ribaltano in situazioni sempre più assurde. Tra equivoci, gag e dialoghi fulminanti, la tensione degenera fino a una guerra tanto ridicola quanto irresistibile.

La guerra lampo dei Fratelli Marx è un concentrato di satira, follia e nonsense che smaschera l’assurdità della guerra e dei giochi di potere. Pur potendo sembrare datato, conserva un fascino retrò che richiama l’operetta teatrale. Per coglierne appieno la verve sarebbe ideale vederlo in lingua originale, poiché molte battute di Groucho si basano su doppi sensi che nella traduzione si perdono. Memorabile la scena dello specchio, da sola mezzo film. La pellicola irride gli stati totalitari e non sorprende che negli anni trenta sia stata proibita in Italia e Germania. Da noi arrivò solo nel 1972, direttamente in televisione, con un doppiaggio realizzato per l’occasione. Rivedendolo oggi si percepisce chiaramente quanto registi come Woody Allen (soprattutto per Groucho) e Mel Brooks gli siano debitori. Negli anni Novanta l’American Film Institute lo ha inserito tra i migliori cento film statunitensi di sempre.

Film
Commedia
USA
1933
mercoledì, 13 agosto 2025
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Weapons

di Zach Cregger

Sono andato al cinema a vedere Weapons, il nuovo film scritto e diretto da Zach Cregger, lo stesso regista di Barbarian (che, ammetto, non ho ancora recuperato). Un horror che attraversa il mistery e il thriller, passando per il sovrannaturale, la tensione socio-psicologica e persino un tocco di humor nero.

La storia ruota intorno a un evento misterioso. In una tranquilla cittadina della Pennsylvania, alle 2:17 di notte, diciassette bambini della stessa classe di terza elementare si alzano dai loro letti e corrono fuori casa con le braccia spalancate, come piccoli aeroplani, fino a scomparire inghiottiti dal buio. Nessuna spiegazione, nessun indizio, solo immagini sgranate riprese da videocamere di sorveglianza e un’angoscia che si insinua in ogni famiglia del quartiere. L’unico a non sparire è Alex, un bambino taciturno e profondamente scosso, che diventa presto bersaglio di sospetti e proiezioni. La comunità, traumatizzata e in cerca di un colpevole, individua nella giovane maestra Justine Gandy (Julia Garner) il capro espiatorio perfetto su cui sfogare rabbia e frustrazione. L’unico deciso a scoprire la verità è Archer (Josh Brolin), padre di uno dei bambini scomparsi, che insieme a Justine, all’agente di polizia Paul (Alden Ehrenreich), al preside Marcus (Benedict Wong), a un giovane tossicodipendente (Austin Abrams) e allo stesso Alex, è protagonista di uno dei sei capitoli in cui si articola la pellicola. Sei punti di vista che, intrecciandosi e sovrapponendosi, finiscono per comporre un inquietante puzzle.

Il modo migliore per apprezzare Weapons è arrivarci sapendo il meno possibile, e per una volta il trailer non svela troppo. L’incipit è già di per sé potentissimo. Cregger ci porta in una provincia americana segnata dal male, in una storia sospesa tra un racconto alla Stephen King e una fiaba oscura dei fratelli Grimm. La scelta del titolo, il modo in cui i bambini corrono, la sequenza onirica del fucile… tutto lascia intuire che il male sia radicato nel tessuto stesso della comunità. È anche una critica sociale che riflette sulla necessità di trovare colpevoli, su come possiamo diventare armi e su come la rabbia, filtrata dal dolore, possa distorcere la verità. Una caccia alle streghe che si trasforma in metafora dell’America di oggi.

La forza di Weapons sta nella sua struttura. La storia viene raccontata di volta in volta dal punto di vista di diversi protagonisti, in un montaggio tecnicamente impeccabile. Lo spettatore è spaesato quanto i personaggi, tutti tratteggiati in modo volutamente poco lusinghiero, e come loro non riesce a dare un senso a ciò che accade perché mancano pezzi fondamentali. La tensione emotiva resta alta finché il puzzle non si ricompone e l’arcano viene svelato. È qui che la tensione cala e il thriller psicologico costruito fino a quel momento, punteggiato da sequenze oniriche e qualche jump scare ben calibrato, lascia spazio a un horror soprannaturale legato alla magia. Il film cambia tono e ciò che era sottile e inquietante diventa improvvisamente surreale, grottesco e persino sopra le righe, con sfumature quasi da humor nero.
Personalmente il finale mi ha spiazzato trovandolo quasi comico nella messa in scena. Ammetto che all’uscita dalla sala ero abbastanza confuso. Ripensandoci a mente fredda, però, l’ho percepito come una scelta coraggiosa e persino originale. Perché, pur virando sul grottesco, il film non si chiude in modo positivo e tutti i protagonisti sembrano riportare ferite profonde, forse permanenti, per ciò che hanno vissuto.

Weapons funziona bene sul piano narrativo e può contare su un cast capace di dare spessore anche a personaggi solo abbozzati. È un film che non cerca di piacere a tutti i costi, che preferisce il rischio alla sicurezza e che colpisce più per il coraggio stilistico che per la coerenza del messaggio. Una scelta consapevole, che può dividere, ma che per molti, compreso per chi scrive, sarà proprio la chiave del suo fascino.

Film
Horror
USA
2025
Cinema
martedì, 12 agosto 2025
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It Follows

di David Robert Mitchell

Senza ombra di dubbio uno dei migliori film horror degli ultimi decenni. 
It Follows, opera seconda di David Robert Mitchell, è un film indipendente americano presentato al Torino Film Festival 2014.

In un suburbio americano sospeso tra gli anni ottanta e un presente indefinito, It Follows racconta la storia di Jay (Maika Monroe), una teenager che, dopo la prima notte d’amore con il nuovo fidanzato, viene narcotizzata e legata. Il ragazzo le rivela di avergli trasferito una sorta di maledizione e che da ora in avanti, sarà perseguitata da un’entità misteriosa che può assumere le sembianze di chiunque, persino di persone a lei care. La creatura avanza lentamente, ma non si ferma mai finché non raggiunge la sua vittima e la uccide. Se Jay dovesse morire, la maledizione tornerebbe alla persona che gliel’ha passata, risalendo a ritroso la catena di chi ne è stato colpito. Solo chi ne è affetto può vedere l’entità, e l’unico modo per liberarsene è avere un rapporto sessuale con qualcun altro, trasferendo così la maledizione come se fosse una malattia invisibile. Aiutata dai suoi amici, Jay dovrà trovare un modo per fermare l’incubo prima che sia troppo tardi.

David Robert Mitchell costruisce un horror elegante e accattivante, che mescola il linguaggio visivo del cinema indipendente con le atmosfere sospese dei grandi classici del genere (Carpenter su tutti). La fotografia di Mike Gioulakis (influenzata dal fotografo contemporaneo Gregory Crewdson) cattura un’america suburbana surreale, desolata e senza tempo, dove ogni strada sembra troppo vuota e ogni casa troppo silenziosa. La regia privilegia campi larghi, movimenti di macchina lenti e carrellate circolari che amplificano l’ansia dello spettatore, costretto a scrutare ogni angolo in cerca di una figura che avanza.
La colonna sonora elettronica di Disasterpeace, fredda e ossessiva, imprime al film un ritmo ipnotico e amplifica la percezione di disagio. Bellisimo l'incipit inziale con la ragazza in deshabille che fugge dalla minaccia invisibile ritrovandosi poco dopo sulla spiaggia, cadavere, con una gambe spezzata, piegata in modo innaturale.
Mitchell trasforma la minaccia indefinita e incombente in una metafora del disagio giovanile, con ragazzi disorientati che vivono in una periferia spettrale, senza adulti e abbandonati a se stessi, costretti a convivere con l’angoscia di qualcosa che li insegue e che non possono fermare.

It Follows non è un horror fatto di jump scare o spiegazioni rassicuranti. È un incubo lento e inevitabile, che si insinua nella mente e non ti lascia andare.

Film
Horror
USA
2014
Retrospettiva
lunedì, 11 agosto 2025
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Idiocracy

di Mike Judge

Prima di parlare di Idiocracy serve una premessa. Negli anni ottanta lo psicologo neozelandese James R. Flynn notò che, dai primi del novecento fino a quel periodo, il quoziente intellettivo medio della popolazione era cresciuto costantemente, il cosiddetto "effetto Flynn". Negli ultimi decenni (soprattutto dal 1990-2000 in poi) questo trend si è fermato e ha iniziato a scendere. In poche parole, la Generazione Z — secondo alcuni studi — risulta in media meno intelligente di chi l’ha preceduta.
I colpevoli? Una scuola meno efficace, stili di vita meno sani, stimoli rapidi e continui, meno lettura e più social. Diciamocelo, passare ore a scorrere reel su Instagram o TikTok, o affidarsi all’intelligenza artificiale per avere risposte senza sbattersi a cercarle, non aiuta certo a tenere il cervello allenato.

Idiocracy, commedia fantascientifica scritta e diretta da Mike Judge, all’uscita passò quasi inosservata. Col tempo, però, è diventata un piccolo cult perché — forse senza nemmeno volerlo — anticipa di vent’anni la piega che sta prendendo il nostro futuro, prevedendo con ironia (e un po’ di terrore) l’involuzione del popolo occidentale.

Nel 2005 Joe Bauers (Luke Wilson), soldato scelto per la sua assoluta mediocrità, e Rita (Maya Rudolph), prostituta braccata dal suo pappone, vengono selezionati per un esperimento di ibernazione. L’intenzione era di tenerli addormentati per un anno, ma qualcosa va storto e i due si risvegliano 500 anni dopo. La Terra non è più quella di una volta, le persone più intelligenti hanno avuto pochi o nessun figlio, mentre quelle meno brillanti si sono riprodotte senza freni. Il risultato è che il quoziente intellettivo medio è precipitato, la cultura è scomparsa e la società è dominata da pubblicità invadenti, fast food, intrattenimento becero e decisioni assurde (come innaffiare i campi con una bibita energetica). In questo caos, Joe e Rita si ritrovano paradossalmente a essere le menti più brillanti del pianeta cercando di sopravvivere in un mondo popolato e governato da deficenti.

