
Il rosso segno della follia
di Mario Bava
Il rosso segno della follia, conosciuto anche con il titolo originale Un'accetta per la luna di miele, è un film di Mario Bava girato nel 1968 in Spagna ma distribuito solo nel 1970, dopo una travagliata lavorazione che includeva riprese aggiuntive e difficoltà di distribuzione. Ambientato a Parigi, nonostante le riprese siano avvenute tra Italia e Spagna e i personaggi portino nomi inglesi, il film fu prodotto da Manuel Caño e scritto da Santiago Moncada, autore prolifico del cinema di genere spagnolo. Malgrado Moncada si ispiri dichiaratamente ai grandi classici di Alfred Hitchcock, Mario Bava, che in questo film torna a occuparsi della fotografia, riesce a intervenire sul copione inserendo nella storia il personaggio di Laura Betti, attrice nota per aver lavorato con Fellini e Pasolini, che divenne il fantasma ironico e perfido che caratterizza il film.
La storia ruota attorno a John Harrington (Steve Forsyth), affascinante stilista e proprietario di un atelier di abiti da sposa. Dietro la facciata impeccabile si nasconde un paranoico assassino ossessionato da un trauma infantile mai risolto. Le sue vittime sono giovani spose, uccise con brutale precisione usando un’accetta. Quando, in preda al delirio, Harrington uccide anche la moglie Mildred (Laura Betti), il fantasma della donna inizia a perseguitarlo portandolo lentamente alla follia.
Riprendendo l'ambientazione di Sei donne per l'assassino, il film, visivamente, si distingue per la tecnica, l'ottima fotografia e l'eleganza delle inquadrature. Tuttavia, nonostante il suo indiscutibile valore estetico, Il rosso segno della follia non è il film più riuscito di Bava complice una sceneggiatura poco incisiva, una colonna sonora non memorabile e un cast (tolta la Betti) davvero imbarazzante - l'inespressivo attore protagonista pare imbalzamato.
Non mancano, però, momenti di brillante umorismo, come il passaggio dai fumi del crematorio a un toast bruciato, e citazioni metacinematografiche, come la scena in cui il protagonista guarda in televisione I tre volti della paura, altra opera di Bava.
Il rosso segno della follia fu un insuccesso al botteghino, oscurato dal debutto di Dario Argento con L'uccello dalle piume di cristallo. Il thriller di Argento, più violento e contemporaneo, catturava meglio i bisogni del pubblico dell'epoca. Fa sorridere pensare che in questo film di Bava si anticipa alcune delle tematiche e delle tecniche che Argento avrebbe ripreso e sviluppato in Profondo rosso: il trauma infantile legato a un fatto di sangue, la ripresa in soggettiva, i dettagli insistiti sulle armi, e persino la carrellata sui pupazzi, che Argento avrebbe sostituito con strumenti di morte dell'assassino.
Anche se oggi il film appare datato, rimane una testimonianza dello stile inconfondibile di un maestro che ha saputo creare la storia del thriller italiano ma che, probabilmente, per mancanza di autostima e di ambizione, è rimasto un artista con la mentalità di artigiano.
Film
Diabolik
di Mario Bava
Nel 1968 il produttore Dino De Laurentis affidò a Maria Bava il compito di dirigere un film su Diabolik, il personaggio dei fumetti creato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani cinque anni prima. Nonostante il considerevole budget rispetto a quello avuto a disposizione per gli altri suoi film, Bava, almeno inizialmente, non era particolarmente entusiasta di occuparsi di questo personaggio, ma alla fine, tra diverse difficoltà riuscì a realizzare una pellicola con un suo stile senza aver nemmeno speso tutti i soldi che De Laurentis gli aveva messo a disposizione.
La storia vede come protagonista Diabolik (John Phillip Law), genio criminale mascherato dotato di grande astuzia e abilità che insieme alla sua complice e amante Eva Kent (Marisa Mell), riesce a compiere degli audaci furti mettendo in ridicolo l'ispettore Ginko (Michel Piccoli) che cerca invano di catturarlo. In aiuto alle forze dell’ordine, Ginko fa un patto con il criminale Valmont (Adolfo Celi) che gli promette di consegnargli Diabolik in cambio di chiudere un occhio sui suoi traffici.
