
Mimì - Il principe delle tenebre
di Brando De Sica
Ammetto che quando ho visto il nome del regista ho storto un po' il naso. Brando De Sica. Figlio di Christian, nipote di Vittorio, Carlo Verdone come zio. Il pregiudizio che in Italia, se non sei un figlio d'arte, il cinema lo guardi e basta, è scattato immediatamente. E invece Mimì – Il principe delle tenebre mi ha fregato. Non solo perché è un film coraggiosamente fuori tempo, diverso, ma anche perché ha toccato corde familiari della mia indole gotica.
La storia racconta di Mimì (Domenico Cuomo), un adolescente orfano, nato con i piedi deformi, che lavora in una pizzeria a Napoli. Bullizzato dal figlio di un boss camorrista, un giorno incontra Carmilla (Sara Ciocca), una giovane ragazza "dark" convinta di essere una discendente del conte Dracula. Lei rimane affascinata dal goffo Mimì – forse proprio per la sua deformità – e lui trova in Carmilla quel calore umano che gli è sempre mancato.
In una Napoli insolita e decadente, tra bande camorristiche appassionate di neomelodica e gruppi gotici che frequentano cimiteri, cripte, e feste alternative, Mimì – Il principe delle tenebre si presenta come un film strano e affascinante, capace di spaziare dall'horror al fantasy, dal noir alla dark comedy. La commistione di generi è dosata con intelligenza e la virata horror arriva al momento giusto. Brando De Sica, da quanto si dice in giro, è un appassionato di questo genere, e si vede. Le citazioni cinefile sono ovunque, ma non risultano mai esibite. Piuttosto, sono tracce, omaggi ben inseriti in una narrazione personale e visivamente curata. La regia è solida e la fotografia mi ha particolarmente colpito, con quei colori irreali – blu e rosso, caldi e freddi spesso contrapposti – che rimandano al cinema di Mario Bava. L'uso del colore è particolarmente significativo nella scena finale, dove Mimì e Camilla – ehm, Carmilla con la erre (cit) – vengono illuminati dal lampeggiante della polizia, in un contrasto emotivo che trascende la realtà.
L’epilogo, drammatico e ambiguo – è tutto vero o una fantasia del protagonista? – ha un tocco poetico e surreale. Al centro della storia, c'è una relazione d'amore tra due "diversi": una ragazza borderline, fragile e imprevedibile, e un ragazzo in cerca di identità, ingenuo, segnato nel corpo e nell'anima. Due anime rotte che cercano di salvarsi a vicenda.
I due attori protagonisti sono molto bravi. La giovane e minuta Sara Ciocca è sorprendente. Affascinante nella sua versione goth, fragile e vulnerabile nella sua cameretta da bambina. Domenico Cuomo è altrettanto bravo, capace di passare dalla timidezza di Mimì alla trasformazione violenta del "vampiro", con i suoi denti aguzzi e lo sguardo distorto. Il film, inoltre, è recitato bene. Finalmente in un film italiano i dialoghi, anche quando sono sussurrati, sono sempre chiari. Il dialetto napoletano non infastidisce, e quando è troppo stretto, intervengono i sottotitoli.
Guardandolo, mi è venuto spontaneo accostarlo a Lo chiamavano Jeeg Robot, ma con i vampiri al posto dei supereroi. E in alcune scene, come quella nelle catacombe, ho sentito forti echi del cinema di Guillermo del Toro.
Alla fine, Brando De Sica sembra più un orfano adottato da Tim Burton e dalla malinconia di Fellini che un regista cresciuto sulle spalle della becera commedia natalizia. Pare che per realizzare questo film non abbia sfruttato le sue conoscenze familiari, anzi, ci ha messo dieci anni e ha incontrato numerosi ostacoli. E si vede. È un film ostinato, personale, fuori rotta. Farsi strada nel cinema di genere in Italia non è facile. Ma io, sinceramente, tifo per lui. A volte i pregiudizi sono proprio deleteri.

I vitelloni
di Federico Fellini
Secondo film di Federico Fellini e Leone d'argento alla Mostra del Cinema di Venezia del 1953, I Vitelloni è un dichiarato omaggio alla Rimini della giovinezza del regista – anche se, per esigenze cinematografiche, la città fu interamente ricostruita nei dintorni di Roma.
I Vitelloni è un racconto semi-autobiografico che segue un gruppo di amici in una sonnacchiosa città di provincia affacciata sul mare, sospesi in un eterno limbo tra adolescenza e maturità. Troppo grandi per giocare, troppo pigri per lavorare. Moraldo (Franco Interlenghi), l’osservatore silenzioso, guarda tutto con distacco malinconico. Fausto (Franco Fabrizi), il donnaiolo incallito, continua a inseguire gonne anche dopo aver messo incinta Sandra, sorella di Moraldo. Alberto (Alberto Sordi), immaturo e teatrale, vive con una madre invadente e una sorella che sogna di scappare. Leopoldo (Leopoldo Trieste) scrive drammi teatrali che nessuno legge. Riccardo (Riccardo Fellini, fratello di Federico) canta alle feste sperando di strappare almeno un applauso.
Le loro giornate passano tra passeggiate senza meta, scherzi da caserma, sbornie, sogni di gloria e realtà da cui scappare. Fausto si sposa controvoglia, lavora per finta e tradisce per abitudine. Alberto fa il buffone ma ha dentro un groviglio di inquietudini. Leopoldo sogna il palcoscenico, ma resta in panchina. Solo Moraldo, alla fine, sembra davvero voler cambiare, e parte, forse per salvarsi.
Li chiamavano "vitelloni", oggi li chiameremmo "bamboccioni". Trent’anni suonati, ancora a casa con mamma, niente voglia di crescere, nessuna intenzione di assumersi responsabilità. Ma I Vitelloni non è un’accusa. È un ritratto affettuoso e amarognolo, che mescola ironia e malinconia per raccontare una generazione immobile, cresciuta all’ombra del dovere e incapace di affacciarsi al futuro. Fellini – che in Moraldo mette un po’ di sé stesso – costruisce una commedia amarissima, punteggiata da momenti irresistibili (la sbornia di Sordi, la scena iconica dell'"ombrello" agli operai) e venature neorealiste che già tendono verso qualcos’altro. Nella sequenza del carnevale si intravede già chiaramente il tratto onirico del Fellini che verrà.
I cinque protagonisti sono sbruffoni, inconcludenti, talvolta irritanti – ma a loro modo restano teneri e riconoscibili. Mi hanno ricordato, per certi versi, i protagonisti di Amici miei. Stessi scherzi da osteria, stesso senso di vuoto sotto la superficie goliardica. Solo che lì sono uomini di mezza età, qui sono ragazzi che faticano ad abbandonare l'adolescenza.
Curiosamente, all’epoca, il film fu accolto con freddezza. Alberto Sordi veniva da due flop ed era inviso a pubblico e critica. Fellini dovette persino rinunciare a metterlo nei titoli di testa, pur di averlo nel cast. Fa sorridere, col senno di poi, se si pensa che proprio lui regala una delle scene più iconiche della storia del nostro cinema.
Detto ciò, confesso che I Vitelloni non mi ha particolarmente entusiasmato. Non sono mai stato un grande fan del neorealismo all'italiana, e oggi certe lentezze, alcune ovvietà narrative, si fanno sentire. Il personaggio di Fausto, poi, con quel suo modo da mascalzone piagnucoloso, mi ha messo a dura prova. Ma questo è un problema mio. Le qualità del film sono evidenti – regia elegante, scrittura solida, personaggi scolpiti con precisione – solo che non sempre si incastrano con la mia personale sensibilità. Resta comunque un film fondamentale per comprendere l’universo felliniano, e per intuire dove stava andando il nostro cinema.
Film
Il gatto a nove code
di Dario Argento
Nei primi anni settanta, dopo il clamoroso successo de L’uccello dalle piume di cristallo, Dario Argento torna dietro la macchina da presa con Il gatto a nove code, secondo tassello della cosiddetta "trilogia degli animali" – saga non ufficiale unita più dai titoli zoologici che da un vero filo conduttore. Meno impattante del suo predecessore e meno visionario del successivo Quattro mosche di velluto grigio, questo film si colloca come un’opera di transizione, un capitolo intermedio che, pur con i suoi limiti, si rivela fondamentale per la crescita stilistica e narrativa del regista romano. Un film di passaggio, sì, ma tutt’altro che trascurabile.
La vicenda prende il via con un misterioso furto in un laboratorio di genetica di Torino. Non viene sottratto nulla, ma il giorno dopo uno degli scienziati finisce sotto un treno in circostanze decisamente sospette. A interessarsi al caso sono Franco Arno (Karl Malden), un ex giornalista cieco con un fiuto da detective e una nipotina sveglia, e Carlo Giordani (James Franciscus), un reporter d’assalto pronto a tutto.I due iniziano a scavare tra piste inconcludenti, silenzi sospetti e una catena di omicidi sempre più inquietanti. Tutto sembra ruotare attorno a quell’istituto scientifico, dove si conducono ricerche d'avanguardia sulla genetica e la predisposizione al crimine.
