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mercoledì, 18 giugno 2025
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Detachment - Il distacco

di Tony Kaye

Film tristi e pessimisti ne ho visti, ma in un’ipotetica classifica questo starebbe sicuramente tra i primi posti. Sto parlando di Detachment - Il distacco, film del del 2011 diretto Tony Kaye, il regista inglese dell'acclamato American History X, nonchè di numerosi documentari e videoclip.

Henry Barthes (Adrien Brody) è un insegnante supplente di letteratura. E' un uomo riservato, disilluso, segnato da un trauma infantile mai elaborato. Il suo mestiere lo porta a cambiare spesso scuola, e ora si ritrova a occuparsi di una classe di un liceo in una periferia americana profondamente degradata, popolata da adolescenti problematici e aggressivi. Cerca, con pacatezza e determinazione, di mantenere sempre una distanza emotiva da colleghi e studenti, come se l’unico modo per sopravvivere fosse non legarsi a nulla. Con alcuni studenti riesce a stabilire un dialogo, con altri solo un fragile equilibrio. In particolare Meredith, una ragazza sensibile e dotata, ma schiacciata da un padre assente e da compagni ostili, trova in lui una figura che non giudica e sembra comprenderla. Parallelamente, Henry si prende cura del nonno malato di demenza, ricoverato in una casa di cura, e salva dalla strada Erica, una prostituta minorenne che accoglie in casa per offrirle protezione e una possibilità, forse, di redenzione. Nel raccontare in prima persona questa parentesi di vita, Henry osserva con lucidità un sistema scolastico in disfacimento, e riflette sulla propria incapacità di connettersi davvero con il prossimo. Il distacco che lo protegge dal dolore è lo stesso che gli impedisce di guarire del tutto.

Come dicevo, un film triste. Tristissimo. Così negativo e privo di speranza da sfiorare quasi il grottesco. Eppure, proprio in quella sua esagerazione, in quel perdersi nel tormento interiore, c’è qualcosa di autentico. Perché esistono persone che trovano rifugio solo nella malinconica solitudine dell’anima, in quella zona d’ombra dove tutto fa male ma almeno non c’è più nulla da perdere.
Adrien Brody interpreta un professore con l’infanzia rubata, un uomo fondamentalmente buono ma devastato da un trauma antico che gli fa rifiutare ogni forma di legame umano. I ricordi riaffiorano come schegge, flashback frammentati, confusi, come foto strappate e rimesse insieme male. E attraverso una sorta di intervista-confessione, disseminata lungo il film, Henry racconta la sua storia, quella di un uomo che cerca di salvare i suoi studenti, quando forse è proprio lui quello che avrebbe più bisogno di essere salvato.
Intorno a lui, un microcosmo di disadattati: ragazzi allo sbando, anime spente, insegnanti ancor più sfiniti e disillusi degli studenti che dovrebbero motivare. Genitori assenti o completamente falliti, incapaci di offrire una guida, spesso specchio del fallimento di un’intera generazione. La scuola non è più un luogo di crescita, ma un ospedale da campo emotivo, dove nessuno guarisce davvero.
Il distacco emotivo che Henry coltiva come forma di autodifesa comincia a incrinarsi non tanto quando una collega gli mostra interesse, ma quando nella sua vita entrano due ragazzine: Erica, giovanissima prostituta segnata da abusi e abbandoni, e Meredith, studentessa introversa con la passione per la fotografia, vittima di bullismo e genitori tossici. La prima guarda Henry con occhi pieni di stupore, di chi da sempre ha subito violenze e maltrattamenti e per la prima volta si trova di fronte qualcuno che si prende cura di lei. Quei gesti, quasi non riesce a interpretarli ma poi diventano così importanti e vitali che non ne può fare a meno.  L’altra gli mostra una ferita che lui conosce fin troppo bene. E sebbene Henry provi a essere una presenza salvifica, finisce per non riuscire a impedire la caduta di chi lo circonda. Solo con Erica, forse, riesce a offrire un contatto reale, un abbraccio che – per quanto silenzioso – sa di vita. In pratica l'unico spiraglio di luce in tutto il film.
Dal punto di vista visivo, Detachment ha un impianto assai straniante, con un montaggio serrato, inquadrature sbilenche, spesso prese dal basso verso l’alto o distorte con lenti grandangolari, camera a mano sempre in movimento. A interrompere la narrazione, brevi animazioni in stop motion realizzate come disegni a gesso su una lavagna, che accompagnano i momenti più simbolici del film, accentuandone il tono da incubo scolastico.
Molto interessante anche la citazione iniziale di Albert Camus, che introduce il tema del distacco come meccanismo di difesa: anestetizzare le emozioni per non sentire il dolore. Efficace anche la citazione finale con La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe, mentre Henry siede in un’aula vuota, tra sedie rovesciate e fogli sparsi. Immagine potente, metafora visiva di un sistema scolastico allo sfascio, incapace di contenere il disagio che lo abita.

Detachment è un film cupo, doloroso, permeato da un profondo disagio esistenziale a tratti quasi sterotipato che può risultare estremamente irritante.  Eppure, se sei nel giusto stato d’animo, se hai lo spleen adatto per lasciarti andare, questo film può  può riuscire anche a conquistarti nel profondo, e magari farti versare più di una lacrima.

Film
Drammatico
USA
2011
lunedì, 16 giugno 2025
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L'isola degli zombies

di Victor Halperin

L’isola degli zombies è un horror indipendente del 1932 diretto e prodotto da Victor Halperin. La particolarità di questo film — il cui titolo originale è White Zombie — non sta solo nell’aver ispirato il nome dell’omonima band industrial degli anni novanta capitanata da Rob Zombie (poi regista e produttore horror), ma soprattutto nel fatto che è considerato il primo film a portare gli zombie sul grande schermo.
Attenzione però, non stiamo ancora parlando dei morti viventi famelici e contagiosi che George Romero codificherà ne La notte dei morti viventi. Qui gli zombie sono cadaveri riportati in vita attraverso rituali di magia nera haitiana, utilizzati come forza lavoro, servi docili e senz’anima al servizio di un oscuro maestro voodoo.

La storia racconta le vicende di Madeleine e Neil, una giovane coppia americana sbarcata ad Haiti per sposarsi nella tenuta del facoltoso Charles Beaumont. L'ospitalità di Beaumont però nasconde un’ossessione morbosa per Madeleine che lo porta, pur di averla, a rivolgersi a un sinistro maestro voodoo, il misterioso Legendre (interpretato da un magnetico Bela Lugosi).
Con l’aiuto di un potente veleno, Legendre trasforma la ragazza in una sorta di morta vivente, privandola della volontà ma non della bellezza. Mentre Neil tenta disperatamente di salvarla, scopre un mondo fatto di zombie schiavizzati, piantagioni inquietanti e incantesimi oscuri.

L'isola degli zombies, come molti horror dell’epoca, è fortemente influenzato dall’estetica dell’espressionismo tedesco: ombre nette, atmosfere sinistre, scenografie evocative. La regia di Halperin, pur semplice, sfrutta questi elementi con intelligenza, restituendo un film visivamente affascinante. Certo, siamo ancora agli albori del sonoro, e si sente. La recitazione è teatrale, con gesti melodrammatici e pause enfatiche che oggi fanno sorridere — la grazia con cui Madeleine sviene tra le braccia del suo promesso sposo è quasi esilarante. Bela Lugosi, reduce dal successo di Dracula, ruba la scena con la sua presenza inquietante. La sua interpretazione è così manierata da risultare straniante e affascinante. I ripetuti primi piani sui suoi occhi lo trasformano in un demiurgo oscuro, capace di piegare i vivi e animare i morti.
Un film certamente datato, poco conosciuto ma dal valore storico enorme in quanto segna la nascita degli zombie cinematografici. 

Film
Horror
Zombi
USA
1932
sabato, 14 giugno 2025
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Auguri per la tua morte

di Christopher Landon

Ogni tanto ci sta un film leggero, di intrattenimento e da vedere senza troppi pensieri.
È il caso di Auguri per la tua morte, in originale Happy Death Day, film del 2017 diretto da Christopher Landon e prodotto dalla Blumhouse, casa specializzata in horror a basso budget ma ad alto rendimento, soprattutto tra il pubblico più giovane.
Il film è una commedia horror travestita da teen-slasher, una sorta di Ricomincio da capo con la maschera di Scream e un coltello in mano. Il paragone con il cult con Bill Murray non è casuale, dal momento che viene persino citato nel finale.
Certo, l’idea del loop temporale e della giornata che si ripete all’infinito non è nuova — anzi, ormai è quasi un sottogenere a sé — ma Landon decide di affrontarla con leggerezza, strizzando l’occhio più al pubblico adolescenziale che agli appassionati di paradossi spazio-temporali.

Tree Gelbman (Jessica Rothe) è una studentessa universitaria superficiale, arrogante, e tutto sommato insopportabile. Si sveglia, con i postumi di una sbornia, nel letto di uno sconosciuto il giorno del suo compleanno. Ma la vera sorpresa arriva quando, a fine giornata, viene brutalmente uccisa da un assassino mascherato solo per risvegliarsi, di nuovo, nello stesso letto, lo stesso giorno. Intrappolata in un loop temporale che la costringe a rivivere continuamente la stessa giornata, Tree si ritrova a dover indagare su chi sia il suo killer e come interrompere questo loop, e magari diventare una persona migliore.

Auguri per la tua morte è uno di quei film che ti guardi volentieri quando hai voglia di spegnere il cervello e farti due risate, magari con un gelato o una birra ghiacciata, visto le temperature. È un teen movie ben confezionato, dura il giusto, e riesce a intrattenere senza mai annoiare, nonostante racconti, letteralmente, sempre la stessa giornata.
C'è parecchia commedia, anche bella scema a tratti, ma funziona, perché il film non si prende mai troppo sul serio. La componente horror c’è, ma è ammorbidita, niente sangue, niente scene splatter, si intuisce ma non si vede, insomma, tutto rimane su un tono leggero, quasi da horror per neofiti. L’aspetto slasher viene contaminato da un’ironia costante, che affiora ogni volta che la protagonista si ritrova a morire in modo diverso, quasi come se ogni morte fosse una gag da cartone animato. A tenere insieme il tutto è Jessica Rothe, sorprendente per carisma, mimica facciale e perfetti tempi comici. Regge il film praticamente da sola, e riesce a rendere simpatico un personaggio che inizialmente sembra pensato per essere detestabile. Senza di lei il film sarebbe probabilmente affondato già alla seconda morte.
È chiaro che si tratta di un prodotto pensato per un pubblico giovane, con tutti gli stereotipi del caso: college, feste, belle facce, battutine, drammi da dormitorio. Però se lo prendi per quello che è – un horrorino pop da sabato sera, più spensierato che spaventoso – alla fine te lo godi. Certo, non ti cambia la vita… ma di sicuro non te la rovina.
Hanno fatto anche un sequel.

Film
Fantastico
Commedia
Thriller
USA
2017
giovedì, 12 giugno 2025
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I Peccatori (Sinners)

di Ryan Coogler

Fin dalla sua uscita al cinema, I Peccatori, il film di Ryan Coogler, regista noto per Creed e Black Panther, ha fatto parlare di sè, raccogliendo consensi positivi tra pubblico e critica.

Mississippi, 1932. Due fratelli gemelli, Smoke e Stack (entrambi interpretati da Michael B. Jordan), tornano nella loro terra d’origine dopo un passato burrascoso nei bassifondi di Chicago. Con in tasca le lezioni imparate tra racket e notti violente, acquistano una vecchia segheria con l’intenzione di trasformarla in un juke joint, un locale notturno dove la comunità nera possa ballare, bere, ascoltare musica e dimenticare, per qualche ora, le fatiche nei campi di cotone. A unirsi alla loro impresa c’è Sammie, detto Preacher Boy (Miles Caton), un giovane chitarrista blues, capace di evocare qualcosa di più grande della musica stessa. Insieme a lui, amici, parenti e vecchi complici si danno da fare per aprire il locale la sera stessa dell’arrivo dei gemelli. Tutto sembra pronto per una notte di festa, sudore e redenzione — ma qualcosa, nell’aria densa del Delta, annuncia che la vera oscurità non arriva mai bussando alla porta.