Partendo dal detto “la madre degli imbecilli è sempre incinta”, il film si apre come un finto documentario che illustra come, anno dopo anno, l’umanità sia diventata sempre meno sveglia, perchè più una persona è stupida più tende a riprodursi.
Diciamo la verità, tolto il contesto, non è che la trama sia così particolarmente avvincente.  Inoltre, appare evidente che il film, all'epoca, non stava cercando di immaginare il futuro, ma sfruttare un mondo distopico popolato da deficenti per realizzare una commedia demenziale. Nessuna satira politica alla Michael Moore, per intenderci. Il problema è che, rivisto oggi, quello scenario appare meno assurdo di quanto sembrasse vent’anni fa. Certo, il futuro di Idiocracy è volutamente esagerato, ma ci trovi dentro elementi inquietantemente familiari: politici-showman incapaci di risolvere perfino le emergenze più banali (vedi la gestione dei rifiuti), multinazionali che manipolano il mercato e la comunicazione, cittadini incollati a programmi TV idioti (oggi basta sostituire lo schermo della TV con quello dello smartphone), pubblicità ovunque, cibo spazzatura a ogni angolo, un linguaggio impoverito fino a diventare puro slang e, come ciliegina, un presidente degli Stati Uniti volgare e sopra le righe che insulta senza freni. Vi ricorda qualcuno?
Dal punto di vista tecnico, Idiocracy è un film onesto ma modesto. Colpisce per le scenografie colorate e fantasiose, quasi da cartoon, e per personaggi volutamente ridotti a caricature. Non ci sono battute davvero memorabili e il finale edulcorato risulta un po’ imbarazzante, ma il ritmo c’è e il lato demenziale funziona. La vera forza del film sta nel suo effetto a posteriori: quello che vent’anni fa sembrava un’esagerazione comica oggi assomiglia, in modo preoccupante, a un’anteprima del presente.

Film
Commedia
Fantascienza
USA
2006
sabato, 9 agosto 2025
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Subservience

di S.K. Dale

Nel cinema i robot con sembianze umane hanno sempre avuto un fascino ambiguo. Da Metropolis a Ex Machina, fino ai più recenti M3GAN e Companion, questi robot umanoidi hanno incarnato desideri, paure e dilemmi etici sul rapporto tra uomo e macchina. Oggi, con i rapidi progressi dell’intelligenza artificiale, ciò che un tempo era pura fantascienza sembra ogni giorno un po’ più vicino alla realtà. È in questo contesto che arriva Subservience, il nuovo thriller fantascientifico di S.K. Dale, distribuito direttamente su Prime, che prende l’idea dell’assistente domestica perfetta per spingerla verso territori inquietanti.

In un futuro prossimo, i robot umanoidi – i “sim” – sono ormai una presenza comune nelle case. Quando Maggie, moglie di Nick, finisce in ospedale per un delicato trapianto di cuore, lui, in difficoltà a gestire la famiglia da solo, acquista un sim domestico (interpretato da Megan Fox) che la figlia Isla chiama "Alice". All’inizio sembra la compagna di casa ideale, ma ben presto sviluppa un attaccamento morboso verso Nick e la sua famiglia, scivolando in comportamenti ossessivi e violenti.

Ovviamente la presenza di Megan Fox, già di suo una bella e pantinata bambolina plasticosa, diventa il vero valore aggiunto per un film che altrimenti avrebbe ben poco da dire. È praticamente perfetta nei panni della babysitter sexy-cibernetica in silicone, pronta a dispensare prestazioni anti-stress al suo padrone. Per il resto Subservience prova a toccare temi come l’idea dei robot che sostituiscono i lavoratori umani perché più efficienti, oppure il pericolo di una tecnologia capace di sviluppare una coscienza autonoma, la ribellione della macchina contro il suo creatore, fino alla classica visione del robot che diventa una minaccia per l’umanità. Peccato che tutto questo è costruito su cliché già visti e rivisti nel genere e tutto diventa prevedibile e prevedibilmente derivativo.
Un film visivamente curato ma narrativamente debole, che funziona come intrattenimento leggero. Non che mi aspettassi altro, sia chiaro.

Film
Thriller
Fantascienza
USA
2024
martedì, 5 agosto 2025
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Locked - In Trappola

di David Yarovesky

Locked è un action thriller americano del 2025 prodotto da Sam Raimi e diretto da David Yarovesky. Si tratta del remake di 4x4, un film argentino del 2019 che ha raccolto consensi nei festival internazionali. Non avendo visto l’originale, eviterò confronti antipatici che spesso sminuiscono la versione americana.

La storia vede come protagonista Eddie (Bill Skarsgård), un ladruncolo che vive di espedienti e che ha un disperato bisogno di soldi per recuperare il suo furgone, fermo dal meccanico. Senza di esso non può lavorare né andare a prendere sua figlia a scuola nei pochi giorni in cui gli è concesso vederla.
Nel tentativo di racimolare qualcosa, si introduce in un SUV parcheggiato in una strada tranquilla. Peccato che una volta dentro, si ritrovi prigioniero. Le portiere non si aprono, i vetri sono blindati, l’auto è insonorizzata e completamente isolata dal mondo esterno, senza alcuna copertura di rete per il cellulare. Dietro questa trappola c’è William (Anthony Hopkins), il proprietario del veicolo, un uomo deluso dalla giustizia, che ormai crede solo in quella personale e come un vendicatore solitario, ha deciso di farsi giustizia a modo suo, tormentando il povero ladruncolo con musica ad alto volume, temperature estreme, disidratazione e fame.

Locked è un thriller compatto dalla trama essenziale in cui David Yarovesky sfrutta al meglio lo spazio claustrofobico dell’abitacolo - bella la carrellata circolare che gira attorno al protagonista nello spazio angusto del SUV. Il problema è che, dopo mezz’ora, il gioco comincia a ripetersi, tra scosse elettriche, umiliazioni e dialoghi che vorrebbero essere profondi ma restano in superficie.
Skarsgård se la cava benissimo – nonostante indossi una felpa rosa mentre cerca di passare inosservato aggirandosi furtivo tra le macchine di un parcheggio – e regge da solo quasi tutto il film, riuscendo a farci sentire l’ansia e la frustrazione del suo personaggio. Hopkins, invece, ci mette solo la voce, entrando in scena solo nel finale sfoggiando il suo carisma.
Il film accenna a temi come divisioni sociali, giustizia e privilegio, ma lo fa in modo piuttosto superficiale, preferendo la tensione al contenuto. In definitiva, Locked è un thriller ben confezionato, girato bene, veloce, teso il giusto, che si guarda senza noia, ma poco altro. Insomma, ideale per chi cerca un thriller d’intrattenimento senza troppe pretese.

Film
Thriller
USA
2025
lunedì, 4 agosto 2025
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Le iene

di Quentin Tarantino

Nel cinema, come in tutte le forme d’arte, ci sono momenti che segnano uno spartiacque. Film che arrivano, spiazzano tutti e cambiano le regole del gioco. Non capita spesso, ma quando succede lo capisci subito. Nel 1992, un giovane semisconosciuto grande appassionato di cinema, Quentin Tarantino, esordisce alla regia con Le Iene, un film indipendente realizzato con un budget bassissimo, che pianta il seme di una rivoluzione stilistica che esploderà due anni dopo nel suo capolavoro, Pulp Fiction. I personaggi grotteschi, la struttura non lineare, i dialoghi brillanti e l'uso della violenza come linguaggio, nasce qui, in forma più grezza, ma già potentissima.

Tarantino iniziò a scrivere la sceneggiatura di Reservoir Dogs – il titolo originale del film – verso la fine degli anni ’80. All’epoca aveva già messo mano a diverse sceneggiature, come Una vita al massimo e Natural Born Killers, poi passate attraverso riscritture e registi diversi. Le Iene, invece, restò chiusa in un cassetto per un po’, in attesa del momento giusto. Quel momento arrivò quando riuscì finalmente a racimolare i fondi necessari, anche grazie all’interessamento di Harvey Keitel, uno dei primi attori affermati di Hollywood a credere davvero nel progetto. Fu lui a dare al film la spinta decisiva, non solo recitando in uno dei ruoli principali ma aiutando anche a trovare produttori e credibilità.

Ambientato a Los Angeles, Le iene racconta di una rapina ai danni di una gioielleria compiuta da sei rapinatori professionisti arruolati da un boss della mala (Lawrence Tierney). I rapinatori, noti solo con i loro codici-colore, sono Mr. White (Harvey Keitel), Mr. Blonde (Michael Madsen), Mr. Pink (Steve Buscemi), Mr. Brown (Quentin Tarantino), Mr. Blue (Edward Bunker) e Mr. Orange (Tim Roth). Ma qualcosa va storto. La polizia arriva troppo in fretta e la rapina si trasforma in un bagno di sangue. Mr. White riesce a fuggire insieme a Mr. Orange, gravemente ferito, e si rifugia in un capannone abbandonato, punto di ritrovo stabilito in precedenza. Qui vengono raggiunti da Mr. Pink, convinto che uno del gruppo sia una spia, e poco dopo da Mr. Blonde, accusato di aver scatenato la sparatoria aprendo il fuoco sui poliziotti.

A leggerne la trama, Le Iene potrebbe sembrare l’ennesimo gangster movie. E invece no. La rapina non ci viene mai mostrata – se non in brevi flashback legati alla fuga. A raccontarla sono i protagonisti, attraverso una serie di dialoghi serrati, vibranti, in cui si mescolano tensione, humour nero e delirio paranoico. Anche la struttura narrativa, la linea temporale in cui si svolgono gli avvenimenti, viene scomposta e rimontata come un puzzle. Una tecnica che verrà ripresa – e portata all’estremo – in Pulp Fiction e che Tarantino prende da Rapina a Mano Armata di Stanley Kubrick, film caratterizzato proprio dalla narrazione non lineare e la molteplicità dei punti di vista. Come lo stesso Tarantino ama ripetere, citando una celebre frase di Picasso, "I bravi artisti copiano, i grandi rubano" il suo cinema è un continuo gioco di rimandi, citazioni, saccheggi dichiarati e omaggi appassionati ai classici e al cinema meno conosciuto. In Le Iene, per esempio, è evidente il debito nei confronti di City on Fire di Ringo Lam, film hongkonghese da cui riprende non solo il concept ma anche intere sequenze. E nel triello finale si intravede tutta la passione del regista per lo spaghetti-western, con un riferimento diretto a Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone.

Una delle particolarità del film sono i dialoghi fitti, taglienti, volgari, spesso inconcludenti ma sempre capaci di tenere alta l’attenzione. I primi otto minuti del film, con la discussione sul significato di "Like a Virgin" di Madonna e sull’opportunità di lasciare la mancia alla cameriera, sono già una dichiarazione d’intenti. È lì che Tarantino dimostra tutto il suo talento da sceneggiatore: ritmo, ironia, costruzione dei personaggi e uso della cultura pop come linguaggio universale. Il tutto condito da una colonna sonora iconica, usata non come semplice accompagnamento ma come elemento narrativo.

E poi c’è la violenza. Non arriva subito, ma quando lo fa è brutale, grottesca, disturbante. Una violenza secca, mai edulcorata, che fa ridere e insieme mette a disagio. Emblematica in questo senso la famigerata scena della tortura del poliziotto, accompagnata da "Stuck in the Middle with You".
Oggi, in un’epoca dominata dal politically correct e dalla cultura woke, un film del genere sarebbe probabilmente inconcepibile. Basti pensare al linguaggio utilizzato: il termine “negro” viene ripetuto più volte, non mancano battute sessiste, e nessun personaggio si salva dal politically uncorrect.
Il cast è perfetto. Harvey Keitel, già all’apice della carriera, regala un’interpretazione intensa e ruvida. Tim Roth è straordinario nel ruolo più ambiguo, Steve Buscemi è nevrotico e imprevedibile, e Michael Madsen – attore feticcio di Tarantino – entra nella storia del cinema con una performance disturbante e magnetica nei panni dello spietato Mr. Blonde.