All'epoca il film non riscosse un grande successo di pubblico, anzi fu un vero e proprio flop, e la critica, sopratutto quella italiana, fu abbastanza dura (Tullio Kezich lo definì "uno dei film più stupidi degli anni Sessanta"). Costretto da De Laurentis ad abbandonare lo stile noir e sanguinoso del fumetto (lo era sopratutto nei primi albi di Diabolik), Bava, prende spunto dal Batman televisivo degli anni sessanta e come riferimento il movimento artistico della Pop Art di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, che proprio in quel periodo si stava affermando a livello mondiale, realizzando un film volutamente kitch dove Diabolik è un criminale alla 007 che ama il lusso sfrenato e le belle donne immerso in un mondo ricco di colori sgargianti e scenografie psichedeliche. A fronte di una sceneggiatura mediocre e ripetitiva e una caratterizzazione nulla dei personaggi, Bava dimostra una maestria straordinaria nell'uso degli effetti speciali e nella gestione delle scenografie. Un esempio su tutti è il rifugio sotterraneo di Diabolik che nella sua apparente grandezza è stato realizzato con un uso di specchi e un gioco di prospettive.
Menzione particolare alla colonna sonora di Ennio Morricone che si integra alla perfezione con l'atmosfera visiva creata da Bava.
Non si tratta del sua pellicola più riuscita, ma le atmosfere pop-psichedeliche e la sua estetica negli anni lo hanno reso un film di culto tra gli appassionati del genere.

Operazione Paura
di Mario Bava
Da molti ritenuto il capolavoro di Mario Bava, Operazione Paura del 1966 è senz'altro il miglior film gotico italiano di sempre.
La storia inizia con l'arrivo del dottor Paul Eswai (Giacomo Rossi-Stuart) in un piccolo villaggio per investigare su una misteriosa morte avvenuta in circostanze sospette. La vittima sembra essere stata uccisa da una forza sconosciuta. Nel villaggio, il dottor Eswai scopre che gli abitanti sono terrorizzati da una maledizione legata a una bambina di nome Melissa, morta tragicamente anni prima. Si dice che il suo spirito perseguiti il villaggio, causando la morte di chiunque incontri il suo sguardo.
Operazione Paura è un esempio magistrale dell'abilità di Mario Bava nel creare atmosfere inquietanti e visivamente affascinanti, grazie a una fotografia dai colori vibranti e psichedelici, e a una messa in scena coinvolgente. Bava utilizza luci, ombre, piani sequenza, zoom e angolazioni di ripresa innovative per generare un senso di claustrofobia e terrore che permea l’intera storia, sopperendo con la sua creatività e il suo enorme talento a una esile sceneggiatura - il copione del film era di solo trenta pagine - e a una recitazione tutt'altro che memorabile. A causa del budget ridotto, il film venne girato in soli dodici giorni nei pressi di Faleria, un piccolo borgo situato nel Viterbese, mentre per gli interni della villa venne utilizzata Villa Grazioli a Grottaferrata, vicino Roma.
Alcune scene sono memorabili. La sequenza del protagonista che insegue se stesso all'interno della stessa stanza - ripresa da David Lynch nell'episodio finale della seconda stagione di Twin Peaks - la scala a chiocciola che si avvolge a spirale su se stessa e sembra essere senza fondo, oppure l'inquietante bambina fantasma con la palla rimbalzante che, oltre a diventare parte dell'immaginario horror, è stata usata, a mo' di plagio, da Federico Fellini nell'episodio Toby Dammit del film Tre passi nel delirio.
Ottima anche la colonna sonora di Carlo Rustichelli, che contribuisce a creare un’atmosfera di inquietudine costante. All'estero il film è conosciuto come Kill, Baby, Kill, un titolo decisamente più adatto rispetto all'orrido titolo "Operazione Paura" scelto dalla produzione.
Vedendo questo film, così come quelli passati, non posso fare a meno di chiedermi quale sia stato il motivo per cui Mario Bava accettò di lavorare in condizioni assolutamente precarie e con pochi finanziamenti, immaginandomi a come sarebbe stato un suo film in una grande produzione e come potevano venire valorizzate le sue idee geniali in una pellicola con una storia e una sceneggiatura un po' più coinvolgenti. Forse temeva che non avrebbe avuto la stessa libertà creativa e di dover accettare troppi compromessi.
In tutti i modi, nonostante le carenze di produzione (e un titolo osceno), Operazione Paura rimane un vero e proprio cult del cinema di genere, ennesima testimonianza del genio e del talento di Mario Bava come maestro del terrore.