Sinners mi ha ricordato, e non poco, Dal tramonto all’alba. Stessa struttura narrativa, con due parti nettamente distinte e la virata all'horror vampiresco nel finale. Nessuno spoiler, Coogler non gioca sull’effetto sorpresa, anzi si intuisce già dalla prima scena la direzione che prenderà il film. Lo stesso predicatore mette in guardia il figlio sul potere oscuro della musica, richiamando le leggende legate alla nascita del blues e al patto col diavolo.
Restando nel gioco delle affinità cinematografiche, la prima parte de I Peccatori richiama, almeno come tematiche, Mississippi Burning, con la sua atmosfera tesa, il razzismo, il Ku Klux Klan, polvere, sudore e rabbia repressa. Vengono presentati i personaggi, introdotto il contesto storico, e reso palpabile il clima culturale e politico dell’America del sud degli anni '30. Poi, nella seconda metà, il film cambia pelle e si trasforma in un assedio alla John Carpenter, un western notturno e furibondo, dove i vampiri emergono da ogni angolo e l’istinto di sopravvivenza diventa l’unica legge.
Ma il cuore del film, il suo nucleo pulsante, è la musica. Il blues, nella sua dimensione sacra e viscerale, è il vero centro gravitazionale della narrazione. In opposizione a esso, la musica dei "bianchi" – quella irlandese, filtrata dai non-morti – diventa un controcanto sinistro, una filastrocca stregata che sembra arrivare da un’altra epoca, e da un altro mondo.
E' proprio alla musica è legata una delle sequenze più riuscite del film, quella ambientata nel juke joint, quando la serata si accende, l’alcol scorre a fiumi, i corpi sudano, danzano, si stringono. Nell’aria si respira un’euforia febbrile, carica di desiderio e carnalità. In un lungo piano sequenza – autentico momento di cinema visionario – la musica squarcia il tempo, si connette passato, presente e futuro, mette in contatto i personaggi con i loro antenati e con chi erediterà la loro storia. Corpi separati da generazioni si muovono al ritmo di una stessa pulsione, in una sinfonia che fonde strumenti, culture, sangue e memoria.
Certo, I Peccatori non è un film perfetto. Non so se sia davvero "l’horror dell’anno", come si legge in giro. Anche perchè secondo me è proprio la seconda parte, quella più horror, la più debole e priva di tensione. Anche la caratterizzazione dei vampiri bianchi come puro simbolo oppressivo, certi momenti didascalici, suonano un po' prevedibili. Ma resta un film audace, che osa fondere folklore, storia afroamericana e horror gotico senza puntare tutto sull’action. Coogler, forte di un budget solido, mette in scena un’ambientazione curata, una fotografia evocativa – quei campi di cotone sotto cieli infuocati sono puro spettacolo – e una regia consapevole dei propri mezzi.
Michael B. Jordan, nel doppio ruolo dei gemelli Smoke e Stack, non mi ha particolarmente entusiasmato. La sua performance è solida ma poco sfaccettata, e se non fosse per il cappello, spesso i due personaggi risulterebbero indistinguibili. Ma il film regge, anzi avvolge. Due ore e un quarto di horror blues caldo e viscerale, con una coda finale che prosegue anche dopo i titoli, lasciandoti addosso il sapore di un’idea di cinema popolare, contaminato, e profondamente fisico. E sì, mi è piaciuto.

Film
Drammatico
Horror
Vampiri
USA
2025
giovedì, 5 giugno 2025
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Until Dawn - Fino all'alba

di David F. Sandberg

Quando si guarda un film, il giudizio è sempre figlio dell’aspettativa. Nel caso di Until Dawn, horror diretto da David F. Sandberg, le mie aspettative erano quelle di passare un oretta e mezza di intrattenimento a base di sgozzamenti, sangue e mutilazioni. E alla fine, sì, il suo compito lo ha fatto. Senza infamia e senza lode.

Tratto dall'omonimo videogioco della Sony, il film è stato oggetto di critiche da parte dei fan, che non hanno preso benissimo lo stravolgimento della storia e dei personaggi. Personalmente, non avendoci mai giocato, non entro in merito e passo oltre, raccontandovi per sommi capi la storia.

Un anno dopo la misteriosa scomparsa di sua sorella, Clover e i suoi quattro amici decidono di mettersi sulle sue tracce giungendo in una casa sperduta in mezzo al nulla che sembra essere un centro visitatori abbandonato. Sulla parete una clessidra gigante con tanto di inquietante teschio e ingranaggio che la fa girare al calar della notte. Da questo momento in poi il gruppo di ragazzi viene ucciso da un assassino mascherato, risvegliandosi però nello stesso punto, costretti a rivivere quella notte e a morire in nuovi modi a ogni ciclo.

Non c’è molto altro da aggiungere, se non che Until Dawn è un vero e proprio festival dei clichè dei film horror. L’assenza di una sceneggiatura capace di generare un minimo di tensione cerebrale è compensata solo nel vedere come una manciata di attori anonimi venga eliminata uno dopo l’altro da maniaci mascherati, demoni invisibili, streghe, zombie e scienziati pazzi. Il tutto condito da spargimenti di sangue, corpi che esplodono, una pioggia di jumpscare e gore in abbondanza, realizzati con buoni effetti pratici e una post-produzione non troppo invasiva.
Un teen-horror ludico e citazionista, senza troppe pretese, che strizza l’occhio a Quella casa nel bosco ma senza averne l’intelligenza metanarrativa né il gusto per la sovversione.

Film
Horror
USA
2025
giovedì, 29 maggio 2025
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Mulholland Drive

di David Lynch

Se dovessi stilare una classifica dei miei film preferiti, Mulholland Drive occuperebbe senza esitazione il primo posto. Nutro un amore viscerale per David Lynch e una venerazione profonda per Mulholland Drive che considero un capolavoro.
Secondo una classifica della BBC che ha coinvolto 177 critici cinematografici di 36 paesi, Mulholland Drive è considerato il miglior film del ventunesimo secolo. Un film enigmatico, stratificato, che ha generato fiumi di interpretazioni, saggi, recensioni, e analisi di ogni tipo. Al di là delle parole, vedere un film di Lynch non è mai semplicemente "guardare un film". È un’esperienza. E Mulholland Drive è, forse, la sua manifestazione più sublime.

Mulholland Drive nasce nel 1999 come un progetto televisivo destinato alla ABC, concepito come pilota di una serie che avrebbe dovuto proseguire l'eredità di Twin Peaks. Nonostante l'entusiasmo iniziale, la ABC rifiutò il progetto, giudicandolo troppo oscuro, lento e confuso per il pubblico televisivo mainstream. Dopo il rifiuto, Lynch si trovò con un'opera incompleta, senza una destinazione e con nessun produttore americano disposto a finanziare il film. Fu grazie all'intervento del produttore francese Pierre Edelman e al sostegno finanziario di StudioCanal che il progetto trovò nuova vita. Lynch riscrisse e ampliò la sceneggiatura, aggiungendo nuove scene che trasformarono il pilota in un film completo. Le riprese aggiuntive si svolsero nell'ottobre del 2000, con un finanziamento di 7 milioni di dollari.
Il risultato fu un'opera che trascendeva le convenzioni narrative, mescolando realtà e sogno in un'esperienza cinematografica unica. Mulholland Drive venne presentato al Festival di Cannes nel 2001, dove Lynch vinse il premio per la miglior regia, consacrando il film come uno dei capolavori del cinema contemporaneo.

A grandi linee, la trama di Mulholland Drive è la seguente.
Una misteriosa donna (Laura Harring) scampata a un incidente d’auto lungo la celebre strada collinare di Los Angeles si rifugia, spaesata e priva di memoria, in un appartamento apparentemente disabitato. Poco dopo, nello stesso appartamento arriva Betty (Naomi Watts), un’aspirante attrice dal sorriso luminoso, appena atterrata a Hollywood con il sogno di sfondare nel cinema. Dall'incontro tra le due ragazze nasce un legame ambiguo e intenso, mentre insieme tentano di scoprire l’identità perduta di Rita (il nome adottato dalla sconosciuta) seguendo una serie di indizi che si fanno via via più oscuri.
Nel frattempo un regista hollywoodiano (Justin Theroux) viene minacciato da grotteschi e ambigui mafiosi affinche scelga l'attrice che dovrà interpretare il ruolo della protagonista del suo prossimo film. Un killer pasticcione, un uomo terrorizzato da un sogno ambientato dietro un ristorante, un cowboy enigmatico, e uno spettacolo teatrale dove tutto è finto ma sembra tremendamente reale, completano un mosaico narrativo dove i confini tra realtà e illusione si dissolvono.

Chi ama Lynch sa che non bisogna cercare un senso razionale nelle sue storie. Il suo cinema non chiede di essere capito, ma vissuto. È un’esperienza da attraversare lasciandosi trasportare dalle suggestioni, dai simboli, dai sogni che si mescolano alla realtà e all’inconscio. Eppure, tra Lost Highway, Mulholland Drive, e Inland Empire — quella che potremmo chiamare, seppur con qualche forzatura, la sua trilogia del sogno — è proprio Mulholland Drive a essere il più leggibile e comprensibile. E allora, proviamo a rimettere insieme i pezzi di questo intricato puzzle.

Da qui in avanti, inevitabilmente, partono gli spoiler.

Il film si divide, sostanzialmente, in due parti. La prima è il sogno. O forse una realtà alternativa, un mondo interiore, un rifugio dell’inconscio. In questa dimensione la protagonista, Naomi Watts, è Betty, un’aspirante attrice appena arrivata a Hollywood e ospite in un appartamento elegante, ingenua ma determinata, piena di talento. È bella, luminosa, e al suo primo provino incanta tutti con una performance sbalorditiva. Incontra Rita (Laura Harring), donna misteriosa colpita da amnesia, e tra le due nasce una complicità profonda, anche sentimentale. Tutto sembra andare per il verso giusto, finché Betty apre una scatola blu — oggetto simbolico e portale — e la realtà, o qualcosa che ci somiglia, irrompe.
Da quel momento in poi tutto si ribalta. Il sogno svanisce. Betty non è più Betty, ma Diane. E Rita è Camilla. Diane è un’attrice fallita, frustrata, spezzata. Vive nell’ombra di Camilla, che invece è affermata, desiderata, sicura di sé. La loro relazione è sbilanciata, tossica, e quando Diane scopre che Camilla sta per sposare un regista (Justin Theroux), sopraffatta dalla gelosia e dal senso d’abbandono, assolda un killer per eliminarla. Ma non regge il peso del suo stesso gesto. Mentalmente devastata, trova rifugio proprio nel sogno che abbiamo visto nella prima parte, per poi — incalzata dal senso di colpa e dalla disgregazione psichica — togliersi la vita.
Mulholland Drive è un gioco a incastri, una struttura a specchio dove sogno e realtà, conscio e inconscio, desiderio e trauma si confondono, si fondono, si rincorrono. Lynch non ci fornisce una spiegazione univoca, ma dissemina indizi, frammenti, immagini ricorrenti. Non ci guida, ci abbandona dolcemente nel labirinto.

Ma Mulholland Drive è anche – forse soprattutto – una feroce, allucinata critica al sistema hollywoodiano, a quella macchina patinata e crudele che promette sogni e spesso restituisce incubi. Hollywood è una trappola emotiva, un meccanismo che plasma e distrugge, che premia l’immagine e punisce la fragilità. Betty arriva con entusiasmo e talento, ma viene risucchiata in un mondo fatto di poteri invisibili, scelte imposte, manipolazioni subdole. Adam, il regista, è costretto a cedere alle pressioni di oscuri burattinai, incapace di difendere la propria libertà creativa. Tutto è recitazione. Tutto è illusione.
E poi c’è Naomi Watts, che in questo film firma una delle prove attoriali più intense e devastanti degli ultimi decenni. Il suo coinvolgimento emotivo va oltre la finzione. Prima di Mulholland Drive, Watts faticava a emergere. Anni di rifiuti, ruoli minori, provini falliti. Era arrivata a pensare di smettere, a sfiorare l’idea del suicidio. Lynch non sceglie solo un’attrice, sceglie una ferita aperta. Una donna che ha conosciuto il lato oscuro del sogno hollywoodiano. Betty e Diane non sono solo personaggi. Sono due volti della stessa ossessione. E Naomi Watts le interpreta con una verità così disarmante da lasciare il segno per sempre.

