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martedì, 12 agosto 2025
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It Follows

di David Robert Mitchell

Senza ombra di dubbio uno dei migliori film horror degli ultimi decenni. 
It Follows, opera seconda di David Robert Mitchell, è un film indipendente americano presentato al Torino Film Festival 2014.

In un suburbio americano sospeso tra gli anni ottanta e un presente indefinito, It Follows racconta la storia di Jay (Maika Monroe), una teenager che, dopo la prima notte d’amore con il nuovo fidanzato, viene narcotizzata e legata. Il ragazzo le rivela di avergli trasferito una sorta di maledizione e che da ora in avanti, sarà perseguitata da un’entità misteriosa che può assumere le sembianze di chiunque, persino di persone a lei care. La creatura avanza lentamente, ma non si ferma mai finché non raggiunge la sua vittima e la uccide. Se Jay dovesse morire, la maledizione tornerebbe alla persona che gliel’ha passata, risalendo a ritroso la catena di chi ne è stato colpito. Solo chi ne è affetto può vedere l’entità, e l’unico modo per liberarsene è avere un rapporto sessuale con qualcun altro, trasferendo così la maledizione come se fosse una malattia invisibile. Aiutata dai suoi amici, Jay dovrà trovare un modo per fermare l’incubo prima che sia troppo tardi.

David Robert Mitchell costruisce un horror elegante e accattivante, che mescola il linguaggio visivo del cinema indipendente con le atmosfere sospese dei grandi classici del genere (Carpenter su tutti). La fotografia di Mike Gioulakis (influenzata dal fotografo contemporaneo Gregory Crewdson) cattura un’america suburbana surreale, desolata e senza tempo, dove ogni strada sembra troppo vuota e ogni casa troppo silenziosa. La regia privilegia campi larghi, movimenti di macchina lenti e carrellate circolari che amplificano l’ansia dello spettatore, costretto a scrutare ogni angolo in cerca di una figura che avanza.
La colonna sonora elettronica di Disasterpeace, fredda e ossessiva, imprime al film un ritmo ipnotico e amplifica la percezione di disagio. Bellisimo l'incipit inziale con la ragazza in deshabille che fugge dalla minaccia invisibile ritrovandosi poco dopo sulla spiaggia, cadavere, con una gambe spezzata, piegata in modo innaturale.
Mitchell trasforma la minaccia indefinita e incombente in una metafora del disagio giovanile, con ragazzi disorientati che vivono in una periferia spettrale, senza adulti e abbandonati a se stessi, costretti a convivere con l’angoscia di qualcosa che li insegue e che non possono fermare.

It Follows non è un horror fatto di jump scare o spiegazioni rassicuranti. È un incubo lento e inevitabile, che si insinua nella mente e non ti lascia andare.

Film
Horror
USA
2014
Retrospettiva
lunedì, 4 agosto 2025
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Le iene

di Quentin Tarantino

Nel cinema, come in tutte le forme d’arte, ci sono momenti che segnano uno spartiacque. Film che arrivano, spiazzano tutti e cambiano le regole del gioco. Non capita spesso, ma quando succede lo capisci subito. Nel 1992, un giovane semisconosciuto grande appassionato di cinema, Quentin Tarantino, esordisce alla regia con Le Iene, un film indipendente realizzato con un budget bassissimo, che pianta il seme di una rivoluzione stilistica che esploderà due anni dopo nel suo capolavoro, Pulp Fiction. I personaggi grotteschi, la struttura non lineare, i dialoghi brillanti e l'uso della violenza come linguaggio, nasce qui, in forma più grezza, ma già potentissima.

Tarantino iniziò a scrivere la sceneggiatura di Reservoir Dogs – il titolo originale del film – verso la fine degli anni ’80. All’epoca aveva già messo mano a diverse sceneggiature, come Una vita al massimo e Natural Born Killers, poi passate attraverso riscritture e registi diversi. Le Iene, invece, restò chiusa in un cassetto per un po’, in attesa del momento giusto. Quel momento arrivò quando riuscì finalmente a racimolare i fondi necessari, anche grazie all’interessamento di Harvey Keitel, uno dei primi attori affermati di Hollywood a credere davvero nel progetto. Fu lui a dare al film la spinta decisiva, non solo recitando in uno dei ruoli principali ma aiutando anche a trovare produttori e credibilità.

Ambientato a Los Angeles, Le iene racconta di una rapina ai danni di una gioielleria compiuta da sei rapinatori professionisti arruolati da un boss della mala (Lawrence Tierney). I rapinatori, noti solo con i loro codici-colore, sono Mr. White (Harvey Keitel), Mr. Blonde (Michael Madsen), Mr. Pink (Steve Buscemi), Mr. Brown (Quentin Tarantino), Mr. Blue (Edward Bunker) e Mr. Orange (Tim Roth). Ma qualcosa va storto. La polizia arriva troppo in fretta e la rapina si trasforma in un bagno di sangue. Mr. White riesce a fuggire insieme a Mr. Orange, gravemente ferito, e si rifugia in un capannone abbandonato, punto di ritrovo stabilito in precedenza. Qui vengono raggiunti da Mr. Pink, convinto che uno del gruppo sia una spia, e poco dopo da Mr. Blonde, accusato di aver scatenato la sparatoria aprendo il fuoco sui poliziotti.

A leggerne la trama, Le Iene potrebbe sembrare l’ennesimo gangster movie. E invece no. La rapina non ci viene mai mostrata – se non in brevi flashback legati alla fuga. A raccontarla sono i protagonisti, attraverso una serie di dialoghi serrati, vibranti, in cui si mescolano tensione, humour nero e delirio paranoico. Anche la struttura narrativa, la linea temporale in cui si svolgono gli avvenimenti, viene scomposta e rimontata come un puzzle. Una tecnica che verrà ripresa – e portata all’estremo – in Pulp Fiction e che Tarantino prende da Rapina a Mano Armata di Stanley Kubrick, film caratterizzato proprio dalla narrazione non lineare e la molteplicità dei punti di vista. Come lo stesso Tarantino ama ripetere, citando una celebre frase di Picasso, "I bravi artisti copiano, i grandi rubano" il suo cinema è un continuo gioco di rimandi, citazioni, saccheggi dichiarati e omaggi appassionati ai classici e al cinema meno conosciuto. In Le Iene, per esempio, è evidente il debito nei confronti di City on Fire di Ringo Lam, film hongkonghese da cui riprende non solo il concept ma anche intere sequenze. E nel triello finale si intravede tutta la passione del regista per lo spaghetti-western, con un riferimento diretto a Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone.

Una delle particolarità del film sono i dialoghi fitti, taglienti, volgari, spesso inconcludenti ma sempre capaci di tenere alta l’attenzione. I primi otto minuti del film, con la discussione sul significato di "Like a Virgin" di Madonna e sull’opportunità di lasciare la mancia alla cameriera, sono già una dichiarazione d’intenti. È lì che Tarantino dimostra tutto il suo talento da sceneggiatore: ritmo, ironia, costruzione dei personaggi e uso della cultura pop come linguaggio universale. Il tutto condito da una colonna sonora iconica, usata non come semplice accompagnamento ma come elemento narrativo.

E poi c’è la violenza. Non arriva subito, ma quando lo fa è brutale, grottesca, disturbante. Una violenza secca, mai edulcorata, che fa ridere e insieme mette a disagio. Emblematica in questo senso la famigerata scena della tortura del poliziotto, accompagnata da "Stuck in the Middle with You".
Oggi, in un’epoca dominata dal politically correct e dalla cultura woke, un film del genere sarebbe probabilmente inconcepibile. Basti pensare al linguaggio utilizzato: il termine “negro” viene ripetuto più volte, non mancano battute sessiste, e nessun personaggio si salva dal politically uncorrect.
Il cast è perfetto. Harvey Keitel, già all’apice della carriera, regala un’interpretazione intensa e ruvida. Tim Roth è straordinario nel ruolo più ambiguo, Steve Buscemi è nevrotico e imprevedibile, e Michael Madsen – attore feticcio di Tarantino – entra nella storia del cinema con una performance disturbante e magnetica nei panni dello spietato Mr. Blonde.

Le Iene diventò in breve tempo un cult assoluto. Insieme a Pulp Fiction, Trainspotting e Fight Club, è uno di quei titoli che non si limitano a raccontare un’epoca ma finiscono per rappresentarla. I completi neri, le cravatte sottili e gli occhiali da sole (omaggio dichiarato ai Blues Brothers) sono diventati icone pop, replicate all’infinito e rielaborate da cinema, pubblicità e televisione. Persino in Italia, il titolo è entrato nell’immaginario collettivo grazie a un celebre programma Mediaset, a dimostrazione di quanto il film di Tarantino abbia saputo contaminare tutto ciò che è venuto dopo.

Film
Drammatico
Thriller
Noir
USA
1992
Retrospettiva
sabato, 2 agosto 2025
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Martyrs

di Pascal Laugier

L’horror è sicuramente il mio genere preferito. Ne ho visti tanti, continuo a guardarne, ma raramente riescono ancora a farmi davvero paura. Col tempo ho imparato ad apprezzarne le sfumature, i sottogeneri, i giochi visivi e narrativi. Ma dopo anni passati ad assorbire i meccanismi tipici del genere, la mia attenzione si è spostata altrove. Ora guardo più al modo in cui viene trattata una tematica, a una messa in scena originale, a una scelta registica fuori dal comune.

Tra i sottogeneri che ancora riescono a scuotermi c’è quello comunemente definito "torture porn". Un’etichetta forse riduttiva, ma utile per orientarsi. Da Hostel a Saw, da The Devil’s Rejects fino al giapponese Grotesque, è emersa una corrente in cui la violenza non è solo presente, ma fulcro narrativo. Viene ostentata, protratta, spinta fino al limite della sopportazione.

Martyrs, film francese del 2008 diretto da Pascal Laugier, parte da lì. Dal dolore, dalla tortura. Ma va molto oltre. Non è il solito film estremo che punta a scioccare lo spettatore. È qualcosa di più disturbante, più profondo, più spiazzante. E lascia addosso un senso di disagio che non svanisce facilmente.

Il film si apre con una bambina, Lucie, che fugge urlando da una fabbrica abbandonata, quasi nuda e ricoperta di sangue.  Per oltre un anno è stata tenuta prigioniera e sottoposta a torture fisiche e psicologiche. Gravemente traumatizzata, viene accolta in un orfanotrofio dove stringe un legame profondo con Anna, un'altra ragazza con un passato difficile alle spalle. Crescendo insieme, le due diventano amiche intime.
Quindici anni più tardi, Lucie ormai adulta (interpretata da Mylène Jampanoï), è convinta di aver finalmente individuato i responsabili delle sue sofferenze. Senza esitare, fa irruzione nella casa di una famiglia borghese uccidendola a colpi di fucile. Poi, disperata, telefona ad Anna (Morjana Alaoui) chiedendole di venire ad aiutarla. Anna si precipita, sconvolta, trovandosi di fronte a una scena devastante. Teme che l’amica abbia perso il contatto con la realtà, travolta dai propri fantasmi interiori. Lucie, infatti, continua ad autoinfliggersi ferite sostenendo di essere perseguitata da una creatura mostruosa. Ma quello che Anna scoprirà in quella casa è qualcosa che va oltre ogni sua immaginazione, oltre ogni limite. E rappresenta solo l’inizio di una spirale di orrore che non lascia vie d’uscita.

Altro non dico, perché Martyrs è costruito su una serie di svolte narrative che vanno scoperte passo dopo passo. Quella che sembra una semplice storia di vendetta alla Old Boy, si trasforma presto in qualcos’altro, spiazzante e radicale. La prima parte, intensa e brutale, è solo un preludio. È la preparazione emotiva, visiva e tematica per un secondo atto che ribalta tutto, portando lo spettatore in un territorio completamente diverso, dove l’orrore non è più solo fisico ma esistenziale. È qui che il film mostra la sua vera natura.
Martyrs non è un film piacevole. Non cerca di esserlo, nemmeno per un attimo. Non è il disgusto a prevalere, non lo schifo da corpi mutilati che spesso accompagna certo cinema estremo. Qui si prova dolore, puro e senza filtri. È un horror dell’anima, un’esperienza che annichilisce. Nero come la pece, privo di qualunque ironia o compiacimento, spinge lo spettatore dentro un abisso in cui la tortura non è mai spettacolo, ma accanimento insopportabile.
Eppure, dal punto di vista narrativo, Martyrs non cede mai. La tensione resta costante, serrata. Gli ambienti sono spogli, bui, opprimenti, e il frequente uso della camera a mano amplifica il senso di disorientamento e terrore. Tecnicamente è un film ineccepibile. Girato con rigore, orchestrato con lucidità, interpretato con una credibilità emotiva che toglie il fiato.
Pascal Laugier rilegge il torture porn, lo stravolge, lo svuota del suo compiacimento visivo per restituirci qualcosa di più intimo, più viscerale. Qui non ci sono frattaglie che esplodono sullo schermo come nei film americani. L’orrore è sottopelle, nascosto dietro l’apparenza di una società borghese, anziana e decadente, terrorizzata dall’approssimarsi della fine. Una società che sceglie di infliggere sofferenza a vittime innocenti nel disperato tentativo di trovare una risposta all’unica domanda che davvero ci accomuna: cosa c’è dopo la morte?
Il finale è stato molto discusso. C’è chi lo ha trovato vago, chi pretenzioso. Personalmente lo considero uno dei finali più potenti del cinema horror — forse non al livello di The Mist, ma non lontano. È crudele, definitivo, e probabilmente l’unico possibile. Chiude il film con una nota disturbante che rimane dentro, come un graffio che non si rimargina.

Un horror che riesce a suscitare orrore ha raggiunto il suo scopo. E Martyrs ci riesce benissimo. La prima volta che l’ho visto sono rimasto mezz’ora a fissare il soffitto prima di riuscire ad addormentarmi. La seconda volta ho messo in pausa più volte, costretto ad alzarmi e prendere fiato. È un film che non si dimentica. E proprio per questo, rimane uno dei miei horror preferiti del XXI secolo.

Film
Horror
Francia
2008
Retrospettiva
mercoledì, 30 luglio 2025
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Lasciami entrare

di Tomas Alfredson

Lasciami entrare, film del 2008 diretto da Tomas Alfredson, è probabilmente il mio film preferito sui vampiri del 21esimo secolo. Tratto dall’omonimo romanzo di John Ajvide Lindqvist - che conservo da tempo in libreria, ancora da leggere - è una produzione svedese che reinventa il mito del vampiro con grazia e crudeltà, raccontando una storia di solitudine, orrore e tenerezza, filtrato attraverso lo sguardo disarmato di due bambini.

