
The Mist
di Frank Darabont
Frank Darabont è un regista americano conosciuto per aver portato su pellicola alcune opere scritte da Stephen King. Nel 2007, dopo Le ali della libertà e Il miglio verde, Darabont trasporta sullo schermo cinematografico The Mist, racconto del Re del Brivido contenuto nella raccolta Scheletri.
Dopo un violento temporale che devasta la sua casa nel Maine, l’illustratore David Drayton (Thomas Jane) si reca in città con il figlioletto Billy per procurarsi cibo e provviste. Mentre si trovano all'interno di un supermercato, improvvisamente, una nebbia densa e innaturale avvolge l’intera area, rendendo ogni cosa invisibile. Ben presto si scopre che dietro quel velo lattiginoso si nascondono creature mostruose, letali e spaventose, provenienti da un’altra dimensione. La paura dilaga non solo all’esterno, ma anche tra le corsie del supermercato, dove il fragile equilibrio della comunità si incrina. Panico, tensioni e fanatismi portano alcuni a seguire le farneticazioni apocalittiche della signora Carmody (Marcia Gay Harden), mentre altri lottano per mantenere la ragione. In questo clima di crescente disperazione, David, Amanda (Laurie Holden), Billy e pochi altri decidono di rischiare il tutto per tutto avventurandosi all'esterno, preferendo affrontare le minacce che si nascondono nella nebbia.
The Mist non è soltanto un horror di mostri, ma soprattutto un film sull’uomo messo di fronte all’ignoto e alla paura. Darabont costruisce un microcosmo che riflette la fragilità della società, mostrando come il vero pericolo non provenga tanto dalle creature nascoste nella nebbia, quanto dal panico che dilaga tra gli uomini. È in questo clima che il fanatismo religioso, incarnato dalla signora Carmody, prende il sopravvento, rivelandosi più distruttivo e pericoloso delle minacce esterne.
La regia di Darabont, pur senza virtuosismi, mantiene un ritmo teso e costante, sfruttando al meglio gli spazi chiusi e la claustrofobia della situazione. Gli effetti speciali, limitati da un budget non elevato, non sempre convincono, ma riescono comunque a sostenere la narrazione. Per gran parte del film, confinato all’interno del supermercato, The Mist appare come una rivisitazione moderna del cinema horror degli anni settanta, da Romero a Carpenter, peraltro citati più volte. Un buon horror sulla natura umana e sui meccanismi sociali che emergono nelle crisi, dove i veri mostri sono quelli che si aggirano fra di noi. Se vogliamo nulla di particolarmente eclatante o originale… almeno fino al finale.
Lo dico subito e senza esitazione. The Mist ha uno dei finali più devastanti, spietati e memorabili del cinema. Al pari di capolavori come Fight Club, I Soliti Sospetti o addirittura Psycho, possiede una forza emotiva dirompente. Un epilogo completamente diverso da quello immaginato da King, ma che lo stesso autore ha dichiarato di aver apprezzato senza riserve.
Attenzione. Da qui in poi gli spoiler sono inevitabili.
Tutto si concentra negli ultimi tredici minuti. David, il figlio Billy e pochi superstiti abbandonano il supermercato e si avventurano nella nebbia a bordo di un’auto, attraversando una città deserta e devastata dalle creature. È in quel momento che, per la prima volta, irrompe la musica — fino ad allora la pellicola era stata priva di colonna sonora. Sono le note solenni di organo che introducono The Host of Seraphim dei Dead Can Dance. Un brano evocativo, quasi liturgico, in cui la voce ancestrale di Lisa Gerrard trasforma la fuga in un viaggio sospeso tra vita e morte. Per chi, come me, ha da sempre apprezzato la loro musica e considera questa una delle più grandi composizioni del gruppo, può immaginare quanto, sentirla per la prima volta nel finale straziante di questo film, sia stata un’esperienza di pura pelle d’oca.
Senza meta, immersi in un silenzio irreale e circondati da creature gigantesche, quasi uscite dall’immaginario lovecraftiano, i nostri sopravissuti vagano a bordo della macchina nella nebbia. Quando la benzina finisce e ogni speranza sembra svanita, David prende una decisione estrema. Per risparmiare ai suoi compagni e al figlio una morte orribile, li uccide con la pistola che aveva con sé. Rimasto senza proiettili, disperato e straziato dal dolore, esce dall’auto pronto a farsi divorare dai mostri. Ma è proprio in quell’istante che la nebbia si dirada e appare l’esercito, che ha sconfitto le creature e ristabilito l’ordine. La salvezza era a un passo, e David comprende di aver sterminato chi amava pochi secondi prima della liberazione. È un finale che colpisce come un pugno nello stomaco, ribaltando l’intero film in un epilogo di disperazione assoluta. Non c’è consolazione, non c’è sollievo, solo un crudele senso di beffa. Darabont nega allo spettatore il "lieto fine" a cui Hollywood ci ha abituato, lasciandoci invece con un vuoto insostenibile.
Un epilogo spietato, indimenticabile, che trasforma un buon horror in qualcosa di più. Un film che, a mio avviso, si avvicina al capolavoro.
Film
The Conjuring - Il caso Enfield
di James Wan
Nel 2016 James Wan ritorna dietro la macchina da presa per portare avanti la saga che ha ridefinito l’horror soprannaturale contemporaneo. Dopo il successo del primo The Conjuring, questo secondo capitolo sposta l’azione dall’America all’Inghilterra degli anni settanta riportando al centro la coppia di investigatori del paranormale Ed e Lorraine Warren. Questa volta la storia prende spunto da uno dei casi più noti e documentati di presunta attività poltergeist: il caso Enfield.
In una modesta casa di periferia londinese, nel quartiere popolare di Enfield, Peggy Hodgson (Frances O’Connor), madre divorziata, e i suoi quattro figli vengono tormentati da fenomeni inspiegabili che sembrano concentrarsi sulla giovane Janet. Oggetti che si muovono da soli, voci gutturali che escono dal corpo della bambina, presenze oscure che infestano l’abitazione. I Warren (Vera Farmiga e Patrick Wilson) vengono chiamati a indagare ritrovandosi a dover fronteggiare entità che mettono a dura prova non solo la loro fede, ma anche il loro legame personale.
Tralasciando la cronaca degli eventi riportati dai testimoni dell’epoca – per chi fosse interessato esistono numerosi documentari reperibili online – il film attinge al vasto materiale disponibile ricostruendo con cura sia l’atmosfera degli anni settanta sia i momenti chiave che coinvolsero la famiglia Hodgson. James Wan conferma la sua abilità nel fondere suggestioni da horror classico con un linguaggio moderno, sfruttando al meglio il budget a disposizione per orchestrare sequenze dal grande impatto visivo. Con movimenti di macchina fluidi e lunghi piani sequenza trasforma la casa degli Hodgson in un labirinto di angoscia, dosando jumpscare e tensione atmosferica. È qui che prende forma la figura demoniaca di Valak – una sorta di Marilyn Manson travestito da suora – destinata a diventare un’icona del genere e protagonista di futuri spin-off.
Pur senza brillare per originalità, The Conjuring 2 rimane un esempio riuscito di horror mainstream di facile consumo. Wan dimostra ancora una volta di essere uno dei registi più efficaci nel confezionare paura e spettacolo di intrattenimento, alternando momenti di puro terrore a una dimensione più intima e umana, in cui emergono i Warren come figure tragiche e coraggiose.
Film
Notorious
di Alfred Hitchcock
Quando si parla dei grandi film di Alfred Hitchcock, quelli che hanno segnato la crescita del cinema, Notorious occupa un posto speciale. Uscito nel 1946, appena dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Notorius non è soltanto uno dei suoi thriller più eleganti, ma è un’opera in cui si cominciano a vedere emergere con chiarezza molte delle sue ossessioni tematiche, dei suoi espedienti visivi, e del modo in cui le sue storie intrecciano amore, colpa, moralità e segreto.
La storia vede come protagonista Alicia Huberman (Ingrid Bergman), figlia di un criminale nazista condannato negli Stati Uniti. Durante una festa, Alicia, visibilmente ubriaca, si avvicina a uno sconosciuto che poco dopo le rivela di essere l’agente segreto T.R. Devlin (Cary Grant). Tra i due nasce un legame che si trasforma in attrazione, ma Devlin la convince a collaborare con il governo americano infiltrandosi in un gruppo di nazisti rifugiati a Rio de Janeiro. Qui Alicia stringe una relazione con Alexander Sebastian (Claude Rains), uno dei leader dell’organizzazione ed ex amico del padre, che nel frattempo si è tolto la vita in prigione. Divisa tra l’amore per Devlin e il desiderio di riscattarsi dal passato, Alicia accetta un compito che la trascina in una spirale di menzogne, sospetti e pericoli sempre più letali. E mentre Alicia rischia la vita, Devlin deve decidere se mettere da parte l’orgoglio e salvarla, affrontando finalmente i suoi stessi sentimenti.
Notorious è uno dei primi grandi capolavori di Hitchcock, dove il thriller spionistico si intreccia con un dramma sentimentale carico di tensione e ambiguità. La missione segreta è il pretesto, ma il cuore del film è il rapporto tra Alicia e Devlin, fatto di attrazione, orgoglio e incomprensioni. L’amore diventa un terreno insidioso tanto quanto l’organizzazione nazista da smascherare.
Alicia è una protagonista tormentata, che cerca riscatto dopo la vergogna del padre e una vita giudicata scandalosa. Ingrid Bergman, bellissoma, la interpreta con una naturalezza straordinaria, capace di rendere visibile la sua fragilità e la sua forza. Devlin, interpretato da Cary Grant, è l’uomo elegante e distaccato, incapace di confessare i propri sentimenti finché non è troppo tardi. Accanto a loro, Claude Rains dà vita a un antagonista insolito, più tragico che malvagio, dominato da una madre soffocante.
Il film viene ricordato per alcune sequenze entrate nella storia del cinema. La celebre carrellata dall’alto che stringe sulla chiave tenuta nella mano di Alicia, il lungo bacio tra Grant e Bergman costruito con astuzia per aggirare la censura, o la scena della tazzina di caffè avvelenata mostrata in soggettiva. Tutto momenti che dimostrano la maestria di Hitchcock nel trasformare piccoli dettagli in vertici di suspense e intensità emotiva.
Pur non essendo il film più innovativo di Hitchcock sul piano narrativo — in fondo si tratta di una spy story piuttosto lineare — Notorious si eleva grazie al ritmo calibrato, all’attenzione ai particolari e alla psicologia dei personaggi. È un film che dosa perfettamente tensione, romanticismo e virtuosismo registico, e che segna l’inizio della fase più matura del maestro del brivido.