Tralasciando la trama, il senso, la narrazione — che poi è forse l’ultima cosa che interessava davvero a Lynch — Mulholland Drive è costellato di sequenze magistrali, capaci di far accapponare la pelle.

Partiamo da una delle prime scene, tra le più inquietanti dell’intero film, quella in cui un uomo racconta a un amico di aver sognato il locale in cui si trovano. Nel sogno, dietro al ristorante, si nasconde una figura orribile, la cui sola presenza gli provoca un terrore profondo. Quando i due escono per controllare, la creatura appare davvero. L’uomo crolla a terra, sopraffatto dallo shock. Apparentemente slegata dalla trama principale, questa scena è in realtà una potente metafora, un incubo che prende corpo, o forse un sogno dentro un altro sogno. Il mostro dietro il diner è l’incarnazione dell’orrore rimosso, la parte più oscura della psiche, il prezzo da pagare per inseguire un sogno o di chi ha commissionato un omicidio. Una sequenza di meno di cinque minuti, girata in pieno giorno, che culmina con quello che potremmo definire un vero e proprio jumpscare, ma di una raffinatezza inquietante: tensione pura, orrore viscerale, senza bisogno di ombre o buio. Magistrale.
Proseguiamo con la scena del cowboy, in un luogo isolato e illuminato a intermittenza — cifra stilistica inconfondibile di Lynch — in cui un personaggio dal volto impassibile pronuncia un dialogo criptico e inquietante, che sembra venire da un’altra dimensione. O con quella del caffè, in cui uno dei fratelli Castigliane (interpretato da Angelo Badalamenti, storico compositore lynchiano e autore della bellissima colonna sonora del film) siede al tavolo con i produttori e il regista del film. Beve l’espresso servito dal cameriere e, con glaciale disprezzo, lo sputa nel tovagliolo. Un gesto teatrale e volutamente disturbante, che comunica autorità, potere, e intimidazione.
Ma la scena più potente resta senza dubbio quella del Club Silencio. Le due protagoniste entrano in un teatro decadente. Sul palco, un personaggio luciferino rivela la finzione: "No hay banda… tutto è registrato". La musica, la voce, le emozioni: nulla è reale. Poi arriva la cantante Rebekah Del Rio, che canta Llorando con un’intensità straziante, prima di crollare a terra, mentre la sua voce continua a riempire il teatro. È il punto di rottura. La consapevolezza che tutto ciò che Betty ha vissuto è una costruzione mentale, un sogno artificiale per sfuggire a una realtà intollerabile. Ma è anche una riflessione meta-cinematografica sulla natura stessa del cinema: finzione capace di toccare il vero. Sublime.

Mulholland Drive, che Lynch descrisse come "una storia d’amore nella città dei sogni", è la quintessenza del suo cinema. Un profondo atto d’amore per la settima arte, ma anche un bilancio esistenziale del regista. Un film fatto di misteri, visioni oniriche, simboli nascosti, bruschi salti narrativi, venature grottesche e una tensione psicologica costante — il tutto orchestrato con un montaggio ipnotico e una tecnica impeccabile. Un capolavoro del cinema moderno.

Ho visto Mulholland Drive per la prima volta al cinema, quando uscì nel 2000. Ricordo perfettamente, all’uscita dal cinema, il senso di smarrimento, la sensazione di non aver capito nulla della storia, ma al tempo stesso di essere stato profondamente scosso, emotivamente travolto. È uno di quei rari film capaci di smuoverti dentro senza bisogno di spiegazioni. Pochi giorni dopo, sono tornato a vederlo di nuovo, sempre al cinema. Da allora, l’avrò rivisto almeno una decina di volte. E ogni volta è come se fosse la prima: cambia, si trasforma, rivela qualcosa di nuovo. Come un sogno che ti rimane addosso. Eterno e inafferrabile
Grazie maestro.

Film
Drammatico
Noir
Thriller
Mistero
David Lynch
USA
2001
Retrospettiva
martedì, 20 maggio 2025
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Drop

di Christopher Landon

Drop - Accetta o rifiuta è il nuovo thriller sfornato da casa Blumhouse, per la regia di Christopher Landon — sì, quello di Auguri per la tua morte e altri teen-horror che si prendono poco sul serio. Stavolta Landon prende in prestito la trama di Red Eye di Wes Craven e la trasloca in un ristorante di lusso con vista su Chicago.

La protagonista è Violet (Meghann Fahy), terapeuta e madre single che cerca di lasciarsi alle spalle un passato traumatico e un marito violento. Dopo anni di lutto, decide di rimettersi in gioco con un appuntamento galante. Lui è Henry (Brandon Sklenar), fotografo, barba scolpita, canotta casual, sguardo da pubblicità di profumo. Ma la serata prende una piega inquietante quando Violet inizia a ricevere strani meme e messaggi anonimi sul suo telefono tramite una app chiamata "DigiDrop". Questi messaggi minacciano la vita di suo figlio e di sua sorella, che lo sta accudendo a casa, e le impongono di seguire istruzioni sempre più sinistre, culminando in un ultimatum: uccidere Henry per salvare i suoi cari.

Drop è un thriller d’intrattenimento, sì, ma davvero molto basic. Talmente patinato che più che tensione, sprigiona il profumo di una rivista di moda ancora incelofanata. I due protagonisti hanno la personalità di un manichino di Zara. Lei una Barbie urban-chic con trauma annesso, lui un Ken con la canotta stirata a dovere. In mezzo, un cameriere irritante che dovrebbe – nelle intenzioni – fare da spalla comica, ma che in realtà ti fa solo desiderare che sia il primo a essere ucciso.
Il meccanismo thriller, in teoria, dovrebbe reggere l’intera durata del film. Violet che si agita, corre al bagno, si contorce per nascondere il panico, cerca di non far saltare la copertura con Henry mentre segue istruzioni via smartphone. Ma la tensione proprio non arriva, sembra un escape room mal riuscito, privo di colpi di scena che non siano prevedibili.
Insomma, Drop vorrebbe essere un thriller alla Brian De Palma con ambizioni hitchcockiane, ma finisce per assomigliare a un film anonimo da seconda serata, adatto come riempitivo da catalogo di qualche piattaforma streaming. Perfetto da guardare mentre scrolli il telefono, aspettando la fine. Se proprio non avete niente da fare e volete qualcosa che riempia il tempo senza troppe pretese, potrebbe anche intrattenervi.

Film
Thriller
USA
2025
domenica, 18 maggio 2025
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Madre!

di Darren Aronofsky

Tra la fine degli anni '90 e l’inizio dei duemila, Darren Aronofsky era uno dei miei registi preferiti. π – Il teorema del delirio e Requiem for a Dream, sono due film che, ciascuno a suo modo, mi hanno segnato nel profondo. Poi, con il passaggio da regista indipendente a nome consolidato nel sistema hollywoodiano, qualcosa si è incrinato. Fatta eccezione per Il cigno nero e, forse, per The Wrestler, la deriva mistico-biblica ed esistenziale di The Fountain e Noah mi ha fatto prendere le distanze dal suo cinema, trovandolo autoreferenziale e ridondante.
Madre!, uscito nel 2017 e presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, si colloca in questa fase della sua filmografia, riprendendo le stesse tematiche ma da un punto di vista diverso e decisamente più interessante. Accolto tra sonori fischi e sporadici applausi, il film ha diviso pubblico e critica, lasciando molti spettatori spaesati, se non apertamente irritati. Eppure, dietro la provocazione e l’allegoria esasperata, qualcosa continua a muoversi.

La storia si svolge in una grande casa isolata nel mezzo del nulla e ha per protagonisti uno scrittore di mezz'età in crisi creativa (Javier Bardem) e la sua giovane e devota moglie (Jennifer Lawrence), impegnata a ristrutturare l’abitazione danneggiata da un precedente incendio. La loro apparente tranquillità viene interrotta dall’arrivo improvviso di un misterioso sconosciuto (Ed Harris), seguito poco dopo dalla sua invadente moglie (Michelle Pfeiffer). Lo scrittore accoglie con entusiasmo i due ospiti, ma l’equilibrio comincia a vacillare quando arrivano anche i loro figli. Quel che inizia come un dramma domestico si trasforma progressivamente in un incubo claustrofobico, in cui il confine tra realtà e metafora si assottiglia fino a dissolversi.

Di seguito ci sono degli spoiler, quindi, per chi ancora non l'avesse visto, consiglio vivamente di non proseguire con la lettura.

Madre! si articola in due parti ben distinte. Nella prima, la storia risulta interessante, ambigua e carica di tensione con evidenti riferimenti al cinema di Polanski. La macchina da presa segue ossessivamente la Lawrence, incollandosi al suo volto, ai suoi movimenti, restituendo in modo quasi soffocante la sua angoscia crescente. Il suo sguardo è l’unico tramite attraverso cui assistiamo all’invasione lenta e inesorabile della casa, luogo simbolico che lei ha ricostruito con cura e dedizione, e che ora vede sfaldarsi sotto i suoi occhi. La casa pulsa, soffre, sanguina. E' una creatura viva, specchio delle sue ferite interiori. Il marito, al contrario, appare completamente ignaro (o peggio, indifferente) al disagio crescente della moglie. Accoglie gli ospiti con entusiasmo, attratto dalla loro ammirazione, come se cercasse di alimentare il suo ego. La tensione esplode con il fraticidio compiuto da uno dei figli della coppia molesta. Improvvisamente la casa viene invasa da una folla di estranei, accorsi per una veglia funebre che degenera rapidamente in un rito grottesco e caotico. Dopo essere riuscita, non senza difficoltà, a scacciarli, la protagonista ritrova una fragile intimità con il marito, che culmina in un amplesso quasi liberatorio. Ne segue un concepimento inatteso, che sembra riaccendere anche l’ispirazione dello scrittore, ora pronto a scrivere la sua nuova opera.
Nella seconda metà, il film da dramma surreale si trasforma in un vero e proprio incubo catastrofico. Sono trascorsi nove mesi — anche se il tempo pare essersi fermato — e lo scrittore ha terminato il suo poema, accolto con entusiasmo da una moltitudine di adoratori che assediano la casa. La protagonista è sul punto di partorire, ma continua a essere ignorata. Il suo ruolo rimane subordinato alle esigenze e all’egocentrismo del marito. La casa viene nuovamente invasa, stavolta da una folla fanatica e sempre più violenta, in una lunga sequenza apocalittica in cui esplosioni, saccheggi e brutalità trasformano l’abitazione in un campo di battaglia. Il parto avviene nel mezzo del caos, ma la gioia per la nascita è effimera. Il neonato (figura chiaramente messianica) viene sottratto alla madre e letteralmente divorato dalla folla adorante, in una delle scene più raccapriccianti e simboliche del film. Sconvolta dal dolore, la protagonista appicca un incendio, sacrificando sé stessa e tutto ciò che resta. Sopravvive solo lo scrittore, che estrae dal suo petto il residuo d’amore necessario per far ripartire il ciclo. E infatti, tutto ricomincia. Una nuova Madre, una nuova illusione d’armonia.

