
Crimes of the Future (1970)
di David Cronenberg
David Cronenberg è uno dei registi che più hanno segnato la mia passione per il cinema. Maestro indiscusso del body horror, ed esploratore instancabile delle mutazioni del corpo, il suo cinema è un virus che ha contaminato l’immaginario collettivo con visioni disturbanti e indelebili.
Nato a Toronto nel 1943, Cronenberg cresce in un ambiente stimolante – il padre era scrittore e giornalista – e si appassiona fin da piccolo alla letteratura, l'arte e la fantascienza. Durante gli anni universitari, scopre il cinema indipendente e inizia a sperimentare, girando i suoi primi cortometraggi a basso budget, Transfer (1966) e From the Drain (1967), dove già emergono i primi germogli del suo universo tematico.
Nel 1969 realizza il suo primo lungometraggio, Stereo, e l'anno successivo gira con un budget inesistente e un piglio sperimentale, Crimes of the Future, un film in cui sono già presenti tutte le ossessioni cronenberghiane come il contagio, la mutazione, la sessualità, e la tecnologia. È il manifesto primordiale di una poetica che, film dopo film, diventerà inconfondibile.
Siamo nel 1997. O meglio, in una sua versione distorta e post-apocalittica. La popolazione femminile del pianeta è stata spazzata via da un virus scaturito dall’uso incontrollato di prodotti cosmetici, un’infezione che prende il nome dal suo “creatore involontario”, il dermatologo Antoine Rouge. Nel mezzo di questa catastrofe, il suo ex pupillo, Adrian Tripod (Ronald Mlodzik), si aggira in un mondo senza femmine adulte nel quale i maschi mimano la gravidanza sviluppando nuovi organi che vengono successivamente amputati dai loro corpi.
Vedere Crimes of the Future non è stato facile. E' come sfogliare un quaderno di schizzi di un artista che sta ancora affinando il suo tratto. Cronenberg sperimenta senza filtri, facendo di necessità virtù. Girato quasi interamente all'interno di un edificio brutalista e senza audio in presa diretta – a causa del forte rumore della videocamera – il film è privo di dialoghi e suoni ambientali, con una voce fuori campo aggiunta in post-produzione. La voce di Tripod diventa così un elemento straniante, un diario di viaggio in un mondo malato, interrotto solo da rumori sintetici e disturbanti che sostituiscono una colonna sonora inesistente.
Il visionario futuro distopico raccontato da Cronenberg è reso attraverso simboli e concetti repulsivi come malattia, sessualità deviata, feticismo e pedofilia che, anche se non vengono tradotti in immagini esplicite, non sono meno disturbanti.
Certo, il film è grezzo, a tratti faticoso, con un minimalismo che può risultare respingente. È un'opera che consiglio solo ai cultori del regista canadese. Ma è affascinante proprio perché è Cronenberg allo stato puro, senza compromessi, che anticipa Il demone sotto la pelle e tutto il body horror che verrà. Qui non ci sono ancora le esplosioni di teste di Scanners o la carne che diventa metallo di Videodrome, ma c’è già il seme di tutto.
Se Cronenberg è un virus, Crimes of the Future è il primo contagio.

Il buco - Capitolo 2
di Galder Gaztelu-Urrutia
A cinque anni dal film "Il Buco", film spagnolo comparso nel catalogo Netflix che ha riscosso parecchio successo tra gli appassionati del genere fanta-horror distopico, torna sulla stessa piattaforma un secondo capitolo, un prequel diretto nuovamente da Galder Gaztelu-Urrutia.
Ambientato un anno prima rispetto agli eventi del primo film, questo capitolo ci riporta nel mondo della spaventosa prigione verticale composta da 333 livelli, dove una piattaforma distribuisce quotidianamente il cibo, fermandosi per pochi minuti su ogni livello. I detenuti, collocati in coppia su ogni piano, vengono ricollocati casualmente ogni mese, e devono attenersi alla regola di prendere solo ciò che serve, lasciando agli altri la possibilità di sopravvivere. Contrariamente a quanto abbiamo visto nel primo film, nella fossa un gruppo di persone che si fanno chiamare gli "Unti" cercano di far rispettare le leggi imponendo con autorità e severe punizioni che il cibo venga distribuito equamente. In contrapposizione a loro ci sono "i barbari", ovvero ribelli che rifiutano qualsiasi imposizione e vogliono mangiare liberamente, alimentando lo scontro ideologico all’interno della fossa.