Il gatto a nove code è un thriller dal ritmo serrato, con un montaggio dinamico e un uso costante della soggettiva dell'assassino, spesso anticipata da un inquietante primo piano di una pupilla dilatata. Gli omicidi iniziando a diventare più brutali, ma ancora relativamente “anemici” rispetto agli standard futuri di Argento. Le atmosfere sono ben costruite, ricche di tensione e con evidenti influenze hitchcockiane ma anche con una vena ironica e personaggi quasi caricaturali che alleggeriscono la tensione. Tecnicamente il film funziona. La regia è solida, la fotografia elegante e il tutto è supportato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Bravi Karl Malden e James Franciscus. Meno convincente Catherine Spaak, bella ma legnosa, con una scena di sesso che sembra uscita da una pubblicità vintage del dopobarba.
Certo, è un film imperfetto. A volte sbilenco, con una sceneggiatura che zoppica e un finale che lascia l’amaro in bocca più per le promesse mancate che per il colpo di scena. Ma è anche l’opera di un autore in piena evoluzione, che inizia a maneggiare con sicurezza i ferri del mestiere e che, con la sua cifra stilistica sempre più definita, comincia a lasciare un’impronta inconfondibile nel giallo all’italiana.
Film
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto
di Elio Petri
Un pugno nello stomaco. Dev'essere stato questo l'effetto di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto quando uscì nelle sale italiane nel 1970, in un periodo di forte tensione politica e sociale. Un opera scomoda, corrosiva, che rischiò la censura e il sequestro per la sua critica feroce alle istituzioni, in particolare alla polizia e al potere autoritario in Italia. Alla fine, il film di Elio Petri riuscì ad arrivare nelle sale, vincendo il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes e, l'anno successivo, l'Oscar come miglior film straniero.
Roma. Il capo della sezione omicidi (Gian Maria Volonté), proprio nel giorno della sua promozione all'ufficio politico, uccide l'amante Augusta Terzi (Florinda Bolkan). Invece di coprire le sue tracce, l'alto funzionario della polizia, che rimarrà senza nome, fa di tutto per seminare indizi che lo collegano al crimine, sfidando il sistema e mettendo alla prova fino a che punto il suo potere possa proteggerlo. Per quanto si sforzi di dare prove della sua colpevolezza, il sistema rifiuta di prenderle in considerazione. I suoi sottoposti, invece di sospettarlo, lo giustificano, lo proteggono, cercano spiegazioni alternative. Anche quando un testimone chiave, un idraulico, si trova davanti a lui e potrebbe incastrarlo, il timore reverenziale e il clima di omertà lo spingono al silenzio. Fino a che punto può spingersi un uomo investito di autorità? Quanto è disposto il sistema a proteggere se stesso, anche di fronte all'evidenza di un delitto?
Il racconto si dipana tra presente e flashback, dove emerge il rapporto morboso con Augusta, un gioco di potere e seduzione in cui lei lo sfida a dimostrare di essere un vero uomo, un'autorità assoluta. Una sfida che lo porterà a compiere l'omicidio e a usarlo come esperimento politico e socale.
Elio Petri costruisce un thriller psicoanalitico sull'abuso del potere che critica e analizza in chiave grottesca l'autoritarismo e l'impunità degli apparati polizieschi. Scritto dal regista insieme a Ugo Pirro, il film fece scalpore sopratutto nel nostro paese perchè uscì appena due mesi dopo la strage di piazza Fontana e la morte dell'anarchico Pinelli in un momento delicatissimo della storia italiana. Il film sembra anticipare il clima che avrebbe caratterizzato gli anni di piombo, con uno stato che si regge sulla repressione e su un potere che non sbaglia mai. È un film politico, profondamente legato al suo periodo storico, che unisce il tormento psicologico dostoevskiano alla visione grottesca e claustrofobica del potere tipica di Kafka.
Gian Maria Volonté è monumentale. Il suo personaggio è un uomo arrogante, sprezzante, con un accento marcato e un piglio tronfio che nasconde un'insicurezza profonda. La sua interpretazione è un continuo gioco tra delirio e lucidità, tra volontà di controllo e bisogno di autoumiliazione. E poi c'è la colonna sonora di Ennio Morricone, uno dei temi più famosi della sua carriera, un tango ambiguo con il mandolino iniziale che evoca l'origine siciliana del protagonista.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è un film che non invecchia, anzi, con il tempo diventa ancora più inquietante. Il suo messaggio è chiaro: la giustizia non è uguale per tutti, e il potere può permettersi tutto, anche di uccidere alla luce del sole. E se nessuno osa fermarlo, forse il problema non è solo chi comanda, ma chi obbedisce senza farsi domande.
Film
Lo sceicco bianco
di Federico Fellini
Premessa doverosa. Non ho mai amato il neorealismo italiano. Quel cinema dell'immediato dopoguerra, con registi come Rossellini, Visconti e Antonioni, mi è sempre sembrato lontano dalla mia idea di cinema. Amo il perturbante, il caos, il sogno. Amo il cinema che scava nell’inconscio, che trasforma la realtà in visione, che ci porta al limite dell'immaginifico. Il mio regista preferito, senza ombra di dubbio, è David Lynch. E Lynch, ha sempre nutrito una profonda ammirazione per Fellini, tanto da considerare Otto e mezzo non solo un capolavoro assoluto, ma il film che più di tutti ha influenzato il suo cinema.
Federico Fellini è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi cineasti della storia. Pur avendo inizialmente abbracciato l’estetica neorealista, se n’è progressivamente allontanato per intraprendere un percorso sempre più visionario, introspettivo e onirico, fino a sviluppare un linguaggio unico, libero e inconfondibile.
Conosco solo i suoi film più celebri, visti però in un periodo in cui la mia conoscenza del cinema era ancora superficiale. Ora, con uno sguardo più maturo, da appassionato che ha imparato ad amare non solo i film, ma anche la loro storia, ho deciso di riscoprirlo dall’inizio. E il punto di partenza non può che essere Lo sceicco bianco (1951), il suo esordio alla regia.
Il primo film di Federico Fellini, dopo la co-regia con Alberto Lattuada in Luci del varietà, viene presentato alla tredicesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Scritto da Michelangelo Antonioni il film in origine sarebbe dovuto essere diretto da Alberto Lattuada, ma tra abbandoni e ripensamenti, alla fine la produzione scelse di affidare la regia a Fellini.
La storia segue due sposini meridionali in viaggio di nozze a Roma. Ivan (Leopoldo Trieste) è un giovanotto rigido e conformista, determinato a fare carriera e a impressionare lo zio, un pezzo grosso del Vaticano. Wanda (Brunella Bovo) è una ragazza dolce e ingenua appassionata lettrice di fotoromanzi. Appena arrivati in albergo, Wanda, approfittando di un momento di distrazione del marito, si allontana per incontrare l'idolo dei suoi sogni, Fernando Rivoli (Alberto Sordi), il protagonista del suo fotoromanzo preferito che interpreta il leggendario Sceicco Bianco. Mentre Wanda si ritrova catapultata in un mondo tanto affascinante quanto illusorio, tra set improvvisati e attori esuberanti, Ivan, cerca disperatamente di salvare le apparenze e nascondere la scomparsa della moglie ai parenti.
Lo sceicco bianco è una divertente commedia dolceamara che smaschera le illusioni dei miti di carta e la finzione del perbenismo. All’epoca, il film venne stroncato sia dal pubblico che dalla critica, considerandolo una parodia grottesca ed eccessiva. L’interpretazione di un giovane Alberto Sordi, ancora poco noto al pubblico, venne giudicata troppo caricaturale e irritante. Eppure, il suo personaggio è la perfetta incarnazione della finzione spacciata per sogno. Rivoli è solo un pavido attore fallito, un millantatore che dietro il fascino del suo alter ego nasconde un’esistenza misera e priva di gloria. Buona anche l’interpretazione di Brunella Bovo, capace di far trasparire la fragile ingenuità di una donna, così come quella spiritata, sudata e comicamente tragica di Leopoldo Trieste. Ci sta pure un apparizione di Giulietta Masina, nel ruolo di Cabiria, che ritroveremo nei successivi film di Fellini.
Pur essendo una commedia leggera, Lo sceicco bianco lascia già intravedere il gusto per il surreale che il regista svilupperà con sempre maggiore audacia nelle sue opere future. Emblematiche, in questo senso, l’incontro sospeso tra Wanda e lo Sceicco Bianco sull’altalena o le riprese sulla spiaggia con il cast del fotoromanzo. Sono i primi germogli di quel mondo visionario e onirico che contrassegnerà gran parte della filmografia di Fellini.