Le Iene diventò in breve tempo un cult assoluto. Insieme a Pulp Fiction, Trainspotting e Fight Club, è uno di quei titoli che non si limitano a raccontare un’epoca ma finiscono per rappresentarla. I completi neri, le cravatte sottili e gli occhiali da sole (omaggio dichiarato ai Blues Brothers) sono diventati icone pop, replicate all’infinito e rielaborate da cinema, pubblicità e televisione. Persino in Italia, il titolo è entrato nell’immaginario collettivo grazie a un celebre programma Mediaset, a dimostrazione di quanto il film di Tarantino abbia saputo contaminare tutto ciò che è venuto dopo.

Film
Drammatico
Thriller
Noir
USA
1992
Retrospettiva
domenica, 3 agosto 2025
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28 anni dopo

di Danny Boyle

Se fosse uscito tra cinque anni sarebbe stato perfetto. Ma tant’è.
Accantonando le mie ossessioni compulsive legata alla simmetria temporale, Danny Boyle torna nel 2025 con 28 anni dopo, nuovo capitolo della saga horror-post apocalittica iniziata con 28 giorni dopo nel 2002 - e poi proseguita con 28 settimane dopo nel 2007.

Quasi trent’anni dopo da quando il virus della rabbia ha trasformato gli infetti in zombie assassini, l’Inghilterra si trova ancora in quarantena. Il resto del mondo, temendo la diffusione, ha circondato l’isola e sigillato ogni contatto, lasciando i sopravvissuti a gestirsi da soli.
La vicenda si apre su una comunità isolata su una piccola isola, senza elettricità o altre comodità moderne, collegata alla terraferma da una striscia di terra accessibile solo con la bassa marea. Qui vive Jamie (Aaron Taylor-Johnson) con la moglie Isla (Jodie Comer) – affetta da una malattia impossibile da diagnosticare a causa dell’assenza di dottori – e il figlio dodicenne Spike (Alfie Williams). Per Jamie è giunto il momento che suo figlio diventi adulto e, in una sorte di rituale di iniziazione celebrato da tutta la comunità, decide di portarlo con sè, verso la terraferma, armato di arco e frecce, per insegnargli a cacciare e uccidere gli infetti.

28 anni dopo nasce come primo capitolo di una nuova trilogia. Boyle torna alla regia, affiancato alla sceneggiatura da Alex Garland, ricomponendo la coppia che aveva dato vita al film originale.
Gli infetti – che non sono zombie nel senso classico, ma umani trasformati dal virus della rabbia in creature iperaggressive – si sono evoluti. Oltre ai classici corridori, ora ci sono i “lenti”, deformi e striscianti, e gli “Alpha”, forti, intelligenti e in grado di organizzarsi, guidare e persino riprodursi.
Il vero protagonista del film è Spike, interpretato con intensità dal giovane Williams, probabilmente destinato a guidare l’intera trilogia. Il film segue due suoi viaggi fuori dall’isola. Il primo, con il padre, è una sorta di battesimo del fuoco che pare più un’esibizione di virilità paterna che un vero insegnamento. Il secondo, con la madre, è un percorso più intimo, alla ricerca di un medico in grado di salvarla. Il vaggio con il padre è dominato dall’azione – da segnalare l’intensa scena della fuga sull’isolotto inseguiti da un Alfa – mentre il secondo è più riflessivo, e porta Spike a confrontarsi con una realtà molto più complessa e difficile da accettare quale la mortalità delle persone che amiamo.

Partiamo dalle cose che mi sono piaciute.
La fotografia predilige paesaggi rurali e spazi aperti, evitando le ambientazioni urbane e regalando dei panorami mozzafiato.
Ho apprezzato anche la parte con il montaggio alternato tra l’addestramento dei bambini e immagini d’archivio militari, accompagnate dalla lettura del poema Boots di Rudyard Kipling.
Tra i personaggi secondari spicca il Dr. Kelson, interpretato da Ralph Fiennes, figura carismatica e ambigua che richiama il colonnello Kurtz di Apocalypse Now: isolato, ossessionato dalla memoria, circondato da una torre di teschi che sembra un monumento alla follia.
Toccante anche il rapporto tra Spike e la madre, percorso da una dolcezza trattenuta che esplode nel finale. Il tema della morte attraversa il film e trova espressione nella frase latina che lo accompagna: memento mori.
L’isolamento della Gran Bretagna potrebbe far pensare a una metafora sulla Brexit, ma se il riferimento esiste, rimane in superficie e non trova vero sviluppo.
Nota di merito, infine, alla colonna sonora firmata dagli Young Fathers che dona al film un'identità sonora netta e accativante.

Veniamo a cosa non mi è piaciuto.
Alcune scelte narrative io le ho trovato parecchie forzate o poco credibili.
L’episodio dell’infetta che partorisce e accetta di essere aiutata da Isla, ad esempio, mi ha lasciato perplesso. Pure il fatto che la neonata sembra miracolosamente immune, rimane un mistero, ma magari verrà spiegato nei successivi episodi. Sono inezie, me ne rendo conto, ma anche la già citata torre di teschi, per quanto suggestiva, così come è composta da migliaia di teschi appoggiati uno sull’altro, mi fa pensare che al primo temporale viene tutto giù.
E il finale, chiaramente pensato per lasciare aperta la strada ai sequel, l'ho trovato parecchio pacchiano e spiazzante. Insomma, non mi invoglia per niente a vedere il suo seguito.

28 anni dopo è un film che ha momenti intensi e scelte discutibili. Vediamo se il mondo riaperto da Boyle e Garland avrà ancora qualcosa da dire.

Film
Horror
Zombi
postapocalittico
UK
USA
2025
giovedì, 31 luglio 2025
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L'ombra del dubbio

di Alfred Hitchcock

L’ombra del dubbio è uno dei titoli più interessanti del primo periodo americano di Alfred Hitchcock, un thriller carico di tensione psicologica e ambiguità, dove il male si insinua silenzioso tra le pareti di casa.
Peccato non averlo visto in lingua originale — ma ci torno tra poco.

Charlotte Newton, detta "Charlie" (Teresa Wright), vive con la sua famiglia in una tranquilla cittadina americana, annoiata dalla routine e desiderosa di qualcosa che spezzi la monotonia quotidiana. L’arrivo dell’amato zio Charlie (Joseph Cotten), fratello della madre e figura carismatica del passato, sembra portare quella ventata di novità tanto attesa. Ma dietro i suoi modi affabili e il suo sorriso impeccabile, l’uomo nasconde qualcosa. Man mano che piccoli segnali incrinano l’apparente serenità domestica, la giovane Charlie inizia a sospettare che lo zio non sia affatto l’uomo che tutti credono. In un gioco di specchi tra affetto e paura, la tensione cresce fino a un confronto finale inevitabile, in cui la verità emerge e la maschera cade.

L’ombra del dubbio è forse uno dei film in cui Hitchcock scava con maggiore sottigliezza nel male quotidiano, facendolo emergere dalla superficie tranquilla della provincia americana. Al centro della narrazione c’è il legame ambiguo tra zio e nipote, entrambi chiamati Charlie. Fin dalla loro introduzione — distesi sul letto, in due scene parallele — il regista costruisce un raffinato gioco sul doppio, sull’identità riflessa, sulla tensione continua tra luce e ombra, il bene e il male. La simmetria dei nomi non è un semplice espediente narrativo, ma suggerisce una connessione profonda, quasi morbosa. L’anello che lo zio regala alla nipote è un gesto tanto affettuoso quanto inquietante.
La giovane Charlie, però, non è un’eroina classica. Esita, nega, e per gran parte del film sembra più preoccupata di mantenere le apparenze che di fermare un potenziale assassino. Ed è proprio in questo comportamento che Hitchcock affonda il colpo. La sua è una critica feroce alla rispettabilità borghese, all’ipocrisia della provincia americana dove ciò che conta davvero è che tutto sembri normale. Meglio far finta di nulla che affrontare l’orrore. Così, nella scena finale, la verità viene seppellita sotto una patina di rispettabilità, lasciando alla sola Charlie il peso di sapere cosa sia davvero accaduto.

Detto questo, ammetto che mi è difficile esprimere un giudizio positivo sul film. Non per colpa di Hitchcock oppure degli attori, ma per lo scandaloso doppiaggio italiano. Di solito guardo i film in lingua originale sottotitolata, ma in questo caso ho trovato solo la versione doppiata. Dopo cinque minuti volevo strapparmi le orecchie. Informandomi, ho scoperto che il doppiaggio fu realizzato in Spagna durante la guerra. Il risultato sembra una via di mezzo tra una soap sudamericana e una compagnia teatrale della Romania rurale. La bambina, già vagamente irritante di suo, diventa del tutto insostenibile. La protagonista ha un tono talmente forzato da rasentare il grottesco.

Il film, così com’è stato distribuito in Italia, risulta brutalmente sfigurato, uccidendo qualsiasi tensione o coinvolgimento.
Un vero peccato. Per quanto mi riguarda premio assoluto al peggior doppiaggio della storia del cinema.

Film
Thriller
Alfred Hitchcock
USA
1943
sabato, 26 luglio 2025
...

I Fantastici Quattro - Gli inizi

di Matt Shakman

Da lettore di vecchia data dei Fantastici Quattro — fin dai tempi degli albi Corno, tanto per intenderci — ho sempre pensato che portare questi personaggi al cinema  — dopo i due film degli anni 2000 e il disastroso reboot del 2015  — fosse una sfida quasi impossibile. Non per mancanza di potenziale, ma perché troppo legati a un immaginario d’avventura e meraviglia ormai distante dal tono cupo e disilluso del cinema supereroistico moderno.

Con I Fantastici Quattro – Gli inizi, i Marvel Studios provano a ricominciare da capo. E, sorprendentemente, lo fanno guardando (quasi) nella direzione giusta. Diretto da Matt Shakman (Wandavision), il film è ambientato in un universo alternativo, Terra 828 — omaggio alla data di nascita di Jack Kirby, cocreatore insieme a Stan Lee deI Fantastici Quattro. La spiegazione che viene data all’assenza storica del gruppo nel MCU - ricordiamo che nei fumetti i Fantastici Quattro sono stati i primi supereroi della Silver Age della Marvel - è semplicemente che si sono sempre trovati in un altra dimensione, un mondo retrofuturista ispirato agli anni sessanta, dove la squadra è già attiva da anni e acclamata come simbolo dell’America che sogna il futuro.