Svezia, inverni lunghi e silenziosi. Oskar (Kåre Hedebrant) ha dodici anni, vive con la madre in un quartiere periferico di Stoccolma e passa le giornate a immaginare vendette contro i bulli che lo tormentano a scuola. Una sera, nel cortile del suo palazzo, incontra Eli (Lina Leandersson), una coetanea appena trasferitasi nell'appartamento accanto. È strana, pallida, con un odore insolito e, nonostante il gelo, indossa solo una t-shirt. Tra i due nasce un’amicizia timida, fatta di parole sussurrate, incontri notturni e un’innocenza che si macchia presto di sangue. Perché Eli non è una bambina qualunque. E' una vampira, e intorno a lei iniziano a moltiplicarsi i cadaveri.

Proprio nell’anno in cui Twilight invadeva il grande schermo con la sua versione patinata e adolescenziale del vampiro romantico, Lasciami entrare arrivava silenzioso e gelido dalla Svezia esplorando con delicatezza e pudore temi come la difficoltà di crescere, il doloroso passaggio dall’infanzia all’adolescenza, la diversità, e la scoperta della sessualità. Il sangue scorre, ma senza mai diventare spettacolo. 

Oskar è un dodicenne fragile e solitario, figlio di genitori divorziati e privo di veri punti di riferimento. La madre, assente dietro la maschera di una routine affettuosa, e il padre, distante e distratto, lasciano il ragazzo a combattere da solo contro il bullismo dei coetanei e il senso di esclusione che lo accompagna ogni giorno. Isolato e pieno di rancore, Oskar sviluppa un morboso interesse per la cronaca nera e le armi da taglio, immaginando vendette che non riesce a compiere. A rompere questo vuoto arriva Eli, così diversa, eppure stranamente simile a lui. Eli è una creatura millenaria intrappolata nel corpo di una bambina, capace di uccidere con lucidità ma anche di comprendere la solitudine meglio di chiunque altro. Anche lei è un’emarginata, condannata a vivere ai margini del mondo, senza amici né famiglia, accompagnata solo da un anziano tutore con cui condivide un rapporto ambiguo, fatto più di necessità che di affetto.
Il legame tra Oskar ed Eli nasce nel silenzio, si costruisce lentamente, fatto di messaggi in codice, carezze e gesti trattenuti. La loro relazione resta sospesa in una zona grigia, ambigua, mai esplicitamente sessuale, ma percorsa da una sottile tensione che mescola innocenza e desiderio, fragilità e attrazione. Tra i due protagonisti il maschile e il femminile si confondono. Lui, biondo, efebico, vittima. Lei, dai tratti più duri, i capelli scuri, lo sguardo imperscrutabile e la sicurezza di chi ha già visto troppo. A un certo punto Eli dice chiaramente: “Non sono una ragazza”. Più tardi, in un'inquadratura fugace e discreta, si intravede una cicatrice all’altezza del sesso, possibile traccia di una mutilazione. Un dettaglio che aggiunge un ulteriore livello di ambiguità, aprendo domande sull'identità di Eli, sul genere, sul corpo, sul modo in cui l’amore riesce a esistere al di là di ogni definizione.
La loro unione nasce così, tra due esseri feriti, due sopravvissuti — uno al mondo, l’altra al tempo. Ma la loro storia è destinata a incupirsi, perché l’amore, proprio come il vampirismo di Eli, è una forma di dipendenza. Una necessità che consuma. Nel finale, quando li ritroviamo su un treno, in apparente fuga libera verso il futuro, appare evidente che sarà lui a nutrire Eli, a proteggerla, a portarla con sé di città in città, fino alla vecchiaia e alla morte. Prenderà il posto dell’anziano tutore che, troppo stanco e ormai inutile, ha scelto di togliersi la vita per amore o per disperazione. L’orrore di questo verdetto resta sommerso, sussurrato, eppure palpabile. È un orrore malinconico, quasi romantico, che ti porta a pensare che, in fondo, l'amore non sia altro che una promessa silenziosa di sacrificio portata avanti fino alla fine.

Lasciami entrare - il cui titolo richiama una regola della mitologia vampirica, secondo cui un vampiro può varcare la soglia solo se invitato - ritrae con rigore una Svezia suburbana, invernale, spoglia e silenziosa, dove il buio scende presto e il gelo sembra avvolgere anche i rapporti umani. La regia sobria di Alfredson lavora per sottrazione, evitando ogni enfasi e affidandosi ai silenzi, ai dettagli, agli sguardi. Straordinari i due giovani protagonisti, capaci di restituire tutta la delicatezza e l'ambiguità dei personaggi. La sceneggiatura firmata dallo stesso autore del romanzo, e la fotografia fredda e misurata di Hoyte van Hoytema completano un’opera che somiglia a un racconto di formazione, attraversato però da una lama sottile di orrore. Un horror che non punta alla paura fine a se stessa, ma usa il vampirismo come metafora per raccontare l’emarginazione, la solitudine, e il bisogno disperato di legami.

Ah, dimenticavo, hanno fatto il solito remake americano. Da evitare.

Film
Horror
Romantico
Vampiri
Svezia
2008
Retrospettiva
martedì, 29 luglio 2025
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In the Mood for Love

di Wong Kar-wai

L’amore più intenso, almeno al cinema, è spesso quello che non si consuma. Quello fatto di sguardi, silenzi, gesti trattenuti. Pensiamo a L’età dell’innocenza, Lost in Translation, al recente Past Lives e, naturalmente, a In the Mood for Love — un film che ha riscritto le regole del romanticismo sullo schermo e che ancora oggi è considerato uno dei capolavori del genere.
Diretto dal regista hongkonghese Wong Kar-wai, In the Mood for Love racconta la storia d’amore trattenuta tra un uomo e una donna vittime dell’infedeltà dei rispettivi coniugi.

Hong Kong, 1962. Il signor Chow (Tony Leung) e la signora Chan (Maggie Cheung) si trasferiscono lo stesso giorno in due appartamenti adiacenti. I rispettivi coniugi sono spesso assenti per lavoro e i due si ritrovano sempre più spesso a condividere piccoli momenti quotidiani. Quando scoprono che i loro partner li stanno tradendo l’uno con l’altro, nasce tra loro un legame silenzioso, profondo, fatto di empatia e dolore condiviso. Ma entrambi decidono di non ripetere lo stesso errore, di non cedere alla tentazione, trattenendo i sentimenti e lasciando che l’amore resti sospeso.

Malinconico, struggente, elegantissimo, il film esplora il confine tra sensualità e castità, tra ciò che si dice e ciò che resta inespresso. La tensione tra i protagonisti vive nei gesti mancati, negli sguardi rubati, nei dialoghi interrotti. Un desiderio impalpabile, reso ancora più seducente da un’estetica impeccabile e da una regia che cattura due corpi che si sfiorano senza mai toccarsi.
La narrazione si affida a movimenti di macchina lenti, primi piani intimi, inquadrature che spiano i personaggi da angoli nascosti o spazi angusti. Maggie Cheung attraversa il film con grazia magnetica, avvolta nei suoi cheongsam impeccabili, troppo eleganti per una semplice passeggiata. Ogni suo gesto è incorniciato dalla fotografia sognante di Christopher Doyle, fatta di luci soffuse, cromie calde e contorni sfumati. Spesso la vediamo di spalle, o riflessa in uno specchio, come se la macchina da presa cercasse invano di trattenerla.
Accanto a lei, Tony Leung — premiato a Cannes nel 2000 — è misurato, trattenuto, sempre con i capelli perfettamente impomatati. La sua interpretazione si nutre di silenzi e dettagli minimi, una tristezza sommessa che si insinua scena dopo scena.
I due protagonisti, che abitano in un appartamento condiviso, si muovono sotto lo sguardo opprimente dei locatori, in una città che sembra sempre pronta a giudicare. È come se dovessero essere loro a espiare le colpe dei rispettivi coniugi, che non vediamo mai in volto e restano fuori campo, ridotti a voci e oggetti dimenticati.
La colonna sonora ha un ruolo centrale, spesso protagonista. Il tema ricorrente di "Yumeji’s Theme" accompagna i loro movimenti rallentati, trasformando ogni scena in un rituale dolente. I brani di Nat King Cole aggiungono sensualità e struggimento, rendendo la tensione emotiva quasi tangibile.

Il film è una riflessione sottile sul desiderio, sull’amore impossibile e sulla fragilità dei legami umani. Non tutte le storie devono compiersi per essere autentiche. A volte è proprio nell’incompiutezza che l’amore diventa eterno.

Film
Drammatico
Romantico
sentimentale
Cina
2000
Retrospettiva
venerdì, 18 luglio 2025
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Secretary

di Steven Shainberg

Molto prima che Cinquanta sfumature di grigio trasformasse il BDSM in una moda da romanzo rosa fintamente trasgressivo, agli inizi degli anni duemila esce Secretary, film diretto da Steven Shainberg, che racconta una relazione sadomasochistica con ironia e sorprendente delicatezza. Un film che parla di sottomissione e controllo non come deriva patologica, ma come possibile forma d’intimità, equilibrio e riscatto personale.

Lee Holloway (Maggie Gyllenhaal) è una giovane donna fragile, con tendenze autolesionistiche, appena uscita da un ospedale psichiatrico e tornata a vivere con la sua disfunzionale famiglia nei sobborghi americani. Dopo un corso da dattilografa, trova lavoro nello studio legale dell’eccentrico avvocato E. Edward Grey (James Spader). Il loro rapporto professionale si trasforma presto in qualcosa di più complesso, una dinamica di dominazione e sottomissione che, tra punizioni, carezze e lettere battute a macchina, aiuta entrambi a confrontarsi con le proprie nevrosi, a disinnescarle e – forse – a guarire.

Tratto da un racconto breve di Mary Gaitskill, Secretary è una commedia nera che esplora i territori ambigui delle relazioni, del potere e della dipendenza emotiva. Parla di perversioni sessuali e dinamiche tossiche, ma lo fa con leggerezza, ironia, e un tocco grottesco che a tratti sfiora il surreale. In mezzo a tutto questo, però, resta soprattutto una storia d’amore. Strana, deviata, ma pur sempre d’amore.
Lee è timida e dimessa, entra nello studio legale con l’aria da cerbiatta spaurita e si ritrova presto coinvolta in un gioco sadomasochista fatto di errori battuti apposta a macchina, posture di obbedienza e punizioni simboliche. Ma non è una vittima: è lei ad accettare il gioco, ad assecondarlo e infine a guidarlo. Nella sottomissione scopre una forma di piacere che dà finalmente un senso alla sua inquietudine.
Grey, invece, è un uomo ossessivo e represso, che cerca di soffocare i propri impulsi attraverso l’ordine e l’isolamento. Quando cede al desiderio, lo fa con esitazione e senso di colpa. Sarà proprio Lee, la parte "debole", a sfidarlo, ad aspettarlo, a salvarlo. In un ribaltamento sottile e potente, la segretaria obbediente diventa protagonista attiva di una relazione che si costruisce fuori dagli schemi, ma su basi molto reali: il riconoscersi, il scegliersi, l’accettarsi.

Maggie Gyllenhaal è brava a interpretare una ragazza all’inizio fragile e impacciata, poi sempre più consapevole, seducente, padrona di sé. Spader è altrettanto convincente nel ruolo dell’uomo che esercita il controllo ma ne è, in fondo, vittima.

Se uscisse oggi, Secretary sarebbe un film divisivo. Travolto da critiche e accuse di misoginia, abuso di potere e rappresentazione tossica del maschile. Una relazione tra un uomo potente e la sua dipendente sottomessa? Inaccettabile nell’era del #MeToo. Poco importa che Lee sia consenziente. Per molti sembrerebbe solo un altro caso di patriarcato travestito da romance alternativo.
Eppure Secretary non parla di abuso. Parla di libertà. Di due persone che, nel dolore e nel desiderio, trovano una forma d’equilibrio possibile. Scomoda, certo. Ma profondamente umana.

Film
Commedia
sentimentale
USA
2002
Retrospettiva
giovedì, 17 luglio 2025
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Final Destination

di James Wong

La morte. Nel cinema è stata rappresentata in diverse forme. Austera e filosofica ne Il settimo sigillo di Bergman, grottesca e sarcastica ne Il senso della vita, affascinante e seduttiva in Vi presento Joe Black.
In Final Destination, film del 2000 diretto da James Wong, la Morte si reinventa diventando una presenza invisibile che non ha volto né voce, una forza astratta che attraverso coincidenze, oggetti quotidiani e piccoli dettagli si riprende ciò che le è stato sottratto.

La storia ha per protagonista Alex, un liceale in partenza con i suoi compagni di classe per una gita a Parigi. Poco prima del decollo viene colto da una visione agghiacciante, l’aereo esploderà in volo. In preda al panico, viene fatto scendere insieme ad alcuni compagni e a un’insegnante. Pochi minuti dopo l’incubo si avvera, l’aereo esplode davvero, proprio come aveva previsto.
Ma la vera minaccia deve ancora rivelarsi. I superstiti scoprono presto di non essere affatto al sicuro. Uno dopo l’altro iniziano a morire in circostanze bizzarre e inquietanti, come se un disegno invisibile stesse rimettendo le cose al loro posto.
Alex intuisce che la Morte ha un piano, e che sfuggirle una volta non basta.

Final Destination nasce da un’idea di Jeffrey Reddick, inizialmente pensata per un episodio mai realizzato di X-Files. Il progetto viene poi trasformato in un film dalla New Line Cinema, con la sceneggiatura firmata da James Wong e Glen Morgan, volti noti proprio della serie di Chris Carter.
Rivedendolo oggi, il film porta addosso tutti i segni del tempo. Ingenuità narrative, un cast acerbo formato da giovani attori pescati dalle serie televisive dell’epoca, e una struttura che ricalca in pieno gli stereotipi del teen-horror di fine anni novanta. Ma l’intuizione alla base resta originale e dirompente. Togliere di mezzo il killer mascherato per affidare la strage alla morte stessa, trasformata in una presenza invisibile ma implacabile, capace di costruire incidenti come trappole a orologeria. È lo slasher che diventa soprannaturale.
Nel panorama horror post-Scream, ormai in fase calante, Final Destination cambia le regole: non importa chi uccide, ma quando e come. Il film gioca sull’attesa e sull’ingegno delle morti, restituendo una buona tensione (soprattutto nei primi quindici minuti) per poi intrattenere grazie all’inventiva della morte improvvisa, efferata e, in un certo qual modo, divertente – quella dell’insegnante resta tra le più memorabili per ironia e costruzione.
E se pensiamo che questo è solo il primo capitolo di una lunga saga (proprio in questi giorni è uscito il sesto), vuol dire che l’idea in fin dei conti non era per niente male. Una struttura semplice ma solida, capace di rinnovarsi restando fedele a un concept forte, che ha saputo parlare al pubblico giusto nel momento giusto.