Film
The Place
di Paolo Genovese
Dopo il successo di Perfetti Sconosciuti, il regista romano Paolo Genovese realizza nel 2017 un film insolito e per certi versi coraggioso. Adattamento della serie americana The Booth at the End, The Place è una sorta di thriller esistenziale, decisamente teatrale, basato prevalentemente su dialoghi e tensione psicologica.
Il film è ambientato tutto all’interno di un bar dove un enigmatico personaggio senza nome (Valerio Mastandrea), seduto sempre allo stesso tavolo, prende appunti su una vissuta agenda, mentre una sfilata di personaggi, si alternano, sedendosi di fronte a lui, con richieste che vanno dal disperato al delirante. Un poliziotto che cerca suo figlio (Marco Giallini), una suora che ha perso la fede (Alba Rohrwacher), un padre disperato che vuole salvare la vita del proprio bambino (Vinicio Marchioni), un meccanico che sogna una notte di sesso con una pinup da calendario (Rocco Papapaleo), una donna anziana che desidera che il marito guarisca (Giulia Lazzarini), un delinquente che vuole liberarsi del padre oppressivo (Silvio Muccino), un cieco che vorrebbe riacquistare la vista (Alessandro Borghi), una ragazza ossessionata dalla bellezza (Silvia D'Amico) e un altra che vuole riconquistare suo marito (Vittoria Puccini). Lui ascolta, prende appunti e poi propone una soluzione. Ma niente è gratis, ogni desiderio ha un prezzo e la moneta di scambio è un’azione – spesso immorale, talvolta orribile – che i personaggi dovranno compiere. Il punto non è tanto cosa vogliono, ma fino a che punto sono disposti a spingersi per ottenerlo.
A osservare il tutto c’è la cameriera del bar (Sabrina Ferilli), incuriosita da quell’uomo che passa le giornate a parlare con chi gli siede di fronte, che a fine serata si siede al suo tavolo cercando di svelare il mistero dietro quel volto impassibile. Chi è davvero? Un emissario divino? Il diavolo in incognito? O semplicemente uno specchio della natura umana, capace solo di mostrare il peggio che si cela dentro ognuno di noi?
Il film punta tutto su un’impostazione teatrale, un cast corale, un unico spazio, pochi movimenti, tanti primi piani e dialoghi a raffica. Scelta affascinante, ma alla lunga un po’ ripetitiva. Il cinema di solito si muove, qui invece resta fermo, lasciando allo spettatore il compito di immaginare cosa accada fuori. Più che un film, sembra di leggere un romanzo.
Mastandrea è perfetto nel ruolo dell’enigmatico burattinaio, cupo, imperscrutabile, con un velo di malinconia che lo rende ancora più inquietante. Gli altri? Più che personaggi, sembrano archetipi con poco spessore. E poi alcuni proprio non li reggo, ma questo è un problema mio.
Genovese ha il merito di non essersi adagiato sul successo di Perfetti Sconosciuti, provando una strada più rischiosa e anticommerciale. Peccato che The Place non inciampi tanto sull’idea – che non è neanche originalissima – quanto sulla sua realizzazione. Tante domande, poche risposte, e nella seconda metà il film si sfilaccia con personaggi che spariscono, trame che si annodano senza sciogliersi, e un finale che non incide quanto dovrebbe.
Un’occasione mancata? Forse. Ma almeno è un tentativo di portare qualcosa di diverso nel cinema italiano.
Film
Follemente
di Paolo Genovese
Le commedie italiane, sopratutto quelle di nuova generazione, non sono proprio il mio genere preferito. Però Perfetti Sconosciuti, il film di Paolo Genovese che nel 2016 ha fatto il botto tra pubblico e critica, l’avevo trovato carino e originale.
A distanza di anni – anzi, forse dovrei dire decenni – mi sono ritrovato di nuovo a vedere una commedia italiana al cinema. E già questa è una notizia. La scelta è caduta su Follemente, l'ultimo film di Genovese che ha come protagonisti Edoardo Leo, Pilar Fogliati e tanti altri attori italiani più o meno noti.
Ribattezzato da molti l'Inside Out per adulti – a me ha ricordato anche il Woody Allen di "Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere" - la trama di Follemente è abbastanza semplice e si svolge prevalentemente in un appartamento. Dopo essersi conosciuti (presumibilmente su un’app di dating, come ogni buon millennial che si rispetti), Lara (Pilar Fogliati) invita Piero (Edoardo Leo) a casa sua per il loro primo appuntamento. Lui è un quarantenne, professore di liceo, reduce da un divorzio e con una figlia piccola. Lei è una trentenne appassionata di mobili e design, con alle spalle relazioni con uomini sposati e amori complicati. Durante la serata ci viene mostrato cosa accade nella loro testa attraverso dei personaggi che interpretano le loro diverse personalità e si trovano di una stanza che rappresenta il loro modo di essere. Dalla parte di lui abbiamo la razionalità del Professore (Marco Giallini), la follia di Valium (Rocco Papaleo), la sensibilità di Romeo (Maurizio Lastrico) e la passione di Eros (Claudio Santamaria), mentre dalla parte di lei abbiamo i corrispettivi femminili che sono la logica di Alfa (Claudia Pandolfi), l'imprevedibilità di Scheggia (Maria Chiara Giannetta), il romanticismo di Giulietta (Vittoria Puccini) e la sensualità di Trilli (Emanuela Fanelli). Un vero e proprio consiglio direttivo delle emozioni, che discute, litiga e cerca di guidare i protagonisti nelle scelte da compiere.
L’idea di base non è certo particolarmente originale – il confronto con il film d'animazione della Pixar è inevitabile – ma la sceneggiatura è solida e ben congegnata. Le battute funzionano, il ritmo è incalzante e ogni personaggio, dai protagonisti alle loro proiezioni interiori, ha il suo spazio senza che nessuno oscuri gli altri. Un equilibrio tutt’altro che scontato, considerando il cast affollato.
Gran parte del merito va a un montaggio preciso e dinamico, e a un ensemble di attori ben assortito, che funziona alla perfezione. La comicità punta sui classici cliché di maschi contro femmine, sulle pulsioni e sulle insicurezze nei rapporti di coppia, senza però risultare mai troppo banale. Certo, in alcuni momenti il film sembra voler strappare la risata a tutti i costi, forzando un po’ la mano sulla battuta, ma nel complesso mantiene un buon ritmo e diverte.
Follemente è un film commerciale, pensato per il grande pubblico, e su questo non ci piove. Non ha la profondità emotiva di Perfetti Sconosciuti, ma intrattiene con leggerezza e intelligenza, risultando gradevole e divertente per una serata in compagnia.
Riguardandomi la filmografia di Genovese ho appena scoperto di non aver visto "The Place", un film che mi incuriosiva parecchio all’epoca della sua uscita. Urge recupero.
Film
L'uccello dalle piume di cristallo
di Dario Argento
Dario Argento non ha bisogno di presentazioni tra gli amanti del cinema di genere, ma ogni leggenda ha un inizio, e per il regista romano tutto comincia con L'uccello dalle piume di cristallo. Siamo nel 1970, un momento in cui il giallo italiano cerca una nuova identità. Figlio del produttore cinematografico Salvatore Argento e della fotografa Elda Luxardo, celebre per i suoi ritratti di dive italiane, Dario cresce immerso nel mondo dello spettacolo e del cinema. Prima di approdare dietro la macchina da presa, si afferma come giovane critico e sceneggiatore, collaborando con Sergio Leone per il soggetto di "C’era una volta il West".
Quando scrive la sceneggiatura di L’uccello dalle piume di cristallo - ispirandosi al romanzo giallo "La statua che urla" di Fredric Brown - Dario Argento non immagina che sarà lui stesso a dirigere il film. Tuttavia, innamoratosi della storia decide di fare il grande passo e debuttare come regista. Grazie all’appoggio del padre, che si unisce al progetto come co-produttore, Argento riesce a presentare il soggetto a Goffredo Lombardo, storico produttore della Titanus. Lombardo, entusiasta, accetta la sfida e dà fiducia a un esordiente che di lì a poco avrebbe cambiato per sempre il panorama del thriller italiano.
Con uno stile che gioca sul confine tra realtà e illusione, L'uccello dalle piume di cristallo è molto più di un film d’esordio: è il manifesto di una poetica che mescola eleganza visiva, suspence chirurgica e un gusto estetico inconfondibile. Nonostante Dario Argento abbia sempre respinto l’idea di essere stato influenzato da Mario Bava, è difficile non riconoscere alcune somiglianze con i capolavori del maestro, come "La ragazza che sapeva troppo" e "Sei donne per l’assassino". Dettagli come l’assassino con i guanti neri, il colpo di scena del doppio colpevole e l’uso della soggettiva sembrano suggerire un debito stilistico. Tuttavia, il film di Argento non è un’imitazione, bensì una reinvenzione, spiazzando lo spettatore con un raffinato gioco di prospettive e indizi. È il punto zero di un regista destinato a lasciare un’impronta indelebile nella storia del cinema.