La protagonista questa volta è una donna, interpretata da Milena Smit, un artista e affermata scultrice che si è fatta rinchidere nella fossa per espiare una tragedia di cui si sente responsabile. Accanto a lei, almeno nelle prime battute, troviamo un matematico disturbato e ossessionato dal fuoco, interpretato da Hovik Keuchkerian.
L’idea di base è intrigante e funziona, richiamando l'atmosfera della trilogia di The Cube, con cui condivide diverse analogie. Tuttavia, rispetto al primo film, in questo prequel l'effetto novità si affievolisce. L’introduzione di una struttura politica e una sorta di ideologia socialista, spinta quasi al fanatismo religioso, aggiunge un nuovo tema nella narrazione, ma alla fine non riesce a sorprendere del tutto. Mancano spiegazioni chiare, e il finale, come nel primo capitolo, lascia spazio a troppe interpretazioni personali.
Particolarmente suggestiva è la scena dei bambini che giocano in un parco dall'architettura brutalista, simbolo di un futuro distopico dove le nuove generazioni potrebbero non godere più dei semplici privilegi come giocare all’aria aperta. Una metafora potente che chiude con un amaro riflesso sulla società e il destino che ci attende.
Film
Metropolis
di Fritz Lang
Capolavoro del cinema muto e primo film di fantascienza della storia del cinema (se non vogliamo contare Il viaggio nella luna di Méliès), Metropolis di Fritz Lang è un opera che a distanza di quasi un secolo mantiene intatta la sua potenza visiva e concettuale.
Uscito nel 1927, questo monumentale film di Fritz Lang, regista e sceneggiatore austriaco legato al cinema espressionista tedesco, rappresenta una delle ultime grandi opere del cinema muto. La sceneggiatura di Metropolis è stata scritta dallo stesso Fritz Lang insieme alla sua allora moglie, Thea von Harbou, basandosi su un romanzo che lei stessa ha pubblicato nel 1925. Una delle pellicole più costose mai prodotte fino a quel momento, il film ha richiesto una grande quantità di risorse economiche per realizzare gli innovati effetti speciali e costruire la città furistica in miniatura.
Le riprese di Metropolis durarono ben 17 mesi, dal 1925 al 1926, una durata eccezionale per l'epoca, e coinvolsero migliaia di comparse. Proiettato per la prima volta a Berlino nel gennaio del 1927, il film, dopo la sua anteprima, subì numerosi tagli.
Originariamente lungo più di due ore e mezza, Metropolis fu ridotto a circa 90 minuti per essere più commercialmente accettabile, con intere sottotrame e personaggi eliminati. Solo negli anni 2000, dopo la scoperta di una copia quasi completa del film in Argentina, si è riusciti a restaurare gran parte del materiale originale.
In un futuro distopico, Metropolis è una città grandiosa e stratificata, divisa tra la lussuosa superficie, dove vivono i ricchi dirigenti, e le profondità sotterranee, dove gli operai lavorano incessantemente per mantenere la città in funzione. Joh Fredersen (Alfred Abel), il padrone di Metropolis, governa con pugno di ferro, ignorando il malessere dei lavoratori. Suo figlio, Freder (Gustav Frohlich), vive una vita privilegiata fino a quando non scopre le disumane condizioni degli operai e si innamora di Maria (Brigitte Helm), una giovane donna che predica la pace e la speranza per una società più equa. Nel tentativo di soffocare qualsiasi ribellione, Fredersen si allea con lo scienziato Rotwang (Rudolf Klein-Rogge), che crea un robot capace di assumere le sembianze di Maria. Il robot viene usato per istigare il caos e distruggere i sogni di pace e armonia. Mentre la città si avvicina al collasso, Freder cerca disperatamente di fermare la rivolta e salvare sia Maria che Metropolis, riconoscendo infine che la pace può essere raggiunta solo con una riconciliazione tra il "cervello" (i dirigenti) e le "mani" (gli operai), attraverso il "cuore".



Un classico senza tempo che ha definito per sempre il linguaggio della fantascienza cinematografica. Visivamente, Metropolis è una meraviglia. Un film che all'epoca era proprio difficile immaginare. L'architettura futuristica della città, con i suoi grattacieli e il traffico aereo, sono delle vere opere d'arte in movimento. Gli effetti speciali pionieristici, come l'uso dello stop-motion per animare veicoli e aerei, le sovrimpressioni ottenute direttamente in macchina e la tecnica dello Schüfftan per creare scenografie estremamente realistiche (si tratta di proiettare i modellini e i fondali dipinti, tramite un sistema di specchi inclinati a 45 gradi), sono incredibili anche a occhi moderni. Un capolavoro di tecnica cinematografica e immaginazione che ha ispirato innumerevoli opere successive che ne hanno ripreso temi, estetica e visioni distopiche. Pensiamo ad esempio a film come Blade Runner, Brazil, Guerre Stellari e il Quinto Elemento.