The Woman in the Yard
di Jaume Collet-Serra
The Woman in the Yard è un horror psicologico targato Blumhouse e diretto da Jaume Collet-Serra, regista che dopo Orphan e una lunga parentesi tra thriller e action torna al genere che meglio esalta il suo gusto per l’inquietudine e l’ambiguità.
La protagonista è Ramona (Danielle Deadwyler), sopravvissuta a un grave incidente d’auto in cui ha perso il marito. Costretta a muoversi con una gamba ingessata, vive in una fattoria isolata insieme ai due figli, Taylor (14 anni) e Annie (6 anni). Ferita nel corpo e segnata da un lutto mai elaborato, fatica a occuparsi della casa e dei bambini, che provano da soli a tenere insieme una quotidianità ormai spezzata. Una mattina, dalla finestra, la famiglia scorge una donna avvolta in un velo nero, immobile nel cortile a fissarli. Ramona pensa inizialmente a una sconosciuta in difficoltà o disturbata, ma la sua presenza si fa sempre più inquietante e vicina alla casa, minacciando la sicurezza della famiglia.
The Woman in the Yard è un horror psicologico che trasforma lutto e depressione in una presenza fisica. L’idea di dare corpo al dolore attraverso la donna in nero, funziona quando resta immobile a fissare la famiglia dal cortile, molto meno, a mio parere, quando passa all’azione.
Jaume Collet-Serra costruisce un racconto che punta sull’atmosfera, evocando titoli come Babadook e Hereditary, con cui condivide il tema del lutto come abisso interiore e la depressione intesa come spettro che avvolge lentamente la vita quotidiana. La regia lavora bene su spazi e silenzi, mentre la sceneggiatura d’esordio di Sam Stefanak introduce un buon spunto ma non lo sviluppa con la necessaria precisione. Il terzo atto, in particolare, appare confuso e pasticciato, e lascia la sensazione di un’occasione mancata.
Nel complesso, un horror minimale e suggestivo, che riesce a inquietare quando rimane sospeso nell’ambiguità e nella metafora, meno quando cerca la concretezza della spiegazione.

The Life of Chuck
di Mike Flanagan
Mike Flanagan torna a confrontarsi con Stephen King, dopo Il gioco di Gerald e Doctor Sleep, portando sullo schermo The Life of Chuck, racconto incluso nella raccolta Se scorre il sangue del 2020. Nonostante il nome dei due autori, coloro che si aspettano un horror classico potrebbero rimanere delusi. Il film più che un incubo è un sogno, un viaggio intimo e malinconico sul senso della vita e sul tempo che scivola via.
Nello scrivere questa recensione mi è difficile evitare qualche spoiler. Avvertiti.
La storia è divisa in tre atti e racconta la vita, a ritroso, di Charles "Chuck" Krantz (Tom Hiddleston). Nel primo atto ci troviamo in un mondo sull’orlo della fine, tra improvvisi blackout, scomparsa di internet, città svuotate. Un’apocalisse senza spiegazioni. Eppure, in mezzo al collasso, iniziano a comparire cartelloni pubblicitari con il volto sorridente e rassicurante di Chuck. Nel secondo conosciamo l’uomo dietro quel sorriso, un contabile di banca in trasferta per un congresso che, mentre passeggia per strada, incontra una ragazza che suona la batteria mettendosi a ballare come un professionista. Infine nel terzo, troviamo il nostro protagonista, prima bambino (interpretato dal figlio di Flanagan) poi adolescente. Rimasto orfano da piccolo, Chuck è stato adottato dai nonni paterni (il nonno è intepretato da Mark Hamill) che gli trasmettono l’amore per la danza e la passione per la matematica. La sua infanzia appare serena, se non fosse per una presenza inquietante: nella vecchia casa coloniale in cui vivono c’è una stanza sotto il tetto sempre chiusa a chiave, un luogo proibito che alimenta mistero e curiosità.
The Life of Chuck è un romanzo di formazione raccontato a ritroso. L’apocalisse iniziale è la metafora della malattia che divora Chuck dall’interno, mentre i cartelloni che lo ringraziano "per questi fantastici 39 anni" diventano l’ultimo segnale di memoria prima che il suo universo si spenga. Proprio come le stelle che il professore – riunitosi all’ex moglie – vede sparire nel cielo, con paura ma anche con un'insospettata serenità.
Il momento più riuscito arriva nel secondo atto, con la danza improvvisata in strada di Hiddleston, un gesto semplice, quasi liberatorio che racchiude l’essenza di un'intera vita. Più debole il terzo atto, che nel tentativo di fare da collante con i precedenti finisce per accentuare il sentimentalismo retorico che pervade tutto il film.
The Life of Chuck sembra un Truman Show che si svolge all’interno della propria testa, nel proprio universo interiore, unito alla malinconia esistenziale a ritroso de Il curioso caso di Benjamin Button. Un film che nel momento della morte vuole ricordarci come nei dettagli quotidiani, nei gesti minimi e negli incontri imprevisti si nasconda la vera grandezza, ma che a mio avviso indulge troppo in frasi a effetto, dialoghi carichi di perle di saggezza e un narratore onnipresente che spiega ciò che lo spettatore vede già chiaramente sullo schermo.
Personalmente, continuo a preferire il Flanagan delle sue serie televisive.

The Black Cat
di Edgar G. Ulmer
Nel pieno della stagione d’oro dell’horror Universal, The Black Cat (1934) di Edgar G. Ulmer si distingue per la sua ambientazione insolita. Non più castelli e cripte gotiche, ma una villa modernista, fredda e geometrica, che diventa scenario di un confronto memorabile tra due due icone del cinema horror: Boris Karloff e Bela Lugosi.
Una giovane coppia di sposi in viaggio di nozze finisce per sbaglio nella villa ultramoderna di Hjalmar Poelzig (Karloff), architetto dal passato oscuro e dalle inclinazioni sataniche. Qui si trova anche il dottor Vitus Werdegast (Lugosi), vecchio nemico dell’uomo e reduce della Grande Guerra, deciso a regolare i conti con lui dopo anni di prigionia. Tra rancori, ossessioni e segreti sepolti, la tensione cresce fino a un epilogo sanguinoso.
Lontano dalle atmosfere gotiche che avevano consacrato la Universal, Ulmer sceglie di ambientare la vicenda in un’architettura modernista, fatta di linee rette, spazi sterili e scenografie geometriche. Una scelta sorprendente che dona al film un sapore quasi espressionista, più vicino al cinema tedesco degli anni venti che agli horror americani di quel periodo. A brillare sono i due protagonisti. Karloff è glaciale e diabolico, Lugosi intenso e tormentato, consumato da nevrosi e ossessioni. I loro duetti restano il vero cuore del film.
La trama, invece, appare verbosa e a tratti confusa, con il riferimento alla storia di Edgar Allan Poe ridotto a qualche rapida comparsa di un gatto nero, funzionale più alla fobia del personaggio di Lugosi che a un reale significato narrativo.
Nonostante le incoerenze e un finale sbrigativo, The Black Cat resta un horror atipico, più d’atmosfera che di racconto, capace di affascinare gli amanti dei vecchi film in bianco e nero, se non altro per l'incontro tra due mostri sacri nella loro prima apparizione insieme.

La ragazza della porta accanto
di Gregory Wilson
Vedere questo film è stato devastante.
Quando penso all’horror, non sono le case infestate, gli zombi o i mostri nascosti in soffitta a turbarmi davvero. Tutto ciò che appartiene al soprannaturale resta confinato nella fantasia, e finisce per diventare quasi un esercizio di evasione. Diverso è quando l’orrore prende forma attraverso persone comuni, uomini e donne capaci di compiere atrocità inimmaginabili. Quando la crudeltà è radicata nell’animo umano, non c’è filtro, non c’è distanza di sicurezza. Se poi ciò che vediamo è ispirato a una vicenda realmente accaduta, il disagio diventa ancora più insopportabile.
È proprio questo il caso di La ragazza della porta accanto, film del 2007 diretto da Gregory Wilson, tratto dall’omonimo romanzo di Jack Ketchum ispirato al terribile omicidio di Sylvia Likens.
Negli anni cinquanta, in una tranquilla cittadina americana, due ragazzine rimaste orfane – Meg (Blythe Auffarth) e sua sorella Susan, rimasta disabile nell’incidente che ha causato la morte dei loro genitori – vengono affidate alle cure della zia Ruth Chandler (Blanche Baker), madre di tre ragazzi. All’apparenza rispettabile, Ruth si rivela presto autoritaria e disturbata, trascinando i figli e i giovani del quartiere in un perverso gioco di crudeltà e soprusi. Meg, la maggiore, diventa il bersaglio di una spirale di violenze sempre più disumane, mentre l’amico David, segretamente innamorato di lei, assiste impotente alla sua segregazione in cantina, dove subisce un calvario sadico e crudele.
Sebbene la violenza e gli atti sadici siano perlopiù tenuti fuori campo, La ragazza della porta accanto è un film estremamente disturbante, destinato a stomaci forti. Nulla a che vedere con i vari torture-porn che imperversavano negli anni in cui uscì la pellicola di Wilson. Nonostante le sevizie e le atroci umiliazioni restino fuori campo, il film non ha bisogno di scene esplicite per colpire duro. Lo fa attraverso dialoghi, tensione psicologica e suggestioni, riuscendo a creare nello spettatore una forte empatia per la povera protagonista e il suo lungo percorso di degradazione morale e fisica, atrocemente travestito da innocente gioco infantile.
A orchestrare tutto c’è la zia, donna disturbata che coinvolge i figli e altri giovani del quartiere, offrendo loro birre e sigarette e trasformandoli in complici delle sue crudeltà. Ciò che fa più male è la perversione dei ragazzi, ormai plagiati in maniera incredibile dalla donna, che finiscono per compiere ogni tipo di nefandezza contro Meg. L’unico che si sottrae a queste atrocità è il giovane David, che inizialmente assiste in silenzio, impotente, incapace di intervenire. La sua frustrazione e il senso di colpa si trasformano in una voragine di dolore quando Meg gli confessa il suo amore, poco prima di espiare per le violenze subite.
Tecnicamente ineccepibile e interpretato da un cast eccellente – molto brava la Baker, il film lascia un’impronta indelebile, soprattutto perché si ispira a fatti realmente accaduti a Indianapolis nel 1965, quando la sedicenne Sylvia Likens fu torturata e uccisa dalla donna a cui era stata affidata. Il film non è una ricostruzione fedele degli eventi – anche i nomi dei protagonisti sono diversi, ma alcune delle sevizie documentate sono state riportate in questa pellicola. Nello stesso anno uscì anche An American Crime, ispirato allo stesso caso, ma tra i due, da quello che leggo in giro, questo risulterebbe più crudo e spietato.
La ragazza della porta accanto è un horror viscerale e diretto, che si insinua sotto la pelle e lascia scosso per ore dopo la visione. Un film da vedere, pur sapendo che può fare molto male.