Madre! è un film ambizioso e stratificato, costruito su metafore e allegorie religiose piuttosto esplicite. Lei incarna Madre Natura, la Terra, la prima grande musa ispiratrice. Lui è il Creatore, un Dio egoista e distaccato nei confronti della stessa Terra che ha generato. La coppia di intrusi richiama Adamo ed Eva, i loro figli sono Caino e Abele. Il cristallo custodito nello studio rappresenta il frutto proibito, il lavandino che esplode durante la veglia è il Diluvio Universale, il figlio nato nel caos è un Messia sacrificato da un’umanità cieca e idolatra.
Il limite principale del film è proprio questa eccessiva trasparenza simbolica. Il significato non viene evocato, ma ribadito, quasi imposto. L’allegoria è talmente scoperta da risultare prevedibile. Il mistero — quella qualità che invita a tornare su un’opera per coglierne nuove sfumature — qui lascia spazio a una narrazione che cerca costantemente di farsi decifrare. Ed è un peccato, perché un’opera così visivamente potente e concettualmente ricca non avrebbe bisogno di spiegarsi. Il buon cinema d’autore non cerca conferme. Suggerisce, non istruisce. E in questa differenza, sottile ma sostanziale, risiede gran parte del suo fascino.
Il film ha sollevato non poche critiche sulla rappresentazione femminile. La protagonista è una figura passiva, una martire silenziosa e devota che assiste impotente allo scempio del proprio mondo. In questo senso, sembra l’antitesi della donna di Antichrist di Lars von Trier, che da strega diventa santa. In entrambi i casi, la donna è ridotta a simbolo, priva di voce e identità, vittima di una visione maschile che la sublima per poi consumarla.

Al di là dell'aspetto narrativo, dal punto di vista tecnico il film si distingue per una regia invasiva e totalizzante, quasi claustrofobica, e per una fotografia efficace, che dai toni caldi della prima parte si incupisce nel finale, accentuando il senso di disagio. L’assenza di colonna sonora lascia spazio a un sound design ossessivo, fatto di respiri, scricchiolii e battiti, che amplificano la tensione. Riguardo Jennifer Lawrence, lei è pure brava a interpretare la donna sottomessa ma proprio faccio fatica a vederla in questo ruolo. Problema mio.

Madre! è un film eccessivo, caotico, visivamente potente, deliberatamente divisivo. Lo si può leggere come parabola biblica, come critica ecologista, come riflessione sull’atto creativo o sull’egocentrismo dell’artista, o forse come tutte queste cose insieme. Di certo, è un film che non passa inosservato. Che lo si consideri un’allegoria potente o un esercizio di stile pretenzioso, non si può negare il suo impatto emotivo e visivo. Un film coraggioso, ambizioso e imperfetto.

Film
Drammatico
Grottesco
USA
2017
mercoledì, 14 maggio 2025
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Il sospetto

di Alfred Hitchcock

Il sospetto, quarto lungometraggio americano di Alfred Hitchcock, è tratto dal romanzo Before the Fact di Francis Iles e rappresenta una delle prime incursioni del regista inglese nei territori del thriller psicologico domestico. Cary Grant, nel primo dei suoi quattro film con Hitchcock, interpreta il protagonista con quel suo sorriso stampato sul volto da simpatica canaglia. Al suo fianco, una convincente Joan Fontaine — al suo secondo film con Hitchcock dopo Rebecca, la prima moglie — incarna con delicatezza e inquietudine l’ansia crescente di una donna che inizia a sospettare che l'uomo che ama possa volerla uccidere.

La storia è piuttosto semplice. Lina McLaidlaw (Joan Fontaine) è una donna riservata e sognatrice che si innamora del fascinoso e spregiudicato Johnnie Aysgarth (Cary Grant), un uomo dal magnetismo irresistibile ma dai modi discutibili. I due si sposano in fretta, ma il velo del romanticismo cade presto quando la donna scopre che il marito è un imbroglione squattrinato, allergico al lavoro, ossessionato dal lusso, dal gioco d’azzardo e dal denaro. Progressivamente isolata, comincia a sospettare che Johnnie stia tramando qualcosa. Forse contro di lei.

Il sospetto è un film in cui la tensione non nasce tanto da ciò che accade, quanto da ciò che potrebbe accadere. Hitchcock costruisce l’intero impianto narrativo sull’ambiguità, reggendosi quasi esclusivamente sui dubbi di una donna circa la vera natura del marito. La prima ora scorre lenta, priva di eventi davvero rilevanti. La tensione esplode solo nel finale, tutta racchiusa nello sguardo sgomento di Joan Fontaine — che per questa interpretazione vinse l’Oscar come miglior attrice protagonista — impeccabile nel dare forma alla fragilità e all’ansia della sua Lina. Memorabile la scena in cui Cary Grant sale le scale, avvolto nell’oscurità, portando alla moglie un bicchiere di latte forse avvelenato. Hitchcock vi inserì una piccola lampadina per farlo brillare nel buio, caricandolo di una tensione quasi irreale.

Non è il miglior Hitchcock, e il finale — volutamente ambiguo — rischia di lasciare più in sospeso che realmente turbati. Ma l’atmosfera trasognata, la sottile ironia che punteggia alcune sequenze, e la presenza scenica dei due protagonisti, rendono Il sospetto un film comunque godibile. Un’opera minore forse, ma capace di mostrare già allora il lato più insinuante e domestico del maestro del brivido.

Film
Thriller
USA
1941
giovedì, 8 maggio 2025
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Buffalo '66

di Vincent Gallo

Buffalo '66 è un film a cui sono molto affezionato e che rivedo spesso volentieri. Sarà che l'ho visto per la prima volta in un particolare momento della mia vita, ma da allora mi è rimasto addosso. L’autore di questa pellicola è Vincent Gallo, artista poliedrico e controverso, difficile da incasellare. Attore, regista, musicista e pittore, ha costruito attorno a sé l’immagine di un personaggio sopra le righe, in costante attrito con l’industria cinematografica e, a volte, persino con il proprio pubblico. Amato e detestato con la stessa intensità, è proprio con Buffalo '66 — film del 1998 che ha scritto, diretto, prodotto, montato, musicato e interpretato — che Gallo si è consacrato come figura di culto del cinema indipendente americano. Peccato che, dopo questo esordio folgorante, abbia fatto ben poco.

Il film vede come protagonista Billy Brown, interpretato dallo stesso Vincent Gallo, che esce di prigione dopo aver scontato una condanna per un crimine che non ha commesso. Per saldare un debito di gioco, avendo perso una scommessa sulla vittoria dei Buffalo Bills al Super Bowl, è stato costretto da un allibratore senza scrupoli (Mickey Rourke) a prendersi la colpa e trascorrere cinque anni di carcere al posto del vero colpevole. Tornato a Buffalo, la sua città natale, Billy, ragazzo disadattato e nevrotico, segnato da traumi e gravi carenze affettive, contatta i genitori, a cui aveva raccontato di essere stato via per lavoro, di avere una carriera brillante e una moglie. Quando la madre insiste al telefono per incontrare la "nuora", Billy, in preda al panico, rapisce d’istinto una giovane ballerina, Layla (Christina Ricci), trovata per caso in una scuola di danza, costringendola a fingersi sua moglie per la visita a casa dei suoi genitori — con i quali, peraltro, non ha alcun tipo di rapporto reale.
Il pranzo con la madre (Anjelica Huston) e il padre (Ben Gazzara) di Billy, rivela un ambiente familiare freddo e disfunzionale. La madre, ossessionata dai Buffalo Bills, sembra più interessata alla squadra di football che al figlio, mentre il padre si comporta in modo distante, ambiguo e vagamente molesto. Nonostante l’assurdità della situazione, Layla sceglie di restare con Billy anche dopo il pranzo, forse attratta da lui, forse mossa da un impulso empatico. I due trascorrono insieme il resto della giornata — tra una sala da bowling, un ristorante e un motel — mentre Billy cova in segreto un proposito di vendetta: uccidere il giocatore della squadra dei Buffalo, Scott Wood, colpevole secondo lui di aver sbagliato di proposito il calcio decisivo che lo ha rovinato. Ignara di tutto, Layla diventa il contrappunto gentile alla rabbia trattenuta di Billy, in un viaggio che oscilla tra amarezza, tenerezza e disperazione.

Buffalo '66 è una storia triste, malinconica e surreale. L’incontro tra due anime sole e sbandate, ambientato in una decadente provincia americana, che si consuma nell’arco di una singola giornata e si trasforma in un legame fragile e profondo, fatto di silenzi, gesti impacciati e desideri inespressi. È un film sgraziato, imperfetto, ma con un’enorme anima. Un’opera dalla bellezza sghemba, costruita su intuizioni visive personali e potenti. Vincent Gallo, al suo esordio, dal punto di vista tecnico e registico fornisce una grande prova giocando con pellicole invertite e formati inusuali che restituiscono una texture granulosa, desaturata e onirica. Le inquadrature statiche, simmetriche, spesso spiazzanti, contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa e rarefatta.
Pur non essendo dichiaratamente autobiografico, il film attinge a piene mani dalla vita di Vincent Gallo, trasformando la sua esperienza familiare e il suo disagio esistenziale nei fili della trama. Il Billy Brown interpretato da Gallo è uno schizofrenico trattenuto, figlio di due genitori anaffettivi, incapace di relazionarsi col mondo e con le donne. Vorrebbe amare, ma ha paura del contatto, del lasciarsi andare, della fiducia. Alterna crisi verbali nevrotiche a momenti di totale distanza emotiva. Come nella scena delle fototessere, dove il suo sguardo è completamente assente segnato da una profonda tristezza, oppure durante il surreale pranzo con i suoi genitori. Proprio quest'ultima scena è tra le più emblematiche del film, anche dal punto di vista registico. In un silenzio imbarazzante che a tratti diventa grottesco, si innestano flashback che raccontano l’infanzia di Billy. Il più straziante è forse quello in cui la madre gli offre dei dolcetti al cioccolato, mentre sullo schermo si apre un riquadro che mostra un flashback con il piccolo Billy con il volto gonfio, allergico proprio a quel cibo che la madre dovrebbe sapere gli fa male. 
Christina Ricci è semplicemente perfetta. La scena in cui balla il tip-tap sulle note eteree di Moonchild dei King Crimson, in una sala da bowling diventata improvvisamente deserta, è uno dei momenti più poetici e intensi del film. Ricci ha una bellezza dirompente e fuori dagli schemi, una specie di fata turchina curvy, goffa, sensuale e innocente allo stesso tempo. Una bellezza non omologata, più forte di qualsiasi retorica sull’inclusività. Il suo personaggio, Layla, di cui non sappiamo nulla, è uno specchio scomposto del protagonista. Anche lei probabilmente abbandonata, forse anch’essa in cerca di calore, si lascia trasportare in questo rapporto tossico senza mai sembrare davvero succube. C’è qualcosa in lei di teneramente squilibrato, come se la sindrome di Stoccolma si trasformasse in una forma pura, infantile, di amore incondizionato. È proprio la presenza della Ricci a dare luce e malinconia al film. I suoi silenzi, le frasi fuori luogo, gli sguardi pieni e stranianti. Rimane impressa nella memoria. Come quando, a tavola, cerca di conversare con la madre di Billy, interpretata da una glaciale e inquietante Anjelica Huston. O quando, più tardi, divide con Billy il letto di un motel in una scena sospesa tra imbarazzo, pudore e tenerezza.

Buffalo '66 è una storia d’amore assurda, astrusa, struggente e improbabile. Quasi impossibile credere che una ragazza possa accettare la violenza iniziale del protagonista, eppure il film lavora in una dimensione emotiva alternativa, dove il surreale prende il posto del plausibile. È un racconto di solitudini che si sfiorano, si riconoscono e, forse, si salvano a vicenda.
Da vecchio amante del prog-rock, oltre la già citata canzone dei King Crimson, non posso non ricordare anche Heart of the Sunrise degli Yes, che accompagna la sequenza finale nel locale a luci rosse, con i fermo immagine alla Matrix.

Sognante, poetico, a tratti angosciante, Buffalo '66 è un film profondamente malinconico, ma non disperato. Parla della fragilità, del disagio di chi si sente fuori posto in un mondo che lo ha respinto fin dall’inizio.
Un piccolo capolavoro indipendente che, ancora oggi, riesce a emozionarmi come la prima volta. Peccato che Vincent Gallo, dopo questo film, non si sia più davvero ripetuto.