Film
Horror
USA
2000
Retrospettiva
martedì, 1 luglio 2025
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Il posto delle fragole

di Ingmar Bergman

Scrivere qualcosa su un film di Ingmar Bergman, mi da sempre una sensazione di inadeguatezza. Se il film in questione è Il posto delle fragole, la soggezione cresce ancora di più.
Senza elencare tutti i premi e i riconoscimenti (li potete trovare facilmente su Wikipedia), dirò solo che Il posto delle fragole è un capolavoro senza tempo. Un’opera intima e introspettiva che cattura quel momento fragile della vita in cui si compie un bilancio esistenziale, si guarda indietro e si cerca di mettere ordine al disordine. Un poema visivo che mescola dolcezza e malinconia, sogno e realtà, vita e presagio di morte. Nulla è mai perduto e Bergman ce lo insegna.

Il professor Isak Borg (Victor Sjöström), medico in pensione, deve recarsi a Lund per ricevere un prestigioso riconoscimento accademico. Invece di prendere l’aereo, decide di affrontare il viaggio in auto, insieme alla nuora Marianne (Ingrid Thulin). Quello che inizia come un semplice tragitto si trasforma presto in un pellegrinaggio interiore: lungo la strada, Isak rivive sogni, ricordi d'infanzia e incontri simbolici che lo costringono a fare i conti con se stesso, con le sue scelte, con l’aridità emotiva che ha lasciato dietro di sé. Tra una sosta e l’altra — una casa che non c’è più, tre giovani autostoppisti, una coppia che litiga — il viaggio si fa via via più onirico e personale, fino a diventare una resa dei conti con la propria memoria. E in fondo, forse, anche una timida riconciliazione col passato.

Nonostante i simbolismi, presenti come in tutti i film di Bergman, Il posto delle fragole è uno dei suoi film più accessibili, forse uno dei più lirici, delicati e coinvolgenti. 
E' un viaggio on the road alla ricerca del tempo perduto, un viaggio interiore tra sogni inquieti, ricordi sbiaditi, persone amate e perdute.
L'incubo iniziale è magistrale. Un incubo, avuto la notte prima di partire, in cui il nostro protagonista vaga in una città silenziosa, deserta e illuminata, dove il tempo ha smesso di funzionare. L'orologio sul lampione è privo di lancette così come il suo orologio da tasca. Si sente un tichiettio rimbombante - e nella mia testa subito echeggia Times di pinkfloidiana memoria. Compare un uomo con un cappello di spalle. Quando si volta l'uomo, senza occhi né bocca, cade a terra afflosciandosi su se stesso. Poi, in un’atmosfera irreale, un carro funebre trainato da due cavalli, senza alcun cocchiere si schianta contro un lampione, rovesciando una bara sul selciato. Quando Borg si china per esaminare la bara aperta, una mano lo afferra tirandolo a sé, riconoscendo nel volto del morto il proprio volto. Più tardi, durante il viaggio, Borg confiderà alla nuora che da qualche tempo fa sogni strani, come se volesse dire a se stesso qualcosa che non vuole ascoltare da sveglio. Che è morto pur essendo vivo.
Il protagonista, interpretato dal leggendario Victor Sjöström (regista del capolavoro Il carretto fantasma, che Bergman considerava un mentore), è un anziano medico in pensione, chiuso in una corazza di buone maniere e misantropia. Una sorta di Scrooge dickensiano, ma più trattenuto ed educato.  Il suo nome, "Isak Borg", tradotto dallo svedese può suonare come “fortezza di ghiaccio” e condivide le iniziali con lo stesso Bergman. Ma il regista ha dichiarato più volte che Borg non è un suo alter ego, bensì un ritratto del padre. Un uomo freddo, distante, che ha sacrificato il contatto umano in nome di un’immagine rassicurante di sé. La nuora, personaggio bellissimo e sfumato, lo inchioda fin da subito: “un egoista che si nasconde dietro la sua bonarietà e i suoi modi raffinati.”

Il viaggio da Stoccolma a Lund è solo un pretesto per raccontare una vita intera. In ogni sosta, Borg incontra qualcosa che lo riguarda: la giovinezza perduta, l’amore non vissuto, il rancore che ha lasciato crescere nei rapporti familiari, la madre che è ancora viva ma più fredda di lui, il figlio Evald bloccato tra il cinismo e una tristezza trattenuta.

Ma il film non è un funerale. È un gesto di riconciliazione. La parabola di Isak è quella di un uomo che si guarda finalmente allo specchio, senza schermi. Scopre di essere ancora vivo. Scopre che la maschera che ha indossato per tutta la vita non era una protezione, ma una prigione. E che forse, alla fine, si può ancora sussurrare una parola gentile, regalare un gesto di tenerezza, lasciare uno spiraglio aperto.

Il finale è pieno di grazia. Isak conversa con la governante, quella figura ruvida e amorevole che gli è rimasta accanto come un’ombra fedele. Lei gli dice, con un sorriso: "Lascio la porta socchiusa. Se ha bisogno di qualcosa, sa dove trovarmi". E forse è lì, in quella frase semplice, che il professor Borg trova finalmente il suo posto delle fragole: un luogo non reale, ma emotivo. Un angolo della memoria in cui poter riposare, senza più difese.

Girato in un bianco e nero straordinario che esalta i contrasti e la densità degli spazi, Il posto delle fragole è diretto con mano magistrale, scritto con delicatezza e lucidità, interpretato con una profondità rara.
Un capolavoro che riesce a essere profondo con leggerezza.
Da rivedere a distanza di anni.

Film
Drammatico
Ingmar Bergman
Svezia
1957
Retrospettiva
martedì, 3 giugno 2025
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Il settimo sigillo

di Ingmar Bergman

Il settimo sigillo è probabilmente il film più conosciuto di Ingmar Bergman. Non necessariamente il più intimo né il più complesso, ma di certo il più rappresentativo. L’opera che ha consacrato il regista svedese sulla scena internazionale e che ha impresso alcune delle sue immagini più potenti nell’immaginario collettivo.
La partita a scacchi con la morte, i paesaggi spogli battuti dal vento, lo sguardo inquieto dei protagonisti, tutto in questo film è diventato simbolo, omaggiato e parodiato fino a farsi mito.

Nel cuore di un Medioevo devastato dalla peste e dalla disperazione, il cavaliere Antonius Block (Max von Sydow), insieme al suo fedele scudiero (Gunnar Björnstrand), fa ritorno in Svezia dopo anni di crociate. Ma ad attenderlo sulla spiaggia non c’è la pace, bensì la Morte in persona, venuta a reclamare la sua anima. Deciso a guadagnare tempo per trovare un senso all’esistenza e alla fede perduta, il cavaliere sfida la Morte a una partita a scacchi. Il loro duello diventa il filo conduttore di un viaggio attraverso un paesaggio desolato e simbolico, popolato da contadini superstiziosi, flagellanti, attori erranti, donne accusate di essersi concessa al diavolo e uomini senza Dio. Un pellegrinaggio terreno e spirituale, tra la paura dell’Apocalisse e il desiderio di redenzione.

Il settimo sigillo nasce come trasposizione cinematografica di un’opera teatrale scritta dallo stesso Bergman per i suoi studenti, ispirata agli affreschi delle chiese contadine svedesi, dove la Morte danza con i vivi accompagnandoli in silenzio verso la fine.
Non stupisce, quindi, che il film porti con sé un’impronta teatrale, fatta di dialoghi intensi e situazioni emblematiche, quasi da sacra rappresentazione. A tratti sembra di assistere a un dramma shakespeariano, ma più spoglio, più essenziale, e soprattutto più esistenziale.
Il protagonista, Antonius Block, non è l’eroe tragico, ma un uomo stanco, che si interroga sul senso dell’esistenza e sulla presenza – o assenza – di Dio, che si chiede se la vita sia solo un caso, una parentesi prima del nulla. Il suo ritorno dalle crociate non ha nulla dell’epico, è il viaggio di un’anima svuotata, che cerca risposte in un mondo in cui la fede è diventata fanatismo, la peste divora i corpi e la paura brucia le streghe. E intorno a lui si muovono figure che sembrano simboli viventi, Lo scudiero cinico e disilluso, la coppia di attori di strada pieni di speranza, il fabbro e la moglie grotteschi, la ragazza muta che solo davanti alla fine ritrova la parola. Sembra quasi un mazzo di tarocchi (il cavaliere, la morte, il saltimbanco, la vergine, etc), ognuno con il suo archetipo da incarnare. Tutti parlano, a modo loro, dell’essere umani.
La partita a scacchi non è solo la scena più celebre del film, è il cuore della pellicola, una lunga sfida contro il nulla, un tentativo disperato di rinviare l’appuntamento con la fine e di trovare qualche indizio sul senso dell’esistenza. La morte, col suo volto pallido e impassibile, gioca ma non rivela nulla. Ascolta, sorride, fa il suo lavoro. E il cavaliere, nel suo bisogno disperato di credere in qualcosa, non ottiene altro che il silenzio.
Perché questo film non consola, non offre risposte, non apre spiragli. Al massimo, fa spazio al dubbio. E ci mette davanti a un’idea scomoda, che l’unica vera risposta potrebbe essere il nulla.
Non è un film perfetto, e non lo vuole essere. È freddo, a tratti distante. Non ti prende per mano, non ti commuove facilmente. Ma ti resta dentro. Ti interroga. E magari non subito, ma dopo un po’ ti accorgi che ti ha lasciato addosso qualcosa.
Dal punto di vista visivo è straordinario. La regia è rigorosa e precisa, la fotografia in bianco e nero di Gunnar Fischer è qualcosa che non si dimentica. Il paesaggio svedese sembra scolpito nella pietra, e riflette alla perfezione l’animo inquieto dei personaggi. I volti, le ombre, i contrasti, tutto ha un peso, tutto racconta qualcosa.
Straordinari gli attori, su cui spicca un giovane Max von Sydow, il cui volto scavato riesce a restituire tutta la malinconia e la disperazione del cavaliere. Ma è anche impossibile dimenticare la maschera inquietante e compassata della Morte, interpretata da Bengt Ekerot, diventata icona della settima arte – chissà se Marty Feldman si sia ispirato a lui per il suo Igor, ovviamente in chiave comica.

Il settimo sigillo è un film figurativamente magnetico, stratificato. Pieno di simboli, riferimenti religiosi, allegorie medievali. Bergman prende l’arte sacra, trasformando le paure di un’epoca in domande universali. Un film pieno di metafore e profondamente esistenzialista che ci ricorda che è umano cercare risposte - e cedere alla religione e al fanatismo per trovare conforto e un senso di appartenenza - ma che in fondo ognuno di noi è destinato, prima o poi, a guardare negli occhi la morte, quindi tanto vale nel frattempo vivere con leggerezza e magari assaporare delle fragole appena raccolte.
Vabbè, detto questo, il prossimo film me lo scelgo un pò più leggero.

Film
Drammatico
Storico
Fantastico
Ingmar Bergman
Svezia
1957
Retrospettiva
giovedì, 29 maggio 2025
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Mulholland Drive

di David Lynch

Se dovessi stilare una classifica dei miei film preferiti, Mulholland Drive occuperebbe senza esitazione il primo posto. Nutro un amore viscerale per David Lynch e una venerazione profonda per Mulholland Drive che considero un capolavoro.
Secondo una classifica della BBC che ha coinvolto 177 critici cinematografici di 36 paesi, Mulholland Drive è considerato il miglior film del ventunesimo secolo. Un film enigmatico, stratificato, che ha generato fiumi di interpretazioni, saggi, recensioni, e analisi di ogni tipo. Al di là delle parole, vedere un film di Lynch non è mai semplicemente "guardare un film". È un’esperienza. E Mulholland Drive è, forse, la sua manifestazione più sublime.

Mulholland Drive nasce nel 1999 come un progetto televisivo destinato alla ABC, concepito come pilota di una serie che avrebbe dovuto proseguire l'eredità di Twin Peaks. Nonostante l'entusiasmo iniziale, la ABC rifiutò il progetto, giudicandolo troppo oscuro, lento e confuso per il pubblico televisivo mainstream. Dopo il rifiuto, Lynch si trovò con un'opera incompleta, senza una destinazione e con nessun produttore americano disposto a finanziare il film. Fu grazie all'intervento del produttore francese Pierre Edelman e al sostegno finanziario di StudioCanal che il progetto trovò nuova vita. Lynch riscrisse e ampliò la sceneggiatura, aggiungendo nuove scene che trasformarono il pilota in un film completo. Le riprese aggiuntive si svolsero nell'ottobre del 2000, con un finanziamento di 7 milioni di dollari.
Il risultato fu un'opera che trascendeva le convenzioni narrative, mescolando realtà e sogno in un'esperienza cinematografica unica. Mulholland Drive venne presentato al Festival di Cannes nel 2001, dove Lynch vinse il premio per la miglior regia, consacrando il film come uno dei capolavori del cinema contemporaneo.

A grandi linee, la trama di Mulholland Drive è la seguente.
Una misteriosa donna (Laura Harring) scampata a un incidente d’auto lungo la celebre strada collinare di Los Angeles si rifugia, spaesata e priva di memoria, in un appartamento apparentemente disabitato. Poco dopo, nello stesso appartamento arriva Betty (Naomi Watts), un’aspirante attrice dal sorriso luminoso, appena atterrata a Hollywood con il sogno di sfondare nel cinema. Dall'incontro tra le due ragazze nasce un legame ambiguo e intenso, mentre insieme tentano di scoprire l’identità perduta di Rita (il nome adottato dalla sconosciuta) seguendo una serie di indizi che si fanno via via più oscuri.
Nel frattempo un regista hollywoodiano (Justin Theroux) viene minacciato da grotteschi e ambigui mafiosi affinche scelga l'attrice che dovrà interpretare il ruolo della protagonista del suo prossimo film. Un killer pasticcione, un uomo terrorizzato da un sogno ambientato dietro un ristorante, un cowboy enigmatico, e uno spettacolo teatrale dove tutto è finto ma sembra tremendamente reale, completano un mosaico narrativo dove i confini tra realtà e illusione si dissolvono.

Chi ama Lynch sa che non bisogna cercare un senso razionale nelle sue storie. Il suo cinema non chiede di essere capito, ma vissuto. È un’esperienza da attraversare lasciandosi trasportare dalle suggestioni, dai simboli, dai sogni che si mescolano alla realtà e all’inconscio. Eppure, tra Lost Highway, Mulholland Drive, e Inland Empire — quella che potremmo chiamare, seppur con qualche forzatura, la sua trilogia del sogno — è proprio Mulholland Drive a essere il più leggibile e comprensibile. E allora, proviamo a rimettere insieme i pezzi di questo intricato puzzle.

Da qui in avanti, inevitabilmente, partono gli spoiler.