Terrore nello spazio
di Mario Bava
In Italia i film di fantascienza, escludendo la spazzatura, si contano su una mano. A metà degli anni sessanta, Mario Bava dopo essersi cimentato su pellicole horror, thriller, western e gialli, dirige con pochissimi spicci ma tanta passione quello che viene considerato un gioiello del cinema di fantascienza italiano.
Terrore nello Spazio, conosciuto anche come "Planet of the Vampires" in inglese, è un film che ha acquisito lo status di cult ed è considerato un'opera fondamentale del genere fantascientifico.
La trama è la seguente. L'equipaggio di un astronave riceve un misterioso segnale di soccorso da un pianeta sconosciuto. Atterrati sul pianeta, gli astronauti si ritrovano in un mondo desolato cadendo in preda ad una temporanea follia. Riuscito a riportare alla ragione il suo equipaggio, il comandante si addentra con i suoi uomini nel pianeta ostile trovando il relitto di una navicella aliena al cui interno scoprono lo scheletro di un gigantesco umanoide. Quando una improvvisa furia omicida colpisce i nostri protagonisti, scopriamo che il pianeta è popolato da creature invisibili che si impadroniscono dei corpi e delle menti degli sventurati visitatori allo scopo di lasciare il loro pianeta morente e trovare una nuova casa. [spoiler on] Quando alla fine gli ultimi tre sopravvissuti riescono a decollare e lasciare il pianeta, si scopre che il comandante e la sua assistente sono stati posseduti dalle creature parassite e che ora si preparano a dirigersi sul pianeta più vicino, la Terra [spoiler off].
Nonostante il budget limitato e i pochi mezzi a disposizione, Mario Bava realizza un film seminale la cui influenza è evidente sopratutto in Alien di Ridley Scott uno dei più grandi capolavori di quella fantascienza virata all'horror. Un altro film che mi è venuto in mente guardando Terrore nello Spazio è stato La Cosa di John Carpenter non tanto per la trama quanto per l'atmosfera cupa e claustrofobica e il senso di disagio nel non sapere chi sia posseduto dall'entità aliena. Ovviamente vedendolo oggi Terrore nello spazio fa un pò sorridere anche perchè, tralasciando la pessima recitazione, si vede palesemente che è tutto finto e che il pianeta alieno è stato allestito con quattro pietre di cartapesta, tanto fumo e numerose luci colorate. Tuttavia, malgrado la povertà di mezzi a disposizione, Mario Bava con il suo grande talento crea una buona tensione narrativa utilizzando i mezzi che predilige, ovvero una regia precisa e dinamica, una fotografia dagli splendidi contrasti cromatici, e un montaggio dal ritmo dilatato ma adatto a creare quel senso di smarrimento in un mondo sconosciuto e desolato. Il tutto coadiuvato oltre che da un sonoro inquietante e sperimentale, anche da una sceneggiatura semplice ma che questa volta si rivela efficace con tanto di finale tetro e pessimista che per i tempi, di certo non ti aspetti.
Nonostante il budget esiguo e alcune ingenuità narrative e scenografiche è un film che ancora oggi conserva intatto il suo fascino collocandosi tra i cult movie del genere fantascientifico.
Film
Sei donne per l'assassino
di Mario Bava
Dopo lo scandaloso La frusta e il corpo, nel 1964 Mario Bava dirige il thriller Sei Donne per l'Assassino.
E' un film seminale che anticipa il cosidetto filone del giallo all'italiana - Dario Argento ne è debitore per i film che realizzerà nel decennio successivo - e che presenta per la prima volta l'immaginario di un serial killer in impermeabile scuro, guanti in pelle, e una maschera in spandex che cela il volto. Inoltre gli omicidi sono efferrati e, anche se il sangue è dosato, estremamente violenti.
La storia è ambientata in un atelier dove una modella viene strangolata da un misterioso assassino dal volto coperto e ritrovata poco dopo in un armadio dalla direttrice. Durante una sfilata, un altra modella ritrova per caso il diario dell'amica defunta che pare contenga rivelazioni compromettenti. Quando il diario viene rubato ha inizio una catena di omicidi, in cui altre modelle vengono uccise dallo stesso assassino.