Metropolis è un film che esplora una serie di tematiche complesse, che rimangono rilevanti anche oggi. Le sue riflessioni spaziano dalla disuguaglianza sociale al rapporto tra uomo e macchina, passando per simbolismi religiosi e visioni distopiche del futuro. Tematiche sociali che hanno anticipato di decenni quelle descritte nel celebre romanzo 1984 di George Orwell, confermando il valore intramontabile di questa opera.
Se proprio dobbiamo trovargli dei difetti, lasciando da parte la recitazione tipicamente esagerata del cinema muto, a mio avviso il finale eccede in un romanticismo che appare forzato, retorico e quasi didascalico. La risoluzione finale, che predica la riconciliazione tra le classi attraverso il "cuore", sembra semplificare eccessivamente la complessità dei conflitti sociali e delle tensioni che il film stesso aveva magistralmente costruito. Stiamo comunque parlando di un film degli anni venti destinato al grande pubblico, quello che potremmo considerare uno dei primi blockbuster dell'epoca.
Dal 2023, Metropolis è entrato di diritto nel pubblico dominio, il che significa che può essere riprodotto liberamente anche al di fuori delle mura domestiche. Tra le numerose versioni esistenti, vi consiglio di guardare (al seguente link) quella restaurata dalla Fondazione Murnau nel 2010, della durata di 145 minuti, che restituisce gran parte del materiale originario andato perduto dopo l'uscita del film. A mio avviso è questa la versione che merita di essere vista per apprezzare l'opera nella sua completezza e integrità.
Io, come molti della mia generazione, ho scoperto Metropolis grazie alla controversa versione degli anni '80 curata da Giorgio Moroder, quella in cui l'originale colonna sonora orchestrale fu sostituita da brani pop-rock interpretati da Freddie Mercury, Pat Benatar e Bonnie Tyler. Rivedendola oggi, il risultato appare più simile a un videoclip di dubbio gusto che snatura completamente l'atmosfera originale del film. Moroder merita comunque un plauso per aver cercato di rendere il capolavoro di Fritz Lang accessibile a una nuova generazione di spettatori, ma con il senno di poi, avrei trovato più accattivante una colonna sonora realizzata dai Kraftwerk che personalmente apprezzo di più e avrebbe conferito maggiore coerenza e un fascino senza tempo all'intera operazione.
Ovviamente, queste sono solo considerazioni personali legate ai miei gusti musicali.

Civil War
di Alex Garland
Non sono un amante dei film di guerra ma adoro Alex Garland.
Con questa premessa sono andato al cinema a vedere Civil War.
Siamo in una America di un futuro prossimo. Non conosciamo il motivo scatenante ma negli Stati Uniti è in corso una feroce guerra civile. Il Texas e la California sono gli stati secessionisti che, insieme alla Florida, vogliono abbattere il Presidente degli Stati Uniti considerato una sorta di dittatore fascista. Lee Smith (Kirsten Dunst), una rinomata fotografa di guerra, insieme al giornalista Joel (Wagner Moura) e all'anziano collega Sammy (Stephen McKinley Henderson) decidono di partire da New York per recarsi a Washington e intervistare il Presidente trinceratosi nella Casa Bianca. Al gruppo si aggrega la giovane Jessie (Cailee Spaeny), una aspirante fotoreporter che vuole seguire la carriera di Lee. Durante il viaggio i quattro testimoniano con la loro macchina fotografica le atrocità della guerra passando attraverso scene di guerriglia urbana, duelli tra cecchini, pompe di rifornimento in cui la benzina non ha prezzo e fattorie dell'orrore in cui militari nazionalisti (tra questi un ottimo Jesse Plemons) uccidono indistintamente i civili in base alla loro etnia.
Il film di Garland racconta una ipotetica guerra civile come conseguenza di una politica populista protesa all'estremismo e alle divisioni. É inevitabile pensare a Donald Trump - che proprio nei prossimi mesi concorrerà nuovamente per la Casa Bianca - e all’attacco a Capitol Hill nel gennaio del 2021 da parte dei suoi seguaci. Garland afferma che il film è apolitico ed è stato scritto prima di questo evento, affermando inoltre che ha cercato di attribuire le responsabilità del violento conflitto a entrambi gli schieramenti ma come era prevedibile Civil War ha suscitato negli Stati Uniti un acceso dibattito, sopratutto dalla parte della destra conservatrice, che accusa il film di "predictive programming", una teoria secondo cui i media popolari, come film, serie TV o romanzi, possano contenere messaggi subliminali o indizi sul futuro, influenzando le percezioni e preparando il pubblico per eventi o cambiamenti sociali.