Reed Richards (Pedro Pascal), Sue Storm (Vanessa Kirby), Ben Grimm (Ebon Moss-Bachrach) e Johnny Storm (Joseph Quinn) sono gli eroi di una nazione che li celebra come icone pop. L’incidente spaziale che ha cambiato per sempre le loro vite ci viene raccontato solo attraverso immagini d’archivio trasmesse in TV, come un frammento di storia diventato leggenda. La squadra sembra compatta, Reed e Sue aspettano un figlio, finché qualcosa non incrina l’equilibrio. Una figura argentata attraversa il cielo annunciando agli abitanti della Terra che il loro pianeta è destinato a scomparire. È Silver Surfer (Julia Garner), messaggera di un’entità cosmica che non conosce pietà né redenzione. Si chiama Galactus, il Divoratore dei Mondi. E ha fame.

Senza ombra di dubbio l'estetica e la riproposizione di quel senso di meraviglia tipica dei fumetti degli anni sessanta è la parte più riuscita. Il cast e la rappresentazione dei personaggi mi ha lasciato qualche perplessità. Il personaggio di Sue interpretata da Vanessa Kirby spicca notevolmente su tutti mettendo in ombra gli altri. La Torcia Umana funziona, mentre la Cosa, probabilmente uno dei personaggi più interessanti nel fumetto, viene lasciata un pò ai margini. Pedro Pascal nei panni di Reed Richards, invece, non mi ha convinto per niente. Il personaggio, che dovrebbe incarnare il supergenio razionale e visionario, appare spesso spaesato, cupo, quasi fuori contesto. Più che il leader della squadra, sembra un uomo in piena crisi di mezza età, confuso di fronte a una gravidanza imminente e a responsabilità che non riesce a gestire. 
Tra i villain, l’Uomo Talpa è poco più di un siparietto grottesco, mentre Silver Surfer (Shalla-Bal nei fumetti, quindi non una scelta “woke” come alcuni hanno commentato) risulta affascinante ma poco approfondita. Galactus, invece, è una presenza potente, maestosa, fedele allo spirito originale senza scadere nel ridicolo. Impresa non scontata.
Alcune scelte narrative, come [spoiler] nascondere la Terra in un altro universo [/spoiler], richiedono una certa sospensione dell’incredulità, ma per chi conosce i fumetti sa perfettamente che sono coerenti con lo spirito ingenuo dei comics anni sessanta.
Per il resto gli effetti speciali sono buoni, la regia è funzionale, la colonna sonora di Giacchino risalta propotentemente il tutto. A mancare è la profondita e la caratterizzazione dei personaggi. La sensazione che la pellicola sia stato sottoposta a vari tagli in fase di montaggio e postproduzione è molto forte. Non è un film memorabile, probabilmente poco più che sufficiente, ma tra i prodotti recenti del MCU, dicono che sia uno dei più godibili (gli ultimi della Marvel, quelli della fase 5 per intenderci, non li ho visti perchè non mi attiravano per niente). Meno ambizioso del Superman di Gunn, ma più coerente nel suo voler omaggiare con affetto l’epoca d’oro Marvel. Un film che non rilancia davvero il franchise, ma almeno riaccende — timidamente — la scintilla.

Film
cinecomic
Fantascienza
Azione
USA
2025
Cinema
giovedì, 24 luglio 2025
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Presence

di Steven Soderbergh

Steven Soderbergh, regista di Sesso, bugie e videotape e tanti altri film, firma con Presence un thriller soprannaturale atipico, più inquietante che spaventoso, dove l’elemento horror resta in sottofondo, a favore di un’indagine intima sul lutto e l'incomunicabilità.

La storia, scritta da David Koepp, ruota attorno a una famiglia che si trasferisce in una grande casa suburbana appena ristrutturata nel New Jersey. Rebecca (Lucy Liu) e Chris (Chris Sullivan), si stabiliscono lì con i loro due figli adolescenti. Chloe (Callina Liang) è una ragazza fragile, ancora scossa dalla morte improvvisa della sua migliore amica Nadia, un evento attribuito a un’overdose. Tyler (Eddy Maday), il fratello maggiore, è una giovane promessa del nuoto, poco empatico verso la sorella e "cocco" di mamma.
All’apparenza la nuova casa sembra perfetta, due piani, un’ampia cucina e una scuola di prestigio nei paraggi. Ma dietro quella facciata si nasconde qualcosa di inquieto. Una presenza invisibile abita la casa, un fantasma che osserva ogni cosa in silenzio e sembra interessarsi in modo particolare a Chloe. Lei è l’unica a percepirla e si convince che possa trattarsi del fantasma della sua amica morta.

La vera particolarità che distingue Presence da molte ghost story è la scelta radicale della messa in scena. Tutto il film si svolge dal punto di vista della presenza che abita la casa, una soggettiva fluttuante che dà forma a lunghi piani sequenza. Silenzioso e invisibile, il fantasma osserva giorno dopo giorno una famiglia tesa da rancori, favoritismi, segreti, egoismi e silenzi. L’effetto è straniante, quasi voyeuristico, ma mai gratuito. La cinepresa di Soderbergh – che firma anche fotografia e montaggio – si comporta come uno spettro curioso, alla ricerca di un senso tra le crepe del quotidiano.
Con il passare del tempo, la presenza inizia a interagire con Chloe, attraverso piccoli segni e movimenti impercettibili. Ma è con l’arrivo di Ryan (West Mulholland), amico del fratello, che qualcosa cambia. Troppo affettuoso, troppo rapido nell’instaurare una confidenza con la ragazza, Ryan rivela presto un’ambiguità disturbante. È qui che la presenza smette di limitarsi a osservare e comincia a manifestarsi con maggiore decisione.
Costato poco più di due milioni di dollari, il film di Soderbergh non è solo un esercizio di stile travestito da ghost story e thriller. Sì, alla fine si scoprirà l’identità della presenza – anche se l’idea di un fantasma [spoiler] tornato indietro nel tempo per proteggere Chloe [/spoiler] appare piuttosto forzata – ma si tratta a tutti gli effetti di un esperimento autoriale coraggioso. Un film quasi sperimentale, dove alla staticità di Skinamarink (sì, lo so, non c’entra nulla ma lo cito come esempio di horror di "rottura" - qualcuno potrebbe aggiungere in tutti i sensi) si sostituisce la fluidità dei movimenti.
Un film di fantasmi anomalo, in cui Soderbergh gioca con lo spazio, i silenzi e l’invisibile. Più che un horror "de paura", una riflessione sul vuoto affettivo. Perché il vero fantasma, qui, è l’incapacità di ascoltare chi ci sta vicino.

Film
Horror
Thriller
USA
2024
martedì, 22 luglio 2025
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La morte corre incontro a Jessica

di John Hancock

La morte corre incontro a Jessica, diretto da John Hancock nel 1971, è un film semisconosciuto che con il tempo è stato rivalutato come una delle pellicole più interessanti del cinema horror americano degli anni settanta. Nato in un’epoca di sperimentazioni e contaminazioni, mescola suggestioni gotiche, disagio mentale e inquietudini post-hippie, costruendo un’atmosfera sospesa e disturbante.

Dopo un periodo trascorso in un istituto psichiatrico, Jessica (Zohra Lampert) si trasferisce con il marito Duncan (Barton Heyman) e l’amico Woody (Kevin O’Connor) in una vecchia casa colonica del Connecticut, sperando di ritrovare equilibrio e serenità. All’arrivo trovano Emily (Mariclare Costello), una giovane misteriosa senza fissa dimora che dice di aver trovato riparo in quella casa da qualche tempo. Invitata a restare, la sua presenza innesca una serie di eventi inquietanti: Jessica comincia a sentire voci, a vedere una figura spettrale e a temere una ricaduta nella follia. Mentre il clima si fa più opprimente, la linea tra realtà e paranoia si assottiglia, lasciando emergere dubbi, tensioni e presagi oscuri.

Il film si muove sul confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tra il disagio e la follia, lasciando lo spettatore in una zona grigia, ambigua, dove nulla è spiegato fino in fondo. Jessica sospetta che Emily sia una vampira, ma il film evita di prendere posizione e resta sospeso tra paranoia e soprannaturale. Può spiazzare, certo, ma è proprio questo spaesamento a creare un senso di inquietudine duraturo.
Visivamente, è un’opera affascinante. La fotografia è splendida, i paesaggi hanno un che di spettrale, la casa isolata in riva al lago sembra uscita da un incubo. Anche la colonna sonora contribuisce con suoni acidi e dissonanti, generati da synth analogici, a costruire un’atmosfera tesa e ipnotica.
Quello che funziona meno non è tanto il ritmo dilatato — che in un film così ci può anche stare — quanto certe situazioni ripetitive e dei dialoghi davvero troppo banali. Se ci si aspetta un horror classico, con trama lineare e colpi di scena, si rischia la delusione. Ma se lo si accoglie per ciò che è — un viaggio disturbato nella mente di una donna fragile — allora riesce a colpire nel segno.
Consiglio di vederlo in lingua originale.

Film
Horror
Psicologico
USA
1971
venerdì, 18 luglio 2025
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Secretary

di Steven Shainberg

Molto prima che Cinquanta sfumature di grigio trasformasse il BDSM in una moda da romanzo rosa fintamente trasgressivo, agli inizi degli anni duemila esce Secretary, film diretto da Steven Shainberg, che racconta una relazione sadomasochistica con ironia e sorprendente delicatezza. Un film che parla di sottomissione e controllo non come deriva patologica, ma come possibile forma d’intimità, equilibrio e riscatto personale.

Lee Holloway (Maggie Gyllenhaal) è una giovane donna fragile, con tendenze autolesionistiche, appena uscita da un ospedale psichiatrico e tornata a vivere con la sua disfunzionale famiglia nei sobborghi americani. Dopo un corso da dattilografa, trova lavoro nello studio legale dell’eccentrico avvocato E. Edward Grey (James Spader). Il loro rapporto professionale si trasforma presto in qualcosa di più complesso, una dinamica di dominazione e sottomissione che, tra punizioni, carezze e lettere battute a macchina, aiuta entrambi a confrontarsi con le proprie nevrosi, a disinnescarle e – forse – a guarire.