Sebbene sia un giallo a tutti gli effetti con la polizia che indaga per scoprire chi sia l'assassino, la trama diventa quasi marginale, un pretesto per raccontare la decadenza dell'alta borghesia romana e permettere a Bava di mostrare le diverse tecniche con cui l'assassino uccide, in modo crudele, sadico e con un neanche troppo celato erotismo, le belle donne che qui vengono rappresentate come dei manichini di carne. Oggi, sessant'anni dopo, in un Italia in cui il fenomeno del femminicidio è molto presente, un film del genere non potrebbe mai uscire. All'epoca, a causa delle scene particolarmente violenti, ricevette il divieto ai minori di 18 anni.
Stilisticamente il film ha un montaggio, una composizione e una regia ineccepibile. La scenografia pop surrealista e sopratutto l'uso dei colori volutamente innaturali conferiscono alla pelliccola un atmosfera onirica e al tempo stesso inquietante. Già dai titoli di testa pare di vedere un fumetto pulp in movimento. E parlando di fumetti non posso evitare di accostare Sei donne per l'assassino al fumetto nero, genere che proprio nei primi anni sessanta in Italia aveva preso piede. Stiamo parlando di Diabolik (di cui Bava avrebbe fatto un adattamento un paio di anni più tardi) ma anche e sopratutto del Kriminal di Max Bunker (il cui primo numero uscì proprio nello stesso anno in cui uscì il film) con il quale l'assassino di Bava ha numerosi punti in comune.
Che altro dire, un film che pur non brillando per la sceneggiatura anticipa moda e genere cinematografico annoverandosi tra i cult movie di genere.
Film
La frusta e il corpo
di Mario Bava
Maria Bava, con lo pseudonimo di John M. Old, realizza nel 1963 "La frusta e il corpo", un film gotico sceneggiato da Ernesto Gastaldi.
La trama del film si sviluppa attorno al ritorno del nobile Kurt (interpretato da Christopher Lee) al castello di famiglia dove viene accolto in malomodo dal fratello e dal padre che lo ha diseredato a causa della sua vita dissoluta. Il suo ritorno riaccende il rapporto sado-masochistico e l'amore morboso tra Kurt e Nevenka (Daliah Lavi), costretta a sposare il fratello su imposizione del padre. Quando Kurt viene trovato ucciso, la vita di Nevenka diventa un incubo credendo di ricevere le visite notturne e le torture dal fantasma del suo perverso amante.
Il film all'epoca è stato censurato subendo tagli dalla produzione a causa di alcune scene considerate audaci. Temi come la sottomissione, la dipendenza sessuale e il sadomasochismo non dovevano essere visti di buon occhio nei primi anni sessanta.
Tralasciando l'aspetto erotico, "La frusta e il corpo" è un film dove la narrazione è quasi secondaria e dove, tolte alcune scene, non succede praticamente nulla. I dialoghi sono ridotti all'osso e la regia, parecchio lenta, si concentra più nel riprendere i vari protagonisti camminare lungo i corridoi del tetro castello con ombre e luci colorate che sfilano sui loro volti accompagnate in sottofondo da un onnipresente sibilo del vento presente pure in posti dove non dovrebbe esserci. È evidente che Mario Bava, in questa pellicola, aveva un interesse marginale per la trama, preferendo invece far brillare la sua passione per il cinema attraverso l'uso magistrale della regia, della fotografia e della scenografia. Sono questi gli elementi che fanno di Bava un maestro del genere e con i quali riesce a catturare al meglio l'atmosfera e l'immaginario di un castello decadente e dei suoi tormentati protagonisti.

I tre volti della paura
di Mario Bava
Nel 1963 Mario Bava torna all’horror con “I tre volti della paura”. Il film è composto da tre episodi - gli ultimi due tratti da racconti di famosi scrittori russi - e si apre con un introduzione di Boris Karlof, protagonista nella seconda storia.
Ne Il telefono una donna torna a casa e riceve delle telefonate da un uomo che la minaccia di morte. Si tratta di uno scherzo della sua "amica" che però finisce male.
Dei tre episodi è il meno riuscito perchè la storia risulta abbastanza prevedibile e poco incisiva. Tuttavia, se mettiamo da parte la sceneggiatura e i dialoghi (forse l'aspetto più debole di tutta la cinematografia di Bava), e ci soffermiamo sulle inquadrature, la fotografia e i colori, ovvero la parte stilistica, ci si rende conto di quanto Dario Argento, sopratutto nei suoi primi film, sia debitore del cinema di Bava. Inoltre l'episodio si fa notare per una certa carica erotica tra le due protagoniste anticipando i tempi su alcune tematiche sessuali.