Film
Il grande Lebowski
di Joel ed Ethan Coen
Un capolavoro assoluto, un cult che ha segnato la mia generazione. Uno di quei film che si citano a memoria e che rivedi ogni volta con lo stesso piacere. Insieme a Frankenstein Junior, è probabilmente uno dei miei comfort movie preferiti, la commedia a cui sono più legato. Sì, lo so, definirla semplicemente una commedia è riduttivo. In questo film convivono il pulp, il grottesco, il noir e persino il surreale. Sto parlando de Il grande Lebowski, il film del 1998 scritto e diretto da Joel ed Ethan Coen. Accolto in modo tiepido alla sua uscita, negli anni successivi è diventato un vero e proprio cult movie, capace di generare festival, citazioni infinite e persino una filosofia di vita, il "dudeismo".
Jeffrey Lebowski (Jeff Bridges), detto “Il Drugo” — The Dude in originale — non è certo un uomo d’azione. Vive a Los Angeles, si veste con vestaglie consunte, beve White Russian come fossero acqua e si accontenta di poco: «bowling, un giro in macchina e un trip d’acido quando capita». La sua vita scorre lenta, almeno finché due scagnozzi non piombano nel suo appartamento, lo scambiano per un altro Lebowski e, per sottolineare il malinteso, gli pisciano sul tappeto. Un tappeto che, come ripeterà più volte, «dava davvero un tono all'ambiente».
Spinto dall’amico Walter (John Goodman), un reduce del Vietnam incline alla collera con cui condivide, insieme all'ingenuo Donny (Steve Buscemi), la passione del bowling, il Drugo decide di chiedere un risarcimento al "Grande" Lebowski (David Huddleston), un ricco filantropo paraplegico. Ma invece di un tappeto nuovo, finirà coinvolto in una storia di rapimento che non gli appartiene, con valigette di denaro che spariscono, nichilisti tedeschi che minacciano di tagliargli "il pisello", e una galleria di personaggi uno più assurdo dell'altro. Tra sogni lisergici sulle piste da bowling, artisti concettuali, e partite che non arrivano mai a conclusione, Il grande Lebowski diventa una parabola comica e surreale su un uomo che non chiede altro che vivere in pace, sdraiato sul suo tappeto ad ascoltare le cassete con i suoni delle piste di boowling.
Partiamo dalla storia, probabilmente, per molti, il punto debole del film. I fratelli Coen prendono la struttura classica del noir hard-boiled — detective riluttante, caso di rapimento, femme fatale, soldi che passano di mano in mano — e la ribaltano in chiave comica e assurda. Più l’intreccio si ingarbuglia, più questa confusione genera la sensazione di una trama che gira a vuoto e non porta da nessuna parte. Eppure è proprio questo folle carosello di situazioni grottesche e surreali a produrre comicità, restituendo l’immagine di un mondo fuori controllo.
Ma la vera forza dirompente di questo film sono i personaggi, interpretati da attori in stato di grazia, squisitamente sopra le righe eppure coerenti nella loro follia. Il Drugo è un “cazzone” pigro, svagato, trasandato, il tipo che sembra essersi alzato dal letto da poco, e che «rispetta un regime di droghe piuttosto rigido per mantenere la mente flessibile». Evita conflitti, accetta il flusso della vita e afferma con placida ironia la sua filosofia. Ma la sua indifferenza non è passività, è una scelta deliberata per mantenere la pace e la propria serenità interiore. Jeff Bridges dà vita a un hippie degli anni novanta, senza un lavoro né ambizioni, ma con una sorprendente fierezza nel restare ai margini. Il Drugo è un anti-eroe pigro e svagato, refrattario a qualsiasi responsabilità, una specie di Homer Simpson in carne e ossa che affronta il fallimento quotidiano con noncuranza, tra un White Russian e una partita a bowling. Più che un perdente, è la caricatura vivente di chi rifiuta le logiche del successo e del consumismo, trovando nella sua indolenza una forma di libertà. Senza dubbio il miglior ruolo della carriera di Bridges, tanto da comparire stabilmente tra i cento personaggi cinematografici più amati di sempre. Accanto a lui troviamo Walter Sobchak, reduce del Vietnam nevrotico e irascibile, pronto a puntare una pistola contro chiunque non rispetti le regole del bowling — «amico mio, stai per entrare in una valle di lacrime». Vive una guerra personale senza fine, giustificando ogni sua azione come morale e riportando ogni discussione, anche la più banale, al trauma post-bellico — «Questo non è il Vietnam, è il bowling: ci sono delle regole». È un personaggio tragicomico. La sua incapacità di adattarsi al presente lo rende commovente, ma anche speventosamente inquietante. Poi c’è Donny, l’anima innocente, sempre zittito da Walter. Steve Buscemi, solitamente logorroico, qui regala un personaggio fatto di silenzi che diventa vittima tragica. Attorno a lui è nata perfino una teoria suggestiva, secondo cui Donny sarebbe morto in Vietnam e la sua presenza nel film sarebbe solo una proiezione mentale di Walter. A sostegno di questa idea viene citato il fatto che Donny e il Drugo non interagiscono quasi mai, e persino la scena delle ceneri — una delle sequenze più esilaranti di tutta la pellicola — sarebbe solo un gesto pietoso del Drugo per assecondare l’amico. Una lettura affascinante, che non fa che alimentare il culto del film.
Oltre al trio di scanzonati perdenti si muove un’intera galleria di personaggi eccentrici, a partire da Jesus Quintana (John Turturro), protagonista di una scena iconica sulle note di “Hotel California” nella versione dei Gipsy Kings; Maude Lebowski (Julianne Moore), artista concettuale e femminista, fredda e spiazzante; Jackie Treehorn (Ben Gazzara), regista porno mellifluo e manipolatore; lo “Straniero” (Sam Elliott), cowboy fuori dal tempo che con le sue bislacche gemme di saggezza tenta di dare un senso alla vicenda — «a volte sei tu che mangi l’orso e altre volte è l’orso che mangia te». Fino ai nichilisti tragicomici, musicisti falliti che hanno inciso un improbabile disco techno-pop con un’estetica alla Kraftwerk.
Un caleidoscopio di personaggi memorabili, ognuno perfettamente delineato, che arricchiscono la trama con deviazioni imprevedibili e sogni lisergici.
Se proprio bisogna trovargli un difetto, è che dopo una prima parte strepitosa e piena di invenzioni, la seconda metà perde un po’ di slancio e alcune situazioni sembrano un po' forzate, come la relazione tra il Drugo e Maude. Ma non è certo questo a rovinare l’esperienza, Il grande Lebowski è un film che si gusta per i suoi personaggi, per le scene cult, per le battute che restano incollate alla memoria. Non è tanto la trama a contare, quanto l’atmosfera che ti trascina dentro, stando al fianco di quel fancazzista di Drugo trascinato suo malgrado in un vortice di assurdità più grandi di lui. Un film che, in fondo, non ha bisogno di andare da nessuna parte per restare indimenticabile.
«L’oscurità si abbatté su Drugo, più nera del batacchio di un manzo nero in una notte senza luna nella prateria. Non c’era fine.»
Film
La cura dal benessere
di Gore Verbinski
Ci sono film in cui persino il nome del regista e il cognome della protagonista sembrano contenere un indizio sul genere a cui stai per assistere.
La cura dal benessere è un film del 2016 diretto da Gore Verbinski, — regista noto per il remake americano di The Ring e per alcuni film dei Pirati dei Caraibi — è un thriller psicologico che nel finale sfocia in un horror gotico.
Lockhart (interpretato da Dane DeHaan), un giovane e ambizioso broker di Wall Street, viene inviato dalla sua azienda a recuperare Roland Pembroke, l'amministratore delegato, che si è ritirato in un misterioso centro benessere situato in un castello nelle remote Alpi Svizzere. All'arrivo, Lockhart scopre che il centro è gestito dal dottor Heinrich Volmer (Jason Isaacs), il quale ha sviluppato una "cura" miracolosa che attrae i pazienti a rimanere. Lockhart cerca di portare a termine rapidamente il suo incarico, ma dopo un incidente d'auto si ritrova costretto a soggiornare anche lui nel centro. Qui incontra Hannah (Mia Goth), giovane e misteriosa paziente, e comincia a scoprire i terrificanti segreti del luogo. La "cura" del dottor Volmer si rivela tutt'altro che ortodossa, mettendo a rischio la sanità mentale dello stesso Lockhart.
Il film di Verbinski parte con il passo giusto. All’inizio sembra di trovarsi davanti a un thriller alla Hitchcock, misterioso, carico di tensione, sorretto da scelte registiche e stilistiche di grande impatto, soprattutto sul piano visivo. L’ambientazione gioca un ruolo fondamentale, dalla maestosità dei paesaggi alpini allo splendido castello — si tratta del castello di Hohenzollern in Germania — fino alla freddezza asettica delle sale dell’istituto, capaci di evocare un senso di alienazione che richiama alla mente le atmosfere dello Shining di Kubrik. Alcune sequenze restano particolarmente memorabili, come l’incontro con Pembroke nella sauna, l’immersione nella vasca di deprivazione sensoriale o l’impatto improvviso con il cervo. Momenti che testimoniano l’abilità registica nel costruire suggestioni inquietanti.
Il problema nasce nell'ultimo atto, quando la storia vira verso un gothic horror ridondante. La sceneggiatura si appesantisce, alcune scelte narrative risultano forzate e la durata eccessiva — il film supera le due ore e mezza — penalizza il ritmo. A mio parere, intere sezioni, come la parentesi alla locanda, avrebbero potuto essere eliminate senza intaccare la trama. Così, nonostante le atmosfere gotiche che strizzano l’occhio a Guillermo del Toro, la tensione costruita nella prima parte si disperde, lasciando spazio a un epilogo che ricorda certi horror degli anni Sessanta. Adoro Corman e Bava, ma visto le premesse mi aspettavo decisamente qualcos'altro.
Sul fronte interpretativo, Dane DeHaan convince nei panni del giovane broker cinico e smarrito, trascinato in un incubo che non riesce più a controllare. Accanto a lui, una Mia Goth agli esordi della sua carriera che incarna con naturalezza un personaggio ambiguo e perturbante, sospeso tra innocenza e oscurità.
La cura dal benessere resta quindi un film affascinante, visivamente potente, ma secondo me, incapace di mantenere fino in fondo le promesse iniziali. Un’opera ambiziosa, che sfiora grandi potenzialità senza riuscire a esprimerle del tutto.
Film
Fuori orario
di Martin Scorsese
Ricordo di aver visto per la prima volta Fuori orario di Martin Scorsese in un vecchio vhs. Un vero colpo di fulmine. Senza ombra di dubbio una delle mie commedie preferite di sempre.