Il film si divide, sostanzialmente, in due parti. La prima è il sogno. O forse una realtà alternativa, un mondo interiore, un rifugio dell’inconscio. In questa dimensione la protagonista, Naomi Watts, è Betty, un’aspirante attrice appena arrivata a Hollywood e ospite in un appartamento elegante, ingenua ma determinata, piena di talento. È bella, luminosa, e al suo primo provino incanta tutti con una performance sbalorditiva. Incontra Rita (Laura Harring), donna misteriosa colpita da amnesia, e tra le due nasce una complicità profonda, anche sentimentale. Tutto sembra andare per il verso giusto, finché Betty apre una scatola blu — oggetto simbolico e portale — e la realtà, o qualcosa che ci somiglia, irrompe.
Da quel momento in poi tutto si ribalta. Il sogno svanisce. Betty non è più Betty, ma Diane. E Rita è Camilla. Diane è un’attrice fallita, frustrata, spezzata. Vive nell’ombra di Camilla, che invece è affermata, desiderata, sicura di sé. La loro relazione è sbilanciata, tossica, e quando Diane scopre che Camilla sta per sposare un regista (Justin Theroux), sopraffatta dalla gelosia e dal senso d’abbandono, assolda un killer per eliminarla. Ma non regge il peso del suo stesso gesto. Mentalmente devastata, trova rifugio proprio nel sogno che abbiamo visto nella prima parte, per poi — incalzata dal senso di colpa e dalla disgregazione psichica — togliersi la vita.
Mulholland Drive è un gioco a incastri, una struttura a specchio dove sogno e realtà, conscio e inconscio, desiderio e trauma si confondono, si fondono, si rincorrono. Lynch non ci fornisce una spiegazione univoca, ma dissemina indizi, frammenti, immagini ricorrenti. Non ci guida, ci abbandona dolcemente nel labirinto.

Ma Mulholland Drive è anche – forse soprattutto – una feroce, allucinata critica al sistema hollywoodiano, a quella macchina patinata e crudele che promette sogni e spesso restituisce incubi. Hollywood è una trappola emotiva, un meccanismo che plasma e distrugge, che premia l’immagine e punisce la fragilità. Betty arriva con entusiasmo e talento, ma viene risucchiata in un mondo fatto di poteri invisibili, scelte imposte, manipolazioni subdole. Adam, il regista, è costretto a cedere alle pressioni di oscuri burattinai, incapace di difendere la propria libertà creativa. Tutto è recitazione. Tutto è illusione.
E poi c’è Naomi Watts, che in questo film firma una delle prove attoriali più intense e devastanti degli ultimi decenni. Il suo coinvolgimento emotivo va oltre la finzione. Prima di Mulholland Drive, Watts faticava a emergere. Anni di rifiuti, ruoli minori, provini falliti. Era arrivata a pensare di smettere, a sfiorare l’idea del suicidio. Lynch non sceglie solo un’attrice, sceglie una ferita aperta. Una donna che ha conosciuto il lato oscuro del sogno hollywoodiano. Betty e Diane non sono solo personaggi. Sono due volti della stessa ossessione. E Naomi Watts le interpreta con una verità così disarmante da lasciare il segno per sempre.

Tralasciando la trama, il senso, la narrazione — che poi è forse l’ultima cosa che interessava davvero a Lynch — Mulholland Drive è costellato di sequenze magistrali, capaci di far accapponare la pelle.

Partiamo da una delle prime scene, tra le più inquietanti dell’intero film, quella in cui un uomo racconta a un amico di aver sognato il locale in cui si trovano. Nel sogno, dietro al ristorante, si nasconde una figura orribile, la cui sola presenza gli provoca un terrore profondo. Quando i due escono per controllare, la creatura appare davvero. L’uomo crolla a terra, sopraffatto dallo shock. Apparentemente slegata dalla trama principale, questa scena è in realtà una potente metafora, un incubo che prende corpo, o forse un sogno dentro un altro sogno. Il mostro dietro il diner è l’incarnazione dell’orrore rimosso, la parte più oscura della psiche, il prezzo da pagare per inseguire un sogno o di chi ha commissionato un omicidio. Una sequenza di meno di cinque minuti, girata in pieno giorno, che culmina con quello che potremmo definire un vero e proprio jumpscare, ma di una raffinatezza inquietante: tensione pura, orrore viscerale, senza bisogno di ombre o buio. Magistrale.
Proseguiamo con la scena del cowboy, in un luogo isolato e illuminato a intermittenza — cifra stilistica inconfondibile di Lynch — in cui un personaggio dal volto impassibile pronuncia un dialogo criptico e inquietante, che sembra venire da un’altra dimensione. O con quella del caffè, in cui uno dei fratelli Castigliane (interpretato da Angelo Badalamenti, storico compositore lynchiano e autore della bellissima colonna sonora del film) siede al tavolo con i produttori e il regista del film. Beve l’espresso servito dal cameriere e, con glaciale disprezzo, lo sputa nel tovagliolo. Un gesto teatrale e volutamente disturbante, che comunica autorità, potere, e intimidazione.
Ma la scena più potente resta senza dubbio quella del Club Silencio. Le due protagoniste entrano in un teatro decadente. Sul palco, un personaggio luciferino rivela la finzione: "No hay banda… tutto è registrato". La musica, la voce, le emozioni: nulla è reale. Poi arriva la cantante Rebekah Del Rio, che canta Llorando con un’intensità straziante, prima di crollare a terra, mentre la sua voce continua a riempire il teatro. È il punto di rottura. La consapevolezza che tutto ciò che Betty ha vissuto è una costruzione mentale, un sogno artificiale per sfuggire a una realtà intollerabile. Ma è anche una riflessione meta-cinematografica sulla natura stessa del cinema: finzione capace di toccare il vero. Sublime.

Mulholland Drive, che Lynch descrisse come "una storia d’amore nella città dei sogni", è la quintessenza del suo cinema. Un profondo atto d’amore per la settima arte, ma anche un bilancio esistenziale del regista. Un film fatto di misteri, visioni oniriche, simboli nascosti, bruschi salti narrativi, venature grottesche e una tensione psicologica costante — il tutto orchestrato con un montaggio ipnotico e una tecnica impeccabile. Un capolavoro del cinema moderno.

Ho visto Mulholland Drive per la prima volta al cinema, quando uscì nel 2000. Ricordo perfettamente, all’uscita dal cinema, il senso di smarrimento, la sensazione di non aver capito nulla della storia, ma al tempo stesso di essere stato profondamente scosso, emotivamente travolto. È uno di quei rari film capaci di smuoverti dentro senza bisogno di spiegazioni. Pochi giorni dopo, sono tornato a vederlo di nuovo, sempre al cinema. Da allora, l’avrò rivisto almeno una decina di volte. E ogni volta è come se fosse la prima: cambia, si trasforma, rivela qualcosa di nuovo. Come un sogno che ti rimane addosso. Eterno e inafferrabile
Grazie maestro.

Film
Drammatico
Noir
Thriller
Mistero
David Lynch
USA
2001
Retrospettiva
lunedì, 12 maggio 2025
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Battle Royale

di Kinji Fukasaku

Uscito nel 2000 e diretto da Kinji Fukasaku, Battle Royale è un cult generazionale che, tra polemiche e censure, si è affermato come uno dei film più controversi e chiacchierati dell'inizio del nuovo millennio. Tratto dal romanzo omonimo di Koshun Takami, è un’opera feroce, beffarda e assolutamente politically scorrect, che ha lasciato un’impronta profonda nel cinema giapponese e mondiale, influenzando registi come Quentin Tarantino e anticipando fenomeni come Hunger Games e Squid Game. Osteggiato e censurato in patria, a causa della sua estrema violenza e dei contenuti controversi, in Italia non ha mai avuto una distribuzione cinematografica. All'epoca il film circolava grazie al passaparola e alla nascente pirateria digitale, alimentando un’aura di culto tra cinefili e appassionati. Solo qualche anno più tardi venne distribuito nel mercato home video. Mi pare che non sia mai stato proiettato in sala, se non in qualche rassegna dedicata al cinema giapponese. Attualmente è disponibile su Prime Video, all’interno del canale CG Collection.

In un futuro prossimo, in un paese asiatico non meglio definito, il governo vara una legge brutale per contrastare la dilagante delinquenza giovanile. Ogni anno, una classe di studenti delle superiori viene scelta a sorte per partecipare al "Programma", un crudele gioco di sopravvivenza noto come Battle Royale. Con l’inganno, durante una gita scolastica, un’intera classe viene narcotizzata e trasportata su un’isola deserta. Al loro risveglio, i ragazzi si ritrovano con un collare esplosivo al collo e vengono accolti dal loro ex insegnante (interpretato da Takeshi Kitano) che, supportato da un’unità militare, li informa che hanno tre giorni per eliminarsi a vicenda. Solo uno di loro potrà sopravvivere e fare ritorno a casa. Se allo scadere del tempo ci saranno più sopravvissuti, tutti verranno giustiziati.
Sconcertati e presi dal panico, i compagni di classe ricevono uno zaino con un kit di sopravvivenza e un’arma diversa per ciascuno. Da quel momento, diventano nemici mortali, costretti a uccidersi l’un l’altro per sperare di sopravvivere.

In Battle Royale ci sono 42 studenti – 21 ragazzi e 21 ragazze – costretti a partecipare a una sorta di reality show mortale. Alcuni dei ragazzi sono ben delineati attraverso brevi flashback che ne approfondiscono le motivazioni, le paure, le relazioni. Ogni morte è accompagnata da una didascalia con il nome del concorrente eliminato e il numero dei superstiti rimasti, scandendo il ritmo del massacro con precisione matematica.
Kinji Fukasaku firma un film violento, grottesco e ipercinetico, una via di mezzo tra Il signore delle mosche e un manga splatter anni novanta. La sua critica alla società giapponese è velenosa e diretta. Gli adulti hanno rinunciato a comprendere la gioventù e hanno deciso di gestirla con il terrore. Il “Programma” è una distorsione del sistema educativo, dove l'autorità diventa punizione e la scuola un campo di battaglia. Le dinamiche tra i personaggi – amicizie, rivalità, tradimenti – emergono in un contesto sempre più disperato. Il film mantiene un buon livello di tensione e alterna momenti di pura adrenalina ad altri più stucchevoli (vedi le dichiarazioni d'amore in punto di morte). Certo, qua e là si sfiora l’assurdo – ragazzi che camminano con un'ascia in testa oppure con sei proiettili in corpo – ma d'altronde Battle Royale è una sorta di pulp distopico che non nasconde la sua vera natura. Takeshi Kitano è perfetto nel ruolo del professore borderline. Il suo personaggio è ambiguo, stanco, distaccato, ma mai del tutto privo di umanità. È l’incarnazione di un’autorità che non guida, ma osserva e punisce.
Nel finale il film inciampa un po’ in un moralismo posticcio e si lascia dietro qualche buco di sceneggiatura, ma resta comunque un cultone irriverente e brutale, capace di trasformare l’angoscia adolescenziale in una vera e propria guerra generazionale. 

Nel 2003 è uscito il seguito, Battle Royale II: Requiem, diretto inizialmente da Kinji Fukasaku ma completato dal figlio Kenta Fukasaku dopo la morte del padre durante le riprese.
Esiste anche una versione manga di Masayuki Taguci pubblicata tra il 2000 e il 2005 in quindici volumi, che però mi dicono essere assai discutibile.

Film
Distopia
Drammatico
giappone
2000
Retrospettiva
giovedì, 8 maggio 2025
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Buffalo '66

di Vincent Gallo

Buffalo '66 è un film a cui sono molto affezionato e che rivedo spesso volentieri. Sarà che l'ho visto per la prima volta in un particolare momento della mia vita, ma da allora mi è rimasto addosso. L’autore di questa pellicola è Vincent Gallo, artista poliedrico e controverso, difficile da incasellare. Attore, regista, musicista e pittore, ha costruito attorno a sé l’immagine di un personaggio sopra le righe, in costante attrito con l’industria cinematografica e, a volte, persino con il proprio pubblico. Amato e detestato con la stessa intensità, è proprio con Buffalo '66 — film del 1998 che ha scritto, diretto, prodotto, montato, musicato e interpretato — che Gallo si è consacrato come figura di culto del cinema indipendente americano. Peccato che, dopo questo esordio folgorante, abbia fatto ben poco.

Il film vede come protagonista Billy Brown, interpretato dallo stesso Vincent Gallo, che esce di prigione dopo aver scontato una condanna per un crimine che non ha commesso. Per saldare un debito di gioco, avendo perso una scommessa sulla vittoria dei Buffalo Bills al Super Bowl, è stato costretto da un allibratore senza scrupoli (Mickey Rourke) a prendersi la colpa e trascorrere cinque anni di carcere al posto del vero colpevole. Tornato a Buffalo, la sua città natale, Billy, ragazzo disadattato e nevrotico, segnato da traumi e gravi carenze affettive, contatta i genitori, a cui aveva raccontato di essere stato via per lavoro, di avere una carriera brillante e una moglie. Quando la madre insiste al telefono per incontrare la "nuora", Billy, in preda al panico, rapisce d’istinto una giovane ballerina, Layla (Christina Ricci), trovata per caso in una scuola di danza, costringendola a fingersi sua moglie per la visita a casa dei suoi genitori — con i quali, peraltro, non ha alcun tipo di rapporto reale.
Il pranzo con la madre (Anjelica Huston) e il padre (Ben Gazzara) di Billy, rivela un ambiente familiare freddo e disfunzionale. La madre, ossessionata dai Buffalo Bills, sembra più interessata alla squadra di football che al figlio, mentre il padre si comporta in modo distante, ambiguo e vagamente molesto. Nonostante l’assurdità della situazione, Layla sceglie di restare con Billy anche dopo il pranzo, forse attratta da lui, forse mossa da un impulso empatico. I due trascorrono insieme il resto della giornata — tra una sala da bowling, un ristorante e un motel — mentre Billy cova in segreto un proposito di vendetta: uccidere il giocatore della squadra dei Buffalo, Scott Wood, colpevole secondo lui di aver sbagliato di proposito il calcio decisivo che lo ha rovinato. Ignara di tutto, Layla diventa il contrappunto gentile alla rabbia trattenuta di Billy, in un viaggio che oscilla tra amarezza, tenerezza e disperazione.