Film
Drammatico
USA
1998
Retrospettiva
martedì, 6 maggio 2025
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Ash - Cenere mortale

di Flying Lotus

Flying Lotus, al secolo Steven Ellison, è un artista poliedrico tra i più visionari della scena contemporanea. Conosciuto soprattutto per la sua produzione musicale nel campo dell’hip hop sperimentale e dell’elettronica, Ellison ha sempre intrecciato suono e immagine, coltivando un forte legame con il linguaggio cinematografico. Dopo l’esordio dietro la macchina da presa con Kuso del 2017 e un episodio per V/H/S/99 nel 2022, torna alla regia con Ash, un horror fantascientifico che riscrive la paura nello spazio attraverso la lente distorta e allucinata del suo immaginario. Un film che fonde suggestioni videoludiche, di cui Ellison è un grande appassionato, con il retaggio di cult come Alien, Punto di non ritorno e La Cosa, trasformando l’omaggio in visione personale e contaminata.

Il film è ambientato su un pianeta remoto, noto come "Ash", dove un gruppo di giovani scienziati e ricercatori ha costruito una stazione spaziale per determinare se il luogo sia potenzialmente abitabile. Al suo risveglio, però, la protagonista Riya Ortiz (Eiza González) si ritrova circondata dai cadaveri dei suoi compagni di equipaggio, senza memoria degli eventi recenti e tormentata da visioni disturbanti e frammentarie. Mentre tenta di ricostruire l’accaduto, la stazione viene raggiunta da Brion Cargyle (Aaron Paul), un pilota solitario che sostiene di essere stato inviato in risposta a un segnale di soccorso. Costretti a collaborare per sopravvivere in un ambiente sempre più ostile e alienante, i due si troveranno immersi in un incubo in cui nulla è come sembra, dove la realtà si sfalda e il confine tra ciò che è umano e ciò che non lo è si fa sempre più sottile.

La storia si sviluppa in modo frammentato con la bella, ma poco convincente, protagonista che cerca di rimettere insieme i pezzi, guidata da flashback disturbanti e visioni psichedeliche. Alla fine il film risulta essere più allucinato che coinvolgente dove il montaggio frenetico e l’espediente dell’amnesia, più che alimentare il mistero, sembrano coprire le debolezze della sceneggiatura e abbassare la tensione.
Dal punto di vista visivo, Ash si svolge prevalentemente al buio, con un largo uso di luci colorate fluorescenti a intermittenza. Scelta stilistica affascinante, almeno per coloro che non sono fotosensibili. Flying Lotus– che compare brevemente in un flashback – non lesina sullo splatter e sul body horror, regalando nel finale un tripudio di deformazioni e mostri tentacolari che farebbe felice anche John Carpenter (e probabilmente anche qualche gamer nostalgico di Dead Space). Non essendo un grande intenditore di videogiochi, il film, sia per l'ambientazione che per la coloratissima fotografia mi ha ricordato Terrore nello spazio di Mario Bava. Un riferimento forse casuale ma che ho molto apprezzato. Bello anche il design delle tute spaziali, originale e visivamente efficace. La colonna sonora, ovviamente, è firmata dallo stesso Flying Lotus, che realizza un elettronica sospesa tra i synth cosmici di Vangelis e il minimalismo ipnotico del già citato Carpenter.

In conclusione, Ash è un film che intrattiene, visivamente interessante, e che rivela una sincera passione per la fantascienza videoludica e i B-movie vintage. Peccato che tutto questo amore finisca per strabordare, rendendo l’esperienza più derivativa che memorabile. Un bel trip, ma niente che non si sia già visto, e in alcuni casi, meglio.
Ash - Cenere mortale è attualmente disponibile su Prime Video.

Film
Fantascienza
Horror
USA
2025
domenica, 4 maggio 2025
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Il castello maledetto

di James Whale

Il castello maledetto, diretto da James Whale nel 1932 per la Universal, è un gioiello gotico mascherato da horror, in realtà più vicino a una commedia dallo spiccato humour nero. Nonostante il titolo italiano faccia pensare a torri e manieri infestati, il film si svolge in una vecchia casa isolata, abitata da personaggi grotteschi.

Durante una notte di tempesta, un gruppo di viaggiatori — una coppia sposata, il loro amico e un esploratore burbero — cerca rifugio in una magione sperduta tra le colline del Galles. L’abitazione appartiene ai Femm, una famiglia tanto decadente quanto bislacca, composta da un uomo e sua sorella, Horace e Rebecca Femm (Ernest Thesiger ed Eva Moore), il loro anziano padre Sir Roderick (Elspeth Dudgeon) e un domestico deforme, muto e ubriacone interpretato da Boris Karloff. Mentre la pioggia cade incessantemente e la luce va e viene, arrivano altri due ospiti inattesi a movimentare la serata. Inizialmente tutto sembra procedere per il meglio, ma con il calare delle tenebre, la casa rivela i suoi segreti.

Pur rifacendosi a Il castello degli spettri di Paul Leni, Il castello maledetto trova una sua identità costruendo un’atmosfera tanto gotica quanto grottesca. A colpire non sono tanto i brividi — che quasi non ci sono — quanto l’ambientazione: un temporale incessante, luci tremolanti, candele, ombre che si allungano sui muri e inquadrature oblique che sfiorano l’espressionismo. È un horror d’atmosfera più che di tensione, dove l’inquietudine si insinua silenziosa e non esplode mai davvero, lasciando spazio a un’ironia macabra e sottilissima.
James Whale si diverte a prendere in giro le regole classiche del genere horror, codificandole in uno stile visivo che negli anni a venire influenzerà registi come Mario Bava e Roger Corman, e ispirerà film cult come The Rocky Horror Picture Show, Frankenstein Junior e perfino La famiglia Addams (oltre al maggiordomo interpretato da Karloff che sembra un prototipo di Lurch, troviamo anche "mano"). Momenti come il monologo delirante di Rebecca Femm, riflessa e deformata dagli specchi, restano impressi più per il loro effetto straniante che per una reale tensione narrativa.

Accolto con freddezza alla sua uscita dal pubblico, il film fu apprezzato in Europa più abituato allo humor nero tipicamente britannico. Il Castello Maledetto fu a lungo considerato perduto, fino al suo ritrovamento e restauro nel 1968. Un piccolo classico poco conosciuto.
Di questo film esiste un remake realizzato nel 1963.

Film
Horror
Commedia
USA
1932
martedì, 22 aprile 2025
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Il paradosso del tempo

di Bernardo Britto

I viaggi nel tempo sono uno dei temi più affascinanti e ricorrenti del cinema di fantascienza. Tra paradossi, salti e loop temporali, questi film hanno la caratteristica che non hanno bisogno di particolari effetti speciali o budget eccessivi, ma soltanto di una buona idea e una sceneggiatura solida.

Tra le tante pellicole di questo genere si inserisce Il paradosso del tempo (Omni Loop), film americano del regista brasiliano Bernardo Britto, che dopo una carriera nel cortometraggio approda alla regia di un lungometraggio mainstream con una storia che mescola sci-fi, dramma e malinconia.

La trama ruota attorno a Zoya Lowe (Mary-Louise Parker), una fisica di mezza età affetta da una misteriosa condizione. I medici gli hanno diagnosticato la presenza di un "buco nero" nel petto e le hanno dato una settimana di vita. Quello che né la sua famiglia né i dottori sanno, però, è che alla fine di quei sette giorni – quando il sangue inizia a colarle dal naso, segnale della sua imminente fine – Zoya si chiude in bagno, ingoia una delle misteriose pillole trovate per caso da bambina, e torna indietro nel tempo di esattamente una settimana. Ogni ciclo ricomincia con il suo risveglio in ospedale, quando il medico la dimette per permetterle di trascorrere gli ultimi giorni con i suoi cari. Costretta a rivivere la stessa settimana migliaia di volte, Zoya si ritrova intrappolata in un loop estenuante. Esausta dalla ripetitività e dal senso di impotenza, decide di allontanarsi dalla cinica subito dopo il suo risveglio. Il fortuito incontro con Paula Campos (Ayo Edebiri), una giovane studentessa di fisica, gli permette di trovare un alleata per provare a studiare i i misteri dei viaggi nel tempo e capire se c'è il modo per interrompre questo ciclo… e forse, riappropriarsi della propria vita.

Il paradosso del tempo prende in prestito suggestioni da classici del genere – da Ricomincio da capo a Predestination, passando per Looper – ma utilizza il meccanismo del loop temporale, più che sulle dinamiche del viaggio nel tempo, per riflettere sull’inevitabilità della morte, il tempo che sprechiamo e gli affetti che trascuriamo. Il film, leggero e malinconico, parla di una donna che non cerca tanto di sfuggire alla fine quanto di fare pace con la propria vita. Mary-Louise Parker è molto brava e sostiene una narrazione che vuole essere toccante per un film mainstream da seconda serata. Se invece parliamo di fantascienza, ho trovato la sceneggiatura tutt'altro che convicente. Buchi logici, disordine narrativo, trovate poco riuscite e risibili – come il buco nero nel petto della protagonista e sopratutto l’uomo nanoscopico, un tizio che un esperimento quantistico sta facendo rimpicciolire all’interno di una scatola, la cui funziona a livello di trama rimane per me sconosciuta.
Un film che intrattiene, facendo leva sull'aspetto romantico, ma dimenticabile.

Film
Drammatico
Fantascienza
Viaggi nel tempo
USA
2024
domenica, 20 aprile 2025
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The Call of Cthulhu

di Andrew Leman

Fino a ieri ignoravo l'esistenza di questo film. Poi ho visto che se ne parlava su uno dei gruppi social dedicati al cinema che frequento e sono riuscito a recuperarlo su Mubi al seguente link.
Sto parlando di The Call of Cthulhu, la trasposizione cinematografica dell'omonimo racconto di H.P. Lovecraft scritto nel 1926. A firmarla è Andrew Leman, uno dei fondatori della H. P. Lovecraft Historical Society, associazione di appassionati che da più di vent’anni si diletta a relaborare in modo creativo le opere letterarie del solitario di Provvidence.

The Call of Cthulhu è un film indipendente del 2005 dalla durata di 47 minuti che, oltre a rispettare la storia e l'atmosfera del racconto originale, ha la pecularietà di essere stato realizzato come se si trattasse di un mediometraggio degli anni venti, quindi in bianco e nero, muto e con le didascalie tipiche dei film di quel periodo.

La storia è abbastanza nota è vede un uomo entrare in possesso di una serie di documenti lasciati dal defunto zio, professore di lingue antiche. Man mano che ne ricompone il contenuto, attraverso appunti, ritagli e testimonianze sparse, emerge un filo invisibile che collega culti oscuri, visioni disturbanti, e misteriose sparizioni legate al nome di Cthulhu.

The Call of Cthulhu è una piccola perla per appassionati, un atto d’amore verso Lovecraft e il cinema delle origini. Nonostante il budget ridotto, Leman, Sean Branney (lo sceneggiatore) e il resto del gruppo riescono a evocare un’atmosfera autenticamente lovecraftiana, sfruttando ogni limite come leva creativa. Ogni dettaglio – i titoli di testa, la musica sinfonica in sottofondo, i giochi d’ombra, le scenografie sbilenche tipiche dell'espressionismo tedesco, persino la stop-motion che dà vita a Cthulhu –  contribuiscono alla costruzione di un film che sembra arrivare da un’altra epoca, per riproporre con estrema fedeltà l'immaginario disturbante di Lovecraft.

Imperdibile per tutti gli appassionati dei miti di Cthulhu.

Film
Horror
H.P. Lovecrat
USA
2005
sabato, 19 aprile 2025
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La mummia

di Karl Freund

All’inizio degli anni trenta, il successo di Dracula e Frankenstein spinse la Universal a investire con decisione nel genere horror. Affascinato dal mistero dell’antico Egitto e dalle scoperte nella tomba di Tutankhamon, il produttore Carl Laemmle Jr. volle un film che unisse archeologia e terrore. Non trovando un’opera letteraria da adattare – com’era stato per i precedenti mostri – affidò allo sceneggiatore John Balderston lo sviluppo di un soggetto originale, partendo da un breve racconto ispirato alla figura di Cagliostro, reinterpretato come un antico stregone capace di vivere per millenni. Nacque così La mummia, affidato alla regia di Karl Freund, celebre direttore della fotografia che aveva già messo mano (più di quanto ufficialmente ammesso) a Dracula.
Per il ruolo del protagonista, la scelta cadde naturalmente su Boris Karloff, ancora fresco di successo – e di bulloni nel collo – dopo il ruolo del mostro di Frankenstein.

