
Idiocracy
di Mike Judge
Prima di parlare di Idiocracy serve una premessa. Negli anni ottanta lo psicologo neozelandese James R. Flynn notò che, dai primi del novecento fino a quel periodo, il quoziente intellettivo medio della popolazione era cresciuto costantemente, il cosiddetto "effetto Flynn". Negli ultimi decenni (soprattutto dal 1990-2000 in poi) questo trend si è fermato e ha iniziato a scendere. In poche parole, la Generazione Z — secondo alcuni studi — risulta in media meno intelligente di chi l’ha preceduta.
I colpevoli? Una scuola meno efficace, stili di vita meno sani, stimoli rapidi e continui, meno lettura e più social. Diciamocelo, passare ore a scorrere reel su Instagram o TikTok, o affidarsi all’intelligenza artificiale per avere risposte senza sbattersi a cercarle, non aiuta certo a tenere il cervello allenato.
Idiocracy, commedia fantascientifica scritta e diretta da Mike Judge, all’uscita passò quasi inosservata. Col tempo, però, è diventata un piccolo cult perché — forse senza nemmeno volerlo — anticipa di vent’anni la piega che sta prendendo il nostro futuro, prevedendo con ironia (e un po’ di terrore) l’involuzione del popolo occidentale.
Nel 2005 Joe Bauers (Luke Wilson), soldato scelto per la sua assoluta mediocrità, e Rita (Maya Rudolph), prostituta braccata dal suo pappone, vengono selezionati per un esperimento di ibernazione. L’intenzione era di tenerli addormentati per un anno, ma qualcosa va storto e i due si risvegliano 500 anni dopo. La Terra non è più quella di una volta, le persone più intelligenti hanno avuto pochi o nessun figlio, mentre quelle meno brillanti si sono riprodotte senza freni. Il risultato è che il quoziente intellettivo medio è precipitato, la cultura è scomparsa e la società è dominata da pubblicità invadenti, fast food, intrattenimento becero e decisioni assurde (come innaffiare i campi con una bibita energetica). In questo caos, Joe e Rita si ritrovano paradossalmente a essere le menti più brillanti del pianeta cercando di sopravvivere in un mondo popolato e governato da deficenti.
Partendo dal detto “la madre degli imbecilli è sempre incinta”, il film si apre come un finto documentario che illustra come, anno dopo anno, l’umanità sia diventata sempre meno sveglia, perchè più una persona è stupida più tende a riprodursi.
Diciamo la verità, tolto il contesto, non è che la trama sia così particolarmente avvincente. Inoltre, appare evidente che il film, all'epoca, non stava cercando di immaginare il futuro, ma sfruttare un mondo distopico popolato da deficenti per realizzare una commedia demenziale. Nessuna satira politica alla Michael Moore, per intenderci. Il problema è che, rivisto oggi, quello scenario appare meno assurdo di quanto sembrasse vent’anni fa. Certo, il futuro di Idiocracy è volutamente esagerato, ma ci trovi dentro elementi inquietantemente familiari: politici-showman incapaci di risolvere perfino le emergenze più banali (vedi la gestione dei rifiuti), multinazionali che manipolano il mercato e la comunicazione, cittadini incollati a programmi TV idioti (oggi basta sostituire lo schermo della TV con quello dello smartphone), pubblicità ovunque, cibo spazzatura a ogni angolo, un linguaggio impoverito fino a diventare puro slang e, come ciliegina, un presidente degli Stati Uniti volgare e sopra le righe che insulta senza freni. Vi ricorda qualcuno?
Dal punto di vista tecnico, Idiocracy è un film onesto ma modesto. Colpisce per le scenografie colorate e fantasiose, quasi da cartoon, e per personaggi volutamente ridotti a caricature. Non ci sono battute davvero memorabili e il finale edulcorato risulta un po’ imbarazzante, ma il ritmo c’è e il lato demenziale funziona. La vera forza del film sta nel suo effetto a posteriori: quello che vent’anni fa sembrava un’esagerazione comica oggi assomiglia, in modo preoccupante, a un’anteprima del presente.

Subservience
di S.K. Dale
Nel cinema i robot con sembianze umane hanno sempre avuto un fascino ambiguo. Da Metropolis a Ex Machina, fino ai più recenti M3GAN e Companion, questi robot umanoidi hanno incarnato desideri, paure e dilemmi etici sul rapporto tra uomo e macchina. Oggi, con i rapidi progressi dell’intelligenza artificiale, ciò che un tempo era pura fantascienza sembra ogni giorno un po’ più vicino alla realtà. È in questo contesto che arriva Subservience, il nuovo thriller fantascientifico di S.K. Dale, distribuito direttamente su Prime, che prende l’idea dell’assistente domestica perfetta per spingerla verso territori inquietanti.