La storia vede come protagonista Sam Dalmas (Tony Musante), un giovane scrittore americano, che assiste a un tentativo di omicidio in una galleria d’arte. Inizialmente i sospetti cadono su di lui, ma quando l'assassino lo prende di mira cercandi di ucciderlo, lo scrittore si improvvisa detective per cercare di risolvere il mistero e fermare la scia di sangue che terrorizza la città.
Con la sfrontatezza dell’esordiente convinto del proprio talento, Dario Argento si getta a capofitto nel genere giallo e ne rivoluziona l'approccio, intrecciando virtuosismi tecnici e una cura maniacale per l’estetica. Il risultato è un film che, pur basandosi su idee e atmosfere preesistenti, non solo sorprende per l’originalità della regia, ma pone le basi per un nuovo linguaggio cinematografico, capace di elevare il thriller italiano a livello internazionale.
Fin dal suo debutto, Argento introduce gli elementi distintivi del suo cinema come l’uso del punto di vista in soggettiva, primi piani su occhi e volti, un’ossessione per i dettagli e per la fotografia, trame ambientate in luoghi astratti e senza tempo, tocchi di ironia, personaggi grotteschi, moventi legati a profondi traumi, e una cura quasi rituale nella messa in scena degli omicidi. La macchina da presa diventa un personaggio a sé, muovendosi con soggettive immersive, zoom arditi, panoramiche vertiginose e angolazioni audaci. A completare questa visione innovativa, la fotografia magistrale di Vittorio Storaro, le ottime scenografie di Dario Micheli e la straordinaria colonna sonora di Ennio Morricone, che sottolinea l'importanza dell'elemento musicale nell’opera di Argento.
Il pubblico accolse il film con entusiasmo, premiandolo con un incasso al botteghino straordinario. Il successo di L'uccello dalle piume di cristallo non solo diede il via alla celebre trilogia degli animali, ma ispirò anche una lunga scia di imitazioni, consacrando Argento come il nuovo maestro del brivido.
Film
Una sull'altra
di Lucio Fulci
Lucio Fulci, regista e sceneggiatore italiano, è stato una figura poliedrica del cinema, capace di attraversare con disinvoltura generi diversi. A partire dagli anni Sessanta, ha diretto oltre cinquanta film, spaziando dai musicarelli alla commedia demenziale — molti dei quali con protagonisti Franco e Ciccio — per poi consacrarsi come autore di culto nel giallo e nell’horror. Rivalutato nel tempo da critici e registi come Quentin Tarantino, Fulci ha firmato opere seminali come Non si sevizia un paperino, Zombi 2 e L’aldilà, lasciando un’impronta indelebile nella storia del cinema di genere.
Nel 1969, il regista romano segna il suo debutto nel giallo con Una sull’altra (conosciuto anche con il titolo internazionale di Perversion Story), realizzando, quasi interamente a San Francisco un film che anticipa molti dei temi e delle estetiche distintive del suo cinema futuro.
La vicenda ruota attorno a George Dumurrier (Jean Sorel), medico dalla moralità discutibile, che a seguito dell'improvvisa morte della moglie, eredita un milione di dollari grazie a una polizza assicurativa. Qualche giorno dopo, durante una serata in un night club con l'amante Jane (Elsa Martinelli), George incontra Monica Weston (Marisa Mell), una sensuale spogliarellista che sembra essere la perfetta sosia della defunta moglie. Nel frattempo la polizia sospetta che Dumurrier abbia orchestrato la morte della moglie per incassare l’ingente assicurazione. Mentre le prove contro di lui si accumulano, George si ritrova intrappolato in una spirale di sospetti, tradimenti e rivelazioni inaspettate.
La storia richiama in maniera abbastanza esplicita La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, ma Fulci ne rielabora i temi con un approccio personale, inserendo una carica morbosa ed erotica che rende il film più audace e trasgressivo. Lo striptease sulla moto e la scena lesbica tra le due attrici protagoniste, pur risultando meno espliciti di quanto il titolo internazionale lascerebbe immaginare, contribuirono a scandalizzare il pubblico dell’epoca, ancora poco abituato a scene dal contenuto così allusivo e sensuale. Al di là dell'erotismo come elemento narrativo, la regia di Fulci fa grande uso dei primissimi piani sugli occhi dei protagonisti, muovendosi tra zoom audaci e dettagli estetici che anticipano molte delle tecniche che il regista perfezionerà nei suoi horror. Nonostante alcune ingenuità narrative, una recitazione un pò da fotoromanzo e una colonna sonora jazz che ho trovato particolarmente invasiva e irritante, Una sull’Altra ha il merito di anticipare il nascente giallo all’italiana, ponendosi come un film significativo e audace, quantomeno per il suo tempo.
Film
The Well
di Federico Zampaglione
E' uscito al cinema il nuovo film horror di Federico Zampaglione.
La storia vede come protagonista Lisa (Lauren LaVera), una giovane restauratrice americana che arriva in Italia per lavorare su un dipinto gravemente danneggiato da un incendio. Il lavoro la conduce a Sambuci, un paesino nelle campagne romane, dove il dipinto è conservato nella villa della nobildonna Contessa Malvizi (Claudia Gerini). La ragazza si mette subito al lavoro per riportare alla luce l'oscuro dipinto nei tempi stabiliti facendo conoscenza con Sara (Linda Zampaglione), la figlia adolescente della contessa, che gli racconta di un’antica maledizione legata al misterioso dipinto. Nel frattempo tre turisti, due ragazze e un ragazzo che Lisa ha conosciuto in pullman durante il viaggio, dopo essersi accampati in un bosco poco distante dal paesino vengono catturati e rinchiusi in celle sotterranee per diventare carne da macello del loro aberrante carceriere (Lorenzo Renzi) e della mostruosa creatura che si trova in fondo al pozzo al centro della stanza.
Il film di Zampaglione è un omaggio al cinema di genere italiano del passato, che ricorda "La casa dalle finestre che ridono" di Pupi Avati ma anche "Suspira" di Dario Argento. Il suo essere derivativo inevitabilmente lo porta a essere poco originale ma allo stesso tempo, questa sua riconoscibilità, gli conferisce una forte identità rendendolo distinguibile come horror italiano da esportare all'estero (il film è stato venduto in oltre cento paesi). Per alcune scene particolarmente violente e splatter in Italia il film è stato vietato ai minori di 18 anni. Una censura un pò eccessiva se pensiamo che film americani altrettano sanguinosi, come per esempio l'ultimo "Saw", si sono fermati al divieto ai minori di 14 anni.
La storia di "The Well" è abbastanza semplice e si svolge per lo più all'interno di una villa, in due livelli distinti. Sopra, nel lusso di un ambiente aristocratico e decadente dall'atmosfera gotica, la protagonista, nel ripulire dalla fuliggine il dipinto, riporta alla luce il ritratto di mostruosi demoni e macabri rituali, precipitando in un orrore onirico e psicologico. Sotto, nelle celle sudicie, rugginose e putriscenti si compie l'orrore fisico tra amputazioni e squartamenti che si rifà a quel torture porn che Zampaglione ci aveva già deliziato in "Shadow". Il carnefice, qui rappresentato come un orco demente, non è solo, come lo era il malvagio nel film appena citato. In "The Well" abbiamo anche una strega e sopratutto uno dei mostri più inquietanti degli ultimi anni. Grazie agli effetti speciali analogici di Carlo Diamantini, il makeup della creatura mostruosa è davvero ben riuscita. Peccato che nel finale, nella parte del decadimento fisico, gli effetti non siano della stessa altezza.
In conclusione, nonostante il film abbia qualche cliché di troppo e alcune situazioni inverosimili, è senza ombra di dubbio uno degli horror italiani più interessanti degli ultimi anni, con un finale che, seppure un pò tirato via, ci porta a riflettere su chi sia davvero il vero mostro.
Film
Shadow
di Federico Zampaglione
In attesa dell'imminente uscita di "The Well" di Federico Zampaglione mi sono visto "Shadow", il suo primo film horror del 2009.
La trama segue la storia di David, un soldato di ritorno dall'Iraq, che con la sua mountain bike decide di intraprendere un viaggio solitario attraverso le montagne del nord italia. Durante il suo percorso, David incontra Angeline, una giovane e affascinante ciclista, e i due finiscono per avventurarsi insieme nei suggestivi boschi del Tarvisio. Tuttavia, la tranquillità del loro viaggio viene presto spezzata dall'incontro di due cacciatori che si accaniscono sui due ragazzi iniziando a inseguirli per ucciderli. Addentrandosi nel bosco, il nostro protagonista e i due cacciatori finiscono nelle mani di un inquietante e malvagio personaggio che compie su di loro degli efferati esperimenti, rivelando così la sua natura sadica e perversa.