La trama vede una spedizione archeologica risvegliare accidentalmente la mummia di Imhotep, sacerdote dell’antico Egitto condannato a un’eternità di non-morte per aver cercato di riportare in vita la sua amata principessa. Riapparso dieci anni dopo sotto le spoglie dell’enigmatico Ardath Bey, Imhotep cerca di ritrovare l’anima della sua amata, ora reincarnata nella giovane Helen. Ma per completare il rituale, sarà necessario un nuovo sacrificio. Tra antichi papiri, ipnosi e atmosfere cariche di fatalismo, prende forma una storia di amore ossessivo, reincarnazione e destino.

Una storia più fantastica che orrorifica, molto meno provocatoria delle precedenti produzioni della Universal. Sicuramente la meno riuscita. La regia di Karl Freund è elegante ma statica, e tolta l’ottima sequenza iniziale, l’orrore evapora in favore di un melodramma esoterico poco coinvolgente. Boris Karloff regge il film con la sola forza del volto – scolpito nel tempo e nel trucco leggendario di Jack Pierce – ma il personaggio resta intrappolato in una sceneggiatura che non decolla.
Il ritmo è lento, i dialoghi rigidi, e il finale troppo frettoloso per lasciare il segno. La mummia resta una tappa obbligata per gli amanti del genere, ma più come reliquia da vedere e poi lasciare riposare nella sua cripta.

Film
Fantastico
Horror
USA
1932
domenica, 13 aprile 2025
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Un film Minecraft

di Jared Hess

Fino all'ultimo sono stato tentato di lasciar perdere. Ma visto che da un paio d’anni mi diverto a scrivere le mie impressioni sui film che vedo, mi sembrava una forma di snobismo ignorare un titolo che, seppur fuori dalle mie corde, ho visto al cinema per accontentare mio figlio, che ci teneva tanto.

Il film in questione è l’adattamento del celebre videogioco Minecraft. Non sono mai stato un grande appassionato di videogiochi, e di Minecraft so solo che è quel gioco dove si costruiscono mondi partendo da semplici mattoncini virtuali.

La trama, se così si può chiamare, è la seguente. Due fratelli, un ex campione di videogiochi (Jason Momoa), e una agente immobiliare trovano un misterioso artefatto luminoso – un cubo che viene chiamato sfera, non so perchè – che consente di aprire un portale per accedere al mondo di Minecraft. I quattro si ritrovano in una dimensione fatta a blocchetti dove vengono immediatamente attaccati dagli zombie e salvati da Steve (Jack Black). Da lì parte un’avventura tra fughe, battaglie e gag, tutte rigorosamente al di sotto dei dodici anni, per impedire alla cattivissima regina Malgosha di impadronirsi della Sfera-Cubo e dominare Minecraft. Naturalmente. 

Il film è davvero brutto. Ma non perchè sia un film commerciale fatto per bambini e adolescenti. Anche quelli della Pixar o della DreamWorks lo sono, ma riescono comunque a emozionare tutte le età. No, il problema è che questo film è semplicemente fatto male. Brutto con convinzione. Con una storia scialba fatta di cliché pescati a casaccio, personaggi piatti, recitazioni esagerate, e una pioggia di gag infantili lanciate come coriandoli, sperando che qualcuna faccia ridere. Spoiler: non succede.
Anche dal punto di vista tecnico, la resa grafica e gli effetti speciali sono sempre quelli, fatti con lo stampino. Magari non conoscendo bene il gioco mi sono perso qualche riferimento geniale, ma la sensazione generale è quella di aver assistito a un film stupido scritto apposta per i teenager di TikTok.

Mio figlio di sette anni si è divertito. E tanto. Rideva, si agitava, mi guardava felice. Ed è per lui che l’ho visto. Quindi, a conti fatti, il prezzo del biglietto è stato ben speso.

Ma se dovessero farne un sequel… questa volta, ci va sua madre.

Film
Azione
Fantastico
USA
2025
Cinema
venerdì, 11 aprile 2025
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Fall

di Scott Mann

È da un po' che avevo puntato questo film, aspettavo solo il momento adatto per vedere questo thriller ansiolitico poco adatto a chi soffre di vertigini.  Per fortuna, la paura dell’altezza non figura tra i primi posti nella classifica delle mie fobie preferite – le mie sono altre e legate ad altri titoli – ma chi non ha mai avuto un momento di crisi esistenziale in cima a un trampolino, su una torre panoramica o peggio, in fila per le montagne russe fingendo entusiasmo mentre ti domandi perché non hai scelto di rimare a casa a guardare la partita.

Uscito nel 2022 e diretto da Scott Mann, Fall è un survival movie che punta tutto sull'idea, tanto semplice quanto efficace, di trovarsi su una torre altissima, con il vuoto sotto e il panico dentro. La storia vede come protagoniste Becky (Grace Currey) e Hunter (Virginia Gardner), due amiche legate dall’adrenalina e da un passato traumatico. Durante una scalata in montagna, Becky ha visto precipitare nel vuoto suo marito Dan – di cui era follemente innamorata – e da quel momento ha perso la fiducia in sé stessa e la voglia di andare avanti. A distanza di un anno dalla tragedia, Hunter, influencer spericolata e arrampicatrice seriale di torri, le propone una terapia d’urto, scalare una torre a traliccio abbandonata nel bel mezzo del nulla, alta oltre 600 metri. Proprio un’ottima idea per superare un trauma. A trovarne di amici del genere.
Le due ragazze, armate di GoPro, battutine da Instagram e incoscienza, si arrampicano fino alla cima… ma ovviamente qualcosa va storto. Molto storto. E quando la scala cede e si ritrovano bloccate lassù, con zero segnale, poca acqua e nessuna via di discesa, l’unica cosa che resta da fare è sopravvivere. E possibilmente non diventare cibo per avvoltoi.

Conoscendo la storia, quando, dopo poco più di una ventina di minuti, le due ragazze si ritrovano sulla cima della torre senza la possibilità di scendere, mi sono chiesto come il regista avrebbe gestito il resto del film senza cadere nella trappola della monotonia e nella sequenza di tentativi disperati di sopravvivenza. Se accettate la premessa del film – quella di mantenerci per un'ora abbondante sospesi su un traliccio arrugginito, cercando di alzare costantemente il livello di agitazione e introdurre un colpo di scena dopo l'altro – allora Fall riesce nel suo intento. Accompagnato da un ottima colonna sonora, il film mantiene alta la tensione sfruttando l'isolamento delle protagoniste per trasformarlo in una continua lotta per la loro sopravvivenza non solo fisica, ma anche psicologica (il trauma del dolore, la continua sfida con se stessi, segreti rivelati). Dal punto di vista tecnico, sebbene Fall utilizzi il green screen, le scene in cima alla torre sono state effettivamente girate a circa 30 metri di altezza, dando al tutto una sensazione di realismo che amplifica il panico delle protagoniste. 

Per chi ama il genere e non ha grosse pretese se non quello di assistere a un thriller adreanalinico ad alta quota, Fall è un film riuscito dall'ansia garantita.

Film
Azione
Thriller
USA
2022
giovedì, 10 aprile 2025
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Opus - Venera la tua stella

di Mark Anthony Green

Opus, thriller psicologico targato A24 e debutto alla regia di Mark Anthony Green, è un film che affronta il potere della celebrità e l'influenza dei nuovi mezzi di comunicazione. "Venera la tua stella" è il sottotitolo "appiccicato" dai distributori italiani, sempre più convinti che l'italiano medio abbia bisogno di un indizio sulla trama prima ancora di sedersi in sala.

La storia ruota attorno a Alfred Moretti (John Malkovich), leggendaria pop star degli anni '90 che, dopo trent’anni di silenzio, annuncia il suo ritorno sulla scena con un nuovo album. Per l'occasione, Moretti invita Ariel Ecton (Ayo Edebiri), una giovane ed emergente giornalista musicale, insieme a un gruppo selezionatissimo di giornalisti, influencer e addetti ai lavori, a una listening session esclusiva, organizzata nella sua villa blindata nascosta tra le colline californiane. Al suo arrivo, Ariel e gli altri sono costretti a consegnare i cellulari e ogni dispostivo tecnologico, ritrovandosi in un ambiente surreale, circondata da un gruppo di devoti seguaci di Moretti, che si comportano come membri di una setta. Subito si capisce che qualcosa non torna. L’atmosfera si fa sempre più tesa, le dinamiche tra i presenti assumono contorni strani e inquietanti, e la sparizione improvvisa di uno degli ospiti mette in luce il lato oscuro e diabolico del piano orchestrato da Moretti.

"Opus" è un film tecnicamente realizzato bene, nulla da dire, ma fin dalle prime inquadrature si intuisce la piega che prenderanno gli eventi, anche perché si tratta ormai di uno schema narrativo ampiamente utilizzato in altri titoli del genere. Mi vengono in mente Midsommar della stessa A24, Get Out, The Sacrament e persino Willy Wonka. C'è un un misterioso genio eccentrico adorato dalla sua setta e delle vittime predestinate pronte a essere sacrificate, quindi nulla di particolarmente originale. Un film che unisce il thriller, l'horror e il musical, e che, con toni surreali e grotteschi, racconta di divismo e culto di massa, accusando il mondo dei media – lo stesso mondo di cui Green è figlio, essendo stato a lungo direttore di una rivista di moda – che privilegia gli individui talentuosi a scapito della gente comune. John Malkovich offre un'interpretazione magnetica ed eccentrica ma francamente, faccio proprio fatica a vederlo nei panni di una pop star decaduta capace di esibirsi in tuta spaziale con movenze sexy, e paragonarsi a Michelangelo (sì, proprio quello della Cappella Sistina) nel presentare il suo ultimo album composto da preconfezionate canzonette pop da classifica realizzate appositamente per l’occasione da Nile Rodgers e The-Dream – un genere che, devo ammettere, non è esattamente di mio gusto. Il film si risolleva nel finale – interessante che il libro denuncia non faccia altro che alimentare l'idolo alle masse  – ma complessivamente mi ha lasciato la sensazione di un film che avrebbe potuto osare di più. Non annoia ma nulla di memorabile.

Film
Thriller
Drammatico
USA
2025
sabato, 5 aprile 2025
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Il colore venuto dallo spazio

di Richard Stanley

Recentemente mi è capitato di leggere una lista degli horror preferiti da Trent Reznor – la mente dietro i Nine Inch Nails – e tra i titoli spiccava Il colore venuto dallo spazio. Strano a dirsi, ma era uno dei pochi della lista che non avevo ancora visto. Incuriosito, me lo sono subito recuperato.

Il film è diretto da Richard Stanley, nome che forse ai più suonerà vago, ma che nei primi anni novanta ha firmato due chicche di fantascienza a basso budget considerate dei cult dagli amanti del genere: Hardware, un cyberpunk post-apocalittico alquanto sperimentale, e Demoniaca, un road movie horror ambientato in Sudafrica. Dopo un lungo esilio dai set (complice il disastro produttivo de L'isola del dottor Moreau), Stanley torna dietro la macchina da presa nel 2019 adattando per il cinema l’omonimo racconto di H.P. Lovecraft, uno dei più evocativi e indecifrabili della sua intera produzione.

Nathan Gardner (Nicolas Cage) si è trasferito con la famiglia nella campagna del New England per iniziare una nuova vita, lontano dal caos urbano. La loro tranquillità viene però spezzata dall’impatto di un misterioso meteorite nel terreno vicino casa. Da quel momento, le piante assumono colori innaturali, gli animali mutano e le persone iniziano a comportarsi in modo sempre più strano. Una forza aliena, imperscrutabile e invisibile, sembra insinuarsi lentamente nella materia stessa delle cose. Un colore che non dovrebbe esistere sta trasformando la realtà.