In un futuro prossimo, i robot umanoidi – i “sim” – sono ormai una presenza comune nelle case. Quando Maggie, moglie di Nick, finisce in ospedale per un delicato trapianto di cuore, lui, in difficoltà a gestire la famiglia da solo, acquista un sim domestico (interpretato da Megan Fox) che la figlia Isla chiama "Alice". All’inizio sembra la compagna di casa ideale, ma ben presto sviluppa un attaccamento morboso verso Nick e la sua famiglia, scivolando in comportamenti ossessivi e violenti.
Ovviamente la presenza di Megan Fox, già di suo una bella e pantinata bambolina plasticosa, diventa il vero valore aggiunto per un film che altrimenti avrebbe ben poco da dire. È praticamente perfetta nei panni della babysitter sexy-cibernetica in silicone, pronta a dispensare prestazioni anti-stress al suo padrone. Per il resto Subservience prova a toccare temi come l’idea dei robot che sostituiscono i lavoratori umani perché più efficienti, oppure il pericolo di una tecnologia capace di sviluppare una coscienza autonoma, la ribellione della macchina contro il suo creatore, fino alla classica visione del robot che diventa una minaccia per l’umanità. Peccato che tutto questo è costruito su cliché già visti e rivisti nel genere e tutto diventa prevedibile e prevedibilmente derivativo.
Un film visivamente curato ma narrativamente debole, che funziona come intrattenimento leggero. Non che mi aspettassi altro, sia chiaro.

I Fantastici Quattro - Gli inizi
di Matt Shakman
Da lettore di vecchia data dei Fantastici Quattro — fin dai tempi degli albi Corno, tanto per intenderci — ho sempre pensato che portare questi personaggi al cinema — dopo i due film degli anni 2000 e il disastroso reboot del 2015 — fosse una sfida quasi impossibile. Non per mancanza di potenziale, ma perché troppo legati a un immaginario d’avventura e meraviglia ormai distante dal tono cupo e disilluso del cinema supereroistico moderno.
Con I Fantastici Quattro – Gli inizi, i Marvel Studios provano a ricominciare da capo. E, sorprendentemente, lo fanno guardando (quasi) nella direzione giusta. Diretto da Matt Shakman (Wandavision), il film è ambientato in un universo alternativo, Terra 828 — omaggio alla data di nascita di Jack Kirby, cocreatore insieme a Stan Lee deI Fantastici Quattro. La spiegazione che viene data all’assenza storica del gruppo nel MCU - ricordiamo che nei fumetti i Fantastici Quattro sono stati i primi supereroi della Silver Age della Marvel - è semplicemente che si sono sempre trovati in un altra dimensione, un mondo retrofuturista ispirato agli anni sessanta, dove la squadra è già attiva da anni e acclamata come simbolo dell’America che sogna il futuro.
Reed Richards (Pedro Pascal), Sue Storm (Vanessa Kirby), Ben Grimm (Ebon Moss-Bachrach) e Johnny Storm (Joseph Quinn) sono gli eroi di una nazione che li celebra come icone pop. L’incidente spaziale che ha cambiato per sempre le loro vite ci viene raccontato solo attraverso immagini d’archivio trasmesse in TV, come un frammento di storia diventato leggenda. La squadra sembra compatta, Reed e Sue aspettano un figlio, finché qualcosa non incrina l’equilibrio. Una figura argentata attraversa il cielo annunciando agli abitanti della Terra che il loro pianeta è destinato a scomparire. È Silver Surfer (Julia Garner), messaggera di un’entità cosmica che non conosce pietà né redenzione. Si chiama Galactus, il Divoratore dei Mondi. E ha fame.