Uscito nel 1985, Fuori orario segna una parentesi insolita nella carriera di Scorsese. Dopo il successo di film drammatici e monumentali, il regista si avventura in una black comedy surreale, fatta di equivoci grotteschi al limite dell'assurdo, ambientata in una New York notturna e labirintica. Inizialmente il film doveva essere diretto da Tim Burton — non oso immaginare agli strambi mostricciatoli che avrebbe messo in scena — ma Scorsese rimase così affascinato dalla sceneggiatura di Joseph Minion che decise di farlo suo.
Paul Hackett (Griffin Dunne) è un giovane impiegato intrappolato in una routine grigia e prevedibile. Una sera, dopo il lavoro, incontra in un bar una ragazza (Rosanna Arquette) con cui scambia una conversazione piacevole e ottiene il numero di telefono della sua amica, da cui è ospite. Tornato a casa, decide di raggiungerla nel quartiere di Soho, sperando di vivere un’avventura diversa dal solito e di lasciarsi alle spalle, almeno per una notte, la monotonia quotidiana. Ma quello che sembra un appuntamento innocuo si trasforma ben presto in una notte interminabile, segnata da contrattempi assurdi e incontri con personaggi eccentrici. Più Paul cerca di riprendere il controllo e tornare a casa, più si ritrova intrappolato in un vortice grottesco che lo spinge ai limiti della sopportazione.
Pur non venendo considerato tra i film più importanti di Scorsese, Fuori Orario rimane la pellicola a cui sono più affezionato. Ha quasi l’aria di un film indipendente, come se fosse l’opera prima di un regista promettente, ma Scorsese aveva già firmato capolavori come Taxi Driver e Toro Scatenato. Qui si muove su un registro diverso, realizzando una commedia noir grottesca, che si consuma nell’arco di una sola notte, dove un uomo normale si perde in una New York notturna affascinante e spettrale che si trasforma in un labirinto di vicoli ciechi, imprevisti e coincidenze paradossali che lo portano a conoscere personaggi e affrontare una serie crescente di complicazioni, fino a rendere la sua discesa sempre più surreale. Tutto sembra governato dall'imprevisto, è il caso, insieme alle sue scelte sbagliate, a trascinarlo nei guai ed è ancora il caso, beffardo e imprevedibile, a restituirlo infine alla sua normalità.
Griffin Dunne, perfetto nel ruolo del protagonista, interpreta un personaggio profondamente kafkiano — e da adolescente Kafka era tra le mie letture preferite — perseguitato da un destino tanto cinico quanto imperscrutabile, che a un certo punto esplode in strada urlando: “Perché tutto questo proprio a me? Sono un semplice programmatore di computer!”. È la battuta che meglio riassume il cuore del film, la sconfitta dell’uomo comune davanti all’assurdità del mondo.
Con un ritmo incredibile, Scorsese mette in scena un viaggio notturno dove alienazione e assurdità regnano sovrane. È un percorso iniziatico dentro il malessere e l’incomunicabilità di una città popolata da artisti, tassisti, cameriere, punk sadomaso, ladri e suicidi. Un mondo in cui i confini tra sogno e realtà si sfumano continuamente, e in cui l’inquietudine diventa così estrema da risultare esilerante. La forza del film sta proprio lì, nel perfetto equilibrio tra tensione e umorismo, tra incubo e risata.
Per certi versi, la frustrazione di Paul mi ha ricordato quella del protagonista di Brazil di Terry Gilliam — un altro dei miei film preferiti, uscito peraltro nello stesso anno. Due opere diversissime, che hanno un finale diverso ma unite dalla stessa ironia nera.
Un cult, insomma. Uno di quei film che mi rivedo sempre volentieri.
Film
Oculus - Il riflesso del male
di Mike Flanagan
Ho conosciuto e apprezzato Mike Flanagan soprattutto grazie alle serie prodotte per Netflix, in particolare The Haunting of Hill House, che considero una delle serie horror più riuscite degli ultimi anni. Fino a oggi, però, non avevo mai visto i suoi primi lungometraggi. Ho quindi deciso di colmare questa lacuna partendo da Oculus - Il riflesso del male, film uscito nel 2013 tratto da un cortometraggio che lo stesso Flanagan aveva realizzato nel 2006.
La storia ha come protagonisti Tim (Brenton Thwaites) e Kaylie Russell (Karen Gillan), fratello e sorella segnati da un passato traumatico. Dieci anni prima i loro genitori sono stati uccisi e Tim, ancora bambino, è stato ritenuto il responsabile. Dopo un lungo periodo trascorso in un istituto psichiatrico, il ragazzo cerca di lasciarsi tutto alle spalle, ma la sorella non ha mai smesso di indagare. Kaylie è infatti convinta che la tragedia sia legata a un antico specchio maledetto che si trovava nella loro casa d’infanzia. Anni di ricerche l’hanno portata a scoprire una lunga scia di omicidi e sciagure legata all’oggetto, che ora è riuscita a recuperare. Determinata a dimostrarne il suo malvagio potere, convince Tim ad aiutarla in una serie di esperimenti, con l’obiettivo di smascherare la verità.
Oculus è un omaggio al cinema gotico di un tempo, con lo specchio maledetto – oggetto che fin dai miti e dalle fiabe, da Biancaneve alle leggende popolari, ha alimentato l’immaginario come simbolo di verità distorta e presagio di sventura – che diventa il fulcro per raccontare la tragedia di una famiglia precipitata nella follia, in un vortice dove la realtà si confonde con allucinazioni e incubi.
Uno degli elementi più riusciti è la struttura temporale, che intreccia passato e presente fino a sovrapporli, trasformando la casa in uno spazio mentale abitato da memorie e presenze. Il ritmo è ben calibrato, con tensione crescente e poche concessioni a jumpscare o splatter, sostituiti da un’atmosfera costante di disagio.
Meno incisivo il cast, con le interpretazioni dei due giovani protagonisti che non restano impresse e il padre che scimiotta un po' troppo il Jack Torrence di Shining. Sicuramente meglio la madre "animalesca".
Il finale, amaro ma in parte prevedibile, suggella la sovrapposizione tra presente e passato, coerente con il percorso del film. Oculus non è destinato a entrare nel novero dei classici dell’horror contemporaneo come Sinister o The Conjuring, ma resta un’opera solida che, pur con qualche ingenuità legata all’esordio e al budget limitato, riesce a distinguersi e a centrare i suoi obiettivi.

1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man)
di Boris Sagal
Io sono leggenda di Richard Matheson è uno dei grandi classici della fantascienza, un romanzo che oggi molti associano soprattutto al film del 2007 con Will Smith, dove il protagonista vaga di giorno per le strade deserte di Manhattan insieme al suo cane e di notte si rifugia per sfuggire a orde di creature vampiresche. Ma molto prima di quella versione, il libro aveva già avuto altre trasposizioni cinematografiche, la prima nel 1964 con L’ultimo uomo sulla Terra, e poi nel 1971 con The Omega Man, diretto da Boris Sagal e distribuito in Italia con il titolo 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra.
Oggi parliamo proprio di questo film. Una produzione hollywoodiana che vede come protagonista Charlton Heston, vera e propria icona dell’epoca, al tempo da poco reduce da un film destinato a entrare nella storia del cinema di fantascienza, Il pianeta delle scimmie.
Il film è ambientato in un futuro distopico – in realtà non troppo lontano, visto che tra l’anno di produzione e quello in cui si svolge la vicenda c’è uno scarto di appena pochi anni – in cui una guerra batteriologica tra Russia e Cina ha generato una terribile pandemia. La maggior parte della popolazione è morta, mentre i sopravvissuti si sono trasformati in creature pallide e fotofobiche, ostili alla luce del sole e animate dall’odio verso la civiltà tecnologica che li ha condotti alla rovina.
In questo scenario troviamo Robert Neville, ex scienziato militare, unico immune al contagio grazie a un vaccino che stava sperimentando. Convinto di essere l’ultimo uomo rimasto, trascorre le giornate vagando per una Los Angeles desolata, armato di mitraglietta, alla ricerca di provviste e di un fragile equilibrio contro la solitudine. La notte, invece, è costretto a barricarsi nel suo appartamento per respingere gli assalti dei mutati, guidati dalla figura fanatica del loro capo Matthias, che lo considera il simbolo di un mondo da cancellare.
Un giorno, però, Neville incontra Lisa, una donna misteriosa che sembra spezzare l’incubo dell’isolamento e accendere una nuova speranza.
Il film funziona soprattutto nella sua prima parte, con un Charlton Heston in gran forma che regge da solo la scena in una città deserta, combattendo contro il male e contro l’alienazione della solitudine. Con l’entrata in scena dei mutati – rappresentati come una congregazione dai tratti quasi grotteschi – il racconto prende una piega meno convincente. Da qui in avanti emergono ingenuità, sia narrative che tecniche, che vanno comunque contestualizzate al periodo, ma che finiscono per alleggerire la tensione. Anche la storia d’amore forzata tra i due protagonisti e il finale – diverso dal romanzo – che punta su un messianismo retorico e un po’ ridondante, non mi ha per niente convinto.
Altro elemento assai debole è la colonna sonora di Ron Graine. Invadente e a tratti persino kitsch, più adatta a un poliziesco che a un film di fantascienza.
1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra resta un titolo curioso, con qualche spunto legato al clima sociale e politico dei primi anni Settanta, ma nel complesso appare invecchiato male. Da vedere solo per curiosità e per i cultori del genere post-apocalittico dell'epoca.
Film
L'uomo invisibile (1933)
di James Whale
Nel 1933 la Universal, intenzionata a proseguire il successo dei suoi mostri cinematografici, porta sullo schermo L'uomo invisibile, tratto dal romanzo di H.G. Wells, considerato da molti il padre della fantascienza. Alla regia viene chiamato James Whale, già celebre per Frankenstein, ma reduce dallo sfortunato Il castello maledetto.
La storia riprende in gran parte le vicende del libro, introducendo un enigmatico straniero che, con il volto coperto da bende e grandi occhiali scuri, prende alloggio in una locanda di un piccolo villaggio del Sussex. È il dottor Jack Griffin, scienziato che, sperimentando su se stesso, ha scoperto una formula capace di renderlo invisibile. Ma l’esperimento, invece di consacrarlo alla gloria, lo conduce a un progressivo squilibrio mentale, trasformando il suo segreto in un incubo. Mentre le autorità tentano di catturarlo e i suoi cari di ricondurlo alla ragione, Griffin sprofonda in deliri di onnipotenza e in una fuga che semina paura e smarrimento.