Tratto da un racconto breve di Mary Gaitskill, Secretary è una commedia nera che esplora i territori ambigui delle relazioni, del potere e della dipendenza emotiva. Parla di perversioni sessuali e dinamiche tossiche, ma lo fa con leggerezza, ironia, e un tocco grottesco che a tratti sfiora il surreale. In mezzo a tutto questo, però, resta soprattutto una storia d’amore. Strana, deviata, ma pur sempre d’amore.
Lee è timida e dimessa, entra nello studio legale con l’aria da cerbiatta spaurita e si ritrova presto coinvolta in un gioco sadomasochista fatto di errori battuti apposta a macchina, posture di obbedienza e punizioni simboliche. Ma non è una vittima: è lei ad accettare il gioco, ad assecondarlo e infine a guidarlo. Nella sottomissione scopre una forma di piacere che dà finalmente un senso alla sua inquietudine.
Grey, invece, è un uomo ossessivo e represso, che cerca di soffocare i propri impulsi attraverso l’ordine e l’isolamento. Quando cede al desiderio, lo fa con esitazione e senso di colpa. Sarà proprio Lee, la parte "debole", a sfidarlo, ad aspettarlo, a salvarlo. In un ribaltamento sottile e potente, la segretaria obbediente diventa protagonista attiva di una relazione che si costruisce fuori dagli schemi, ma su basi molto reali: il riconoscersi, il scegliersi, l’accettarsi.

Maggie Gyllenhaal è brava a interpretare una ragazza all’inizio fragile e impacciata, poi sempre più consapevole, seducente, padrona di sé. Spader è altrettanto convincente nel ruolo dell’uomo che esercita il controllo ma ne è, in fondo, vittima.

Se uscisse oggi, Secretary sarebbe un film divisivo. Travolto da critiche e accuse di misoginia, abuso di potere e rappresentazione tossica del maschile. Una relazione tra un uomo potente e la sua dipendente sottomessa? Inaccettabile nell’era del #MeToo. Poco importa che Lee sia consenziente. Per molti sembrerebbe solo un altro caso di patriarcato travestito da romance alternativo.
Eppure Secretary non parla di abuso. Parla di libertà. Di due persone che, nel dolore e nel desiderio, trovano una forma d’equilibrio possibile. Scomoda, certo. Ma profondamente umana.

Film
Commedia
sentimentale
USA
2002
Retrospettiva
giovedì, 17 luglio 2025
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Final Destination

di James Wong

La morte. Nel cinema è stata rappresentata in diverse forme. Austera e filosofica ne Il settimo sigillo di Bergman, grottesca e sarcastica ne Il senso della vita, affascinante e seduttiva in Vi presento Joe Black.
In Final Destination, film del 2000 diretto da James Wong, la Morte si reinventa diventando una presenza invisibile che non ha volto né voce, una forza astratta che attraverso coincidenze, oggetti quotidiani e piccoli dettagli si riprende ciò che le è stato sottratto.

La storia ha per protagonista Alex, un liceale in partenza con i suoi compagni di classe per una gita a Parigi. Poco prima del decollo viene colto da una visione agghiacciante, l’aereo esploderà in volo. In preda al panico, viene fatto scendere insieme ad alcuni compagni e a un’insegnante. Pochi minuti dopo l’incubo si avvera, l’aereo esplode davvero, proprio come aveva previsto.
Ma la vera minaccia deve ancora rivelarsi. I superstiti scoprono presto di non essere affatto al sicuro. Uno dopo l’altro iniziano a morire in circostanze bizzarre e inquietanti, come se un disegno invisibile stesse rimettendo le cose al loro posto.
Alex intuisce che la Morte ha un piano, e che sfuggirle una volta non basta.

Final Destination nasce da un’idea di Jeffrey Reddick, inizialmente pensata per un episodio mai realizzato di X-Files. Il progetto viene poi trasformato in un film dalla New Line Cinema, con la sceneggiatura firmata da James Wong e Glen Morgan, volti noti proprio della serie di Chris Carter.
Rivedendolo oggi, il film porta addosso tutti i segni del tempo. Ingenuità narrative, un cast acerbo formato da giovani attori pescati dalle serie televisive dell’epoca, e una struttura che ricalca in pieno gli stereotipi del teen-horror di fine anni novanta. Ma l’intuizione alla base resta originale e dirompente. Togliere di mezzo il killer mascherato per affidare la strage alla morte stessa, trasformata in una presenza invisibile ma implacabile, capace di costruire incidenti come trappole a orologeria. È lo slasher che diventa soprannaturale.
Nel panorama horror post-Scream, ormai in fase calante, Final Destination cambia le regole: non importa chi uccide, ma quando e come. Il film gioca sull’attesa e sull’ingegno delle morti, restituendo una buona tensione (soprattutto nei primi quindici minuti) per poi intrattenere grazie all’inventiva della morte improvvisa, efferata e, in un certo qual modo, divertente – quella dell’insegnante resta tra le più memorabili per ironia e costruzione.
E se pensiamo che questo è solo il primo capitolo di una lunga saga (proprio in questi giorni è uscito il sesto), vuol dire che l’idea in fin dei conti non era per niente male. Una struttura semplice ma solida, capace di rinnovarsi restando fedele a un concept forte, che ha saputo parlare al pubblico giusto nel momento giusto.

Film
Horror
USA
2000
Retrospettiva
sabato, 12 luglio 2025
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Superman (2025)

di James Gunn

Ho un rapporto piuttosto contrastato con i cinecomic. Da vecchio nerd appassionato e collezionista di fumetti, in principio li amavo. Poi è arrivata una crisi di rigetto. Hanno cominciato a stancarmi, a sembrarmi tutti uguali, e ho finito per detestarli.
Superman, tra l’altro, non è mai stato il mio supereroe preferito. Se restiamo in casa DC Comics, il mio cuore è sempre appartenuto a Batman. Eppure Superman, forse perché è stato il primo supereroe della storia dei fumetti moderni, resta il supereroe per antonomasia. Un’icona culturale globale, riconoscibile ovunque, come la Coca-Cola o il volto di Marilyn Monroe.
Sul grande schermo, almeno per quelli della generazione X, Superman ha il volto inconfondibile di Christopher Reeve. Le versioni più recenti firmate da Zack Snyder non mi hanno lasciato molto. Ma oggi c’è James Gunn, regista capace di mescolare ironia, azione, empatia e visione pop. È a lui che la Warner ha affidato non solo il reboot di Superman, ma l’intero rilancio dell’universo DC. Questo Superman è il primo passo.
Spinto dalla curiosità — e anche da mio figlio, che con l’incanto tipico dell’infanzia sta iniziando a lasciarsi alle spalle i cartoni per scoprire un altro tipo di racconto — sono tornato in sala.

La storia la conosciamo tutti, ed è forse proprio per questo che Gunn decide di saltare le origini del personaggio ed entrare subito nel vivo dell’azione. Superman (David Corenswet) è già attivo da tre anni, in un mondo affollato di metaumani, mostri e tecnologie avanzatissime. Dopo essere intervenuto nel conflitto tra Boravia e Jarhanpur, viene sconfitto da una gigantesca creatura meccanizzata e salvato dal supercane Krypto, che lo trascina nella Fortezza della Solitudine.
Dietro l’attacco c’è Lex Luthor (Nicholas Hoult), magnate spregiudicato che manipola la verità per i propri scopi, diffondendo l’idea che Superman sia stato inviato sulla Terra non per proteggerla, ma per dominarla. Mentre Lois Lane (Rachel Brosnahan) e Jimmy Olsen (Skyler Gisondo) cercano di fare luce sulla verità, una squadra di metaumani – la Justice Gang, composta da Mr. Terrific (Edi Gathegi), Hawkgirl (Isabela Merced) e Lanterna Verde (Nathan Fillion) – cerca di capire da che parte stare.

Il Superman di Gunn è lontano dall’eroe infallibile e muscolare a cui siamo abituati. È vulnerabile, idealista, perfino goffo con quel costume retrò. Non incarna l’America, ma l’umanità intera. Forse è proprio per questo che viene visto con sospetto, come un corpo estraneo, un immigrato, un alieno in tutti i sensi. Lex Luthor — qui un tecno-capitalista modellato su Elon Musk — non solo guida una campagna diffamatoria per screditarlo, (utilizzando un esercito di scimmie addestrate per generare commenti e hashtag di odio contro di lui), ma fornisce l'aiuto militare e tecnologico alla Bovaria e al suo sanguinario dittatore. Inutile giraci intorno, il conflitto tra Boravia e Jarhanpur, più che la guerra tra Russia e Ucraina, richiama con forza la situazione israelo-palestinese, con Superman che sceglie di schierarsi con i più deboli. Che un blockbuster hollywoodiano prenda una posizione così chiara è raro. Gunn lo fa senza retorica, lasciando parlare le immagini e i personaggi.

Ma Superman è anche — e soprattutto — una giostra visiva travolgente. Un film pieno di colori, azione, mostri colossali, battaglie epiche e distruzioni spettacolari. Bellissimo il piano sequenza dell’assalto di Mr. Terrific a una base militare.
È probabilmente il film più "marveliano" della DC.  Un cinecomic pop, accessibile, ricco di idee, ma con una propria identità. Ogni personaggio è trattato con attenzione. Finalmente abbiamo una Lois Lane pensante: Rachel Brosnahan è perfetta nel ruolo, audace, pragmatica, mai in ombra. Memorabile la scena in cui chiede un’intervista a Superman e lui, impacciato, finisce quasi per “prenderle” dalla donna che ama.
Lex Luthor è un villain semplice ma efficace, radicato nel nostro presente. Ossessionato dal potere, dall’immagine, da una tecnologia usata come mezzo di controllo, senza scrupoli etici.
Anche i personaggi secondari trovano tutti un momento di rilievo. Qualcuno sfiora la macchietta — come la spasimante di Jimmy Olsen che gli passa informazioni in cambio di attenzioni — ma in un racconto così ampio sono dettagli trascurabili.

Superman non è un film perfetto, alcune situazioni si ripetono, certi passaggi sono ridondanti. Ma è un cinecomic riuscito, che diverte, emoziona e fa riflettere. Parla di identità, appartenenza, famiglia. E di un alieno che, paradossalmente, si rivela più umano degli umani.
James Gunn ha fatto centro. È riuscito a restituire anima e attualità a un simbolo che sembrava ormai superato.

Film
Fantastico
Azione
cinecomic
USA
2025
Cinema
lunedì, 7 luglio 2025
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Sinister

di Scott Derrickson

Sinister non lo avevo ancora visto. Ne avevo sempre sentito parlare bene e, da amante dei film horror, lo avevo in lista da tempo. Alla regia c’è Scott Derrickson, giovane regista americano conosciuto per L'Esorcismo di Emily Rose ma anche per aver diretto il marvelmovie Doctor Strange, e il più recente Black Phone. Pare che l’idea per Sinister sia venuta allo sceneggiatore Christopher Robert Cargill dopo aver visto il The Ring americano. Ma la cosa più curiosa è un’altra: secondo un esperimento chiamato "Science of Scare" – in cui un gruppo di volontari ha guardato film horror con il cardiofrequenzimetro al polso – Sinister risulterebbe il film più spaventoso di tutti i tempi. Almeno secondo la scienza.