Il film di Zampaglione - che per chi non lo sapesse è il leader dei Tiromancino - è un evidente tributo a tutti quei registi (Argento, Fulci, Bava, etc) che in un'epoca ormai lontana hanno portato avanti il genere horror con passione e innovazione creando autentici capolavori. Nonostante alcuni momenti possano apparire poco originali, Zampaglione riesce a creare una notevole carica di tensione nella prima parte e una opprimente angoscia nella seconda parte. Il film, difatti, è caratterizzato dall'avere due parti, più un finale, abbastanza distinte tra di loro. Dalla fuga dei boschi che rimanda a pellicole come "Un tranquillo week-end di paura" si passa al torture-porn alla "Hostel" dove un personaggio malsano a metà tra il "Nosferatu" di Murnau e il sinistro mietitore del "Settimo Sigillo" incarna in modo inquietante l’essenza stessa del male che alberga negli esseri umani.
Un plauso alla colonna sonora dall'atmosfera tesa e coinvolgente in cui Zampaglione con l'aiuto del fratello mi ha riportato alla memoria nientepopodimeno che i Goblin.
Per quanto anche il finale risulti poco originale, "Shadow" è un film costruito abbastanza bene che si distingue per una ottima fotografia e una buona qualità tecnica. Alcune scene - vedi il tizio cotto alla piastra - rimangono ben impresse anche agli appassionati del genere. Inoltre, il fatto che il film sia stato girato in inglese e successivamente doppiato in italiano gli ha evitato quella recitazione fatta di sussurri e inflessioni dialettali che purtroppo si trovano spesso nei film di genere italiani. Pare che sia stato proprio Dario Argento a suggerirgli di girarlo in inglese. Scelta più che azzeccata.

Diabolik
di Mario Bava
Nel 1968 il produttore Dino De Laurentis affidò a Maria Bava il compito di dirigere un film su Diabolik, il personaggio dei fumetti creato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani cinque anni prima. Nonostante il considerevole budget rispetto a quello avuto a disposizione per gli altri suoi film, Bava, almeno inizialmente, non era particolarmente entusiasta di occuparsi di questo personaggio, ma alla fine, tra diverse difficoltà riuscì a realizzare una pellicola con un suo stile senza aver nemmeno speso tutti i soldi che De Laurentis gli aveva messo a disposizione.
La storia vede come protagonista Diabolik (John Phillip Law), genio criminale mascherato dotato di grande astuzia e abilità che insieme alla sua complice e amante Eva Kent (Marisa Mell), riesce a compiere degli audaci furti mettendo in ridicolo l'ispettore Ginko (Michel Piccoli) che cerca invano di catturarlo. In aiuto alle forze dell’ordine, Ginko fa un patto con il criminale Valmont (Adolfo Celi) che gli promette di consegnargli Diabolik in cambio di chiudere un occhio sui suoi traffici.
All'epoca il film non riscosse un grande successo di pubblico, anzi fu un vero e proprio flop, e la critica, sopratutto quella italiana, fu abbastanza dura (Tullio Kezich lo definì "uno dei film più stupidi degli anni Sessanta"). Costretto da De Laurentis ad abbandonare lo stile noir e sanguinoso del fumetto (lo era sopratutto nei primi albi di Diabolik), Bava, prende spunto dal Batman televisivo degli anni sessanta e come riferimento il movimento artistico della Pop Art di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, che proprio in quel periodo si stava affermando a livello mondiale, realizzando un film volutamente kitch dove Diabolik è un criminale alla 007 che ama il lusso sfrenato e le belle donne immerso in un mondo ricco di colori sgargianti e scenografie psichedeliche. A fronte di una sceneggiatura mediocre e ripetitiva e una caratterizzazione nulla dei personaggi, Bava dimostra una maestria straordinaria nell'uso degli effetti speciali e nella gestione delle scenografie. Un esempio su tutti è il rifugio sotterraneo di Diabolik che nella sua apparente grandezza è stato realizzato con un uso di specchi e un gioco di prospettive.
Menzione particolare alla colonna sonora di Ennio Morricone che si integra alla perfezione con l'atmosfera visiva creata da Bava.
Non si tratta del sua pellicola più riuscita, ma le atmosfere pop-psichedeliche e la sua estetica negli anni lo hanno reso un film di culto tra gli appassionati del genere.

Piove
di Paolo Strippoli
Dopo aver esordito accanto a Roberto De Feo in A Classic Horror Story del 2021, il giovane regista pugliese Paolo Strippoli debutta in solitaria dietro la macchina da presa con Piove del 2022.
In un quartiere di periferia di una Roma sporca e violenta, una famiglia spezzata da un tragico incidente automobilistico tenta di sopravvivere tra tensioni, rabbia e incomprensioni. Dopo la morte di sua moglie, Thomas (Fabrizio Rongione), si porta dietro un senso di colpa che sta avvelenando il rapporto con il figlio Enrico (Francesco Gheghi), un adolescente ribelle e provocatore, e la piccola Barbara (Aurora Menenti), la più giovane della famiglia, costretta sulla sedia rotelle dall’incidente che ha causato la morte della madre. Quando una forte e incessante pioggia si abbatte su Roma, dalle fogne, i vapori di una misteriosa sostanza si propaga all'interno delle case provocando una follia omicida che in breve tempo porta alla follia.
Il film è un dramma il cui orrore si manifesta solo nell'ultimo atto - la parte più interessante - usando il trauma vissuto da una famiglia per raccontare l'odio, il rancore e la rabbia in forma di un incubo melmoso e opprimente. Ho apprezzato la rappresentazione di una Roma cupa e desolata, un pò alla Seven, che descrive bene il senso di isolamento e la frustrazione dei suoi protagonisti. Il film ha una buona fotografia e un elegante regia ma la sceneggiatura di certo non spicca di originalità legandosi ad alcuni temi, molto italiani, già ampiamente trattati in numerose pellicole degli ultimi anni - il dramma familiare, il rapporto generazionale padre-figlio, il malesessere dei giovani. Alcune scene sono però molto interessanti, per esempio quella della rappresentazione della madre/moglie che si manifesta in contemporanea al figlio e al marito per istigare l'impulso omicida, oppure quella della casa piena di palloncini in cui il ragazzo si perde alla ricerca del padre da uccidere. Anche la rappresentazione della rabbia che assume la forma di un umanoide fangoso è stata realizzata abbastanza bene. Insomma, a conti fatti, la parte migliore si trova solo in un terzo del film, però il film di Strippoli merita sicuramente una visione, se non altro per incentivare produttori e registi italiani al rinascimento dell'horror italiano.
Ultimo appunto. Non riesco a trovare il motivo per cui la censura italiana lo ha fatto uscire al cinema con il divieto ai minori di anni 18. Io non ho trovato nulla di particolarmente forte ed estremo. Inspiegabile.

Operazione Paura
di Mario Bava
Da molti ritenuto il capolavoro di Mario Bava, Operazione Paura del 1966 è senz'altro il miglior film gotico italiano di sempre.
La storia inizia con l'arrivo del dottor Paul Eswai (Giacomo Rossi-Stuart) in un piccolo villaggio per investigare su una misteriosa morte avvenuta in circostanze sospette. La vittima sembra essere stata uccisa da una forza sconosciuta. Nel villaggio, il dottor Eswai scopre che gli abitanti sono terrorizzati da una maledizione legata a una bambina di nome Melissa, morta tragicamente anni prima. Si dice che il suo spirito perseguiti il villaggio, causando la morte di chiunque incontri il suo sguardo.
Operazione Paura è un esempio magistrale dell'abilità di Mario Bava nel creare atmosfere inquietanti e visivamente affascinanti, grazie a una fotografia dai colori vibranti e psichedelici, e a una messa in scena coinvolgente. Bava utilizza luci, ombre, piani sequenza, zoom e angolazioni di ripresa innovative per generare un senso di claustrofobia e terrore che permea l’intera storia, sopperendo con la sua creatività e il suo enorme talento a una esile sceneggiatura - il copione del film era di solo trenta pagine - e a una recitazione tutt'altro che memorabile. A causa del budget ridotto, il film venne girato in soli dodici giorni nei pressi di Faleria, un piccolo borgo situato nel Viterbese, mentre per gli interni della villa venne utilizzata Villa Grazioli a Grottaferrata, vicino Roma.
Alcune scene sono memorabili. La sequenza del protagonista che insegue se stesso all'interno della stessa stanza - ripresa da David Lynch nell'episodio finale della seconda stagione di Twin Peaks - la scala a chiocciola che si avvolge a spirale su se stessa e sembra essere senza fondo, oppure l'inquietante bambina fantasma con la palla rimbalzante che, oltre a diventare parte dell'immaginario horror, è stata usata, a mo' di plagio, da Federico Fellini nell'episodio Toby Dammit del film Tre passi nel delirio.
Ottima anche la colonna sonora di Carlo Rustichelli, che contribuisce a creare un’atmosfera di inquietudine costante. All'estero il film è conosciuto come Kill, Baby, Kill, un titolo decisamente più adatto rispetto all'orrido titolo "Operazione Paura" scelto dalla produzione.