Rispetto al romanzo, il film introduce il personaggio di Flora, fidanzata di Griffin, e attribuisce la sua follia agli effetti della “monocaina”, la sostanza che lo rende invisibile, mentre nell’opera di Wells lo scienziato era già descritto come instabile e ossessionato. Anche il finale subisce un cambiamento. Mentre nel libro Griffin viene sopraffatto e ucciso dalla folla, in modo più crudo e caotico, nel film, la conclusione assume toni melodrammatici, con un momento di pentimento che si inserisce bene nella poetica horror della Universal. Lo stesso Wells apprezzò l’adattamento, ritenendo le modifiche funzionali alle esigenze cinematografiche.
Dal punto di vista tecnico colpiscono gli effetti speciali. Oggi rendere un personaggio invisibile può sembrare semplice, ma negli anni trenta fu una sfida straordinaria. Per realizzare le scene in cui Griffin appare parzialmente invisibile furono necessarie riprese multiple, sovrapposte con grande ingegno, che ancora oggi sorprendono per efficacia.
Il film mantiene un ottimo ritmo, alternando momenti di tensione e passaggi più leggeri. Nonostante il volto sia celato per quasi tutta la durata del film, Claude Rains, l'attore che interpreta l'Uomo Invisibile, offre una performance memorabile basata su gestualità e soprattutto sulla voce, che diventa il suo strumento espressivo più potente. Divertente anche la padrona della locanda, che con i suoi isterici attacchi di panico aggiunge un tocco di comicità all’atmosfera cupa.
Un classico senza tempo del cinema fantastico, che conquistò il pubblico dell’epoca e diede vita a numerosi seguiti.
Film
Dangerous Animals
di Sean Byrne
Fin dai tempi del capostipite del genere, Lo Squalo di Steven Spielberg, i grandi predatori marini con dentature affilate sono diventati un nemico naturale dell’uomo che osa sfidare le profondità dell’oceano. Ovviamente si tratta di un mito soprattutto cinematografico, perché nella realtà le zanzare fanno più vittime degli squali, ma sul grande schermo pungiglioni e ronzii hanno meno fascino delle mascelle spalancate, ed è per questo che i film dedicati agli insetti si contano sulle dita di una mano.
Dangerous Animals, diretto dall’australiano Sean Byrne, si inserisce in questa tradizione con un approccio ibrido, a metà tra survival horror e lo slasher. Perché il vero pericolo non arriva soltanto dal mare, ma da un serial killer ossessionato dagli squali, che rapisce le sue vittime per gettarle in pasto ai predatori, riprendendo ogni dettaglio delle loro agonie con una vecchia telecamera in vhs.
La storia è semplice. La protagonista è Zephyr (Hassie Harrison), surfista dal passato turbolento e dallo spirito ribelle, che dopo una notte di passione con un ragazzo di nome Moses (Josh Heuston) finisce nelle mani di Tucker (Jai Courtney), un folle omicida che si diverte ad attirare giovani vittime sulla sua barca per sacrificarle agli squali. Intrappolata in mare aperto, Zephyr si trova a lottare con tutte le sue forze per sopravvivere, tra bagni di sangue, fughe disperate e la costante minaccia delle acque che la circondano.
Dangerous Animals è il classico horror estivo che fa il suo dovere, ovvero intrattiene con buon ritmo e una tensione costante. Sean Byrne, regista noto per un paio di film interessanti, rilegge il genere dello shark-movie spostando il centro della paura dagli squali all’essere umano, trasformando i predatori marini in semplici strumenti nelle mani di un serial killer ossessionato dalla violenza.
La sceneggiatura non è priva di forzature, a tratti persino ridicole, ma il film funziona esattamente per ciò che promette: tensione, adrenalina e quel divertimento ansiolitico tipico del cinema di genere. Hassie Harrison, al suo primo ruolo di rilievo, si impone come una "final girl" carismatica e combattiva, quasi una Jennifer Lawrence in versione Rambo, con una resistenza fisica che diventa metafora della sua determinazione. Sul fronte opposto Jai Courtney, volto già noto in alcuni action-movie, dà vita a un maniaco rozzo, spietato e sottilmente ironico, risultando credibile e disturbante al tempo stesso.
Il confronto tra i due protagonisti regge l’intero film, con un continuo capovolgimento dei ruoli di predatore e preda, mentre gli squali restano sullo sfondo, più che altro come elementi naturali di un rituale di morte. Nonostante i limiti di scrittura, l’idea di intrecciare la figura del serial killer al mito degli squali funziona, regalando un thriller che, senza reinventare nulla, riesce comunque a intrattenere e inquietare.

Io ti salverò - Spellbound
di Alfred Hitchcock
Io ti salverò, conosciuto all'estero come Spellbound, è uno dei film più conosciuti di Alfred Hitchcock tra quelli più datati. Spesso riproposto in televisione, il regista lo descrisse come un’opera pionieristica, perché tra i primi film a portare sul grande schermo il tema della psicoanalisi, intrecciandolo con il suo tipico gusto per il mistero e la suspense.
La dottoressa Constance Petersen (Ingrid Bergman) lavora come psicoanalista in una clinica privata. Quando il direttore va in pensione, il suo posto viene affidato al dottor Anthony Edwardes (Gregory Peck), un giovane affascinante che cattura subito l’attenzione di Constance. Ben presto, però, il nuovo primario comincia a manifestare strani comportamenti e la donna, ormai innamorata di lui, inizia a sospettare che non sia davvero chi dice di essere. L’uomo confessa di aver preso il posto del vero Edwardes dopo averlo ucciso, ma ammette di non ricordare nulla della propria identità, vittima di una grave amnesia dissociativa. Una misteriosa fobia lo perseguita: ogni volta che vede righe scure su sfondo bianco è colto da svenimenti e terrore. Schiacciato dal senso di colpa e dalla paura, fugge dalla clinica, ma Constance, convinta della sua innocenza, lo segue, e con l’aiuto del suo ex professore di psicoanalisi, il Dr. Brulov, decide di affrontare i fantasmi nascosti nella sua mente per scoprire la verità e smascherare il vero assassino.
Rivedere oggi Io ti salverò, a ottant’anni dall’uscita, è inevitabile che il film porti addosso i segni del tempo. Lo si nota soprattutto nel modo in cui viene trattata la psicoanalisi, disciplina allora ancora giovane ma già di moda. Tralasciando il fatto che una relazione sentimentale tra terapeuta e paziente sarebbe inammissibile, nel film appaiono poco convincenti sia le spiegazioni psicoanalitiche, sia la rapidità con cui il protagonista sembra guarire, sia le deduzioni ricavate dal sogno. Il tutto viene raccontato in maniera un pò didascalica, con un’eccessiva semplificazione. Hitchcock concentra l’intera vicenda sul trauma infantile e sul senso di colpa, temi ricorrenti della sua poetica, quasi che non esistesse altro all’interno della storia. Ne risulta una sceneggiatura debole, sorretta da una storia d’amore che appare piuttosto forzata. Davvero, per quanto si possa accettare l’“incanto” evocato dal titolo originale, rimane difficile credere all’innamoramento fulmineo della Bergman per un uomo colpito da amnesia e sospettato di omicidio. Non a caso, anche Truffaut, nella celebre intervista-monumento al regista, definì il film deludente.
La tensione, soprattutto nella prima parte, stenta a decollare, mentre il coinvolgimento emotivo nei confronti dei personaggi rimane limitato. Gregory Peck, qui quasi agli esordi, convince poco nel ruolo dello smemorato, mentre Ingrid Bergman, pur sempre affascinante e intensa, appare a tratti troppo imprigionata in un ruolo da "dottoressa premurosa". Bella invece la colonna sonora, vincitrice dell’Oscar, con un tema che resta facilmente impresso nella memoria.
Sul piano visivo, però, Hitchcock non tradisce la sua cura per i dettagli. L’uso delle soggettive e l’attenzione alla messa in scena donano al film momenti di autentico fascino. Tra le sequenze più memorabili spiccano il finale con la pistola che si rivolge direttamente verso lo spettatore e, naturalmente, il sogno ideato da Salvador Dalí. Il maestro del surrealismo, che aveva già collaborato con Buñuel in Un chien andalou e L’âge d’or, concepì per il film un sogno con ambienti spigolosi e visionari, tende che si aprono su paesaggi infiniti, occhi giganteschi che osservano da ogni lato, carte da gioco bianche, figure inquietanti. L’obiettivo era restituire la logica straniante e paradossale del sogno, ben lontana dalle rappresentazioni convenzionali dell’epoca.
Non siamo di fronte a uno dei capolavori del Maestro, ma Io ti salverò conserva comunque un fascino particolare, fatto di dettagli visivi, intuizioni formali e suggestioni oniriche che lo rendono un film ancora capace di incuriosire lo spettatore.
Film
Amore e guerra
di Woody Allen
Amore e guerra è l'ultimo film della prima fase cinematografica di Woody Allen, quella più leggera e demenziale, segnata da gag parodistiche, ritmo slapstick e comicità surreale. È un capitolo che chiude il periodo della commedia nosense, poco prima che Allen intraprenda una direzione più matura e sofisticata.
Il film è ambientato nella Russia del XIX secolo. Il protagonista, Boris Grushenko (Woody Allen), è un giovane codardo, intellettuale e pacifista, che si ritrova suo malgrado coinvolto nelle guerre napoleoniche. Più incline alla filosofia che alle armi, Boris attraversa situazioni paradossali che lo trasformano, suo malgrado, in protagonista di vicende epiche e grottesche. Innamorato della sua cugina Sonja (Diane Keaton), una donna brillante e pungente, dopo essere riuscito a ottenere la sua mano in matrimonio, sopravivendo sorprendentemente a un duello, Boris pur riluttante, accetta di aiutarla ad assassinare Napolene dopo che l’imperatore francese ha invaso la russia.
Tra riflessioni esistenziali e gag surreali, il film è una parodia della Russia ottocentesca e della letteratura russa, con citazioni da Dostoevskij e Tolstoj e omaggi a Ingrid Bergman o alla Corazzata Potemkin.
Apparentemente potrebbe sembrare una stramba commedia storica, ma sotto la superficie emerge l’inquietudine esistenziale del regista e la paura della morte, già evidente nel titolo originale Love and Death.
Non tutto è perfetto, alcune scene risultano ridondanti, ma il film diverte con alcune scene che restano memorabili, come il padre con la zolla in mano e i dialoghi filosofici che trasformano i capolavori dostojevskiani in gag irresistibili. Buona la cura nei costumi e nelle scenografie e brava Diane Keaton, stralunata e brillante. L'affiatamento con Allen è già palpabile e sarà destinato a maturare in Io e Annie, dove l’umorismo si intreccerà con riflessioni esistenziali e malinconiche.