I Wurdalak è ambientato nella steppa russa e ha come protagonista un vecchio patriarca (interpretato da Boris Karloff) che tornato a casa dalla sua famiglia inizia a fare strage dei suoi cari perchè diventato un vampiro.
Questo episodio appartiene al genere gotico e insieme al successivo e uno dei gioielli del cinema horror. Qui si concentrano tutte le qualità di Bava e la sua capacità di creare, con i pochi mezzi a disposizione, tensione e atmosfera grazie a dei tagli di inquadrature e un uso del colore del tutto innovativo. Basta vedere l’alternanza di luci colorate che illuminano il volto di Karloff. Inoltre molte delle scene, inquadrature e paesaggi pieni di nebbia e oscurità mi hanno ricordato I misteri di Sleepy Hollow di Tim Burton. Non è un caso che il cineasta americano abbia più volte dichiarato di essere stato influenzato dal cinema di Bava.
La goccia d'acqua racconta di una infermiera che, nel cuore della notte, viene chiamata a vestire per il rito funebre una vecchia medium morta improvvisamente. Durante la vestizione la donna ruba un anello dal dito del cadavere, ma tornata a casa il fantasma della defunta inizia a perseguitarla.
L'episodio paranormale è quello più terrificante perchè gioca tutto sulla suggestione e i sensi di colpa della protagonista. Le apparizioni della defunta e del suo inquitante ghigno (un pò alla Joker) sono efficaci ma la staticità (credo sia un pupazzo) e l'insistenza delle inquadrature finiscono per attenuare la tensione.
Il finale metacinematografico è la vera ciliegina sulla torta. Torna Boris Karlof a cavallo nel suo ruolo di vampiro, e mentre si rivolge al pubblico salutandolo e raccomandandogli di fare attenzione a ciò che si cela nel buio, la macchina da presa arretra mostrando tutti i trucchi e l'arte dell'illusione cinematografica (Karlof su un cavallo meccanico con le maestranze che agitano rami davanti alla cinepresa) come a voler dire che non bisogna avere paura di ciò che si è visto perchè in realtà si tratta solo di finzione. Geniale
Concludiamo con l'aneddoto. Negli Stati Uniti il film è stato distribuito nei cinema con il titolo di Black Sabbath e pare che Ozzy Osbourne e compagni si siano ispirati proprio a questa pellicola per la scelta del nome della loro band.
Film
La ragazza che sapeva troppo
di Mario Bava
La ragazza che sapeva troppo è un film del 1962 diretto da Mario Bava in cui il regista ligure si cimenta con il thriller anticipando di fatto il giallo all'italiana.
La storia racconta di una giovane ragazza americana appassionata di gialli, Nora Davis (interpretata da Leticia Roman) giunta a Roma per passare una vacanza ospite di una anziana signora. Durante la prima notte, la signora ha una crisi e muore. Sconvolta, Nora esce di casa in cerca di aiuto, ritrovandosi a vagare in una piazza di Spagna deserta, dove prima subisce uno scippo e poi assiste al brutale omicidio di una donna accoltellata alla schiena. Nora viene trovata la mattina dopo, priva di sensi, da un poliziotto che la porta in ospedale. Il cadavere è sparito e non c'è nessuna traccia dell'omicidio, così Nora non viene creduta. Fortunamente un giovane dottore (John Saxon) che Nora aveva già incontrato la notte prima dalla signora che la ospitava, gli da retta - anche perchè è palesemente attratto da lei - e insieme decidono di investigare sul misterioso omicidio.
Non ci vuole un genio per trovare in questo film, quanto meno a livello di sceneggiatura, le influenze di Alfred Hitchcock - che in questo periodo negli Stati Uniti stava spopolando con suoi capolavori - basta leggere il titolo che si rifà palesemente a L'uomo che sapeva troppo. Tralasciando la storia, la teatrale recitazione degli attori protagonisti e alcune bislacche trovate intente a smorzare la tensione, la forza in questo film sta tutta nella regia, la fotografia, il montaggio e nei tagli delle inquadrature di Mario Bava.
Girato in un bianco e nero, con ombre scure e luci taglienti, Bava da vita al genere del thriller all'italiana catturando una Roma notturna, affascinante e a tratti inquietante, che ha fatto da scuola per i film a venire. Tanto per citarne uno, sono scene che verranno riprese da Dario Argento una decina di anni più tardi nei film che lo hanno reso famoso.