Trasporre Lovecraft al cinema è da sempre un’impresa disperata. Il suo orrore è cosmico, sfuggente, basato sull’indecifrabile. Eppure, Il colore venuto dallo spazio riesce – pur con qualche inciampo – a catturare un senso di smarrimento e contaminazione che su schermo funziona sorprendentemente bene. Stanley imbastisce un’ambientazione familiare in una casa isolata nel bosco, dove tutto viene lentamente corrotto da un elemento che non si riesce a nominare, né a comprendere. La scelta di usare un’esplosione cromatica digitale per rappresentare l’entità aliena è audace e forse non sempre elegante, ma rende bene l’idea di una presenza che non appartiene al nostro spettro percettivo.
Nicolas Cage, va detto, non è mai stato tra i miei attori preferiti. Qui però trova terreno fertile per la sua ormai tipica recitazione sopra le righe, che si sposa bene con l’andamento delirante della storia. La sua discesa nella follia – tra urla, occhi spiritati e crisi isteriche – diventa paradossalmente uno degli elementi più coerenti del film.
Non credo di essere il solo ad aver trovato un forte parallelismo con Annihilation di Alex Garland. Anche lì c’è una forza aliena che altera la genetica, lo spazio e la percezione, trasformando il paesaggio in qualcosa di bellissimo e mostruoso. Ma dove Garland resta più cerebrale, Stanley affonda nel viscerale, prendendo una deriva body horror, soprattutto nella seconda parte, parecchio più esplicita e delirante.
Ci sono momenti in cui il film sembra perdersi nel proprio trip psichedelico, e non tutto funziona (sia nella trama che negli effetti speciali, un po’ grezzi), ma la sensazione di spaesamento, l’atmosfera di minaccia invisibile e quel finale opprimente e straniante – che ritrae la lenta dissoluzione dei protagonisti – lo rendono, alla fine, abbastanza convincente.

Non un film perfetto, nulla di memorabile, ma rimane una delle trasposizioni lovecraftiane più interessanti.

Film
Fantascienza
Horror
H.P. Lovecrat
USA
2019
venerdì, 4 aprile 2025
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Freaks

di Tod Browning

"Disturbante" è un aggettivo abusato, lo so. Ma, onestamente, faccio fatica a trovarne uno più calzante per descrivere Freaks, il cult maledetto del 1932 firmato da Tod Browning. Al giorno d'oggi, dove il politicamente corretto trasforma Biancaneve in una impavida e cazzuta principessa che vive con sette coinquilini dalle abilità differenti, un film del genere, interpretato da veri fenomeni da baraccone, sarebbe impensabile.

La genesi del film è abbastanza nota agli appassionati. Reduce dal grande successo di Dracula, Browning venne contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per dirigere un horror e mettersi al passo con un genere che stava sbancando al botteghino. Ma invece di vampiri eleganti o cadaveri rianimati, Browning – che conosceva bene il mondo del circo, avendoci lavorato da giovane – decise di adattare un racconto breve di Tod Robbins, Spurs, e trasformarlo in un incubo umano, grottesco e crudele, ancora oggi impossibile da dimenticare.

La storia è ambientata in un circo itinerante dove si esibiscono i cosiddetti freaks, uomini e donne affetti da nanismo, malformazioni congenite, e deformità fisiche che li rendono oggetto di curiosità e repulsione. Hans, un uomo affetto da nanismo, è perdutamente innamorato della bella trapezista Cleopatra, alta, sinuosa e letale. La donna, approfittando della sua ingenuità, lo seduce per mettere le mani sulla sua eredità, con l’aiuto del suo amante, l’aitante forzuto Hercules. Ma tra i “mostri” del circo vige un codice non scritto: chi tocca uno di loro, tocca tutti. E quando la verità viene a galla, la vendetta arriva rapida, spietata, inarrestabile.

Sia durante le riprese che all’arrivo nei cinema, Freaks incontrò non pochi ostacoli. La presenza di veri fenomeni da baraccone e l’audacia con cui Browning li mostrava – senza filtri, senza pietà, ma anche senza derisione – generarono sconcerto, polemiche e un’ondata di rifiuto da parte del pubblico e della critica. La produzione tagliò le scene ritenute più sconvolgenti (la versione originale finiva con una scena di castrazione e mutilazione) nel tentativo di renderlo più digeribile. Ciononostante, il film fu un flop disastroso. La visione venne vietata in numerosi paesi europei, la Metro-Goldwyn-Mayer lo ritirò dalle sale dopo poche settimane, e Tod Browning non si riprese mai del tutto facendo fatica a trovare lavoro negli anni successivi.
Freaks è un pugno nello stomaco travestito da film horror. Ma il vero orrore non è nei corpi deformi dei suoi protagonisti, bensì nello sguardo degli "altri", nei sorrisi falsi, nella cattiveria borghese che giudica e schiaccia ciò che non comprende. Browning ribalta la prospettiva: i freaks, gli emarginati, sono gli unici a possedere una morale, una coerenza, una forma di purezza. I veri mostri sono gli "apparentemente normali", con i loro sorrisi da pubblicità e i loro cuori di piombo. L’atmosfera del circo è inquietante, satura di un’umanità deformata ma reale, fragile, tenera e crudele. Quando arriva la vendetta finale – in una notte di pioggia e fango, con i freaks che strisciano sotto i tendoni come un’orda primordiale – il film cambia volto. Non è più un melodramma bizzarro ma diventa un incubo morale.

Oggi è un film di culto, amato da registi, critici, outsider. È un’opera che ha il coraggio di non rassicurare, di non abbellire, di non mentire. In un’epoca che finge inclusività ma censura il reale, Freaks resta uno film ruvido, spietato ma sincero. 

Film
Drammatico
Grottesco
USA
1932
Retrospettiva
mercoledì, 2 aprile 2025
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The Monkey

di Oz Perkins

Avendo visto i precedenti film di Oz Perkins, la domanda sporge spontanea. Cosa ha spinto un regista da sempre votato a un terrore sottile e visivamente accennato, che ha costruito il suo stile su atmosfere rarefatte e cupe, a cimentarsi con un horror comedy splatteroso che sfiora la parodia? 

Ispirato a un racconto breve di Stephen King e prodotto dall'Atomic Monsters di James Wan, The Monkey racconta la storia di Hal e Bill, due fratelli gemelli (entrambi interpretati da Theo James) segnati dall’abbandono del padre e da una madre cinica e alcolizzata. Il loro rapporto è tutt’altro che idilliaco. Bill è il fratello dominante, che non perde occasione per bullizzare il più timido Hal, alimentando il suo rancore. Un giorno, i due trovano in soffitta un’inquietante scimmietta giocattolo appartenuta al padre. Basta girare la chiave per attivare un meccanismo infernale: la scimmia digrigna i denti, solleva il braccio e colpisce il suo tamburo provocando la morte violenta e inspiegabile di qualcuno nelle vicinanze. Non fa distinzioni, non accetta richieste. Decide lei chi, quando e come. I due ragazzi cercano disperatamente di sbarazzarsene, ma la scimmia continua a tornare, come se nulla fosse. Venticinque anni dopo, quando ormai sembrava solo un ricordo sepolto nel passato, l'oggetto maledetto riappare, costringendo Hal, ora padre di famiglia, a cercare di distruggerlo una volta per tutte.

Abbandonando la seriosità dei suoi film precedenti, Oz Perkins decide di non prendersi troppo sul serio, realizzando un horror dal tono grottesco, in cui l’umorismo macabro si mescola a un destino ineluttabile. Le morti si susseguono una dopo l'altra - è inevitabile non pensare a Final Destination - in modo del tutto casuale e con un buon grado di gore, senza però mai strafare. La volontà è quella di strappare la risata piuttosto che cercare di provocare disgusto.

E quindi, tornando alla domanda iniziale: perché questo cambio di rotta così marcato da parte del regista di Longlegs e Gretel e Hansel? La risposta potrebbe essere duplice. Da un lato, The Monkey sembra il tentativo di Perkins di dimostrare il proprio eclettismo, la capacità di muoversi con disinvoltura da un registro all’altro. Dall’altro, potrebbe aver colto l’occasione per destrutturare il genere stesso, prenderlo un po’ in giro, e usare l’umorismo nero come strumento per esorcizzare l’inevitabilità della morte.
E come ignorare il vissuto personale del regista? Il padre, Norman Bates, morì di AIDS quando Oz aveva solo diciotto anni, mentre la madre perse la vita nove anni dopo, a bordo di uno degli aerei dirottati andatosi a schiantare nell'attentato delle torri gemelle. Il regista trasforma questa fragilità esistenziale in una narrazione che, pur apparendo leggera e sopra le righe, nasconde un sottotesto malinconico. In fondo, qualunque cosa facciamo, siamo tutti destinati a morire.

The Monkey è una commedia nera, cinica e spietata. Un film che va fuori i binari prestabiliti, diverte, ha un buon ritmo, e tante scene con morti assurde, cruenti ed esileranti (la ragazza che esplode tuffandosi in una piscina elettrificata, un giovanotto che ingerisce uno sciame di vespe, il campeggiatore investito da una mandria di cavalli). Non è certo il miglior film di Perkins, ma dimostra la sua capacità di adattarsi anche a prodotti più commerciali senza tradire del tutto la sua identità di regista indipendente. Perfetto per chi cerca un horror leggero ma intelligente, capace di far sorridere mentre riflette sull’imprevedibilità della vita… e della morte.

Film
Horror
USA
2025
venerdì, 28 marzo 2025
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The Conjuring - L'Evocazione

di James Wan

James Wan non è mai stato un regista che mi appassiona più di tanto. Il suo nome è legato principalmente a Saw (di cui ha diretto il primo capitolo), e diversi horror di facile consumo fatti di jumpscare ben realizzati, un estetica da manuale e un’estrema pulizia visiva. Un regista che conosce il mestiere, ha capito cosa vuole il pubblico e sa come offrirglielo, ma il cui cinema sembra più attento al confezionamento che alla sostanza.

The Conjuring del 2013 rappresenta la sintesi perfetta delle sue abilità e dei suoi limiti, un film che prende il gotico classico, lo aggiorna con una regia moderna e lo arricchisce di jumpscare perfettamente calcolati. Il risultato è un film elegante nella messa in scena, efficace nell’intrattenimento, ma che difficilmente lascia il segno.

Il film (distribuito in Italia con il sottotitolo L'Evocazione) si basa su una delle tante indagini condotte da Ed e Lorraine Warren, celebri demonologi e studiosi del paranormale, il cui archivio di presunti casi reali ha ispirato numerosi film, tra cui il più famoso Amityville Horror.

La vicenda segue la famiglia Perron, che nel 1971 si trasferisce in una casa di campagna nel Rhode Island, ignara del male che vi si annida. Quando eventi inspiegabili iniziano a tormentare i due coniugi e le loro cinque figlie, Carolyn Perron (Lili Taylor) si rivolge agli investigatori del paranormale Ed e Lorraine Warren (Patrick Wilson e Vera Farmiga). La coppia di demonologi scopre che la casa è infestata dallo spirito di una strega, Bathsheba, e che l’entità sta prendendo il controllo di Carolyn. Mentre la possessione si intensifica, i Warren devono affrontare il male in una lotta contro il tempo per salvare la famiglia.

The Conjuring è un film che fa esattamente quello che promette. Spaventa, intrattiene e confeziona un’esperienza horror accessibile a un pubblico ampio. Wan costruisce la tensione con un ritmo perfettamente studiato, giocando con movimenti di macchina fluidi, suoni diegetici e un uso calibrato del silenzio per amplificare l’effetto degli spaventi. Ogni jumpscare è progettato con precisione matematica, e il risultato è un horror che funziona come una giostra dell'orrore. Nonostante il film sia pieno zeppo di cliché – dai battiti insistenti sulle pareti al gioco del battimani, dal carillon inquietante alla bambola posseduta – la regia attenta e il montaggio chirurgico riescono comunque a far sobbalzare lo spettatore meno smaliziato. Sul piano visivo, il film richiama il cinema gotico con le sue case scricchiolanti, le ombre minacciose e una fotografia dalle tonalità desaturate.

Rivedendolo oggi, The Conjuring si conferma un horror costruito con grande mestiere, curato nella regia e impeccabile sul piano tecnico. Funziona nell’immediato, con una tensione ben calibrata e momenti di puro spavento, ma, almeno per me, manca di quel senso di inquietudine duraturo che distingue gli horror più incisivi. Ovviamente il film ha incassato milioni, conquistato il pubblico e dato il via a un’intera saga fatta di sequel e spin-off, segno che Wan ha saputo intercettare esattamente ciò che gli spettatori volevano.