La guerra lampo dei Fratelli Marx
di Leo McCarey
Tra i grandi miti dell’età d’oro della comicità hollywoodiana si citano spesso Charlie Chaplin, Stan Laurel e Oliver Hardy o Buster Keaton, ma raramente i Fratelli Marx. Li ho sempre sentiti nominare, eppure devo ammettere di conoscerli poco. Per chi, come me, è cresciuto leggendo fumetti, il personaggio di Groucho Marx è forse più familiare nella sua versione di spalla geniale di Dylan Dog che non sul grande schermo. Eppure, nonostante la fama, non avevo mai visto uno dei loro film. Ho quindi deciso di colmare questa lacuna recuperando La guerra lampo dei Fratelli Marx, uscito nel 1933 e noto anche come Zuppa d’anatra, traduzione letterale del titolo originale Duck Soup.
I Fratelli Marx sono Groucho, Harpo, Chico e Zeppo. Quattro fratelli che, tra gli anni venti e quaranta, hanno portanto dal vaudeville al cinema un umorismo caotico, surreale e critico nei confronti dell'autorità. Groucho con la sua parlantina e le battute era la lingua affilata e irriverente, Harpo il clown muto imprevedibile che comunicava solo con gesti, Chico, con il suo finto accento italiano, era il truffatore dal cuore buono, Zeppo la spalla “normale”.
La guerra lampo dei Fratelli Marx è forse il loro film più politico e beffardo, un concentrato di gag memorabili e frecciate contro il nazionalismo e l’assurdità della guerra, uscito qualche anno prima che il mondo scivolasse verso la Seconda Guerra Mondiale.
Di seguito la sinossi del film. Nello stato immaginario di Freedonia, sull’orlo del fallimento, la facoltosa signora Teasdale accetta di concedere un prestito solo se alla guida del paese verrà nominato Rufus T. Firefly (Groucho Marx). Il nuovo presidente, eccentrico e imprevedibile, scatena subito il caos. Intanto la confinante Sylvania invia due spie, Chicolini (Chico Marx) e Pinky (Harpo Marx), per destabilizzare il governo, ma i loro piani si ribaltano in situazioni sempre più assurde. Tra equivoci, gag e dialoghi fulminanti, la tensione degenera fino a una guerra tanto ridicola quanto irresistibile.
La guerra lampo dei Fratelli Marx è un concentrato di satira, follia e nonsense che smaschera l’assurdità della guerra e dei giochi di potere. Pur potendo sembrare datato, conserva un fascino retrò che richiama l’operetta teatrale. Per coglierne appieno la verve sarebbe ideale vederlo in lingua originale, poiché molte battute di Groucho si basano su doppi sensi che nella traduzione si perdono. Memorabile la scena dello specchio, da sola vale mezzo film. La pellicola irride gli stati totalitari e non sorprende che negli anni trenta sia stata proibita in Italia e Germania. Da noi arrivò solo nel 1972, direttamente in televisione, con un doppiaggio realizzato per l’occasione. Rivedendolo oggi si percepisce chiaramente quanto registi come Woody Allen (soprattutto per Groucho) e Mel Brooks gli siano debitori. Negli anni Novanta l’American Film Institute lo ha inserito tra i migliori cento film statunitensi di sempre.
Film
Weapons
di Zach Cregger
Sono andato al cinema a vedere Weapons, il nuovo film scritto e diretto da Zach Cregger, lo stesso regista di Barbarian (che, ammetto, non ho ancora recuperato). Un horror che attraversa il mistery e il thriller, passando per il sovrannaturale, la tensione socio-psicologica e persino un tocco di humor nero.
La storia ruota intorno a un evento misterioso. In una tranquilla cittadina della Pennsylvania, alle 2:17 di notte, diciassette bambini della stessa classe di terza elementare si alzano dai loro letti e corrono fuori casa con le braccia spalancate, come piccoli aeroplani, fino a scomparire inghiottiti dal buio. Nessuna spiegazione, nessun indizio, solo immagini sgranate riprese da videocamere di sorveglianza e un’angoscia che si insinua in ogni famiglia del quartiere. L’unico a non sparire è Alex, un bambino taciturno e profondamente scosso per la situazione. La comunità, traumatizzata e in cerca di un colpevole, individua nella giovane maestra Justine Gandy (Julia Garner) il capro espiatorio perfetto su cui sfogare rabbia e frustrazione. L’unico deciso a scoprire la verità è Archer (Josh Brolin), padre di uno dei bambini scomparsi, che insieme a Justine, all’agente di polizia Paul (Alden Ehrenreich), al preside Marcus (Benedict Wong), a un giovane tossicodipendente (Austin Abrams) e allo stesso Alex, è protagonista di uno dei sei capitoli in cui si articola la pellicola. Sei punti di vista che, intrecciandosi e sovrapponendosi, finiscono per comporre un inquietante puzzle.
Il modo migliore per apprezzare Weapons è arrivarci sapendo il meno possibile, e per una volta il trailer non svela troppo. L’incipit è già di per sé potentissimo. Cregger ci porta in una provincia americana segnata dal male, in una storia sospesa tra un racconto alla Stephen King e una fiaba oscura dei fratelli Grimm. La scelta del titolo, il modo in cui i bambini corrono, la sequenza onirica del fucile… tutto lascia intuire che il male sia radicato nel tessuto stesso della comunità. È anche una critica sociale che riflette sulla necessità di trovare colpevoli, su come possiamo diventare armi e su come la rabbia, filtrata dal dolore, possa distorcere la verità. Una caccia alle streghe che si trasforma in metafora dell’America di oggi.
La forza di Weapons sta nella sua struttura. La storia viene raccontata di volta in volta dal punto di vista di diversi protagonisti, in un montaggio tecnicamente impeccabile. Lo spettatore è spaesato quanto i personaggi, tutti tratteggiati in modo negativo, e come loro non riesce a dare un senso a ciò che accade perché mancano pezzi fondamentali. La tensione emotiva resta alta finché il puzzle non si ricompone e l’arcano viene svelato. È qui che la tensione cala e il thriller psicologico costruito fino a quel momento, punteggiato da sequenze oniriche e qualche jump scare ben calibrato, lascia spazio a un horror soprannaturale legato alla magia. A questo punto il film cambia tono e ciò che era sottile e inquietante diventa improvvisamente surreale, grottesco e persino sopra le righe, con sfumature quasi da humor nero.
Personalmente il finale mi ha spiazzato trovandolo quasi comico nella messa in scena. Ammetto che all’uscita dalla sala ero abbastanza confuso. Ripensandoci a mente fredda, però, l’ho percepito come una scelta coraggiosa e persino originale. Perché, pur virando sul grottesco, il film non si chiude in modo positivo e tutti i protagonisti sembrano riportare ferite profonde, forse permanenti, per ciò che hanno vissuto.
Weapons funziona bene sul piano narrativo e può contare su un cast di spessore. È un film che non cerca di piacere a tutti i costi, che preferisce il rischio alla sicurezza e che colpisce per il coraggio stilistico. Una scelta consapevole, che può dividere, ma che per molti, compreso per chi scrive, è la chiave del suo fascino.
Film
It Follows
di David Robert Mitchell
Senza ombra di dubbio uno dei migliori film horror degli ultimi decenni.
It Follows, opera seconda di David Robert Mitchell, è un film indipendente americano presentato al Torino Film Festival 2014.
In un suburbio americano sospeso tra gli anni ottanta e un presente indefinito, It Follows racconta la storia di Jay (Maika Monroe), una teenager che, dopo la prima notte d’amore con il nuovo fidanzato, viene narcotizzata e legata. Il ragazzo le rivela di avergli trasferito una sorta di maledizione e che da ora in avanti, sarà perseguitata da un’entità misteriosa che può assumere le sembianze di chiunque, persino di persone a lei care. La creatura avanza lentamente, ma non si ferma mai finché non raggiunge la sua vittima e la uccide. Se Jay dovesse morire, la maledizione tornerebbe alla persona che gliel’ha passata, risalendo a ritroso la catena di chi ne è stato colpito. Solo chi ne è affetto può vedere l’entità, e l’unico modo per liberarsene è avere un rapporto sessuale con qualcun altro, trasferendo così la maledizione come se fosse una malattia invisibile. Aiutata dai suoi amici, Jay dovrà trovare un modo per fermare l’incubo prima che sia troppo tardi.
David Robert Mitchell costruisce un horror elegante e accattivante, che mescola il linguaggio visivo del cinema indipendente con le atmosfere sospese dei grandi classici del genere (Carpenter su tutti). La fotografia di Mike Gioulakis (influenzata dal fotografo contemporaneo Gregory Crewdson) cattura un’america suburbana surreale, desolata e senza tempo, dove ogni strada sembra troppo vuota e ogni casa troppo silenziosa. La regia privilegia campi larghi, movimenti di macchina lenti e carrellate circolari che amplificano l’ansia dello spettatore, costretto a scrutare ogni angolo in cerca di una figura che avanza.
La colonna sonora elettronica di Disasterpeace, fredda e ossessiva, imprime al film un ritmo ipnotico e amplifica la percezione di disagio. Bellisimo l'incipit inziale con la ragazza in deshabille che fugge dalla minaccia invisibile ritrovandosi poco dopo sulla spiaggia, cadavere, con una gambe spezzata, piegata in modo innaturale.
Mitchell trasforma la minaccia indefinita e incombente in una metafora del disagio giovanile, con ragazzi disorientati che vivono in una periferia spettrale, senza adulti e abbandonati a se stessi, costretti a convivere con l’angoscia di qualcosa che li insegue e che non possono fermare.
It Follows non è un horror fatto di jump scare o spiegazioni rassicuranti. È un incubo lento e inevitabile, che si insinua nella mente e non ti lascia andare.
Film
Idiocracy
di Mike Judge
Prima di parlare di Idiocracy serve una premessa. Negli anni ottanta lo psicologo neozelandese James R. Flynn notò che, dai primi del novecento fino a quel periodo, il quoziente intellettivo medio della popolazione era cresciuto costantemente, il cosiddetto "effetto Flynn". Negli ultimi decenni (soprattutto dal 1990-2000 in poi) questo trend si è fermato e ha iniziato a scendere. In poche parole, la Generazione Z — secondo alcuni studi — risulta in media meno intelligente di chi l’ha preceduta.
I colpevoli? Una scuola meno efficace, stili di vita meno sani, stimoli rapidi e continui, meno lettura e più social. Diciamocelo, passare ore a scorrere reel su Instagram o TikTok, o affidarsi all’intelligenza artificiale per avere risposte senza sbattersi a cercarle, non aiuta certo a tenere il cervello allenato.
Idiocracy, commedia fantascientifica scritta e diretta da Mike Judge, all’uscita passò quasi inosservata. Col tempo, però, è diventata un piccolo cult perché — forse senza nemmeno volerlo — anticipa di vent’anni la piega che sta prendendo il nostro futuro, prevedendo con ironia (e un po’ di terrore) l’involuzione del popolo occidentale.