Vedendo questo film, così come quelli passati, non posso fare a meno di chiedermi quale sia stato il motivo per cui Mario Bava accettò di lavorare in condizioni assolutamente precarie e con pochi finanziamenti, immaginandomi a come sarebbe stato un suo film in una grande produzione e come potevano venire valorizzate le sue idee geniali in una pellicola con una storia e una sceneggiatura un po' più coinvolgenti. Forse temeva che non avrebbe avuto la stessa libertà creativa e di dover accettare troppi compromessi.
In tutti i modi, nonostante le carenze di produzione (e un titolo osceno), Operazione Paura rimane un vero e proprio cult del cinema di genere, ennesima testimonianza del genio e del talento di Mario Bava come maestro del terrore.

The Nest (Il nido)
di Roberto De Feo
A Classic Horror Story, il film diretto da De Feo insieme a Strippoli che ho visto di recente, non mi era dispiaciuto quindi ho recuperato il primo film di De Feo con la speranza di vedere qualcosa di interessante.
In una imponente tenuta di campagna, Elena (Francesca Cavallin), una donna severa e glaciale, cresce il figlio paraplegico Samuel (Justin Alexander Korovkin) nel più totale isolamento. Al giovane, poco più che adolescente, viene impedito di uscire all'esterno delle mure di cinta ed è costretto dalla asfissiante madre a seguire delle rigide regole e suonare Bach al pianoforte. Insieme a loro, troviamo la servitù, lo zio del ragazzino e un inquietante medico (Maurizio Lombardi) ai quali è imposto di non parlare del mondo al di fuori della villa e del loro passato. Quando Samuel inizia a sentirsi prigioniero in una gabbia dorata, l'arrivo di Denise (Ginevra Francesconi), una ragazzina poco più grande di lui figlia di un amico di famiglia, scatena in lui l'impellente desiderio di fuggire e scoprire il mondo esterno.
Il film di De Feo è un thriller psicologico, cupo e claustrofobico. La fotografia ha dei toni freddi ed è virata prevelantemente in verde contribuendo a rendere l'atmosfera del film opprimente e malsana. I riferimenti a The Others di Amenabare e The Village di Shyamalan sono evidenti così come l'omaggio a un certo genere di horror gotico e misterioso della letteratura dei primi del novecento. La regia tende a valorizzare le ricche scenografie della villa con lunghi piani sequenza ma il ritmo lento e compassato, degli scricchiolii nella trama, e l'interpretazione degli attori (si salva solo l'algida Cavallin) dilata la tensione fino a un finale abbastanza prevedibile.
Apprezzo sinceramente l'impegno di alcuni giovani registi emergenti nel riportare in Italia film di un genere di cui eravamo maestri indiscussi in passato. Tuttavia, accontanando l'elogio nel fare pellicole diverse dai soliti schemi, se questo film fosse stato prodotto all'estero avrei avuto serie difficoltà a dargli una sufficienza.
Nonostante la sceneggiatura a tratti lacunosa il film sembra aver riscosso un buon successo di pubblico e critica, tanto che si prospetta anche un remake in lingua inglese.
Film
A Classic Horror Story
di Roberto De Feo, Paolo Strippoli
A Classic Horror Story è un horror folk italiano del 2021 prodotto da Netflix e diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli. E' un titolo che ho visto spesso segnalato sui gruppi social dedicati al cinema dell'orrore e che mi incuriosiva parecchio.
Cinque persone condividono un camper utilizzando il car pooling per recarsi in calabria. Fabrizio, il proprietario del camper, è un appassionato di cinema dell'orrore e documenta il viaggio con il suo smartphone. Insieme a lui troviamo Elisa (Matilda Lutz), il medico Riccardo e una giovane coppia, Mark e Sofia. Durante la notte il veicolo finisce fuori strada andando a sbattere contro un albero. Quando i cinque riprendono i sensi invece della strada che stavano percorrendo si ritrovano isolati in una radura nei pressi di una casa nel bosco dall’aspetto decisamente sinistro. Mark è rimasto ferito ed è costretto a rimanere sul camper così gli altri iniziano a esplorare la zona e addentrandosi nel bosco trovano alcuni fantocci insanguinati con delle teste di maiale mozzate. Dopo essere entrati nella casa all'interno della quale ci sono dei raccapriccianti quadri e singolari oggetti di culto, al calar della notte, il gruppo scopre che degli inquietanti individui con il volto coperto da maschere di legno sono intenzionati a ucciderli.
Partiamo dalle cose buone. Come indica il titolo, A Classic Horror Story (almeno nella prima parte) è un film volutamente citazionista che omaggia il cinema di genere. Potrebbe risultare un calderone ma io nel ritrovare riferimenti a La Casa, Non aprite quella porta, Blair Witch Project, Shining, Quella casa nel bosco e per finire il recente Midsommar, più che uno scopiazzamento c'ho visto un vero e proprio atto d'amore a tutti quei film di paura, che da tempo o anche recentemente, sono entrati a far parte del nostro immaginario. L'elemento originale, che cala il film di De Feo e Strippoli nella nostra cultura, è l'aspetto folcloristico descritto nella leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che ammetto non conoscevo e che ho trovato parecchio affascinante. In breve questi tre fratelli, secondo un racconto popolare tramandato da generazioni in Calabria, sarebbero i fondatori di tutte le mafie. Nati a Toledo, in Spagna, nel 1412, i tre fratelli facevano parte di una società segreta di natura criminale conosciuta come la Garduña. Un giorno i tre uccidono un grande amico del re per vendicarsi dell'oltraggio subito dalla loro sorella minore, così vengono mandati in prigione per trent'anni nel castello di Santa Caterina sull’isola di Favignana in Sicilia. Durante la loro prigionia Osso, Mastrosso e Carcagnosso scrissero codici d’onore, leggi e riti di affiliazione per stabilire le regole di una nuova società. Finita la pena i tre si dividono. Osso si fermò in Sicilia e fondò Cosa Nostra, Mastrosso si trasferì in Calabria creando la ‘Ndragheta e Carcagnosso se ne andò in Campania dove diede vita alla Camorra. Ora, al di là della leggenda popolare che vuole dare alle associazioni mafiose un connotato mitico e simbolico, De Feo e Strippoli utilizzano questi tre cavalieri come una sorta di demoni a cui attraverso un sacrificio umano si compie un rito satanico in cambio di benenessere e prosperità. Funziona, almeno fino a un certo punto.
Altro elemento positivo del film è la scelta di utilizzare delle classiche canzoni italiane, tipo Il Cielo in una stanza di Gino Paoli e sopratutto La Casa di Sergio Endrigo qui impiegata in un maniera così geniale da trasfigurarla in una filastrocca inquietante che mi ha ricordato la cantilena di Profondo Rosso.
Veniamo ora agli aspetti negativi. A un certo punto, prendendo spunto dal già citato Quella Casa nel bosco, la storia vira in un altra direzione raccontandoci che [spoiler on] dietro a tutto ci sia la realizzazione di un film dell'orrore da vendere al dark web (carina l'idea della versione Netflix dedicata agli snuff-movie vista nel finale) [spoiler off]. E' una scelta che ho trovata poco convincente e in questo gioco di scatole cinesi ha fatto emergere qualche buco di sceneggiatura.
L'altro elemento negativo è la recitazione. L'attore che interpreta Fabrizio secondo me non è all'altezza del ruolo che gli è stato assegnato mentre le ragazze, sopratutto nella scena in cui di notte parlano tra di loro, sussurrano, farfugliano, si mangiano le parole. E' un difetto che trovo in numerosi film italiani e che secondo me ne abbassa di molto la qualità collocandolo al pari di una qualunque fiction della RAI. Ma un buon corso di dizione a questi attori italiani la vogliamo fare? Peccato perchè dal punto espressivo Matilda Lutz, sopratutto nel finale, risulta pure brava oltre che bella.
Alla fine, nonostante i suoi punti deboli, ho trovato A Classic Horror Story un buon film, imperfetto ma coraggioso. Sicuramente meglio di tanti film horror americani visti di recente.
A questo punto sono curioso di vedermi The Nest, il film d'esordio di De Feo.

L'Orafo
di Vincenzo Ricchiuto
L'Orafo è un film italiano indipendente prodotto da Almost Famous e diretto da Vincenzo Ricchiuto. Si tratta di un thriller/horror attualmente visibile su Prime.
La storia è quella di tre giovani delinquenti che si introducono nella casa di campagna di un anziano orafo e di sua moglie (interpretati da Giuseppe Tambieri e Stefania Casini). Riusciti a farsi dare l'accesso al laboratorio di oreficeria i tre rapinatori finiscono bloccati all'interno della stanza blindata alla mercè della coppia di anziani che sembrano nascondere dei terribili e inquietanti segreti.