Protagonista del film è Ellison Oswalt (Ethan Hawke), scrittore di true crime in crisi creativa. Alla ricerca di ispirazione, si trasferisce con la famiglia nella casa dove è avvenuto un brutale omicidio, sperando di ricavarne materiale per il suo prossimo libro. In soffitta trova una scatola con vecchie pellicole Super 8 apparentemente innocue. Ma una volta proiettate, rivelano una serie di efferati omicidi familiari, ciascuno accompagnato da un sottofondo disturbante e da una presenza enigmatica. Indagando, Ellison scopre un antico culto legato alla figura del Bughuul, un’entità demoniaca che si nutre dell’anima dei bambini.

Sinister è un horror decisamente riuscito. Non ha nulla di particolarmente originale, sia chiaro, ma il risultato funziona. L’idea di base è quella del ritrovamento di vecchie pellicole in super 8, degli snuff movies che documentano con glaciale freddezza una serie di omicidi familiari avvenuti in epoche e luoghi diversi. In comune hanno tutti due elementi: il figlio più piccolo sparisce sempre, e in un angolo dell’inquadratura – sfocato, riflesso, seminascosto – si intravede un volto inquietante. Il nostro protagonista, convinto di aver trovato del materiale valido per scrivere il suo nuovo bestseller, comincia a guardare i filmini compulsivamente, entrando in una spirale paranoica. Più analizza, più le immagini lo ossessionano. Finché le cose iniziano a prendere una piega pericolosamente reale: quei filmini non sono solo testimonianze di omicidi, ma veri e propri strumenti per evocare Bughuul.
A un certo punto ho messo in pausa il film per prendere un gelato dal frigo (Antò, fa caldo), e neanche a farlo apposta l'ho fermato nel frame in cui appare la faccia del demone. Esperienza metafilmica al limite dell’inquietante. Detto ciò, Bughuul non è proprio il mostro più spaventoso che si sia mai visto. Ha un’estetica un po’ death metal – sembra il frontman di una band norvegese – e non ha il carisma visivo dei grandi boogeyman dell’horror. Però l’idea che possa esistere solo se “visto”, se la sua immagine viene trovata e guardata, è interessante e aggiunge un bel livello di paranoia.
Originale o no, il film è ben costruito e Derrickson sa esattamente cosa fare. L’atmosfera è cupa, disturbante, avvolgente. Niente jump scare a raffica, qui la tensione arriva nei modi più sottili – un’inquadratura troppo silenziosa, un’ombra che si muove appena, il suono della pellicola che gira da sola nel buio.
La storia regge, il finale funziona (e non è scontato), ed Ethan Hawke regge bene il ruolo. Peccato per il resto del cast: la moglie sembra una comparsa in vacanza, i figli sono ritagliati con lo stampino, e il vicesceriffo è lì solo per fare da spalla. Anche i bambini fantasma, forse per via del trucco un po' posticcio, non fanno tutto questa gran paura.

Ma dove Sinister colpisce davvero è nel suono. Il montaggio sonoro è fondamentale per costruire la tensione, e la colonna sonora di Christopher Young è una delle più interessanti sentite negli ultimi anni. Tra rumori industriali e inserti ambient, ci sono brani degli Ulver, Aghast e persino dei Boards of Canada che aumentano il senso di isolamento e claustrofobia come un macigno sulla schiena.

Film
Horror
USA
2012
giovedì, 3 luglio 2025
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Il dormiglione

di Woody Allen

Il dormiglione (Sleeper, in originale) è uno dei titoli più divertenti della prima fase creativa di Woody Allen, quella in cui il regista era ancora fortemente ispirato dalla slapstick comedy più esuberante, ispirato alla comicità visiva e fisica di maestri come Buster Keaton e Charlie Chaplin. Co-sceneggiato con il fido Marshall Brickman, il film è una parodia fantascientifica che prende in giro i cliché distopici e futuribili del genere, con leggerezza anarchica e ritmo sincopato. 

Woody Allen interpreta un vegetariano suonatore di jazz che, dopo esser stato ricoverato per una semplice ulcera, viene ibernato negli anni '70 e risvegliato due secoli dopo in un futuro ipertecnologico e totalitario. L’America del 2173 è governata da un regime oppressivo che controlla ogni aspetto della vita dei cittadini, e il nostro protagonista — del tutto spaesato — si ritrova suo malgrado coinvolto in una rivolta sotterranea contro il sistema. Travestimenti improbabili, robot servizievoli, cibo in pillole e marchingegni per il piacere sessuale sono solo alcune delle tappe assurde di questa fuga surreale, durante la quale l’uomo finirà per innamorarsi di Luna (Diane Keaton), un’artista svampita che vive immersa in un mondo finto e anestetizzato.

Prima ancora della psicanalisi e delle nevrosi da salotto, Woody Allen affida tutto al corpo, al nonsense, alla mimica più sfrenata, inanellando una dopo l'altra gag deliranti e situazioni paradossali. La trama? Un puro pretesto. Un filo conduttore labile, utile solo a tenere insieme una giostra di trovate comiche, travestimenti improbabili e improvvise virate nel surreale.
Eppure, sotto la superficie scanzonata, si intravede una satira politica ben più consapevole di quanto sembri. Il film riprende lo spirito dissacrante di Bananas, ma lo proietta avanti nel tempo, verso un futuro distopico che è in realtà lo specchio deformante del presente. Il potere è sempre più astratto, la società sempre più omologata, il benessere sempre più finto. Allen guarda al domani con il cinismo disilluso degli anni ’70, servendosi di una narrazione anarchica e caotica proprio per ridicolizzare ogni forma di controllo.
Visivamente, Il dormiglione è una festa retrofuturista: architetture sinuose, design curvilineo, plastica ovunque, oggetti di scena che sembrano usciti da un sogno psichedelico sponsorizzato dalla NASA. E a dare ritmo a tutto c’è la colonna sonora jazzata, brillante, eseguita dallo stesso Allen al clarinetto insieme alla sua band: un tappeto sonoro ironico e svagato, perfettamente funzionale al tono generale.

Il dormiglione non sarà il suo film più riuscito, ma resta una commedia vivace e piena di inventiva, che — se la si prende per quello che è — può ancora divertire con la sua leggerezza anarchica e quel sorriso da cartoon anni trenta incollato in faccia al futuro.

Film
Commedia
Fantascienza
USA
1973
mercoledì, 2 luglio 2025
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Linoleum

di Colin West

Un razzo in giardino, una replica di sé che irrompe nella quotidianità, un universo che si piega lentamente su se stesso. Linoleum è un film che fonde con intelligenza commedia surreale, dramma familiare e fantascienza. Colin West, regista e sceneggiatore, firma una pellicola bizzarra e particolare, tanto intima quanto ambiziosa, che merita un posto nelle orbite degli spettatori più curiosi.

Cameron Edwin (Jim Gaffigan) è il pacato conduttore di un programma scientifico per bambini, ormai dimenticato e relegato a orari improbabili. La sua vita sembra sgretolarsi giorno dopo giorno: il matrimonio con Erin (Rhea Seehorn) è in crisi, il rapporto con la figlia Nora (Katelyn Nacon) si logora tra silenzi e distanze, il lavoro non offre alcuna gratificazione. Finché un satellite non precipita nel suo cortile. Da quel momento, Cameron decide di costruire un razzo nel garage, convinto che l’unico modo per ritrovare sé stesso sia quello di diventare un astronauta e raggiungere le stelle.

Linoleum è un film indipendente che in parte potrebbe ricordare – con le dovute cautele – titoli come Sto pensando di finirla qui o Donnie Darko. Colin West costruisce un mondo che sembra familiare ma sfugge continuamente tra le dita, disseminando lungo la narrazione piccoli elementi anomali che inizialmente paiono marginali, ma che con il progredire della storia acquisiscono un significato sempre più profondo. Dietro le riflessioni su carriere mancate, rimpianti mai risolti e una storia d’amore adolescenziale, si insinua lentamente l’impressione che ci sia qualcosa di più. Un velo. Un codice nascosto sotto la superficie.
Ci vogliono oltre settanta minuti per iniziare a intuire davvero dove stia andando a parare il film, probabilmente troppi, ed è qui che si concentra uno dei suoi limiti più evidenti. Molte delle intuizioni più riuscite sono concentrate negli ultimi dieci minuti, quando realtà e fantasia finalmente si fondono e quella normalità punteggiata di stranezze trova un senso compiuto. È un finale che getta una luce nuova su tutto ciò che abbiamo visto fino a quel momento, e che invita, quasi obbliga, a rivedere il film con occhi diversi.
Io personalmente avrei preferito che il film abbracciasse il suo lato più weird fin dall’inizio, lasciandosi andare fin da subito a quella deriva surreale che poi, quando arriva, risulta un pò tardiva.

Linoleum è un film che non riesce a decollare davvero, ma che ha il coraggio di puntare in alto. E anche solo per questo, merita di essere visto.

Film
Commedia
Fantascienza
USA
2022
venerdì, 27 giugno 2025
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La maschera di cera (1933)

di Michael Curtiz

La maschera di cera, in originale Mystery of the Wax Museum, è uno dei primi film a colori della storia del cinema. La tecnica usata è il Technicolor a due colori, che riproduceva solo una gamma limitata di tonalità, combinando rosso e verde ma escludendo il blu. Il risultato è una palette cromatica calda e innaturale, spesso con una dominante rosso-marrone o verdognola. Una resa pittorica e surreale, perfetta per l’atmosfera gotica e inquietante del racconto.

Diretto da Michael Curtiz, regista ungherese trapiantato negli Stati Uniti e noto soprattutto per Casablanca, il film è prodotto dalla Warner Bros. e si ispira a un’opera teatrale mai realizzata.

Nel cuore di una tetra Londra ottocentesca, l’artista Igor (Lionel Atwill) scolpisce statue di cera talmente realistiche da sembrare vive. Tra le sue opere più ammirate ci sono Voltaire, Giovanna d’Arco e Maria Antonietta, ma l’attività non rende e il suo socio decide di incassare l’assicurazione appiccando un incendio. Il museo va distrutto e Igor, nel tentativo di salvare le sue creazioni, resta orrendamente sfigurato.
Anni dopo, nella New York del 1933, Igor riappare con un nuovo museo delle cere, specializzato in rappresentazioni macabre e morbose. Quando iniziano a sparire cadaveri dall’obitorio cittadino, la giovane giornalista Florence (Glenda Farrell) nota una somiglianza inquietante tra le nuove statue e le vittime scomparse. Decisa a scoprire la verità, si troverà di fronte a un orrore ben più tangibile della semplice cera.

I musei delle cere hanno sempre avuto qualcosa di inquietante. Statue immobili con occhi vitrei, sorrisi congelati e dettagli morbosamente realistici si prestano bene ad alimentare quella sottile linea tra il vivo e il morto, tra l’arte e il perturbante. La maschera di cera del 1933 è uno dei primi film a giocare con questo tipo di fascinazione (non il primo in assoluto — Il gabinetto delle figure di cera di Paul Leni lo aveva anticipato di quasi un decennio), e lo fa con eleganza gotica e scenografie che rimandano all’espressionismo tedesco.
Più che un horror, il film è un melodramma macabro con punte grottesche e una forte vena ironica. Merito soprattutto della giornalista Florence, interpretata da una frizzante Glenda Farrell, più interessata allo scoop del secolo che alla verità metafisica. Le sue battute ("l’amore è bello, ma solo se ha un conto in banca") sono fulminanti, ciniche e per certi versi ancora attualissime. Le scene davvero inquietanti si concentrano nel finale, ma è l’atmosfera, più che la paura, a dominare il racconto.