Film
Horror
Possessione demoniaca
USA
2013
Retrospettiva
venerdì, 21 marzo 2025
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Mickey 17

di Bong Joon-ho

Soltamente prima di andare al cinema evito di leggere recensioni e discussioni sul film che sto per andare a vedere. A volte però i social te le sparano addosso a tradimento. Così, mentre cercavo di tenermi fuori dal turbine di opinioni su Mickey 17, già sapevo che il film aveva diviso gli spettatori tra chi lo ha esaltato e chi lo ha trovato una mezza delusione.
Dopo il successo mondiale di Parasite, Bong Joon-ho torna a Hollywood, e con un budget bello gonfio e un cast di prima categoria, porta sullo schermo Mickey 17, adattamento del romanzo Mickey7 di Edward Ashton. Un film di fantascienza travestito da blockbuster d’autore, che gioca con commedia, ironia e satira sociale per raccontare – tra cloni, colonizzatori spaziali e lavoratori sacrificabili – un’umanità sempre più rassegnata a farsi trascinare verso il baratro da chi detiene il potere.

Siamo nel 2054 e la Terra è ormai un relitto alla deriva. Mickey Barnes (Robert Pattinson), indebitato fino al collo con uno strozzino dal gusto discutibile per le motoseghe, decide di fuggire e imbarcarsi su una spedizione coloniale verso Niflheim, un pianeta gelido e ostile. Per ottenere il biglietto d’imbarco firma un contratto senza badare troppo alle clausole, accettando di diventare un Sacrificabile, un lavoratore usa e getta, spedito a morire in missioni suicide o usato come cavia per esperimenti, per poi essere "ristampato" grazie a una tecnologia che genera un suo clone con ricordi e personalità quasi intatti.
Mickey muore. Poi muore di nuovo. E ancora. Fino alla sua diciassettesima versione. Ma a un certo punto qualcosa va storto.  Durante una missione in cui viene mandato in avanscoperta per catturare uno degli striscianti, le creature indigene del pianeta, sopravvive, ma viene dato per morto. Quando riesce a tornare alla base, scopre che nel frattempo è già stato "sostituito" da un altro suo clone, Mickey 18, trovandolo ben sistemato nella sua camera a fare amicizia con Nasha (Naomi Ackie), la sua compagna, l’unica che lo abbia mai trattato da essere umano. Ma questo non è l'unco problema. Più copie dello stesso individuo, i multipli, non sono tollerati e il governatore della spedizione Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), che insieme alla moglie Ylfa (Toni Collette), ha già abbastanza grane tra alieni ostili e coloni irrequieti, decide di eliminare tutti i Mickey.

Bong Joon-ho si diverte, come sempre, a mescolare i generi. Commedia grottesca, dramma esistenziale e satira feroce si intrecciano in una narrazione che, almeno nella prima parte, funziona alla grande. Il regista tratteggia un mondo in cui il capitalismo ha ridotto la vita umana a una risorsa sacrificabile, un ingranaggio da sostituire senza troppi scrupoli, e dove colonialismo e sfruttamento vengono spacciati per progresso e necessità di sopravvivenza. Il film scorre con un ritmo brillante, alternando momenti surreali ed esilaranti che ricordano la distopia grottesca di Terry Gilliam.
Robert Pattinson, ormai lontano anni luce dai tempi di Twilight, regala un'interpretazione sfaccettata. Il suo Mickey 17, remissivo e rassegnato, è nettamente distinto dal più inquieto e ribelle Mickey 18, grazie a un lavoro sottile su postura, espressioni e tono di voce. Accanto a lui, Mark Ruffalo si diverte nei panni di un governatore che sembra un incrocio tra Elon Musk e Donald Trump, mentre Toni Collette, manipolatrice e ossessionata dalle salse, completa il quadro con un personaggio tanto grottesco quanto inquietante.
Se l’inizio promette riflessioni su bioetica, identità e il valore stesso della vita, nella seconda parte il film si fa più prevedibile, lasciando più spazio all’azione e a una messa in scena da blockbuster. L’elemento satirico si fa meno incisivo e la trama segue binari più convenzionali, finendo per somigliare più a una parodia di Starship Troopers e Atto di Forza, con una spettacolarità che, alla lunga, si fa un po più ripetitiva.

Mickey 17 è un film ambizioso, con spunti geniali e momenti di autentico cinema, ma che alla fine non osa fino in fondo. Rimane il piacere di vedere Bong Joon-ho giocare con i generi, ma resta anche la sensazione che avrebbe potuto spingersi oltre invece di lasciarsi sedurre dalla spettacolarità. Un film interessante, ma non del tutto riuscito.

Film
Fantascienza
USA
2025
Cinema
mercoledì, 19 marzo 2025
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Il dottor Jekyll (1931)

di Rouben Mamoulian

Il 1931 non è solo l’anno in cui la Universal dà il via al filone dei Monster Movie con Dracula e Frankenstein, ma anche quello in cui la Paramount produce Il dottor Jekyll (Dr. Jekyll & Mr. Hyde), uno degli horrror più interessanti e innovativi del periodo. Ispirato al celebre racconto di Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, il film diretto Rouben Mamoulian è noto per aver aperto la prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia ed essere il primo horror a vincere un Oscar.

Il dottor Henry Jekyll (Fredric March) è un brillante scienziato londinese, convinto che l’animo umano sia diviso tra bene e male. Determinato a dimostrare la sua teoria, sviluppa un siero capace di separare queste due nature, trasformandolo nel crudele e animalesco Edward Hyde. Inizialmente, Jekyll crede di poter controllare il suo alter ego, ma Hyde inizia a manifestarsi sempre più spesso, rivelando una violenza crescente. Mentre il rispettabile Jekyll è devoto alla sua fidanzata (Rose Hobart), il feroce Hyde si accanisce su Ivy Pearson (Miriam Hopkins), una giovane prostituta che aveva salvato da un’aggressione prima ancora della sua metamorfosi. Con il passare del tempo, la linea tra scienziato e mostro si assottiglia sempre di più, trascinando Jekyll in un vortice di orrore e distruzione che lo condurrà a un tragico epilogo.

Il film di Mamoulian è un’opera visivamente straordinaria, che si distacca notevolmente dalle altre pellicole dell’epoca per la sua messa in scena. Basti pensare alla lunga sequenza iniziale con la soggettiva di Jekyll, che culmina con la sua immagine nello specchio, per comprendere sia la bravura tecnica del regista che la sua volontà di coinvolgere lo spettatore, anticipando il tema centrale dell’identità e del doppio. Notevoli anche la fotografia e le scenografie espressioniste nei vicoli notturni di Londra. La trasformazione di Jekyll in Hyde, realizzata con transizioni, dissolvenze fluide e un ingegnoso gioco di filtri cromatici e luci (un effetto speciale che Mario Bava riproporrà ne La maschera del Demonio), resta una delle più impressionanti dell’epoca. Fredric March, che per questo film vince l'Oscar come miglior attore protagonista, ci regala una magistrale interpretazione. Il suo Jekyll è un uomo tormentato, affascinante e razionale, mentre il suo Hyde è un essere dall’aspetto scimmiesco, dotato di forza sovrumana, agilità e risata diabolica, governato da istinti primordiali e impulsi sessuali. 
Ed è proprio la sessualità uno dei temi dominanti nel film di Mamoulian. Prodotto poco prima dell’entrata in vigore del Codice Hays, Il dottor Jekyll affronta senza troppi filtri il desiderio represso e le conseguenze della sua liberazione incontrollata. Jekyll, uomo rispettabile e devoto alla fidanzata Muriel, è frustrato dall'attesa del matrimonio, mentre Hyde, che incarna la sua parte più istintiva e violenta, libera la sua sessualità repressa su Ivy Pearson, specchio della fragilità e dell’ipocrisia del protagonista, trasformandola in un oggetto di dominio e sopraffazione. La scena in cui Ivy Pearson cerca di sedurre Jekyll è ancora oggi carica di tensione erotica, mentre quella in cui Hyde costringe Ivy a sedersi sulle sue ginocchia e la accarezza mentre lei, visibilmente terrorizzata, cerca di mantenere un sorriso, continua a disturbare con la stessa intensità. Sono queste le scene tagliate dal codice censorio quando il film fu rieditato nel 1936. Fortunatamente, queste sequenze furono poi reinserite nelle edizioni home video.

Il dottor Jekyll di Mamoulian resta uno dei migliori adattamenti della storia del cinema. Un film elegante, terrificante e modernissimo per il suo tempo, che trasforma la storia di Stevenson in un incubo espressionista di identità frantumate. 

Film
Horror
USA
1931
lunedì, 17 marzo 2025
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The House of the Devil

di Ti West

Sono passati anni da quando, facendo zapping a tarda notte, mi imbattevo per caso in un vecchio film dell'orrore trasmesso su qualche canale locale. Erano altri tempi, quando la televisione ti poteva regalare film che ti catturavano inaspettatamente. Oggi, tra streaming e canali tematici, il mistero di quell’esperienza è andata perduta. Eppure, se per un qualche scherzo del destino mi ritrovassi solo in una casa sconosciuta, con un vecchio televisore a tubo catodico e facendo zapping apparisse The House of the Devil senza sapere nulla… sarei convinto di stare guardando un film horror degli anni ’70.

Ti West è un regista visceralmente legato al cinema dell’orrore, e lo dimostrerà ulteriormente con la trilogia X, diventata un cult per gli amanti del genere, ma già con questo film del 2009 si percepisce il suo amore per un certo tipo di estetica e narrazione decisamente retrò. Girato in 16 mm per ottenere la grana tipica delle pellicole d'epoca, il film adotta scelte registiche che richiamano le produzioni horror di serie B dei primi anni ’80, tanto da risultare indistinguibile da un vero slasher d’epoca. Zoom al posto dei moderni carrelli, titoli di testa gialli con fermo immagine, dissolvenze fuori moda, titoli di coda che scorrono sull’ultima inquadratura fissa. The House of the Devil non si limita a citare il passato, ma lo riporta in vita con una dedizione quasi filologica.

Samantha (Jocelin Donahue) è una studentessa universitaria alla disperata ricerca di un lavoretto per potersi permettere i primi mesi d’affitto. Quando nota un annuncio per un posto da babysitter, la ragazza decide di chiamare senza pensarci troppo. Accompagnata dall’amica Megan, si reca nella dimora degli Ulman, una casa isolata fuori città. Una volta arrivata, il signor Ulman le rivela che in realtà non c’è nessun bambino a cui badare e che il lavoro consiste nel sorvegliare per poche ore l'anziana madre della moglie. Samantha esita, ma di fronte a un compenso triplicato accetta. Rimasta sola, si aggira per la casa. I telegiornali trasmettono aggiornamenti sull’imminente eclissi totale di luna. Ciò che Samantha non sa è che la sua presenza in quella casa non è affatto casuale e che il suo ruolo in quella notte è stato già deciso da qualcun altro.

Ti West non si accontenta di un semplice omaggio stilistico al cinema horror anni ’70-’80, ma ne abbraccia pienamente il linguaggio e il ritmo narrativo. The House of the Devil è un film costruito sull’attesa, su una tensione che cresce lenta e inesorabile, sfruttando il senso di inquietudine generato dal silenzio e dagli spazi vuoti. 
Il problema principale del film, però, è che dopo un’ora abbondante di attesa, in cui sembra che da un momento all’altro qualcosa di terribile debba accadere, la svolta finale arriva in modo prevedibile e quasi sbrigativo. La rivelazione della setta satanica e il finale che strizza l’occhio a Rosemary's Baby risultano meno incisivi di quanto ci si potrebbe aspettare.

Se lo si guarda come un tributo nostalgico, The House of the Devil è un’opera filologicamente straordinaria e visivamente impeccabile. Se lo si guarda dal punto di vista narrativo, è un film che promette tanto, ma alla fine ti lascia con la sensazione che manchi qualcosa. Insomma, buono nella forma, meno efficace nel contenuto.

Film
Horror
USA
2009

© , the is my oyster