Buffalo '66 è una storia triste, malinconica e surreale. L’incontro tra due anime sole e sbandate, ambientato in una decadente provincia americana, che si consuma nell’arco di una singola giornata e si trasforma in un legame fragile e profondo, fatto di silenzi, gesti impacciati e desideri inespressi. È un film sgraziato, imperfetto, ma con un’enorme anima. Un’opera dalla bellezza sghemba, costruita su intuizioni visive personali e potenti. Vincent Gallo, al suo esordio, dal punto di vista tecnico e registico fornisce una grande prova giocando con pellicole invertite e formati inusuali che restituiscono una texture granulosa, desaturata e onirica. Le inquadrature statiche, simmetriche, spesso spiazzanti, contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa e rarefatta.
Pur non essendo dichiaratamente autobiografico, il film attinge a piene mani dalla vita di Vincent Gallo, trasformando la sua esperienza familiare e il suo disagio esistenziale nei fili della trama. Il Billy Brown interpretato da Gallo è uno schizofrenico trattenuto, figlio di due genitori anaffettivi, incapace di relazionarsi col mondo e con le donne. Vorrebbe amare, ma ha paura del contatto, del lasciarsi andare, della fiducia. Alterna crisi verbali nevrotiche a momenti di totale distanza emotiva. Come nella scena delle fototessere, dove il suo sguardo è completamente assente segnato da una profonda tristezza, oppure durante il surreale pranzo con i suoi genitori. Proprio quest'ultima scena è tra le più emblematiche del film, anche dal punto di vista registico. In un silenzio imbarazzante che a tratti diventa grottesco, si innestano flashback che raccontano l’infanzia di Billy. Il più straziante è forse quello in cui la madre gli offre dei dolcetti al cioccolato, mentre sullo schermo si apre un riquadro che mostra un flashback con il piccolo Billy con il volto gonfio, allergico proprio a quel cibo che la madre dovrebbe sapere gli fa male. 
Christina Ricci è semplicemente perfetta. La scena in cui balla il tip-tap sulle note eteree di Moonchild dei King Crimson, in una sala da bowling diventata improvvisamente deserta, è uno dei momenti più poetici e intensi del film. Ricci ha una bellezza dirompente e fuori dagli schemi, una specie di fata turchina curvy, goffa, sensuale e innocente allo stesso tempo. Una bellezza non omologata, più forte di qualsiasi retorica sull’inclusività. Il suo personaggio, Layla, di cui non sappiamo nulla, è uno specchio scomposto del protagonista. Anche lei probabilmente abbandonata, forse anch’essa in cerca di calore, si lascia trasportare in questo rapporto tossico senza mai sembrare davvero succube. C’è qualcosa in lei di teneramente squilibrato, come se la sindrome di Stoccolma si trasformasse in una forma pura, infantile, di amore incondizionato. È proprio la presenza della Ricci a dare luce e malinconia al film. I suoi silenzi, le frasi fuori luogo, gli sguardi pieni e stranianti. Rimane impressa nella memoria. Come quando, a tavola, cerca di conversare con la madre di Billy, interpretata da una glaciale e inquietante Anjelica Huston. O quando, più tardi, divide con Billy il letto di un motel in una scena sospesa tra imbarazzo, pudore e tenerezza.

Buffalo '66 è una storia d’amore assurda, astrusa, struggente e improbabile. Quasi impossibile credere che una ragazza possa accettare la violenza iniziale del protagonista, eppure il film lavora in una dimensione emotiva alternativa, dove il surreale prende il posto del plausibile. È un racconto di solitudini che si sfiorano, si riconoscono e, forse, si salvano a vicenda.
Da vecchio amante del prog-rock, oltre la già citata canzone dei King Crimson, non posso non ricordare anche Heart of the Sunrise degli Yes, che accompagna la sequenza finale nel locale a luci rosse, con i fermo immagine alla Matrix.

Sognante, poetico, a tratti angosciante, Buffalo '66 è un film profondamente malinconico, ma non disperato. Parla della fragilità, del disagio di chi si sente fuori posto in un mondo che lo ha respinto fin dall’inizio.
Un piccolo capolavoro indipendente che, ancora oggi, riesce a emozionarmi come la prima volta. Peccato che Vincent Gallo, dopo questo film, non si sia più davvero ripetuto.

Film
Drammatico
USA
1998
Retrospettiva
martedì, 8 aprile 2025
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Il gatto a nove code

di Dario Argento

Nei primi anni settanta, dopo il clamoroso successo de L’uccello dalle piume di cristallo, Dario Argento torna dietro la macchina da presa con Il gatto a nove code, secondo tassello della cosiddetta "trilogia degli animali" – saga non ufficiale unita più dai titoli zoologici che da un vero filo conduttore. Meno impattante del suo predecessore e meno visionario del successivo Quattro mosche di velluto grigio, questo film si colloca come un’opera di transizione, un capitolo intermedio che, pur con i suoi limiti, si rivela fondamentale per la crescita stilistica e narrativa del regista romano. Un film di passaggio, sì, ma tutt’altro che trascurabile.

La vicenda prende il via con un misterioso furto in un laboratorio di genetica di Torino. Non viene sottratto nulla, ma il giorno dopo uno degli scienziati finisce sotto un treno in circostanze decisamente sospette. A interessarsi al caso sono Franco Arno (Karl Malden), un ex giornalista cieco con un fiuto da detective e una nipotina sveglia, e Carlo Giordani (James Franciscus), un reporter d’assalto pronto a tutto.I due iniziano a scavare tra piste inconcludenti, silenzi sospetti e una catena di omicidi sempre più inquietanti. Tutto sembra ruotare attorno a quell’istituto scientifico, dove si conducono ricerche d'avanguardia sulla genetica e la predisposizione al crimine.

Il gatto a nove code è un thriller dal ritmo serrato, con un montaggio dinamico e un uso costante della soggettiva dell'assassino, spesso anticipata da un inquietante primo piano di una pupilla dilatata. Gli omicidi iniziando a diventare più brutali, ma ancora relativamente “anemici” rispetto agli standard futuri di Argento. Le atmosfere sono ben costruite, ricche di tensione e con evidenti influenze hitchcockiane ma anche con una vena ironica e personaggi quasi caricaturali che alleggeriscono la tensione. Tecnicamente il film funziona. La regia è solida, la fotografia elegante e il tutto è supportato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Bravi Karl Malden e James Franciscus. Meno convincente Catherine Spaak, bella ma legnosa, con una scena di sesso che sembra uscita da una pubblicità vintage del dopobarba.

Certo, è un film imperfetto. A volte sbilenco, con una sceneggiatura che zoppica e un finale che lascia l’amaro in bocca più per le promesse mancate che per il colpo di scena. Ma è anche l’opera di un autore in piena evoluzione, che inizia a maneggiare con sicurezza i ferri del mestiere e che, con la sua cifra stilistica sempre più definita, comincia a lasciare un’impronta inconfondibile nel giallo all’italiana.

Film
Thriller
Giallo
Italia
1971
Retrospettiva
lunedì, 7 aprile 2025
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Cure

di Kiyoshi Kurosawa

In occasione della sua uscita nelle sale italiane, sono andato a vedere Cure di Kiyoshi Kurosawa, il film che nel 1997 ha aperto – insieme a Ring di Hideo Nakata e Audition di Takashi Miike – la prima ondata del cosiddetto J-Horror. Un’opera che ha segnato l’ascesa di Kurosawa nel panorama del cinema giapponese contemporaneo, proiettandolo tra i registi più rilevanti e meno inquadrabili.
A quasi trent’anni di distanza, Cure resta un oggetto misterioso. Oscuro, disturbante, elusivo. Non a caso è diventato un film di culto, ammirato da registi come Martin Scorsese, Ari Aster e Bong Joon-ho, che lo hanno citato tra le loro opere di riferimento.

In una Tokyo fredda e desolata vengono compiuti una serie di omicidi inquietanti. Le vittime vengono trovate con una X incisa sulla gola. Gli assassini, persone comuni, senza legami apparenti tra loro, vengono sempre identificati sul posto, ma sembrano non ricordare nulla del delitto. Il detective Kenichi Takabe (interpretato da uno straordinario Koji Yakusho), un uomo razionale tormentato dalla fragile salute mentale della moglie, inizia a indagare su questi casi inspiegabili. Il sospettato principale è un giovane enigmatico, Mamiya (Masato Hagiwara), che pare aver perso la memoria ma sembra nascondere molto più di quanto lasci intendere.

Kurosawa ha dichiarato di essersi ispirato a Il silenzio degli innocenti e Seven, ma prenderla alla lettera è fuorviante. Sì, c’è un detective, c’è un’indagine e c’è un assassino. Ma Cure non è davvero un film sui serial killer. È qualcos’altro. È un thriller spogliato di tensione narrativa classica, che si muove in uno spazio indefinibile, dove il terrore non è visibile, ma percepito. Niente musica, pochi dialoghi, lunghi piani sequenza, inquadrature fisse e suoni ambientali che si insinuano sotto pelle. L’orrore non arriva mai in modo spettacolare. Lo senti nel rumore di un neon, nel silenzio di una stanza vuota, nel volto inespressivo di chi ha appena ucciso senza sapere perché.
Kurosawa prende i cliché del thriller psicologico e li disinnesca uno ad uno. Non cerca la suspense, ma l’inquietudine. Lavora di sottrazione focalizzando sull'aspetto metafisico ed esistenziale. Il tema dell’ipnosi – o meglio, del mesmerismo – insinua l’idea che basti poco per liberare la volontà e far emergere l’oscurità che ognuno porta dentro. Cure è un film sul Male con la “M” maiuscola. Non come figura identificabile, ma come presenza invisibile che può insinuarsi nelle crepe della normalità. Il Male, qui, è un virus che si trasmette con uno sguardo o una frase sussurrata.
Il ritmo è lentissimo, quasi ipnotico. Ma è proprio quella lentezza a creare tensione. Tutto può succedere, da un momento all’altro, e spesso non succede. Alla fine viene quasi da pensare che sia tutto nella mente del detective, come suggerisce il medico che gli dice che sarebbe lui da internare al posto della moglie. 

Quando l'ho visto per la prima volta, ammetto di avere avuto un senso di smarrimento. E quindi? Alla fine è stata questa la domanda che mi sono fatto. È un film ambiguo, sfuggente, che ti lascia addosso più domande che risposte. Non offre spiegazioni. Non cerca il compiacimento. Sicuramente è uno di qui film che necessita più di una visione. 
Vederlo al cinema dopo parecchi anni e con una diversa maturità è stata un’esperienza completamente nuova. Non solo ha resistito al tempo, ma oggi forse inquieta più di allora.

Film
Thriller
Horror
giappone
1997
Cinema
Retrospettiva
venerdì, 4 aprile 2025
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Freaks

di Tod Browning

"Disturbante" è un aggettivo abusato, lo so. Ma, onestamente, faccio fatica a trovarne uno più calzante per descrivere Freaks, il cult maledetto del 1932 firmato da Tod Browning. Al giorno d'oggi, dove il politicamente corretto trasforma Biancaneve in una impavida e cazzuta principessa che vive con sette coinquilini dalle abilità differenti, un film del genere, interpretato da veri fenomeni da baraccone, sarebbe impensabile.

La genesi del film è abbastanza nota agli appassionati. Reduce dal grande successo di Dracula, Browning venne contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per dirigere un horror e mettersi al passo con un genere che stava sbancando al botteghino. Ma invece di vampiri eleganti o cadaveri rianimati, Browning – che conosceva bene il mondo del circo, avendoci lavorato da giovane – decise di adattare un racconto breve di Tod Robbins, Spurs, e trasformarlo in un incubo umano, grottesco e crudele, ancora oggi impossibile da dimenticare.

La storia è ambientata in un circo itinerante dove si esibiscono i cosiddetti freaks, uomini e donne affetti da nanismo, malformazioni congenite, e deformità fisiche che li rendono oggetto di curiosità e repulsione. Hans, un uomo affetto da nanismo, è perdutamente innamorato della bella trapezista Cleopatra, alta, sinuosa e letale. La donna, approfittando della sua ingenuità, lo seduce per mettere le mani sulla sua eredità, con l’aiuto del suo amante, l’aitante forzuto Hercules. Ma tra i “mostri” del circo vige un codice non scritto: chi tocca uno di loro, tocca tutti. E quando la verità viene a galla, la vendetta arriva rapida, spietata, inarrestabile.

Sia durante le riprese che all’arrivo nei cinema, Freaks incontrò non pochi ostacoli. La presenza di veri fenomeni da baraccone e l’audacia con cui Browning li mostrava – senza filtri, senza pietà, ma anche senza derisione – generarono sconcerto, polemiche e un’ondata di rifiuto da parte del pubblico e della critica. La produzione tagliò le scene ritenute più sconvolgenti (la versione originale finiva con una scena di castrazione e mutilazione) nel tentativo di renderlo più digeribile. Ciononostante, il film fu un flop disastroso. La visione venne vietata in numerosi paesi europei, la Metro-Goldwyn-Mayer lo ritirò dalle sale dopo poche settimane, e Tod Browning non si riprese mai del tutto facendo fatica a trovare lavoro negli anni successivi.
Freaks è un pugno nello stomaco travestito da film horror. Ma il vero orrore non è nei corpi deformi dei suoi protagonisti, bensì nello sguardo degli "altri", nei sorrisi falsi, nella cattiveria borghese che giudica e schiaccia ciò che non comprende. Browning ribalta la prospettiva: i freaks, gli emarginati, sono gli unici a possedere una morale, una coerenza, una forma di purezza. I veri mostri sono gli "apparentemente normali", con i loro sorrisi da pubblicità e i loro cuori di piombo. L’atmosfera del circo è inquietante, satura di un’umanità deformata ma reale, fragile, tenera e crudele. Quando arriva la vendetta finale – in una notte di pioggia e fango, con i freaks che strisciano sotto i tendoni come un’orda primordiale – il film cambia volto. Non è più un melodramma bizzarro ma diventa un incubo morale.

Oggi è un film di culto, amato da registi, critici, outsider. È un’opera che ha il coraggio di non rassicurare, di non abbellire, di non mentire. In un’epoca che finge inclusività ma censura il reale, Freaks resta uno film ruvido, spietato ma sincero. 

Film
Drammatico
Grottesco
USA
1932
Retrospettiva
venerdì, 28 marzo 2025
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The Conjuring - L'Evocazione

di James Wan

James Wan non è mai stato un regista che mi appassiona più di tanto. Il suo nome è legato principalmente a Saw (di cui ha diretto il primo capitolo), e diversi horror di facile consumo fatti di jumpscare ben realizzati, un estetica da manuale e un’estrema pulizia visiva. Un regista che conosce il mestiere, ha capito cosa vuole il pubblico e sa come offrirglielo, ma il cui cinema sembra più attento al confezionamento che alla sostanza.

The Conjuring del 2013 rappresenta la sintesi perfetta delle sue abilità e dei suoi limiti, un film che prende il gotico classico, lo aggiorna con una regia moderna e lo arricchisce di jumpscare perfettamente calcolati. Il risultato è un film elegante nella messa in scena, efficace nell’intrattenimento, ma che difficilmente lascia il segno.

Il film (distribuito in Italia con il sottotitolo L'Evocazione) si basa su una delle tante indagini condotte da Ed e Lorraine Warren, celebri demonologi e studiosi del paranormale, il cui archivio di presunti casi reali ha ispirato numerosi film, tra cui il più famoso Amityville Horror.

La vicenda segue la famiglia Perron, che nel 1971 si trasferisce in una casa di campagna nel Rhode Island, ignara del male che vi si annida. Quando eventi inspiegabili iniziano a tormentare i due coniugi e le loro cinque figlie, Carolyn Perron (Lili Taylor) si rivolge agli investigatori del paranormale Ed e Lorraine Warren (Patrick Wilson e Vera Farmiga). La coppia di demonologi scopre che la casa è infestata dallo spirito di una strega, Bathsheba, e che l’entità sta prendendo il controllo di Carolyn. Mentre la possessione si intensifica, i Warren devono affrontare il male in una lotta contro il tempo per salvare la famiglia.