Al di là dell'aspetto politico e provocatorio, Civil War - il film più costoso prodotto dello studio indipendente A24 - è un roadmovie ambientato durante un conflitto in cui i protagonisti documentano in maniera disicantata la violenza scaturita da questa guerra civile, una violenza molto spesso fine a se stessa dove non sempre c'è un nemico da sconfiggere ma solo il desiderio di usare le armi per sfogare la propria rabbia repressa. Il tutto, come detto, viene documentato dai protagonisti con il personaggio di Lee che assume il ruolo di mentore nei confronti della giovane e inesperta Jessie, la quale, nel giro di pochi giorni, supera la più celebrata collega proprio durante l’assedio di Washington.
Il film di Alex Garland è girato indubbiamente bene e restituisce una certa tensione - in particolar modo nella scena con Plemons già citata - ma nonostante riconosca le sue qualità tecniche non mi ha pienamente convinto. Accantonando il prevedibile finale, ho trovato poco coraggiosa la scelta di porsi come testimone distaccato, così come mi è parso superficiale il fatto di non aver approfondito il cinismo autodistruttivo dei fotoreporter che si sentono vivi nel mettere a rischio la propria vita e trovano la bellezza in una fotografia che testimonia l'istante della morte.
Non so, probabilmente il fatto che non sia mai stato un amante dei film di guerra - tanto per intenderci in una ipotetica lista sui miei cento film preferiti, pur riconoscendo il loro valore, pellicole come Platoon, Full Metal Jacket e lo stesso Apocalypse Now non rientrebbero in questa classifica - ha contribuito a rendere il film di Garland emotivamente poco coinvolgente e distante. Presumo che sia un problema mio dal momento che tutti stanno osannando questo film.

Il buco
di Galder Gaztelu-Urrutia
L'horror e la fantascienza sono da sempre i miei generi preferiti e fortunatamente - in mezzo ai soliti film di supereroi ed effetti speciali che puntano più alla spettacolarità e all'intrattenimento - ogni tanto esce un film in grado di suscitare emozioni forti e inquietanti.
E' il caso del Buco, film dello spagnolo ed esordiente Galder Gaztelu-Urrutia che, dopo essere stato presentato in vari festival di genere accaparrandosi alcuni premi, approda su Netflix.
E' un film distopico, ansiogeno e claustrofobico che come tipologia potremmo accomunare a The Cube e sopratutto Snowpiercer in quanto in entrambi assistiamo a una sorta di esperimento sociale in cui i protagonisti sono rinchiusi in una struttura a livelli all'interno di uno spazio limitato.
Ci troviamo in una prigione a torre, strutturata verticalmente a livelli, centinaia di livelli. In ogni piano ci sono due prigionieri. Una volta al giorno una piattaforma scende di livello in livello attraverso un buco nel soffitto e nel pavimento di ogni cella portando il cibo ai prigionieri. Il cibo messo nella piattaforma sarebbe sufficiente per nutrire tutti i detenuti della torre ma quelli dei livelli superiori ne prendono di più, lasciandone ingiustamente di meno per quelli che sono sotto di loro. I disperati dei livelli inferiori sono così destinati a ricevere gli avanzi se non addirittura a morire di fame.
Nonostante ogni mese i detenuti vengano spostati di piano in maniera randomica - quindi i fortunati che si trovano ai piani superiori potrebbero ritrovarsi il mese successivo ai piani inferiori, e viceversa - non esiste collaborazione tra i prigionieri e l'avidità e l'egoismo domina tra di loro.
La metafora è tanto semplice quanto efficace e punta il dito contro la disuguaglianza sociale del sistema capitalista mostrandondoci tutta la brutalità dell’essere umano che non si pone limiti nel prevaricare l'altro per la propria sopravvivenza.
In alcune scene il regista ci va giù pesante non avendo paura di mostrare scene forti con l'intento di provocare il disgusto nello spettatore.
Il film funziona, gli attori sono bravi, ha una buona fotografia e ha la giusta tensione per tutta la sua durata. Peccato per il finale che risulta ambiguo e che lo colloca un gradino dietro a Snowpiercer (il film) che invece ha un finale più convincente