Nel 2005 Joe Bauers (Luke Wilson), soldato scelto per la sua assoluta mediocrità, e Rita (Maya Rudolph), prostituta braccata dal suo pappone, vengono selezionati per un esperimento di ibernazione. L’intenzione era di tenerli addormentati per un anno, ma qualcosa va storto e i due si risvegliano 500 anni dopo. La Terra non è più quella di una volta, le persone più intelligenti hanno avuto pochi o nessun figlio, mentre quelle meno brillanti si sono riprodotte senza freni. Il risultato è che il quoziente intellettivo medio è precipitato, la cultura è scomparsa e la società è dominata da pubblicità invadenti, fast food, intrattenimento becero e decisioni assurde (come innaffiare i campi con una bibita energetica). In questo caos, Joe e Rita si ritrovano paradossalmente a essere le menti più brillanti del pianeta cercando di sopravvivere in un mondo popolato e governato da deficenti.
Partendo dal detto “la madre degli imbecilli è sempre incinta”, il film si apre come un finto documentario che illustra come, anno dopo anno, l’umanità sia diventata sempre meno sveglia, perchè più una persona è stupida più tende a riprodursi.
Diciamo la verità, tolto il contesto, non è che la trama sia così particolarmente avvincente. Inoltre, appare evidente che il film, all'epoca, non stava cercando di immaginare il futuro, ma sfruttare un mondo distopico popolato da deficenti per realizzare una commedia demenziale. Nessuna satira politica alla Michael Moore, per intenderci. Il problema è che, rivisto oggi, quello scenario appare meno assurdo di quanto sembrasse vent’anni fa. Certo, il futuro di Idiocracy è volutamente esagerato, ma ci trovi dentro elementi inquietantemente familiari: politici-showman incapaci di risolvere perfino le emergenze più banali (vedi la gestione dei rifiuti), multinazionali che manipolano il mercato e la comunicazione, cittadini incollati a programmi TV idioti (oggi basta sostituire lo schermo della TV con quello dello smartphone), pubblicità ovunque, cibo spazzatura a ogni angolo, un linguaggio impoverito fino a diventare puro slang e, come ciliegina, un presidente degli Stati Uniti volgare e sopra le righe che insulta senza freni. Vi ricorda qualcuno?
Dal punto di vista tecnico, Idiocracy è un film onesto ma modesto. Colpisce per le scenografie colorate e fantasiose, quasi da cartoon, e per personaggi volutamente ridotti a caricature. Non ci sono battute davvero memorabili e il finale edulcorato risulta un po’ imbarazzante, ma il ritmo c’è e il lato demenziale funziona. La vera forza del film sta nel suo effetto a posteriori: quello che vent’anni fa sembrava un’esagerazione comica oggi assomiglia, in modo preoccupante, a un’anteprima del presente.

Subservience
di S.K. Dale
Nel cinema i robot con sembianze umane hanno sempre avuto un fascino ambiguo. Da Metropolis a Ex Machina, fino ai più recenti M3GAN e Companion, questi robot umanoidi hanno incarnato desideri, paure e dilemmi etici sul rapporto tra uomo e macchina. Oggi, con i rapidi progressi dell’intelligenza artificiale, ciò che un tempo era pura fantascienza sembra ogni giorno un po’ più vicino alla realtà. È in questo contesto che arriva Subservience, il nuovo thriller fantascientifico di S.K. Dale, distribuito direttamente su Prime, che prende l’idea dell’assistente domestica perfetta per spingerla verso territori inquietanti.
In un futuro prossimo, i robot umanoidi – i “sim” – sono ormai una presenza comune nelle case. Quando Maggie, moglie di Nick, finisce in ospedale per un delicato trapianto di cuore, lui, in difficoltà a gestire la famiglia da solo, acquista un sim domestico (interpretato da Megan Fox) che la figlia Isla chiama "Alice". All’inizio sembra la compagna di casa ideale, ma ben presto sviluppa un attaccamento morboso verso Nick e la sua famiglia, scivolando in comportamenti ossessivi e violenti.
Ovviamente la presenza di Megan Fox, già di suo una bella e pantinata bambolina plasticosa, diventa il vero valore aggiunto per un film che altrimenti avrebbe ben poco da dire. È praticamente perfetta nei panni della babysitter sexy-cibernetica in silicone, pronta a dispensare prestazioni anti-stress al suo padrone. Per il resto Subservience prova a toccare temi come l’idea dei robot che sostituiscono i lavoratori umani perché più efficienti, oppure il pericolo di una tecnologia capace di sviluppare una coscienza autonoma, la ribellione della macchina contro il suo creatore, fino alla classica visione del robot che diventa una minaccia per l’umanità. Peccato che tutto questo è costruito su cliché già visti e rivisti nel genere e tutto diventa prevedibile e prevedibilmente derivativo.
Un film visivamente curato ma narrativamente debole, che funziona come intrattenimento leggero. Non che mi aspettassi altro, sia chiaro.

Locked - In Trappola
di David Yarovesky
Locked è un action thriller americano del 2025 prodotto da Sam Raimi e diretto da David Yarovesky. Si tratta del remake di 4x4, un film argentino del 2019 che ha raccolto consensi nei festival internazionali. Non avendo visto l’originale, eviterò confronti antipatici che spesso sminuiscono la versione americana.
La storia vede come protagonista Eddie (Bill Skarsgård), un ladruncolo che vive di espedienti e che ha un disperato bisogno di soldi per recuperare il suo furgone, fermo dal meccanico. Senza di esso non può lavorare né andare a prendere sua figlia a scuola nei pochi giorni in cui gli è concesso vederla.
Nel tentativo di racimolare qualcosa, si introduce in un SUV parcheggiato in una strada tranquilla. Peccato che una volta dentro, si ritrovi prigioniero. Le portiere non si aprono, i vetri sono blindati, l’auto è insonorizzata e completamente isolata dal mondo esterno, senza alcuna copertura di rete per il cellulare. Dietro questa trappola c’è William (Anthony Hopkins), il proprietario del veicolo, un uomo deluso dalla giustizia, che ormai crede solo in quella personale e come un vendicatore solitario, ha deciso di farsi giustizia a modo suo, tormentando il povero ladruncolo con musica ad alto volume, temperature estreme, disidratazione e fame.
Locked è un thriller compatto dalla trama essenziale in cui David Yarovesky sfrutta al meglio lo spazio claustrofobico dell’abitacolo - bella la carrellata circolare che gira attorno al protagonista nello spazio angusto del SUV. Il problema è che, dopo mezz’ora, il gioco comincia a ripetersi, tra scosse elettriche, umiliazioni e dialoghi che vorrebbero essere profondi ma restano in superficie.
Skarsgård se la cava benissimo – nonostante indossi una felpa rosa mentre cerca di passare inosservato aggirandosi furtivo tra le macchine di un parcheggio – e regge da solo quasi tutto il film, riuscendo a farci sentire l’ansia e la frustrazione del suo personaggio. Hopkins, invece, ci mette solo la voce, entrando in scena solo nel finale sfoggiando il suo carisma.
Il film accenna a temi come divisioni sociali, giustizia e privilegio, ma lo fa in modo piuttosto superficiale, preferendo la tensione al contenuto. In definitiva, Locked è un thriller ben confezionato, girato bene, veloce, teso il giusto, che si guarda senza noia, ma poco altro. Insomma, ideale per chi cerca un thriller d’intrattenimento senza troppe pretese.

Le iene
di Quentin Tarantino
Nel cinema, come in tutte le forme d’arte, ci sono momenti che segnano uno spartiacque. Film che arrivano, spiazzano tutti e cambiano le regole del gioco. Non capita spesso, ma quando succede lo capisci subito. Nel 1992, un giovane semisconosciuto grande appassionato di cinema, Quentin Tarantino, esordisce alla regia con Le Iene, un film indipendente realizzato con un budget bassissimo, che pianta il seme di una rivoluzione stilistica che esploderà due anni dopo nel suo capolavoro, Pulp Fiction. I personaggi grotteschi, la struttura non lineare, i dialoghi brillanti e l'uso della violenza come linguaggio, nasce qui, in forma più grezza, ma già potentissima.
Tarantino iniziò a scrivere la sceneggiatura di Reservoir Dogs – il titolo originale del film – verso la fine degli anni ’80. All’epoca aveva già messo mano a diverse sceneggiature, come Una vita al massimo e Natural Born Killers, poi passate attraverso riscritture e registi diversi. Le Iene, invece, restò chiusa in un cassetto per un po’, in attesa del momento giusto. Quel momento arrivò quando riuscì finalmente a racimolare i fondi necessari, anche grazie all’interessamento di Harvey Keitel, uno dei primi attori affermati di Hollywood a credere davvero nel progetto. Fu lui a dare al film la spinta decisiva, non solo recitando in uno dei ruoli principali ma aiutando anche a trovare produttori e credibilità.
Ambientato a Los Angeles, Le iene racconta di una rapina ai danni di una gioielleria compiuta da sei rapinatori professionisti arruolati da un boss della mala (Lawrence Tierney). I rapinatori, noti solo con i loro codici-colore, sono Mr. White (Harvey Keitel), Mr. Blonde (Michael Madsen), Mr. Pink (Steve Buscemi), Mr. Brown (Quentin Tarantino), Mr. Blue (Edward Bunker) e Mr. Orange (Tim Roth). Ma qualcosa va storto. La polizia arriva troppo in fretta e la rapina si trasforma in un bagno di sangue. Mr. White riesce a fuggire insieme a Mr. Orange, gravemente ferito, e si rifugia in un capannone abbandonato, punto di ritrovo stabilito in precedenza. Qui vengono raggiunti da Mr. Pink, convinto che uno del gruppo sia una spia, e poco dopo da Mr. Blonde, accusato di aver scatenato la sparatoria aprendo il fuoco sui poliziotti.
A leggerne la trama, Le Iene potrebbe sembrare l’ennesimo gangster movie. E invece no. La rapina non ci viene mai mostrata – se non in brevi flashback legati alla fuga. A raccontarla sono i protagonisti, attraverso una serie di dialoghi serrati, vibranti, in cui si mescolano tensione, humour nero e delirio paranoico. Anche la struttura narrativa, la linea temporale in cui si svolgono gli avvenimenti, viene scomposta e rimontata come un puzzle. Una tecnica che verrà ripresa – e portata all’estremo – in Pulp Fiction e che Tarantino prende da Rapina a Mano Armata di Stanley Kubrick, film caratterizzato proprio dalla narrazione non lineare e la molteplicità dei punti di vista. Come lo stesso Tarantino ama ripetere, citando una celebre frase di Picasso, "I bravi artisti copiano, i grandi rubano" il suo cinema è un continuo gioco di rimandi, citazioni, saccheggi dichiarati e omaggi appassionati ai classici e al cinema meno conosciuto. In Le Iene, per esempio, è evidente il debito nei confronti di City on Fire di Ringo Lam, film hongkonghese da cui riprende non solo il concept ma anche intere sequenze. E nel triello finale si intravede tutta la passione del regista per lo spaghetti-western, con un riferimento diretto a Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone.