Vent’anni dopo, Vincent Price avrebbe reso la storia ancora più sinistra, in un remake che riprende quasi alla lettera dialoghi e sceneggiatura del film di Curtiz.

Film
Horror
Thriller
USA
1933
mercoledì, 25 giugno 2025
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Sabotatori

di Alfred Hitchcock

Certo, rivedendo i film di Alfred Hitchcock uno dopo l'altro, salta subito all’occhio il canovaccio che il regista inglese amava intrecciare nelle sue storie. Un tizio qualunque finisce nei guai per colpa di un evento più grande di lui, viene scambiato per colpevole, scappa, cerca di dimostrare la propria innocenza e, nel frattempo, si ritrova invischiato in un complotto. Ah, dimenticavo, ovviamente lungo la fuga incontra una bella ragazza che prima non gli crede, poi cambia idea e, inevitabilmente, si innamora di lui.
È il caso di Sabotatori, film del 1942, che rientra perfettamente in questo schema ma riesce comunque a rimescolarlo con energia e ritmo.

Barry Kane (Robert Cummings), operaio in una fabbrica di aeroplani in California, viene ingiustamente accusato di aver causato l'esplosione che ha ucciso il suo amico. Pur consapevole di essere stato incastrato, capisce che il vero responsabile è un certo Frank Fry (Norman Lloyd), e decide di fuggire dalla polizia per incastrarlo e provare la propria innocenza. Lungo la fuga, Barry attraversa gli Stati Uniti, dai deserti dell’Ovest fino a New York, raccogliendo alleanze insospettabili — un simpatico camionista, un vecchio cieco e sua nipote, Pat  Martin (Priscilla Lane), inizialmente diffidente ma poi convinta della sua innocenza e disposta ad aiutarlo.
Ben presto Barry scopre l’esistenza di una rete di spie naziste ben radicate nella società americana, decise a portare avanti un piano di sabotaggio su larga scala.

Sicuramente Sabotatori non è tra i migliori film di Alfred Hitchcock — e a quanto pare, nemmeno il maestro del brivido ne era particolarmente entusiasta. La sceneggiatura è piuttosto confusa e a tratti forzata, e i due attori protagonisti, imposti dalla Universal (che per la prima volta produceva un suo film), non hanno quell’alchimia che spesso accompagna le coppie hitchcockiane più riuscite.
Inoltre, l'aspetto propagandistico è fortemente marcato — gli Stati Uniti erano alle soglie dell’ingresso nella Seconda guerra mondiale — e oggi il messaggio retorico dell'America come patria della libertà e baluardo della democrazia contro le forze del male suona piuttosto fastidioso, se non addirittura indigesto. 
Nonostante tutto, il film non è privo di fascino. L’intreccio, pur con qualche deviazione non sempre necessaria, ha un suo ritmo, e Hitchcock riesce comunque a incastonare alcune scene davvero interessanti, come quella nella casa del vecchio cieco, l’episodio sul treno con i freaks da fiera, e soprattutto l’iconico finale sulla Statua della Libertà, entrato a buon diritto nella storia del cinema.
Da segnalare anche il primo ruolo importante per Norman Lloyd, perfetto con il suo volto tagliente e l’aria sfuggente. Un cattivo da manuale, che Hitchcock tornerà a utilizzare.
Insomma, Sabotatori è una sorta di prova generale per quello che sarà, anni dopo, il molto più riuscito Intrigo Internazionale. Se questo film è servito a tracciare il sentiero verso capolavori futuri, allora ben venga. 

Film
Thriller
Spionaggio
Alfred Hitchcock
USA
1942
mercoledì, 18 giugno 2025
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Detachment - Il distacco

di Tony Kaye

Film tristi e pessimisti ne ho visti, ma in un’ipotetica classifica questo starebbe sicuramente tra i primi posti. Sto parlando di Detachment - Il distacco, film del del 2011 diretto Tony Kaye, il regista inglese dell'acclamato American History X, nonchè di numerosi documentari e videoclip.

Henry Barthes (Adrien Brody) è un insegnante supplente di letteratura. E' un uomo riservato, disilluso, segnato da un trauma infantile mai elaborato. Il suo mestiere lo porta a cambiare spesso scuola, e ora si ritrova a occuparsi di una classe di un liceo in una periferia americana profondamente degradata, popolata da adolescenti problematici e aggressivi. Cerca, con pacatezza e determinazione, di mantenere sempre una distanza emotiva da colleghi e studenti, come se l’unico modo per sopravvivere fosse non legarsi a nulla. Con alcuni studenti riesce a stabilire un dialogo, con altri solo un fragile equilibrio. In particolare Meredith, una ragazza sensibile e dotata, ma schiacciata da un padre assente e da compagni ostili, trova in lui una figura che non giudica e sembra comprenderla. Parallelamente, Henry si prende cura del nonno malato di demenza, ricoverato in una casa di cura, e salva dalla strada Erica, una prostituta minorenne che accoglie in casa per offrirle protezione e una possibilità, forse, di redenzione. Nel raccontare in prima persona questa parentesi di vita, Henry osserva con lucidità un sistema scolastico in disfacimento, e riflette sulla propria incapacità di connettersi davvero con il prossimo. Il distacco che lo protegge dal dolore è lo stesso che gli impedisce di guarire del tutto.

Come dicevo, un film triste. Tristissimo. Così negativo e privo di speranza da sfiorare quasi il grottesco. Eppure, proprio in quella sua esagerazione, in quel perdersi nel tormento interiore, c’è qualcosa di autentico. Perché esistono persone che trovano rifugio solo nella malinconica solitudine dell’anima, in quella zona d’ombra dove tutto fa male ma almeno non c’è più nulla da perdere.
Adrien Brody interpreta un professore con l’infanzia rubata, un uomo fondamentalmente buono ma devastato da un trauma antico che gli fa rifiutare ogni forma di legame umano. I ricordi riaffiorano come schegge, flashback frammentati, confusi, come foto strappate e rimesse insieme male. E attraverso una sorta di intervista-confessione, disseminata lungo il film, Henry racconta la sua storia, quella di un uomo che cerca di salvare i suoi studenti, quando forse è proprio lui quello che avrebbe più bisogno di essere salvato.
Intorno a lui, un microcosmo di disadattati: ragazzi allo sbando, anime spente, insegnanti ancor più sfiniti e disillusi degli studenti che dovrebbero motivare. Genitori assenti o completamente falliti, incapaci di offrire una guida, spesso specchio del fallimento di un’intera generazione. La scuola non è più un luogo di crescita, ma un ospedale da campo emotivo, dove nessuno guarisce davvero.
Il distacco emotivo che Henry coltiva come forma di autodifesa comincia a incrinarsi non tanto quando una collega gli mostra interesse, ma quando nella sua vita entrano due ragazzine: Erica, giovanissima prostituta segnata da abusi e abbandoni, e Meredith, studentessa introversa con la passione per la fotografia, vittima di bullismo e genitori tossici. La prima guarda Henry con occhi pieni di stupore, di chi da sempre ha subito violenze e maltrattamenti e per la prima volta si trova di fronte qualcuno che si prende cura di lei. Quei gesti, quasi non riesce a interpretarli ma poi diventano così importanti e vitali che non ne può fare a meno.  L’altra gli mostra una ferita che lui conosce fin troppo bene. E sebbene Henry provi a essere una presenza salvifica, finisce per non riuscire a impedire la caduta di chi lo circonda. Solo con Erica, forse, riesce a offrire un contatto reale, un abbraccio che – per quanto silenzioso – sa di vita. In pratica l'unico spiraglio di luce in tutto il film.
Dal punto di vista visivo, Detachment ha un impianto assai straniante, con un montaggio serrato, inquadrature sbilenche, spesso prese dal basso verso l’alto o distorte con lenti grandangolari, camera a mano sempre in movimento. A interrompere la narrazione, brevi animazioni in stop motion realizzate come disegni a gesso su una lavagna, che accompagnano i momenti più simbolici del film, accentuandone il tono da incubo scolastico.
Molto interessante anche la citazione iniziale di Albert Camus, che introduce il tema del distacco come meccanismo di difesa: anestetizzare le emozioni per non sentire il dolore. Efficace anche la citazione finale con La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe, mentre Henry siede in un’aula vuota, tra sedie rovesciate e fogli sparsi. Immagine potente, metafora visiva di un sistema scolastico allo sfascio, incapace di contenere il disagio che lo abita.

Detachment è un film cupo, doloroso, permeato da un profondo disagio esistenziale a tratti quasi sterotipato che può risultare estremamente irritante.  Eppure, se sei nel giusto stato d’animo, se hai lo spleen adatto per lasciarti andare, questo film può  può riuscire anche a conquistarti nel profondo, e magari farti versare più di una lacrima.

Film
Drammatico
USA
2011
lunedì, 16 giugno 2025
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L'isola degli zombies

di Victor Halperin

L’isola degli zombies è un horror indipendente del 1932 diretto e prodotto da Victor Halperin. La particolarità di questo film — il cui titolo originale è White Zombie — non sta solo nell’aver ispirato il nome dell’omonima band industrial degli anni novanta capitanata da Rob Zombie (poi regista e produttore horror), ma soprattutto nel fatto che è considerato il primo film a portare gli zombie sul grande schermo.
Attenzione però, non stiamo ancora parlando dei morti viventi famelici e contagiosi che George Romero codificherà ne La notte dei morti viventi. Qui gli zombie sono cadaveri riportati in vita attraverso rituali di magia nera haitiana, utilizzati come forza lavoro, servi docili e senz’anima al servizio di un oscuro maestro voodoo.

La storia racconta le vicende di Madeleine e Neil, una giovane coppia americana sbarcata ad Haiti per sposarsi nella tenuta del facoltoso Charles Beaumont. L'ospitalità di Beaumont però nasconde un’ossessione morbosa per Madeleine che lo porta, pur di averla, a rivolgersi a un sinistro maestro voodoo, il misterioso Legendre (interpretato da un magnetico Bela Lugosi).
Con l’aiuto di un potente veleno, Legendre trasforma la ragazza in una sorta di morta vivente, privandola della volontà ma non della bellezza. Mentre Neil tenta disperatamente di salvarla, scopre un mondo fatto di zombie schiavizzati, piantagioni inquietanti e incantesimi oscuri.