La sceneggiatura è interessante e il film, escludendo la prima parte, è dotato di una certa tensione. La prova dei due "inermi" vecchietti, sopratutto la Casini è buona, ma purtroppo si contrappone con la pessima recitazione dei tre ragazzi che, sopratutto nella parte iniziale, finiscono per abbassare di parecchio la qualità del film. Peccato perchè L'Orafo per essere un film italiano con poco budget non è poi così malaccio ma, ripeto, la recitazione dei tre "delinquenti" è davvero scarsa, a tratti irritante.
Film
Terrore nello spazio
di Mario Bava
In Italia i film di fantascienza, escludendo la spazzatura, si contano su una mano. A metà degli anni sessanta, Mario Bava dopo essersi cimentato su pellicole horror, thriller, western e gialli, dirige con pochissimi spicci ma tanta passione quello che viene considerato un gioiello del cinema di fantascienza italiano.
Terrore nello Spazio, conosciuto anche come "Planet of the Vampires" in inglese, è un film che ha acquisito lo status di cult ed è considerato un'opera fondamentale del genere fantascientifico.
La trama è la seguente. L'equipaggio di un astronave riceve un misterioso segnale di soccorso da un pianeta sconosciuto. Atterrati sul pianeta, gli astronauti si ritrovano in un mondo desolato cadendo in preda ad una temporanea follia. Riuscito a riportare alla ragione il suo equipaggio, il comandante si addentra con i suoi uomini nel pianeta ostile trovando il relitto di una navicella aliena al cui interno scoprono lo scheletro di un gigantesco umanoide. Quando una improvvisa furia omicida colpisce i nostri protagonisti, scopriamo che il pianeta è popolato da creature invisibili che si impadroniscono dei corpi e delle menti degli sventurati visitatori allo scopo di lasciare il loro pianeta morente e trovare una nuova casa. [spoiler on] Quando alla fine gli ultimi tre sopravvissuti riescono a decollare e lasciare il pianeta, si scopre che il comandante e la sua assistente sono stati posseduti dalle creature parassite e che ora si preparano a dirigersi sul pianeta più vicino, la Terra [spoiler off].
Nonostante il budget limitato e i pochi mezzi a disposizione, Mario Bava realizza un film seminale la cui influenza è evidente sopratutto in Alien di Ridley Scott uno dei più grandi capolavori di quella fantascienza virata all'horror. Un altro film che mi è venuto in mente guardando Terrore nello Spazio è stato La Cosa di John Carpenter non tanto per la trama quanto per l'atmosfera cupa e claustrofobica e il senso di disagio nel non sapere chi sia posseduto dall'entità aliena. Ovviamente vedendolo oggi Terrore nello spazio fa un pò sorridere anche perchè, tralasciando la pessima recitazione, si vede palesemente che è tutto finto e che il pianeta alieno è stato allestito con quattro pietre di cartapesta, tanto fumo e numerose luci colorate. Tuttavia, malgrado la povertà di mezzi a disposizione, Mario Bava con il suo grande talento crea una buona tensione narrativa utilizzando i mezzi che predilige, ovvero una regia precisa e dinamica, una fotografia dagli splendidi contrasti cromatici, e un montaggio dal ritmo dilatato ma adatto a creare quel senso di smarrimento in un mondo sconosciuto e desolato. Il tutto coadiuvato oltre che da un sonoro inquietante e sperimentale, anche da una sceneggiatura semplice ma che questa volta si rivela efficace con tanto di finale tetro e pessimista che per i tempi, di certo non ti aspetti.
Nonostante il budget esiguo e alcune ingenuità narrative e scenografiche è un film che ancora oggi conserva intatto il suo fascino collocandosi tra i cult movie del genere fantascientifico.
Film
Sei donne per l'assassino
di Mario Bava
Dopo lo scandaloso La frusta e il corpo, nel 1964 Mario Bava dirige il thriller Sei Donne per l'Assassino.
E' un film seminale che anticipa il cosidetto filone del giallo all'italiana - Dario Argento ne è debitore per i film che realizzerà nel decennio successivo - e che presenta per la prima volta l'immaginario di un serial killer in impermeabile scuro, guanti in pelle, e una maschera in spandex che cela il volto. Inoltre gli omicidi sono efferrati e, anche se il sangue è dosato, estremamente violenti.
La storia è ambientata in un atelier dove una modella viene strangolata da un misterioso assassino dal volto coperto e ritrovata poco dopo in un armadio dalla direttrice. Durante una sfilata, un altra modella ritrova per caso il diario dell'amica defunta che pare contenga rivelazioni compromettenti. Quando il diario viene rubato ha inizio una catena di omicidi, in cui altre modelle vengono uccise dallo stesso assassino.
Sebbene sia un giallo a tutti gli effetti con la polizia che indaga per scoprire chi sia l'assassino, la trama diventa quasi marginale, un pretesto per raccontare la decadenza dell'alta borghesia romana e permettere a Bava di mostrare le diverse tecniche con cui l'assassino uccide, in modo crudele, sadico e con un neanche troppo celato erotismo, le belle donne che qui vengono rappresentate come dei manichini di carne. Oggi, sessant'anni dopo, in un Italia in cui il fenomeno del femminicidio è molto presente, un film del genere non potrebbe mai uscire. All'epoca, a causa delle scene particolarmente violenti, ricevette il divieto ai minori di 18 anni.
Stilisticamente il film ha un montaggio, una composizione e una regia ineccepibile. La scenografia pop surrealista e sopratutto l'uso dei colori volutamente innaturali conferiscono alla pelliccola un atmosfera onirica e al tempo stesso inquietante. Già dai titoli di testa pare di vedere un fumetto pulp in movimento. E parlando di fumetti non posso evitare di accostare Sei donne per l'assassino al fumetto nero, genere che proprio nei primi anni sessanta in Italia aveva preso piede. Stiamo parlando di Diabolik (di cui Bava avrebbe fatto un adattamento un paio di anni più tardi) ma anche e sopratutto del Kriminal di Max Bunker (il cui primo numero uscì proprio nello stesso anno in cui uscì il film) con il quale l'assassino di Bava ha numerosi punti in comune.
Che altro dire, un film che pur non brillando per la sceneggiatura anticipa moda e genere cinematografico annoverandosi tra i cult movie di genere.
Film
La frusta e il corpo
di Mario Bava
Maria Bava, con lo pseudonimo di John M. Old, realizza nel 1963 "La frusta e il corpo", un film gotico sceneggiato da Ernesto Gastaldi.
La trama del film si sviluppa attorno al ritorno del nobile Kurt (interpretato da Christopher Lee) al castello di famiglia dove viene accolto in malomodo dal fratello e dal padre che lo ha diseredato a causa della sua vita dissoluta. Il suo ritorno riaccende il rapporto sado-masochistico e l'amore morboso tra Kurt e Nevenka (Daliah Lavi), costretta a sposare il fratello su imposizione del padre. Quando Kurt viene trovato ucciso, la vita di Nevenka diventa un incubo credendo di ricevere le visite notturne e le torture dal fantasma del suo perverso amante.
Il film all'epoca è stato censurato subendo tagli dalla produzione a causa di alcune scene considerate audaci. Temi come la sottomissione, la dipendenza sessuale e il sadomasochismo non dovevano essere visti di buon occhio nei primi anni sessanta.
Tralasciando l'aspetto erotico, "La frusta e il corpo" è un film dove la narrazione è quasi secondaria e dove, tolte alcune scene, non succede praticamente nulla. I dialoghi sono ridotti all'osso e la regia, parecchio lenta, si concentra più nel riprendere i vari protagonisti camminare lungo i corridoi del tetro castello con ombre e luci colorate che sfilano sui loro volti accompagnate in sottofondo da un onnipresente sibilo del vento presente pure in posti dove non dovrebbe esserci. È evidente che Mario Bava, in questa pellicola, aveva un interesse marginale per la trama, preferendo invece far brillare la sua passione per il cinema attraverso l'uso magistrale della regia, della fotografia e della scenografia. Sono questi gli elementi che fanno di Bava un maestro del genere e con i quali riesce a catturare al meglio l'atmosfera e l'immaginario di un castello decadente e dei suoi tormentati protagonisti.

I tre volti della paura
di Mario Bava
Nel 1963 Mario Bava torna all’horror con “I tre volti della paura”. Il film è composto da tre episodi - gli ultimi due tratti da racconti di famosi scrittori russi - e si apre con un introduzione di Boris Karlof, protagonista nella seconda storia.
Ne Il telefono una donna torna a casa e riceve delle telefonate da un uomo che la minaccia di morte. Si tratta di uno scherzo della sua "amica" che però finisce male.
Dei tre episodi è il meno riuscito perchè la storia risulta abbastanza prevedibile e poco incisiva. Tuttavia, se mettiamo da parte la sceneggiatura e i dialoghi (forse l'aspetto più debole di tutta la cinematografia di Bava), e ci soffermiamo sulle inquadrature, la fotografia e i colori, ovvero la parte stilistica, ci si rende conto di quanto Dario Argento, sopratutto nei suoi primi film, sia debitore del cinema di Bava. Inoltre l'episodio si fa notare per una certa carica erotica tra le due protagoniste anticipando i tempi su alcune tematiche sessuali.