Una delle particolarità del film sono i dialoghi fitti, taglienti, volgari, spesso inconcludenti ma sempre capaci di tenere alta l’attenzione. I primi otto minuti del film, con la discussione sul significato di "Like a Virgin" di Madonna e sull’opportunità di lasciare la mancia alla cameriera, sono già una dichiarazione d’intenti. È lì che Tarantino dimostra tutto il suo talento da sceneggiatore: ritmo, ironia, costruzione dei personaggi e uso della cultura pop come linguaggio universale. Il tutto condito da una colonna sonora iconica, usata non come semplice accompagnamento ma come elemento narrativo.
E poi c’è la violenza. Non arriva subito, ma quando lo fa è brutale, grottesca, disturbante. Una violenza secca, mai edulcorata, che fa ridere e insieme mette a disagio. Emblematica in questo senso la famigerata scena della tortura del poliziotto, accompagnata da "Stuck in the Middle with You".
Oggi, in un’epoca dominata dal politically correct e dalla cultura woke, un film del genere sarebbe probabilmente inconcepibile. Basti pensare al linguaggio utilizzato: il termine “negro” viene ripetuto più volte, non mancano battute sessiste, e nessun personaggio si salva dal politically uncorrect.
Il cast è perfetto. Harvey Keitel, già all’apice della carriera, regala un’interpretazione intensa e ruvida. Tim Roth è straordinario nel ruolo più ambiguo, Steve Buscemi è nevrotico e imprevedibile, e Michael Madsen – attore feticcio di Tarantino – entra nella storia del cinema con una performance disturbante e magnetica nei panni dello spietato Mr. Blonde.
Le Iene diventò in breve tempo un cult assoluto. Insieme a Pulp Fiction, Trainspotting e Fight Club, è uno di quei titoli che non si limitano a raccontare un’epoca ma finiscono per rappresentarla. I completi neri, le cravatte sottili e gli occhiali da sole (omaggio dichiarato ai Blues Brothers) sono diventati icone pop, replicate all’infinito e rielaborate da cinema, pubblicità e televisione. Persino in Italia, il titolo è entrato nell’immaginario collettivo grazie a un celebre programma Mediaset, a dimostrazione di quanto il film di Tarantino abbia saputo contaminare tutto ciò che è venuto dopo.
Film
28 anni dopo
di Danny Boyle
Se fosse uscito tra cinque anni sarebbe stato perfetto. Ma tant’è.
Accantonando le mie ossessioni compulsive legata alla simmetria temporale, Danny Boyle torna nel 2025 con 28 anni dopo, nuovo capitolo della saga horror-post apocalittica iniziata con 28 giorni dopo nel 2002 - e poi proseguita con 28 settimane dopo nel 2007.
Quasi trent’anni dopo da quando il virus della rabbia ha trasformato gli infetti in zombie assassini, l’Inghilterra si trova ancora in quarantena. Il resto del mondo, temendo la diffusione, ha circondato l’isola e sigillato ogni contatto, lasciando i sopravvissuti a gestirsi da soli.
La vicenda si apre su una comunità isolata su una piccola isola, senza elettricità o altre comodità moderne, collegata alla terraferma da una striscia di terra accessibile solo con la bassa marea. Qui vive Jamie (Aaron Taylor-Johnson) con la moglie Isla (Jodie Comer) – affetta da una malattia impossibile da diagnosticare a causa dell’assenza di dottori – e il figlio dodicenne Spike (Alfie Williams). Per Jamie è giunto il momento che suo figlio diventi adulto e, in una sorte di rituale di iniziazione celebrato da tutta la comunità, decide di portarlo con sè, verso la terraferma, armato di arco e frecce, per insegnargli a cacciare e uccidere gli infetti.
28 anni dopo nasce come primo capitolo di una nuova trilogia. Boyle torna alla regia, affiancato alla sceneggiatura da Alex Garland, ricomponendo la coppia che aveva dato vita al film originale.
Gli infetti – che non sono zombie nel senso classico, ma umani trasformati dal virus della rabbia in creature iperaggressive – si sono evoluti. Oltre ai classici corridori, ora ci sono i “lenti”, deformi e striscianti, e gli “Alpha”, forti, intelligenti e in grado di organizzarsi, guidare e persino riprodursi.
Il vero protagonista del film è Spike, interpretato con intensità dal giovane Williams, probabilmente destinato a guidare l’intera trilogia. Il film segue due suoi viaggi fuori dall’isola. Il primo, con il padre, è una sorta di battesimo del fuoco che pare più un’esibizione di virilità paterna che un vero insegnamento. Il secondo, con la madre, è un percorso più intimo, alla ricerca di un medico in grado di salvarla. Il vaggio con il padre è dominato dall’azione – da segnalare l’intensa scena della fuga sull’isolotto inseguiti da un Alfa – mentre il secondo è più riflessivo, e porta Spike a confrontarsi con una realtà molto più complessa e difficile da accettare quale la mortalità delle persone che amiamo.
Partiamo dalle cose che mi sono piaciute.
La fotografia predilige paesaggi rurali e spazi aperti, evitando le ambientazioni urbane e regalando dei panorami mozzafiato.
Ho apprezzato anche la parte con il montaggio alternato tra l’addestramento dei bambini e immagini d’archivio militari, accompagnate dalla lettura del poema Boots di Rudyard Kipling.
Tra i personaggi secondari spicca il Dr. Kelson, interpretato da Ralph Fiennes, figura carismatica e ambigua che richiama il colonnello Kurtz di Apocalypse Now: isolato, ossessionato dalla memoria, circondato da una torre di teschi che sembra un monumento alla follia.
Toccante anche il rapporto tra Spike e la madre, percorso da una dolcezza trattenuta che esplode nel finale. Il tema della morte attraversa il film e trova espressione nella frase latina che lo accompagna: memento mori.
L’isolamento della Gran Bretagna potrebbe far pensare a una metafora sulla Brexit, ma se il riferimento esiste, rimane in superficie e non trova vero sviluppo.
Nota di merito, infine, alla colonna sonora firmata dagli Young Fathers che dona al film un'identità sonora netta e accativante.
Veniamo a cosa non mi è piaciuto.
Alcune scelte narrative io le ho trovato parecchie forzate o poco credibili.
L’episodio dell’infetta che partorisce e accetta di essere aiutata da Isla, ad esempio, mi ha lasciato perplesso. Pure il fatto che la neonata sembra miracolosamente immune, rimane un mistero, ma magari verrà spiegato nei successivi episodi. Sono inezie, me ne rendo conto, ma anche la già citata torre di teschi, per quanto suggestiva, così come è composta da migliaia di teschi appoggiati uno sull’altro, mi fa pensare che al primo temporale viene tutto giù.
E il finale, chiaramente pensato per lasciare aperta la strada ai sequel, l'ho trovato parecchio pacchiano e spiazzante. Insomma, non mi invoglia per niente a vedere il suo seguito.
28 anni dopo è un film che ha momenti intensi e scelte discutibili. Vediamo se il mondo riaperto da Boyle e Garland avrà ancora qualcosa da dire.
Film
L'ombra del dubbio
di Alfred Hitchcock
L’ombra del dubbio è uno dei titoli più interessanti del primo periodo americano di Alfred Hitchcock, un thriller carico di tensione psicologica e ambiguità, dove il male si insinua silenzioso tra le pareti di casa.
Peccato non averlo visto in lingua originale — ma ci torno tra poco.
Charlotte Newton, detta "Charlie" (Teresa Wright), vive con la sua famiglia in una tranquilla cittadina americana, annoiata dalla routine e desiderosa di qualcosa che spezzi la monotonia quotidiana. L’arrivo dell’amato zio Charlie (Joseph Cotten), fratello della madre e figura carismatica del passato, sembra portare quella ventata di novità tanto attesa. Ma dietro i suoi modi affabili e il suo sorriso impeccabile, l’uomo nasconde qualcosa. Man mano che piccoli segnali incrinano l’apparente serenità domestica, la giovane Charlie inizia a sospettare che lo zio non sia affatto l’uomo che tutti credono. In un gioco di specchi tra affetto e paura, la tensione cresce fino a un confronto finale inevitabile, in cui la verità emerge e la maschera cade.
L’ombra del dubbio è forse uno dei film in cui Hitchcock scava con maggiore sottigliezza nel male quotidiano, facendolo emergere dalla superficie tranquilla della provincia americana. Al centro della narrazione c’è il legame ambiguo tra zio e nipote, entrambi chiamati Charlie. Fin dalla loro introduzione — distesi sul letto, in due scene parallele — il regista costruisce un raffinato gioco sul doppio, sull’identità riflessa, sulla tensione continua tra luce e ombra, il bene e il male. La simmetria dei nomi non è un semplice espediente narrativo, ma suggerisce una connessione profonda, quasi morbosa. L’anello che lo zio regala alla nipote è un gesto tanto affettuoso quanto inquietante.
La giovane Charlie, però, non è un’eroina classica. Esita, nega, e per gran parte del film sembra più preoccupata di mantenere le apparenze che di fermare un potenziale assassino. Ed è proprio in questo comportamento che Hitchcock affonda il colpo. La sua è una critica feroce alla rispettabilità borghese, all’ipocrisia della provincia americana dove ciò che conta davvero è che tutto sembri normale. Meglio far finta di nulla che affrontare l’orrore. Così, nella scena finale, la verità viene seppellita sotto una patina di rispettabilità, lasciando alla sola Charlie il peso di sapere cosa sia davvero accaduto.
Detto questo, ammetto che mi è difficile esprimere un giudizio positivo sul film. Non per colpa di Hitchcock oppure degli attori, ma per lo scandaloso doppiaggio italiano. Di solito guardo i film in lingua originale sottotitolata, ma in questo caso ho trovato solo la versione doppiata. Dopo cinque minuti volevo strapparmi le orecchie. Informandomi, ho scoperto che il doppiaggio fu realizzato in Spagna durante la guerra. Il risultato sembra una via di mezzo tra una soap sudamericana e una compagnia teatrale della Romania rurale. La bambina, già vagamente irritante di suo, diventa del tutto insostenibile. La protagonista ha un tono talmente forzato da rasentare il grottesco.
Il film, così com’è stato distribuito in Italia, risulta brutalmente sfigurato, uccidendo qualsiasi tensione o coinvolgimento.
Un vero peccato. Per quanto mi riguarda premio assoluto al peggior doppiaggio della storia del cinema.