Un film importante in quanto precursore del thriller all'italiana ma lo consiglio solo ai cultori del genere.
Ma davvero negli anni sessanta esistevano le sigarette alla marijuana?
Film
Ercole al centro della Terra
di Mario Bava
Continuo la mia monografia su Mario Bava analizzando il suo secondo film del 1961.
Negli anni sessanta in Italia andavano in voga i film storico/mitologici in costume con protagonisti Ercole, Maciste, Sansone e via dicendo. Il genere è chiamato Peplum.
A parte i rari casi di grandi produzioni americane, si trattava per lo più di film di basso costo. In Italia poi il budget si riduceva ulteriormente ed ecco quindi che Mario Bava si ritrova a realizzare un film su Ercole facendo uso solo delle sue capacità e della sua versatile creatività.
La trama è molto semplice. Ercole (Reg Park, un culturista dell’epoca monoespressivo) per salvare la sua amata da una maledizione, insieme all’amico Teseo e del maldestro Telemaco, si reca nel regno degli inferi per recuperare una pietra pericolosa. Il malvagio Lico (Christopher Lee) trama nell’ombra.
Ercole al centro della terra viene considerato dalla critica uno dei migliori film italiani del genere. Vedendolo ora e senza contestualizzarlo ti verrebbe da dire: "immagina come sono gli altri!". Il film è pacchiano e ridicolo, una sceneggiatura debole e una recitazione sopra le righe. E allora cosa lo salva? Innanzitutto la scenografia, povera nella produzione ma geniale e creativa nella sua realizzazione. Le luci sono colorate, quasi psichedeliche e l'impossibilità di fare una cosa realistica porta Bava a creare un sorta di fumettone carico e volutamente kitsch. È tutto di cartapesta, una giostra dove i mostri volano sorretti da evidenti cavi. Nonostante tutto, nella parte finale, quella in cui i morti resuscitano uscendo dalle loro bare, io c'ho visto, con vent'anni di anticipo, L'Armata delle Tenebre di Sam Raimi o il Beetlejuice di Tim Burton e quindi non posso fare altro che inchinarmi al maestro.

La maschera del demonio
di Mario Bava
La maschera del demonio del 1960 è considerato un vero è proprio cultmovie del genere, uno dei primi horror gotici italiani (il primo è i Vampiri di Riccardo Freda del 1957).
É il primo film (accreditato) di Mario Bava - apprezzato regista da critici e cineasti (Lynch, Burton, Carpenter, Scorsese) ma poco conosciuto al grande pubblico - che prima di questo lungometraggio aveva lavorato per anni nel cinema occupandosi di scenografia, effetti speciali e fotografia.
Il soggetto è ispirato al racconto Vij di Nicolai Vasilevic Gogol.
Verso la fine dell'ottocento, due incauti viaggiatori sono costretti a fermarsi nelle steppe russe a causa di un incidente alla loro carrozza. Si ritrovano nei pressi di un castello e si addentrano in una cripta dove, involontariamente, causano il risveglio di una strega suppliziata duecento anni prima. Questo evento da il via a numerosi omicidi con la strega che cerca vendetta e vuole impadronirsi del corpo della pronipote identica a lei.
L'inglese Barbara Steele interpreta il doppio ruolo di protagonista. É la strega, demoniaca e affascinante, ed è la sua pronipote, angelica e innocente. É proprio con questo film, capace di mettere in risalto la sua oscura bellezza, che la Steele inizia a lavorare in numerose pellicole di genere diventando in breve tempo la dark lady di tutti gli appassionati dell'horror movie del periodo.
Interamente girato in un bianco e nero molto contrastato, il film, a livello di storia, sceneggiatura e dialoghi è piuttosto semplice, quello che più colpisce, anche rivedendolo oggi, è l'aspetto tecnico e qualitativo dell'opera, ovviamente collocandolo nel periodo storico in cui è stato realizzato e al budget limitato di cui disponeva. La scenografia e la fotografia di Bava lasciano a bocca aperta, se pensiamo che gran parte del film è stato realizzato negli studi. Gli effetti speciali sono artigianali ma all'avanguardia per l'epoca (vedi il volto della protagonista che invecchia in un unica ripresa) e la regia è curata con degli interessanti tagli e piani sequenza. La maschera del demonio è dotato di un atmosfera gotica visivamente potente e dalla grande estetica, quasi espressionista, che lo colloca a pieno diritto come cultmovie del genere horror.