The Conjuring è un film che fa esattamente quello che promette. Spaventa, intrattiene e confeziona un’esperienza horror accessibile a un pubblico ampio. Wan costruisce la tensione con un ritmo perfettamente studiato, giocando con movimenti di macchina fluidi, suoni diegetici e un uso calibrato del silenzio per amplificare l’effetto degli spaventi. Ogni jumpscare è progettato con precisione matematica, e il risultato è un horror che funziona come una giostra dell'orrore. Nonostante il film sia pieno zeppo di cliché – dai battiti insistenti sulle pareti al gioco del battimani, dal carillon inquietante alla bambola posseduta – la regia attenta e il montaggio chirurgico riescono comunque a far sobbalzare lo spettatore meno smaliziato. Sul piano visivo, il film richiama il cinema gotico con le sue case scricchiolanti, le ombre minacciose e una fotografia dalle tonalità desaturate.

Rivedendolo oggi, The Conjuring si conferma un horror costruito con grande mestiere, curato nella regia e impeccabile sul piano tecnico. Funziona nell’immediato, con una tensione ben calibrata e momenti di puro spavento, ma, almeno per me, manca di quel senso di inquietudine duraturo che distingue gli horror più incisivi. Ovviamente il film ha incassato milioni, conquistato il pubblico e dato il via a un’intera saga fatta di sequel e spin-off, segno che Wan ha saputo intercettare esattamente ciò che gli spettatori volevano.

Film
Horror
Possessione demoniaca
USA
2013
Retrospettiva
martedì, 18 marzo 2025
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Ring (1998)

di Hideo Nakata

All'inizio degli anni 2000, il J-Horror – l'horror giapponese – ha riscritto le regole della paura nel cinema occidentale. Non più carneficine splatter o esorcismi spettacolari, ma un terrore sottile, insinuante, fatto di presenze inquietanti, spiriti e maledizioni. 
Ring, il film del 1998 diretto da Hideo Nakata (erroneamente conosciuto come Ringu a causa di una traduzione errata su alcuni poster internazionali), nonostante l'uscita, l'anno precedente, di un altro grande esponente del genere, Cure di Kiyoshi Kurosawa, segna a tutti gli effetti la rinascita del J-Horror a livello internazionale. Il successo di The Ring, il remake americano nel 2002, ha reso il J-Horror un fenomeno globale, con il film di Nakata – che ricordiamo essere tratto dall'omonimo romanzo di Koji Suzuki – che diventa il capostipite di un'intera corrente cinematografica, generando una lunga scia di sequel, remake e imitazioni.

Le storie dell'orrore giapponese affondano le radici nel folklore e nelle leggende tradizionali. Tra le figure più ricorrenti troviamo gli yurei, fantasmi vendicativi dal volto cadaverico e dai lunghi capelli neri, ispirati alle credenze shintoiste e buddiste sulla vita dopo la morte. La vera peculiarità del J-Horror sta nella sua capacità di portare queste antiche figure nell’era moderna, fondendo tradizione e tecnologia. Videocassette maledette, telefoni cellulari, macchine fotografiche e computer diventano i nuovi vettori dell'orrore, strumenti attraverso cui il sovrannaturale si insinua nella quotidianità, trasformando oggetti comuni in portali verso l'incubo.

La storia è ormai ben nota. La giornalista Reiko Asakawa sta indagando sulla misteriosa morte della nipote e di alcuni suoi amici, deceduti in circostanze inspiegabili. Le sue ricerche la portano a scoprire una leggenda metropolitana che si sta diffondendo tra gli adolescenti: chiunque guardi una certa videocassetta riceve subito dopo una telefonata che annuncia la sua morte entro una settimana. Decisa a scoprire la verità, Reiko si reca nello stesso luogo in cui la nipote e i suoi amici hanno trascorso l’ultima notte e lì trova la videocassetta. La guarda. Sullo schermo scorrono immagini inquietanti e apparentemente scollegate: una donna che si pettina davanti a uno specchio, un pozzo abbandonato, strani simboli privi di logica. Terminata la visione, il telefono squilla e capisce di essere anche lei vittima della maledizione.  Disperata, chiede aiuto al suo ex marito, Ryuji, un professore di psicologia che, pur dimostrandosi scettico, le chiede una copia della videocassetta per analizzarla e aiutarla a risolvere il mistero. Le indagini conducono i due sull’isola di Oshima, dove anni prima vivevano la sensitiva Shizuko e sua figlia Sadako, una bambina dotata di spaventosi poteri paranormali, segnata da un destino tragico. La situazione precipita quando anche il figlioletto di Reiko, Yoichi, inconsapevole del pericolo, guarda la videocassetta venendo colpito dalla maledizione.

Sadako, il fantasma vestito di bianco dai lunghi capelli che le coprono il volto, che striscia fuori dallo schermo del televisore, è diventata una delle figure più spaventose e riconoscibili dell’horror moderno. La sua maledizione è un contagio che si propaga come un virus, alimentandosi della paura stessa delle sue vittime. Guardare il video significa diventare testimoni della sua sofferenza e, di conseguenza, condannarsi a condividere la rabbia di chi è stato sepolto vivo in un pozzo e abbandonato a una morte solitaria. L’unico modo per sopravvivere? Diffondere la maledizione, farla proliferare. Una metafora brutale e cinica che può essere letta in molti modi: dalla necessità umana di tramandare il proprio dolore alla riflessione sul ruolo dei media nel diffondere ansie collettive.

A livello visivo e narrativo, Ring non si affida alle classiche meccaniche da jumpscare. Nakata costruisce un’atmosfera opprimente, fatta di silenzi, inquadrature dilatate, dettagli che insinuano disagio. È un horror che si comporta come un thriller investigativo, in cui l’orrore emerge lentamente, fino a diventare inevitabile in un finale che presenta una delle sequenze più iconiche della storia recente del genere.

Dal punto di vista personale, la mia esperienza con Ring è stata influenzata dal fatto di aver visto prima il remake americano del 2002, diretto da Gore Verbinski. Il film di Nakata è arrivato in Italia solo l'anno successivo, in DVD, spinto dal successo ottenuto dal rifacimento americano. Pur non amando l’abitudine hollywoodiana di acquistare i diritti di un film straniero per rifarlo su misura del proprio pubblico, devo ammettere che The Ring, quello americano, mi ha terrorizzato molto più dell’originale, forse perché lo vidi per primo, al cinema, senza alcuna idea di cosa aspettarmi. Il ritmo più serrato, la fotografia cupa e alcune scene di puro orrore mi sono rimaste impresse nella memoria. È stato proprio grazie al remake che ho scoperto il film di Nakata, mi sono letto il romanzo di Suzuki e ho iniziato ad appassionarmi all’horror giapponese. Tornando al film di Nakata, e rivendendolo oggi a distanza di anni, sebbene sia evidente il low budget e una fotografia molto televisiva, ho apprezzato la costruzione lenta e la capacità di insinuare inquietudine senza affidarsi agli spaventi facili. Ring non è un horror costruito sull’effetto sorpresa, ma sulla tensione psicologica, sull'invisibile che si insinua nella quotidianità, lasciando che l’orrore si manifesti in modo sottile e inesorabile.

L’influenza di Ring è stata immensa. Ha generato un filone di horror giapponesi con spiriti vendicativi (da Ju-On a Dark Water), ha avuto sequel, prequel, rifacimenti coreani e americani, fino a ibridi come Sadako vs Kayako. 
È un cult, non solo per il J-Horror, ma per il cinema dell’orrore in generale. Un film che ha ridefinito l’idea stessa di paura, dimostrando che l’orrore più efficace è quello che si insinua nella mente dello spettatore.

Film
Horror
giappone
1998
Retrospettiva
giovedì, 13 marzo 2025
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Audition

di Takashi Miike

La prima volta che ho visto Audition di Takashi Miike, in una videocassetta a casa di un amico, non avevo idea di cosa mi aspettasse. Mi affascinavano gli horror giapponesi, che in quel periodo stavano proliferando, e avevo già visto film estremi e disturbanti. Tuttavia con Audition, di cui ignoravo la svolta nella trama, avevo un aspettativa diversa. Forse il titolo, forse la premessa da dramma sentimentale. Fatto sta che mi ha colto completamente alla sprovvista.

Quando il film viene presentato in anteprima al Festival di Rotterdam nel gennaio del 2000, Miike ha già diretto una decina di film. È noto per il suo stile prolifico e anticonvenzionale — in trent'anni di carriera girerà più di un centinaio di film spaziando tra i generi più disparati — ma è proprio con Audition, tratto dall’omonimo romanzo di Ryu Murakami, che il suo nome esplode a livello internazionale, consacrandolo come uno dei cineasti più estremi e provocatori del panorama giapponese.

Shigeharu Aoyama (Ryo Ishibashi) è un uomo di mezza età rimasto vedovo, che vive solo con il figlio adolescente. Su insistenza di quest’ultimo, decide di rimettersi in gioco e cercare una nuova moglie. L’amico Yoshikawa (Jun Kunimura), produttore cinematografico, gli propone una idea bizzarra, quella di organizzare un’audizione per un film inesistente, in modo da poter selezionare, tra tante giovani aspiranti attrici, la donna perfetta per Aoyama. È così che l’uomo incontra Asami Yamazaki (Eihi Shiina), una giovane di ventiquattro anni, eterea, timida e misteriosa. Aoyama ne è subito rapito. Asami sembra delicata, quasi irreale, con una storia di sofferenza che la rende ancora più affascinante. Ma dietro quel volto angelico si nasconde qualcosa di oscuro. Un passato di dolore, abusi e violenza repressa, che trascinerà Aoyama in un incubo a occhi aperti.

La forza di Audition sta proprio nella sua costruzione e nella sua messa in scena. Inizialmente il film sembra una semplice storia d’amore, quasi una commedia grottesca, in cui un uomo di mezza età si affida a una finta audizione organizzata dall’amico per trovare moglie, sfogliando i profili delle candidate con la stessa leggerezza con cui oggi si "swippa" su un’app di incontri. La donna perfetta deve essere giovane, bella, gentile, devota, pronta a soddisfare ogni necessità dell’uomo. Ma Asami non è un oggetto. È il riflesso distorto di una società patriarcale che impone alle donne di essere compiacenti, di curare il dolore degli uomini dimenticandosi del proprio. E quando la sua maschera cade, quando Aoyama si dimostra incapace di darle quell’amore assoluto che lei chiede, l’uomo diventa la vittima perfetta su cui riversare tutta la sofferenza accumulata da anni di solitudine, abusi e molestie.

Miike costruisce un film che inizia come un dramma sentimentale, che si trasforma in un noir lynchano sospeso tra realtà e incubo — l'uomo nel sacco ha la stessa potenza inquietante del barbone di Mulholland Drive — per poi virare nel finale in un horror estremo ai limiti della sopportazione visiva. Audition è un film che gioca sull’ambiguità, lasciandoci costantemente nel dubbio su cosa sia reale e cosa sia frutto della mente dei protagonisti.

Un cult movie, un classico moderno sulla violenza inflitta e ricevuta, sulla fragilità che si trasforma in disperazione. Un’illusione d’amore che si sgretola rivelando il volto della follia. Forse non è un horror nel senso più tradizionale del termine, ma una volta visto, è impossibile dimenticarlo. Sicuramente il capolavoro di Miike.

Film
Drammatico
Horror
giappone
1999
Retrospettiva
venerdì, 7 marzo 2025
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Frankenstein (1931)

di James Whale

Nel 1931, dopo il successo di Dracula con Bela Lugosi, Carl Laemmle Jr., capo della produzione Universal, decise di puntare ancora sull'horror, portando sul grande schermo Frankenstein, ispirato all’omonimo romanzo gotico di Mary Shelley. Il progetto fu inizialmente affidato a Robert Florey, che si basò più sull’adattamento teatrale del 1929 di Peggy Webling che sul libro originale. Ma la sua visione non convinse lo studio, e la regia passò a James Whale, un britannico con un background teatrale che mantenne l’impronta espressionista di Florey – ispirata in particolar modo a Il gabinetto del dottor Caligari – ma la arricchì con maggiore profondità psicologica e una messa in scena innovativa.

La scelta del protagonista fu altrettanto travagliata. La Universal avrebbe voluto Bela Lugosi, ma l’attore rifiutò il ruolo, infastidito all’idea di interpretare un mostro muto e irriconoscibile sotto il trucco. La parte andò così a Boris Karloff, un attore inglese fino ad allora poco noto, che trovò nella creatura il ruolo della vita. Grazie al meticoloso lavoro del truccatore Jack Pierce – che concepì la creatura con la fronte piatta, gli elettrodi sul collo, le palpebre pesanti e il portamento goffo – nacque l’iconica figura del mostro di Frankenstein, un’immagine destinata a diventare immortale e a influenzare tutte le versioni successive. 

La storia non è nota, di più. Il dottor Henry Frankenstein, ossessionato dall’idea di sconfiggere la morte, si rinchiude nel laboratorio di un castello con il suo fidato assistente Fritz, riuscendo a dare vita a una creatura assemblata con parti di cadaveri, utilizzando l’elettricità di un temporale. Ma il suo esperimento sfugge rapidamente al controllo. Il mostro, confuso e impaurito, viene maltrattato e imprigionato, fino a ribellarsi e fuggire. La sua presenza semina il panico nel villaggio, culminando in un drammatico confronto con il suo stesso creatore e con la folla inferocita che lo bracca nel vecchio mulino, in un finale tanto tragico quanto iconico.

Il film fu un successo immediato, sia di pubblico che di critica. Impressionò gli spettatori e consacrò Whale come uno dei grandi registi dell’epoca. Sebbene l'idea dello scienziato folle, l’assistente gobbo, il laboratorio gotico pervaso da scariche elettriche, la folla inferocita armata di torce, e il rogo finale, oggi ci sembrano dei clichè per quante volte sono state riproposte nel corso degli anni, all'epoca erano pura innovazione. 
Sono molte le differenze con il romanzo della Shelley. Inanzitutto nel libro il racconto della creazione del mostro è appena accennato, mentre nel film avviene nel laboratorio dello scienziato che usa l'elettricità per dare vita alla creatura. Il mostro, che nel romanzo impara a parlare e riflette sulla propria esistenza, nel film è un essere infantile, incapace di comprendere il mondo che lo rifiuta. L’idea che la creatura sia stata resa violenta da un cervello criminale trapiantato per errore è un’invenzione degli sceneggiatori.  Insomma, ogni adattamento successivo, compreso il geniale Frankestein Junior, si rifanno al film di Whale.