I Wurdalak è ambientato nella steppa russa e ha come protagonista un vecchio patriarca (interpretato da Boris Karloff) che tornato a casa dalla sua famiglia inizia a fare strage dei suoi cari perchè diventato un vampiro.
Questo episodio appartiene al genere gotico e insieme al successivo e uno dei gioielli del cinema horror. Qui si concentrano tutte le qualità di Bava e la sua capacità di creare, con i pochi mezzi a disposizione, tensione e atmosfera grazie a dei tagli di inquadrature e un uso del colore del tutto innovativo. Basta vedere l’alternanza di luci colorate che illuminano il volto di Karloff. Inoltre molte delle scene, inquadrature e paesaggi pieni di nebbia e oscurità mi hanno ricordato I misteri di Sleepy Hollow di Tim Burton. Non è un caso che il cineasta americano abbia più volte dichiarato di essere stato influenzato dal cinema di Bava.
La goccia d'acqua racconta di una infermiera che, nel cuore della notte, viene chiamata a vestire per il rito funebre una vecchia medium morta improvvisamente. Durante la vestizione la donna ruba un anello dal dito del cadavere, ma tornata a casa il fantasma della defunta inizia a perseguitarla.
L'episodio paranormale è quello più terrificante perchè gioca tutto sulla suggestione e i sensi di colpa della protagonista. Le apparizioni della defunta e del suo inquitante ghigno (un pò alla Joker) sono efficaci ma la staticità (credo sia un pupazzo) e l'insistenza delle inquadrature finiscono per attenuare la tensione.
Il finale metacinematografico è la vera ciliegina sulla torta. Torna Boris Karlof a cavallo nel suo ruolo di vampiro, e mentre si rivolge al pubblico salutandolo e raccomandandogli di fare attenzione a ciò che si cela nel buio, la macchina da presa arretra mostrando tutti i trucchi e l'arte dell'illusione cinematografica (Karlof su un cavallo meccanico con le maestranze che agitano rami davanti alla cinepresa) come a voler dire che non bisogna avere paura di ciò che si è visto perchè in realtà si tratta solo di finzione. Geniale
Concludiamo con l'aneddoto. Negli Stati Uniti il film è stato distribuito nei cinema con il titolo di Black Sabbath e pare che Ozzy Osbourne e compagni si siano ispirati proprio a questa pellicola per la scelta del nome della loro band.
Film
La ragazza che sapeva troppo
di Mario Bava
La ragazza che sapeva troppo è un film del 1962 diretto da Mario Bava in cui il regista ligure si cimenta con il thriller anticipando di fatto il giallo all'italiana.
La storia racconta di una giovane ragazza americana appassionata di gialli, Nora Davis (interpretata da Leticia Roman) giunta a Roma per passare una vacanza ospite di una anziana signora. Durante la prima notte, la signora ha una crisi e muore. Sconvolta, Nora esce di casa in cerca di aiuto, ritrovandosi a vagare in una piazza di Spagna deserta, dove prima subisce uno scippo e poi assiste al brutale omicidio di una donna accoltellata alla schiena. Nora viene trovata la mattina dopo, priva di sensi, da un poliziotto che la porta in ospedale. Il cadavere è sparito e non c'è nessuna traccia dell'omicidio, così Nora non viene creduta. Fortunamente un giovane dottore (John Saxon) che Nora aveva già incontrato la notte prima dalla signora che la ospitava, gli da retta - anche perchè è palesemente attratto da lei - e insieme decidono di investigare sul misterioso omicidio.
Non ci vuole un genio per trovare in questo film, quanto meno a livello di sceneggiatura, le influenze di Alfred Hitchcock - che in questo periodo negli Stati Uniti stava spopolando con suoi capolavori - basta leggere il titolo che si rifà palesemente a L'uomo che sapeva troppo. Tralasciando la storia, la teatrale recitazione degli attori protagonisti e alcune bislacche trovate intente a smorzare la tensione, la forza in questo film sta tutta nella regia, la fotografia, il montaggio e nei tagli delle inquadrature di Mario Bava.
Girato in un bianco e nero, con ombre scure e luci taglienti, Bava da vita al genere del thriller all'italiana catturando una Roma notturna, affascinante e a tratti inquietante, che ha fatto da scuola per i film a venire. Tanto per citarne uno, sono scene che verranno riprese da Dario Argento una decina di anni più tardi nei film che lo hanno reso famoso.
Un film importante in quanto precursore del thriller all'italiana ma lo consiglio solo ai cultori del genere.
Ma davvero negli anni sessanta esistevano le sigarette alla marijuana?
Film
Ercole al centro della Terra
di Mario Bava
Continuo la mia monografia su Mario Bava analizzando il suo secondo film del 1961.
Negli anni sessanta in Italia andavano in voga i film storico/mitologici in costume con protagonisti Ercole, Maciste, Sansone e via dicendo. Il genere è chiamato Peplum.
A parte i rari casi di grandi produzioni americane, si trattava per lo più di film di basso costo. In Italia poi il budget si riduceva ulteriormente ed ecco quindi che Mario Bava si ritrova a realizzare un film su Ercole facendo uso solo delle sue capacità e della sua versatile creatività.
La trama è molto semplice. Ercole (Reg Park, un culturista dell’epoca monoespressivo) per salvare la sua amata da una maledizione, insieme all’amico Teseo e del maldestro Telemaco, si reca nel regno degli inferi per recuperare una pietra pericolosa. Il malvagio Lico (Christopher Lee) trama nell’ombra.
Ercole al centro della terra viene considerato dalla critica uno dei migliori film italiani del genere. Vedendolo ora e senza contestualizzarlo ti verrebbe da dire: "immagina come sono gli altri!". Il film è pacchiano e ridicolo, una sceneggiatura debole e una recitazione sopra le righe. E allora cosa lo salva? Innanzitutto la scenografia, povera nella produzione ma geniale e creativa nella sua realizzazione. Le luci sono colorate, quasi psichedeliche e l'impossibilità di fare una cosa realistica porta Bava a creare un sorta di fumettone carico e volutamente kitsch. È tutto di cartapesta, una giostra dove i mostri volano sorretti da evidenti cavi. Nonostante tutto, nella parte finale, quella in cui i morti resuscitano uscendo dalle loro bare, io c'ho visto, con vent'anni di anticipo, L'Armata delle Tenebre di Sam Raimi o il Beetlejuice di Tim Burton e quindi non posso fare altro che inchinarmi al maestro.

La maschera del demonio
di Mario Bava
La maschera del demonio del 1960 è considerato un vero è proprio cultmovie del genere, uno dei primi horror gotici italiani (il primo è i Vampiri di Riccardo Freda del 1957).
É il primo film (accreditato) di Mario Bava - apprezzato regista da critici e cineasti (Lynch, Burton, Carpenter, Scorsese) ma poco conosciuto al grande pubblico - che prima di questo lungometraggio aveva lavorato per anni nel cinema occupandosi di scenografia, effetti speciali e fotografia.
Il soggetto è ispirato al racconto Vij di Nicolai Vasilevic Gogol.
Verso la fine dell'ottocento, due incauti viaggiatori sono costretti a fermarsi nelle steppe russe a causa di un incidente alla loro carrozza. Si ritrovano nei pressi di un castello e si addentrano in una cripta dove, involontariamente, causano il risveglio di una strega suppliziata duecento anni prima. Questo evento da il via a numerosi omicidi con la strega che cerca vendetta e vuole impadronirsi del corpo della pronipote identica a lei.
L'inglese Barbara Steele interpreta il doppio ruolo di protagonista. É la strega, demoniaca e affascinante, ed è la sua pronipote, angelica e innocente. É proprio con questo film, capace di mettere in risalto la sua oscura bellezza, che la Steele inizia a lavorare in numerose pellicole di genere diventando in breve tempo la dark lady di tutti gli appassionati dell'horror movie del periodo.
Interamente girato in un bianco e nero molto contrastato, il film, a livello di storia, sceneggiatura e dialoghi è piuttosto semplice, quello che più colpisce, anche rivedendolo oggi, è l'aspetto tecnico e qualitativo dell'opera, ovviamente collocandolo nel periodo storico in cui è stato realizzato e al budget limitato di cui disponeva. La scenografia e la fotografia di Bava lasciano a bocca aperta, se pensiamo che gran parte del film è stato realizzato negli studi. Gli effetti speciali sono artigianali ma all'avanguardia per l'epoca (vedi il volto della protagonista che invecchia in un unica ripresa) e la regia è curata con degli interessanti tagli e piani sequenza. La maschera del demonio è dotato di un atmosfera gotica visivamente potente e dalla grande estetica, quasi espressionista, che lo colloca a pieno diritto come cultmovie del genere horror.