L'isola degli zombies, come molti horror dell’epoca, è fortemente influenzato dall’estetica dell’espressionismo tedesco: ombre nette, atmosfere sinistre, scenografie evocative. La regia di Halperin, pur semplice, sfrutta questi elementi con intelligenza, restituendo un film visivamente affascinante. Certo, siamo ancora agli albori del sonoro, e si sente. La recitazione è teatrale, con gesti melodrammatici e pause enfatiche che oggi fanno sorridere — la grazia con cui Madeleine sviene tra le braccia del suo promesso sposo è quasi esilarante. Bela Lugosi, reduce dal successo di Dracula, ruba la scena con la sua presenza inquietante. La sua interpretazione è così manierata da risultare straniante e affascinante. I ripetuti primi piani sui suoi occhi lo trasformano in un demiurgo oscuro, capace di piegare i vivi e animare i morti.
Un film certamente datato, poco conosciuto ma dal valore storico enorme in quanto segna la nascita degli zombie cinematografici. 

Film
Horror
Zombi
USA
1932
sabato, 14 giugno 2025
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Auguri per la tua morte

di Christopher Landon

Ogni tanto ci sta un film leggero, di intrattenimento e da vedere senza troppi pensieri.
È il caso di Auguri per la tua morte, in originale Happy Death Day, film del 2017 diretto da Christopher Landon e prodotto dalla Blumhouse, casa specializzata in horror a basso budget ma ad alto rendimento, soprattutto tra il pubblico più giovane.
Il film è una commedia horror travestita da teen-slasher, una sorta di Ricomincio da capo con la maschera di Scream e un coltello in mano. Il paragone con il cult con Bill Murray non è casuale, dal momento che viene persino citato nel finale.
Certo, l’idea del loop temporale e della giornata che si ripete all’infinito non è nuova — anzi, ormai è quasi un sottogenere a sé — ma Landon decide di affrontarla con leggerezza, strizzando l’occhio più al pubblico adolescenziale che agli appassionati di paradossi spazio-temporali.

Tree Gelbman (Jessica Rothe) è una studentessa universitaria superficiale, arrogante, e tutto sommato insopportabile. Si sveglia, con i postumi di una sbornia, nel letto di uno sconosciuto il giorno del suo compleanno. Ma la vera sorpresa arriva quando, a fine giornata, viene brutalmente uccisa da un assassino mascherato solo per risvegliarsi, di nuovo, nello stesso letto, lo stesso giorno. Intrappolata in un loop temporale che la costringe a rivivere continuamente la stessa giornata, Tree si ritrova a dover indagare su chi sia il suo killer e come interrompere questo loop, e magari diventare una persona migliore.

Auguri per la tua morte è uno di quei film che ti guardi volentieri quando hai voglia di spegnere il cervello e farti due risate, magari con un gelato o una birra ghiacciata, visto le temperature. È un teen movie ben confezionato, dura il giusto, e riesce a intrattenere senza mai annoiare, nonostante racconti, letteralmente, sempre la stessa giornata.
C'è parecchia commedia, anche bella scema a tratti, ma funziona, perché il film non si prende mai troppo sul serio. La componente horror c’è, ma è ammorbidita, niente sangue, niente scene splatter, si intuisce ma non si vede, insomma, tutto rimane su un tono leggero, quasi da horror per neofiti. L’aspetto slasher viene contaminato da un’ironia costante, che affiora ogni volta che la protagonista si ritrova a morire in modo diverso, quasi come se ogni morte fosse una gag da cartone animato. A tenere insieme il tutto è Jessica Rothe, sorprendente per carisma, mimica facciale e perfetti tempi comici. Regge il film praticamente da sola, e riesce a rendere simpatico un personaggio che inizialmente sembra pensato per essere detestabile. Senza di lei il film sarebbe probabilmente affondato già alla seconda morte.
È chiaro che si tratta di un prodotto pensato per un pubblico giovane, con tutti gli stereotipi del caso: college, feste, belle facce, battutine, drammi da dormitorio. Però se lo prendi per quello che è – un horrorino pop da sabato sera, più spensierato che spaventoso – alla fine te lo godi. Certo, non ti cambia la vita… ma di sicuro non te la rovina.
Hanno fatto anche un sequel.

Film
Fantastico
Commedia
Thriller
USA
2017
giovedì, 12 giugno 2025
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I Peccatori (Sinners)

di Ryan Coogler

Fin dalla sua uscita al cinema, I Peccatori, il film di Ryan Coogler, regista noto per Creed e Black Panther, ha fatto parlare di sè, raccogliendo consensi positivi tra pubblico e critica.

Mississippi, 1932. Due fratelli gemelli, Smoke e Stack (entrambi interpretati da Michael B. Jordan), tornano nella loro terra d’origine dopo un passato burrascoso nei bassifondi di Chicago. Con in tasca le lezioni imparate tra racket e notti violente, acquistano una vecchia segheria con l’intenzione di trasformarla in un juke joint, un locale notturno dove la comunità nera possa ballare, bere, ascoltare musica e dimenticare, per qualche ora, le fatiche nei campi di cotone. A unirsi alla loro impresa c’è Sammie, detto Preacher Boy (Miles Caton), un giovane chitarrista blues, capace di evocare qualcosa di più grande della musica stessa. Insieme a lui, amici, parenti e vecchi complici si danno da fare per aprire il locale la sera stessa dell’arrivo dei gemelli. Tutto sembra pronto per una notte di festa, sudore e redenzione — ma qualcosa, nell’aria densa del Delta, annuncia che la vera oscurità non arriva mai bussando alla porta.

Sinners mi ha ricordato, e non poco, Dal tramonto all’alba. Stessa struttura narrativa, con due parti nettamente distinte e la virata all'horror vampiresco nel finale. Nessuno spoiler, Coogler non gioca sull’effetto sorpresa, anzi si intuisce già dalla prima scena la direzione che prenderà il film. Lo stesso predicatore mette in guardia il figlio sul potere oscuro della musica, richiamando le leggende legate alla nascita del blues e al patto col diavolo.
Restando nel gioco delle affinità cinematografiche, la prima parte de I Peccatori richiama, almeno come tematiche, Mississippi Burning, con la sua atmosfera tesa, il razzismo, il Ku Klux Klan, polvere, sudore e rabbia repressa. Vengono presentati i personaggi, introdotto il contesto storico, e reso palpabile il clima culturale e politico dell’America del sud degli anni '30. Poi, nella seconda metà, il film cambia pelle e si trasforma in un assedio alla John Carpenter, un western notturno e furibondo, dove i vampiri emergono da ogni angolo e l’istinto di sopravvivenza diventa l’unica legge.
Ma il cuore del film, il suo nucleo pulsante, è la musica. Il blues, nella sua dimensione sacra e viscerale, è il vero centro gravitazionale della narrazione. In opposizione a esso, la musica dei "bianchi" – quella irlandese, filtrata dai non-morti – diventa un controcanto sinistro, una filastrocca stregata che sembra arrivare da un’altra epoca, e da un altro mondo.
E' proprio alla musica è legata una delle sequenze più riuscite del film, quella ambientata nel juke joint, quando la serata si accende, l’alcol scorre a fiumi, i corpi sudano, danzano, si stringono. Nell’aria si respira un’euforia febbrile, carica di desiderio e carnalità. In un lungo piano sequenza – autentico momento di cinema visionario – la musica squarcia il tempo, si connette passato, presente e futuro, mette in contatto i personaggi con i loro antenati e con chi erediterà la loro storia. Corpi separati da generazioni si muovono al ritmo di una stessa pulsione, in una sinfonia che fonde strumenti, culture, sangue e memoria.
Certo, I Peccatori non è un film perfetto. Non so se sia davvero "l’horror dell’anno", come si legge in giro. Anche perchè secondo me è proprio la seconda parte, quella più horror, la più debole e priva di tensione. Anche la caratterizzazione dei vampiri bianchi come puro simbolo oppressivo, certi momenti didascalici, suonano un po' prevedibili. Ma resta un film audace, che osa fondere folklore, storia afroamericana e horror gotico senza puntare tutto sull’action. Coogler, forte di un budget solido, mette in scena un’ambientazione curata, una fotografia evocativa – quei campi di cotone sotto cieli infuocati sono puro spettacolo – e una regia consapevole dei propri mezzi.
Michael B. Jordan, nel doppio ruolo dei gemelli Smoke e Stack, non mi ha particolarmente entusiasmato. La sua performance è solida ma poco sfaccettata, e se non fosse per il cappello, spesso i due personaggi risulterebbero indistinguibili. Ma il film regge, anzi avvolge. Due ore e un quarto di horror blues caldo e viscerale, con una coda finale che prosegue anche dopo i titoli, lasciandoti addosso il sapore di un’idea di cinema popolare, contaminato, e profondamente fisico. E sì, mi è piaciuto.

Film
Drammatico
Horror
Vampiri
USA
2025
giovedì, 5 giugno 2025
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Until Dawn - Fino all'alba

di David F. Sandberg

Quando si guarda un film, il giudizio è sempre figlio dell’aspettativa. Nel caso di Until Dawn, horror diretto da David F. Sandberg, le mie aspettative erano quelle di passare un oretta e mezza di intrattenimento a base di sgozzamenti, sangue e mutilazioni. E alla fine, sì, il suo compito lo ha fatto. Senza infamia e senza lode.

Tratto dall'omonimo videogioco della Sony, il film è stato oggetto di critiche da parte dei fan, che non hanno preso benissimo lo stravolgimento della storia e dei personaggi. Personalmente, non avendoci mai giocato, non entro in merito e passo oltre, raccontandovi per sommi capi la storia.

Un anno dopo la misteriosa scomparsa di sua sorella, Clover e i suoi quattro amici decidono di mettersi sulle sue tracce giungendo in una casa sperduta in mezzo al nulla che sembra essere un centro visitatori abbandonato. Sulla parete una clessidra gigante con tanto di inquietante teschio e ingranaggio che la fa girare al calar della notte. Da questo momento in poi il gruppo di ragazzi viene ucciso da un assassino mascherato, risvegliandosi però nello stesso punto, costretti a rivivere quella notte e a morire in nuovi modi a ogni ciclo.

Non c’è molto altro da aggiungere, se non che Until Dawn è un vero e proprio festival dei clichè dei film horror. L’assenza di una sceneggiatura capace di generare un minimo di tensione cerebrale è compensata solo nel vedere come una manciata di attori anonimi venga eliminata uno dopo l’altro da maniaci mascherati, demoni invisibili, streghe, zombie e scienziati pazzi. Il tutto condito da spargimenti di sangue, corpi che esplodono, una pioggia di jumpscare e gore in abbondanza, realizzati con buoni effetti pratici e una post-produzione non troppo invasiva.
Un teen-horror ludico e citazionista, senza troppe pretese, che strizza l’occhio a Quella casa nel bosco ma senza averne l’intelligenza metanarrativa né il gusto per la sovversione.

Film
Horror
USA
2025

© , the is my oyster