La creatura di Frankenstein è una copia distorta del suo creatore, una manifestazione della sua ossessione e del suo desiderio di sfidare Dio. Eppure, è l’umanità a rivelarsi la vera carnefice: prima con la crudeltà dell’assistente Fritz, poi con il tentativo del dottor Waldman di sopprimerla, infine con la caccia all’uomo scatenata dagli abitanti del villaggio. La scena della bambina annegata dal mostro (censurata nel 1937 dal Codice Hays) è un momento di innocenza tragicamente fraintesa e punita, che ancora oggi conserva una potenza emotiva devastante. Per attenuare il possibile impatto sul pubblico, la Universal fece inserire un prologo in cui Edward Van Sloan (l'attore che nel film interpreta il dott. Waldman) avverte gli spettatori: «Vi emozionerà, forse vi colpirà, potrebbe anche inorridirvi! Se pensate che non sia il caso di sottoporre a una simile tensione i vostri nervi, allora sarà meglio che voi... be', vi abbiamo avvertito!». Un piccolo stratagemma per preparare gli spettatori dell’epoca a un film che, nonostante le sue concessioni, poteva davvero impressionare.

A più di novant’anni dalla sua uscita, Frankenstein non è solo un classico dell’horror, ma un pilastro della storia del cinema. Ha ridefinito l’immagine del mostro e introdotto l’archetipo dello scienziato pazzo, trasformando la creatura di Mary Shelley in un’icona pop immortale. Ancora oggi, quando pensiamo a Frankenstein, non immaginiamo il personaggio del romanzo, ma il volto di Boris Karloff, sepolto sotto il trucco di Jack Pierce.

Il successo del film diede vita a numerosi sequel, a partire da La moglie di Frankenstein del 1935, che molti considerano persino superiore all’originale. Ma questa è un’altra storia.

Film
Horror
USA
1931
Retrospettiva
mercoledì, 26 febbraio 2025
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28 giorni dopo

di Danny Boyle

Rivedendo 28 giorni dopo, è impossibile non pensare alla pandemia che ha sconvolto il mondo pochi anni fa. Certo, il Covid-19 non ha trasformato le persone in furie omicide assetate di sangue, ma l’idea di un virus che si diffonde rapidamente, lasciando città deserte e un senso opprimente di isolamento, è diventata spaventosamente familiare.

Danny Boyle, talentuso regista inglese che con Trainspotting ha ridefinito il dramma generazionale, nel 2002 rivoluziona il cinema horror con 28 giorni dopo, un'apocalisse zombie (anche se, tecnicamente, non sono nemmeno zombie), che, ancora oggi, resta un punto di riferimento imprescindibile per gli amanti del cinema di genere. 

Tutto ha inizio con un gruppo di animalisti che, nel tentativo di liberare alcuni scimpanzé da un laboratorio segreto, finiscono per scatenare l’inferno. Le cavie sono infatti infette da un virus altamente contagioso che trasforma chiunque venga esposto al loro sangue in una creatura furiosa e omicida. 28 giorni dopo, Jim (Cillian Murphy) si risveglia dal coma in un ospedale, ritrovandosi in una Londra deserta e abbandonata. La città è infestata da infetti, non morti viventi, ma esseri umani travolti da un’aggressività incontrollabile, trasformati in bestie assetate di violenza. Jim trova rifugio con la determinata Selena (Naomie Harris), il bonario Frank (Brendan Gleeson) e sua figlia Hannah (Megan Burns), con cui parte alla ricerca di una presunta salvezza in una base militare. Ma il vero orrore non si cela solo negli infetti, ma nella natura umana, che spinta al limite, può rivelarsi persino più spaventosa.

Scritto da Alex Garland – ed è sempre bene ricordare il contributo del futuro regista di Ex Machina e di altre perle della fantascienza contemporanea – 28 giorni dopo prende spunto dal romanzo Il giorno dei Trifidi di John Wyndham. Girato con un budget ridotto e una camera digitale sporca e traballante, Boyle costruisce un racconto dal taglio quasi documentaristico, sottolineando la fragilità della nostra civiltà, capace di sgretolarsi nel giro di poche settimane. Iconica la sequenza iniziale in cui Jim vaga per una Londra deserta – girata all’alba, quando la città era ancora addormentata – sulle note di East Hastings dei Godspeed You! Black Emperor. Perfetto Cillian Murphy nei panni del protagonista, inizialmente smarrito e vulnerabile, poi sempre più trasformato dalla brutalità del nuovo mondo.
Uno degli aspetti più rivoluzionari di 28 giorni dopo è la concezione stessa della minaccia. Niente zombie lenti e barcollanti: qui gli infetti sono veloci, feroci, implacabili. Non c’è scampo, non c’è tempo per riflettere. Bisogna correre o morire. Una scelta che ha ridefinito il cinema horror e influenzato profondamente il genere negli anni successivi. Ma il cuore del film non è solo un virus nato da esperimenti sugli animali, simbolo dell’arroganza umana nel voler dominare la natura senza comprenderne le conseguenze. La vera paura sta nel modo in cui, davanti al collasso della società, riemergono divisioni di classe, militarismo e patriarcato tossico. Il rifugio militare, che dovrebbe rappresentare la salvezza, diventa invece un incubo ancora più terrificante degli infetti.

Curiosità. Nel DVD (e facilmente reperibili su YouTube) si possono trovare alcuni finali alternativi. In uno, Jim muore per le ferite da arma da fuoco, in un altro l'epidemia è solo un incubo di Jim che si trova in coma, mentre in quello mai girato, ma storyboardato, Frank infettato non viene ucciso ma viene sottoposto a una trasfusione di sangue per essere salvato. 
Nel 2007 è stato realizzato il sequel 28 settimane dopo, diretto da Juan Carlos Fresnadillo. A giugno 2025 è invece atteso 28 anni dopo, che riporterà insieme Danny Boyle e Alex Garland dopo oltre vent’anni, pronti a raccontare ancora una volta l'incubo dei sopravvissuti in un mondo devastato.

Film
Horror
postapocalittico
Zombi
UK
2002
Retrospettiva
sabato, 22 febbraio 2025
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Dracula

di Tod Browning

È curioso pensare che il mio primo incontro con il Dracula di Bela Lugosi non sia avvenuto attraverso il cinema, bensì grazie alla musica dei Bauhaus. Bela Lugosi’s Dead, lungo brano ipnotico dall’atmosfera funerea, considerato un vero e proprio manifesto della musica goth, è stato il pezzo che mi ha fatto conoscere l’attore che più di ogni altro ha legato il suo nome al personaggio del conte Dracula. Solo in seguito, quando negli anni novanta l’unico modo per recuperare un vecchio film era rivolgersi a una videoteca specializzata, avrei scoperto il film di Tod Browning, il classico della Universal che ha consacrato Lugosi come il Principe delle Tenebre definitivo.

Ma andiamo con ordine e cerchiamo di non divagare troppo, perché di cose da raccontare ce ne sono parecchie.

Fondata nel 1912 dall’immigrato di origini bavaresi Carl Laemmle, la Universal Pictures ha scritto pagine fondamentali nella storia del cinema horror. Tutto iniziò quando negli anni '30, con l'avvento del sonoro, il figlio del fondatore, Carl Laemmle Jr, il giorno del suo ventunesimo compleanno, ricevette in regalo la guida della casa di produzione cinematografica (altro che auto o orologio d’oro). Nonostante le difficoltà economiche della Grande Depressione e le restrizioni imposte dal Codice Hays, un insieme di norme che regolavano la moralità nei film, il giovane e visionario produttore della Universal, intuì che il pubblico aveva fame di evasione e decise di puntare sull’horror, adattando per il grande schermo storie della letteratura gotica.
Traendo ispirazione dalla fortunata rappresentazione teatrale di Broadway del romanzo di Bram Stoker  — i cui diritti furono acquisiti dall'ambizioso produttore teatrale Horace Liveright — Laemmle Jr. portò sul grande schermo il vampiro più famoso della letteratura, affidando la regia del film a Tod Browning, un veterano del cinema muto con un debole per il macabro.
Il film Dracula, prima versione cinematografica autorizzata dagli aggueriti familiari di Bram Stoker  — che in precedenza avevano provato a distruggere il Nosferatu di Murnau  — inizialmente prevedeva la presenza di Lon Chaney nel ruolo del vampiro, ma l'improvvisa morte dell'attore portò la produzione a virare su Bela Lugosi, l’attore ungherese che aveva già interpretato il vampiro a teatro con grande successo e che avrebbe legato per sempre la sua immagine al conte Dracula.

La trama vede l'agente immobiliare Renfield (Dwight Frye) giungere da Londra sui monti Carpazi per vendere al conte Dracula una dimora londinese. Ma il nobile transilvano è in realtà un vampiro, e lo trasforma nel suo servo. Giunto in Inghilterra, Dracula, in veste di nobile affascinante dall'anima nera vampirizza Lucy (Frances Dade), puntando anche l'attenzione sull'amica Mina (Helen Chandler), fidanzata di Jonathan Harker (David Manners), collega dell'impazzito Renfield. Solo l'intervento del professor Van Helsing (Edward Van Sloan), scienziato vampirologo, mette fine alla minaccia del vampiro, che nascosto nell'antica abbazia di Carfax viene trafitto al cuore con un paletto, seppur tutto questo avvenga fuori scena.

Il film si divide nettamente in due parti, esattamente come il romanzo. La prima, la più affascinante e tenebrosa, è ambientata nel castello di Dracula ed è caratterizzata dalle meravigliose scenografie gotiche di Charles D. Hall, in cui Lugosi, con il suo accento mitteleuropeo e il suo sguardo penetrante (accentuato da un faretto sempre puntato sugli occhi nei primi piani) pronuncia la celebre battuta "Io non bevo mai... vino" destinata a entrare nella storia del cinema. La seconda parte, invece, si fa più teatrale e… beh, piuttosto statica. Il ritmo rallenta, l’azione è ridotta al minimo e le scene più spaventose vengono lasciati all’immaginazione dello spettatore, per evitare problemi con la censura. Rispetto al romanzo, la sceneggiatura elimina completamente il tema del contagio e della trasformazione in vampiri — le vittime qui muoiono e basta — così come gli spostamenti dei cacciatori di Dracula quando fugge in Transilvania. Al posto di Jonathan Harker, qui presenza poco influente, è Renfield a recarsi al castello del conte, con Dwight Frye che regala un’interpretazione intensa e inquietante.
Se il ritmo del film, soprattutto nella seconda parte, risente dell’impostazione teatrale, l’interpretazione di Lugosi è magnetica, iconica, definitiva. Il suo Dracula diventa immediatamente il modello per tutti i vampiri successivi, almeno fino all’arrivo di Christopher Lee, che trent’anni dopo avrebbe rinfrescato il personaggio con un’interpretazione decisamente più fisica e sensuale.

Nonostante il budget ridotto per via della crisi economica, Dracula fu un successo clamoroso e diede il via alla grande stagione dell’horror Universal, spalancando le porte ai vari Frankenstein, La Mummia e L’Uomo Lupo. Paradossalmente, il film arrivò in Italia solo nel 1986, quando fu trasmesso in televisione per la prima volta. Meglio tardi che mai.
Oggi, il Dracula di Browning — privo di colonna sonora nella versione originale — è considerato un classico assoluto, tanto da essere conservato nella Biblioteca del Congresso come opera di importanza culturale e storica. Non è l’adattamento più fedele al romanzo di Stoker, ma è senza dubbio quello che ha scolpito nell’immaginario collettivo la figura del conte Dracula. Un film che ha dato il via all’epoca d’oro dei mostri Universal e che, nonostante il passare del tempo, continua a esercitare il suo fascino oscuro.

Film
Horror
Vampiri
USA
1931
Retrospettiva
sabato, 14 dicembre 2024
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Lost in Translation

di Sofia Coppola

Lost in Translation è la seconda opera da regista di Sofia Coppola, successiva al brillante esordio con Il giardino delle vergini suicide. Una storia di due solitudini che si incontrano e si sfiorano, sullo sfondo di una Tokyo caotica e alienante, dove l’incomunicabilità diventa il linguaggio universale dei sentimenti inespressi. L’ho rivisto di recente, ed è incredibile come questo film, a più di vent’anni dalla sua uscita, sia ancora in grado di emozionarmi. 

La trama è semplice. Bob Harris, una star del cinema ultracinquantenne in declino (un memorabile Bill Murray), si trova a Tokyo per girare uno spot pubblicitario per un whisky locale. Il suo soggiorno, privo di stimoli e caratterizzato da lunghe serate vuote in un lussuoso ma alienante hotel, lo porta a incontrare Charlotte (Scarlett Johansson), una giovane donna che accompagna il marito fotografo, assente e preso dal lavoro. Tra i due nasce un’amicizia che si trasforma in una connessione profonda, basata non tanto sulle parole, quanto sugli sguardi, i gesti e la comune sensazione di isolamento.

Avendo avuto la fortuna di visitare il Giappone ormai parecchi anni fa, rivedere Lost in Translation mi ha riportato alla mente una miriade di ricordi legati a quell’esperienza. La sensazione di essere immerso in un mondo così diverso, dove ogni dettaglio sembra affascinante e alieno al tempo stesso, è qualcosa che ho rivissuto con grande intensità. Sofia Coppola, che ha dichiarato di essersi sentita disorientata la prima volta a Tokyo, riesce a tratteggiare perfettamente questo spaesamento. Le luci al neon, le strade affollate, le sale giochi rumorose e i templi di Kyoto fanno da cornice a una storia che si sviluppa senza bisogno di grandi eventi o dialoghi espliciti. I due protagonisti, stranieri in un paese dalla cultura distante e dalla lingua incomprensibile, non cercano nemmeno di capire fino in fondo ciò che li circonda. Le passeggiate di Charlotte nei giardini e nei templi, osservate con una distratta curiosità, rappresentano perfettamente questa alienazione, che non è solo geografica, ma anche emotiva. Questo atteggiamento, da parte di una certa critica, è stato letto come una forma di superficialità tipica di una mentalità americana, diffidente e incapace di avvicinarsi a una cultura che non comprende. In realtà, almeno per come la vedo io, credo che questa distacco non sia altro che il riflesso dello spaesamento interiore e del profondo senso di smarrimento dei due protagonisti.

Bill Murray ci regala una grande performance, tra il comico e il tragico, con un’ironia che emerge in scene come quella in cui è alle prese con il regista giapponese dello spot. Scarlett Johansson, allora appena ventenne, è di una bellezza semplice e disarmante, capace di trasmettere la vulnerabilità e il disagio del suo personaggio con incredibile intensità. La relazione tra Bob e Charlotte è una storia d’amore sospesa, fatta di gesti minimi e dolci malinconie. Non ci sono baci appassionati né dichiarazioni d’amore, ma piccoli momenti che restano impressi, come quando i due cantano insieme al karaoke, si ritrovano nel letto insieme mantenendo la giusta distanza che non impedisce però una tenera intimità, e sopratutto nell'iconica scena dell'addio finale in cui Bill Murray abbraccia Scarlett Johansson e le sussurra teneramente la frase all'orecchio che rimarrà per sempre un mistero per noi. Una scena che si svolge sulle note di Just Like Honey dei Jesus and Mary Chain, che, insieme agli altri brani della colonna sonora, firmata da artisti come Air, My Bloody Valentine e Squarepusher, rende il film ancora più indimenticabile.

Lost in Translation, insieme a Eternal Sunshine of the Spotless Mind, rimane uno dei film romantici a cui sono più legato. Entrambi hanno vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura, mentre in Italia vengono accomunati per avere ricevuto dei titoli completamente fuori luogo. "L'amore Tradotto" per il film della Coppola non è certo meno imbarazzante di quello scelto per il film di Gondry. 
Lost in Translation non è solo una storia d’amore mai consumata, ma il malinconico incontro tra due solitudini che si comprendono, si sfiorano e infine si lasciano andare al loro destino. Non è un capolavoro ma un film a cui sono molto affezionato.

Film
sentimentale
USA
2003
Retrospettiva
domenica, 8 dicembre 2024
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2001: Odissea nello spazio

di Stanley Kubrick

Breve premessa. Parlare di 2001: Odissea nello spazio è un po’ come recensire la Bibbia, la Cappella Sistina o la Divina Commedia. Tutto è stato già detto, analizzato, scomposto e ricomposto in ogni dettaglio possibile. Critici, studiosi e appassionati hanno passato oltre mezzo secolo a scrivere libri, articoli e trattati su questo film, trasformandolo in un’opera di culto dal fascino quasi mistico. Quindi, perchè in maniera vagamente masochista mi preparo ad aggiungere un granello di sabbia a questa montagna di critica cinematografica? Beh, recentemente l'ho rivisto, e da un po' di tempo ho preso l’abitudine di riversare su queste pagine le mie impressioni sui film (e non solo) che vedo. 

2001: Odissea nello spazio
è considerato uno dei più grandi capolavori della storia del cinema. Un'opera complessa e affascinante che ha rivoluzionato il linguaggio cinematografico, ridefinendo il concetto di fantascienza sul grande schermo.
Diretto da Stanley Kubrick, regista al tempo già acclamato per "Lolita e "Il dottor Stranamore", il film non è solo un racconto visivo straordinario, ma anche una profonda riflessione filosofica sull'evoluzione umana, l'intelligenza artificiale e il nostro posto nell'universo. La sua portata epica, gli effetti speciali innovativi e l'iconica colonna sonora lo hanno reso un punto di riferimento, influenzando generazioni di registi e spettatori.

Realizzato in collaborazione con lo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke – autore del romanzo omonimo sviluppato parallelamente alla sceneggiatura – 2001: Odissea nello spazio esce nelle sale cinematografiche nel 1968, poco più di un anno prima dello storico allunaggio dell’Apollo 11, anticipando visioni del futuro che avrebbero influenzato profondamente l’immaginario collettivo.

Diviso in quattro atti, in un arco temporale che si estende dall’alba dell’umanità al futuro, il film si apre nella preistoria, dove un misterioso monolite nero appare tra un gruppo di ominidi, innescando un salto evolutivo che li porterà a utilizzare delle ossa umane come strumenti. Millenni dopo, nel 2001, un monolite simile viene trovato sepolto sulla Luna, trasmettendo un segnale verso Giove. Per indagare il mistero, viene lanciata la missione spaziale Discovery One, con a bordo due astronauti, David Bowman e Frank Poole, supportati da HAL 9000, un’intelligenza artificiale avanzata. Tuttavia, HAL inizia a manifestare comportamenti anomali, mettendo in pericolo la missione e l'equipaggio e costringendo Bowman a confrontarsi con l'intelligenza artificiale ribelle.
La storia culmina in un viaggio psichedelico verso l'ignoto, dove Bowman attraversa lo spazio e il tempo per approdare a una misteriosa trasformazione, suggerendo un nuovo stadio dell’evoluzione umana.

A fronte di un budget considerevole per l'epoca, il film venne inizialmente accolto negativamente dalla critica che lo definì ipnotico ma immensamente noioso. Il pubblico invece si divise, tra gli adulti che non riuscirono a comprenderlo e il pubblico più giovane impressionato dalla sua potenza visiva. Ancora oggi 2001: Odissea nello spazio continua a stupire e a lasciare interdetti per la sua complessità e unicità.
Il film di Stanley Kubrick è un'esperienza che affronta temi universali e ci guida in una riflessione sull’evoluzione umana, il progresso tecnologico e il mistero dell’esistenza, ponendo domande che si perdono nell'infinito dell'universo. Realizzato come se fosse un documentario, privo di azione e povero di dialoghi, il film è un viaggio sensoriale che ha nell'aspetto visivo, e nell'uso rivoluzionario della musica classica come colonna sonora, il suo punto di forza assoluto.
Nel realizzare gli effetti speciali, Kubrick e il supervisore Douglas Trumbull hanno sviluppato tecniche pionieristiche, collaborando con esperti scientifici per garantire il massimo realismo. Ogni dettaglio fu studiato con una cura maniacale, dalla totale assenza di suoni nello spazio alle leggi della fisica rigorosamente rispettate nel movimento delle astronavi e delle stazioni spaziali, realizzate e ispirate a prototipi della NASA, con un'attenzione alla progettazione che rispecchiava le possibili evoluzioni future della tecnologia spaziale (visto gli effetti speciali così straordinari per l'epoca in rete gira la bislacca storia che l'allunaggio del 1969 sia in realtà una messa in scena realizzato dallo stesso Kubrik).
Per comprendere appieno il realismo e l'accuratezza tecnica di Kubrick, basta mettere a confronto le cabine utilizzate per l'ibernazione degli astronauti in 2001: Odissea nello spazio con quelle utilizzate ne "Il pianeta delle scimmie", film uscito nello stesso anno. Nel film di Kubrick le strutture e le tecnologie sembrano verosimili, scientificamente plausibili, quelle utilizzate da Schaffner appaiono invece datate e improbabili. La differenza sta nell'approccio alla scienza e nella cura nei dettagli: Kubrick voleva che il suo film non solo fosse visivamente affascinante, ma anche scientificamente coerente, spingendo il confine della tecnologia cinematografica e creando un'esperienza che sembrava guardare veramente al futuro. 
2001: Odissea nello spazio non è solo un capolavoro cinematografico, ma anche un’opera visionaria che ha saputo anticipare alcune delle tecnologie che oggi fanno parte della nostra quotidianità. Pensiamo solo ad HAL 9000, l’intelligenza artificiale che gestisce ogni aspetto della missione spaziale. Con la sua voce calma e rassicurante, HAL è un assistente apparentemente perfetto, ma la sua ribellione al controllo umano solleva interrogativi profondi sul rapporto tra uomo e macchina. Interrogativi più che mai attuali in un’epoca in cui l'intelligenza artificiale è sempre più presenta nella nostra vita.

2001: Odissea nello spazio è un'opera complessa e affascinante, un film incredibilmente lento e dilatato, capace di spiazzare anche lo spettatore di oggi, ormai viziato da ritmi narrativi rapidi e lineari. Più che un film, è un'esperienza sensoriale e contemplativa che richiede una totale immersione – quasi una sospensione del tempo – per essere apprezzata a fondo. Se oggi questa natura meditativa può sembrare ostica, figuriamoci cosa poteva pensare il pubblico del 1968, abituato a un cinema decisamente più convenzionale. Kubrick, invece di darci facili risposte o spiegazioni, ci lascia soli di fronte a immagini maestose e simboli enigmatici, invitandoci a riflettere su domande che non hanno risposta.
Questo approccio, decisamente fuori dal comune e distante dalle aspettative dell'epoca, ha reso il film un'esperienza decisamente divisiva: per alcuni incomprensibile e noioso, per altri una vera e propria rivelazione. Ma è proprio in questa ambivalenza che si nasconde la sua grandezza. 2001: Odissea nello spazio non è un film che punta a piacere a tutti, né ha l'intenzione di farlo. È un'opera che sfida, interroga e lascia un segno profondo, spingendoci a guardare con occhi nuovi il mistero dell'universo e dell'esistenza. E se alla fine non avremo tutte le risposte, pazienza: forse è proprio questo il suo segreto.

Film
Fantascienza
USA
1968
Retrospettiva
domenica, 24 novembre 2024
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Il pianeta delle scimmie (1968)

di Franklin J. Schaffner

Ricordo ancora nitidamente la prima volta che vidi Il pianeta delle scimmie da bambino, in una calda estate in cui mia madre aveva avuto la brillante idea di portare la televisione fuori sul balcone. L'aria era ferma, afosa, ma io ero ipnotizzato dallo schermo. Quando arrivò la scena finale, rimasi talmente colpito, che quell'immagine - quei pochi secondi - mi si stamparono nella mente per sempre.

Il pianeta delle scimmie è un film del 1968 diretto da Franklin J. Schaffner e liberamente ispirato al romanzo di Pierre Boulle. Considerato uno dei capisaldi della fantascienza, il film ottenne un enorme successo di pubblico, vincendo un Oscar speciale per il trucco e gli effetti speciali e generando nel corso degli anni un ampio universo espanso di sequel, serie TV, cartoni animati, fumetti e videogiochi. Nel 2001, Tim Burton ne realizzò un remake che inaugurò una nuova serie di reboot, mantenendo vivo l'interesse per questo classico intramontabile.

La trama è nota. Un gruppo di astronauti americani atterra su un pianeta sconosciuto dopo un viaggio nello spazio durato diciotto mesi. Viaggiando a una velocità prossima a quella della luce sulla Terra sono trascorsi millenni. Il comandante Taylor (Charlton Heston) e i suoi compagni si trovano in un mondo dominato da scimmie evolute e intelligenti, che hanno costruito una civiltà complessa e vedono gli umani come esseri primitivi e inferiori. Catturato e trattato come una cavia, Taylor riesce a dimostrare la sua intelligenza a due scimpanzé scienziati, Cornelius e Zira, che lo aiutano a fuggire. Durante la fuga, Taylor scopre che quel pianeta non è altro che la Terra stessa, devastata da un'antica guerra nucleare e ridotta a un mondo preistorico. 

Realizzato nel pieno della Guerra Fredda, il film è una denuncia contro le possibili conseguenze di un terzo conflitto mondiale, immaginando un futuro distopico in cui le scimmie hanno sostituito gli uomini come specie dominante. Certo, rivedendolo oggi, qualche dettaglio sembra un po' datato. La recitazione, per esempio, risulta un tantino pomposa e il fatto che nel 3978 le scimmie parlino un perfetto inglese del ventesimo secolo, appare davvero inverosimile. Ma al netto di queste ingenuità tipiche dell'epoca, il make-up delle scimmie è ancora sorprendente e la regia offre momenti dinamici, specie nell'atterraggio dell'astronave e nella fuga di Taylor inseguito dalle scimmie. Tra le scene migliori, l'inizio con gli astronauti che si aggirano in un deserto desolato, e la parte finale in cui Taylor e Nova (Linda Harrison) si allontanano a cavallo verso un futuro ignoto. Ma è il colpo di scena finale a rendere questo film memorabile: la Statua della Libertà semisepolta nella sabbia è un'immagine potente e indimenticabile, che chiude il film con una riflessione cupa e amarissima sul destino dell'umanità in uno dei più iconici epiloghi di sempre.

Film
Fantascienza
Avventura
USA
1968
Retrospettiva
venerdì, 25 ottobre 2024
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Eraserhead

di David Lynch

Premetto che, scrivendo queste righe, non riuscirò ad essere obiettivo. Nutro una profonda venerazione per David Lynch, un’artista capace di esplorare mondi onirici e surreali in ogni sua opera, che si tratti di cinema, pittura, musica o qualsiasi altra forma d’arte in cui si cimenta.

Se qualcuno mi chiedesse quale sia il mio film preferito (non di Lynch, ma in assoluto), risponderei senza esitazione "Mulholland Drive".

Nel 1972, quando inizia a girare "Eraserhead", David Lynch ha ventisei anni. E' un pittore e ha già girato una serie di cortometraggi visionari e molto sperimentali. Per realizzare il suo primo lungometraggio ci metterà quattro anni. Lavora solo di notte, in un set montato in un enorme magazzino, mentre di giorno lavora cercando di racimolare i soldi per finanziare il film. A interpretare il protagonista chiama un suo amico di vecchia data, oltre alla sua fidanzata e ad altri conoscenti, dando vita a un progetto quasi interamente “fatto in casa”.

La trama è complicata e poco lineare, caratteristica di quasi tutti i capolavori di David Lynch (compreso Twin Peaks).
Girato in uno sgranato bianco e nero e dai dialoghi quasi completamente assenti, il film racconta il viaggio allucinato di Henry Spencer (interpretato da Jack Nance), un uomo solitario e impacciato che vive in una città industriale e surreale, muovendosi tra rumori metallici e paesaggi desolanti. La sua vita prende una piega angosciante quando scopre che la sua ragazza, Mary, ha partorito un figlio deforme. Mary e Henry cercano di prendersi cura del neonato, ma la situazione precipita quando la donna abbandona entrambi, lasciando Henry da solo con il bambino, che piange incessantemente e sembra più una creatura aliena che umana. Mentre l’angoscia e la confusione di Henry crescono, il confine tra realtà e incubo diventa sempre più labile, portandolo a visioni oniriche e momenti di introspezione surreale in cui affronta paure profonde e incomprensibili.

"Eraserhead" è un incubo cinematografico, difficile da spiegare a parole, sopratutto la seconda parte del film. Come tutto il cinema di Lynch, è un'opera che va vissuta, dove il viaggio è più importante della destinazione. La narrazione passa in secondo piano per fare spazio a un'esperienza sensoriale e visiva, una vera e propria immersione nel subconscio. Le scene sono lente, ogni dettaglio è studiato per creare un senso di isolamento e soffocamento che cresce con il film. Il neonato deforme, che piange in continuazione ed è quasi impossibile da guardare, diventa il simbolo delle angosce del protagonista, un’immagine disturbante che mette a nudo le paure della paternità e della responsabilità. 

Lynch non ha mai voluto rivelare in quale modo e con quale tecnica abbia realizzato questo effetto speciale. Il fatto che il regista non aveva budget per realizzare un mostriciattolo così realistico lascia pensare che sia qualcosa di organico. Probabilmente il feto di un animale o qualcosa del genere.

Inizialmente Eraserhead non venne neanche distribuito, ma con il tempo divenne un vero e proprio cult, proiettato nei cinema di mezzanotte per un pubblico di appassionati.
Io quando ho visto per la prima volta "Eraserhead" (stiamo parlando di parecchi anni fa) non avevo mai visto nulla del genere. Non è un film per tutti. E' un’esperienza che richiede pazienza, apertura e, forse, un pizzico di resistenza. Mi rendo conto che può non piacere e che molti possano trovarlo inaccessibile, perchè è un film dove la logica e la razionalità viene messa da parte. Ma chi è disposto ad abbandonare ogni certezza e lasciarsi andare, può trovarsi di fronte a un'esperienza... trascendentale.

Film
Surreale
Grottesco
Horror
David Lynch
USA
1977
Retrospettiva

© , the is my oyster