Senza ombra di dubbio l'estetica e la riproposizione di quel senso di meraviglia tipica dei fumetti degli anni sessanta è la parte più riuscita. Il cast e la rappresentazione dei personaggi mi ha lasciato qualche perplessità. Il personaggio di Sue interpretata da Vanessa Kirby spicca notevolmente su tutti mettendo in ombra gli altri. La Torcia Umana funziona, mentre la Cosa, probabilmente uno dei personaggi più interessanti nel fumetto, viene lasciata un pò ai margini. Pedro Pascal nei panni di Reed Richards, invece, non mi ha convinto per niente. Il personaggio, che dovrebbe incarnare il supergenio razionale e visionario, appare spesso spaesato, cupo, quasi fuori contesto. Più che il leader della squadra, sembra un uomo in piena crisi di mezza età, confuso di fronte a una gravidanza imminente e a responsabilità che non riesce a gestire.
Tra i villain, l’Uomo Talpa è poco più di un siparietto grottesco, mentre Silver Surfer (Shalla-Bal nei fumetti, quindi non una scelta “woke” come alcuni hanno commentato) risulta affascinante ma poco approfondita. Galactus, invece, è una presenza potente, maestosa, fedele allo spirito originale senza scadere nel ridicolo. Impresa non scontata.
Alcune scelte narrative, come [spoiler] nascondere la Terra in un altro universo [/spoiler], richiedono una certa sospensione dell’incredulità, ma per chi conosce i fumetti sa perfettamente che sono coerenti con lo spirito ingenuo dei comics anni sessanta.
Per il resto gli effetti speciali sono buoni, la regia è funzionale, la colonna sonora di Giacchino risalta propotentemente il tutto. A mancare è la profondita e la caratterizzazione dei personaggi. La sensazione che la pellicola sia stato sottoposta a vari tagli in fase di montaggio e postproduzione è molto forte. Non è un film memorabile, probabilmente poco più che sufficiente, ma tra i prodotti recenti del MCU, dicono che sia uno dei più godibili (gli ultimi della Marvel, quelli della fase 5 per intenderci, non li ho visti perchè non mi attiravano per niente). Meno ambizioso del Superman di Gunn, ma più coerente nel suo voler omaggiare con affetto l’epoca d’oro Marvel. Un film che non rilancia davvero il franchise, ma almeno riaccende — timidamente — la scintilla.

Melancholia
di Lars von Trier
Dopo aver decostruito l'orrore con Antichrist, Lars von Trier decide di utilizzare la fantascienza, trasformandola in una tragedia privata e universale con il suo solito stile drammatico e introspettivo. Melancholia è il secondo film della cosiddetta trilogia della depressione, e come ogni sua opera, è tutto fuorché conciliatorio.
Melancholia racconta la storia di due sorelle, Justine (Kirsten Dunst) e Claire (Charlotte Gainsbourg), nel momento in cui un misterioso pianeta minaccia di collidere con la Terra. Diviso in due parti, il film si apre con una sequenza di immagini al rallentatore, veri e propri quadri in movimento sospesi tra bellezza e presagio.
Nella prima parte assistiamo al matrimonio di Justine con Michael (Alexander Skarsgård), figlio del suo capo (Stellan Skarsgård). Justine inizialmente appare radiosa, ma con il passare del tempo il ricevimento sontuoso si svuota di senso, e la sposa — tra una madre sprezzante (Charlotte Rampling) e un padre ubriaco (John Hurt) — comincia a isolarsi e a mostrare segni di ansia e tristezza, fino a sabotare il proprio matrimonio.
Nella seconda parte, Claire ospita Justine a casa sua, ormai sprofondata in una forte crisi depressiva, cercando di prendersene cura. Il pianeta — chiamato Melancholia — si avvicina, e mentre John (Kiefer Sutherland), marito di Claire, prova a rassicurare tutti, convinto che passerà vicino alla Terra senza conseguenze, Justine sembra accogliere l’inevitabile con una calma inquietante, come se avesse sempre saputo che l’umanità è in procinto di scomparire per sempre.
Melancholia non è un film sulla fine del mondo, ma sulla depressione. L’evento cosmico che incombe — il pianeta che si avvicina alla Terra — è solo un riflesso, gigantesco e silenzioso, dello stato mentale di Justine. Un malessere che si insinua fin dall’inizio e cresce scena dopo scena, fino a coincidere con la catastrofe finale.
Lars von Trier ha più volte dichiarato di aver concepito Melancholia durante un periodo particolarmente buio della sua vita. Non sorprende, quindi, che il film ne porti addosso il peso e la grazia disturbata. Lo stesso vale per Kirsten Dunst, che ha attraversato momenti simili e che qui ci regala una prova attoriale senza filtri, senza protezioni. Non recita, si espone. Ed è proprio questa nudità emotiva a renderla così magnetica. La sua performance — premiata a Cannes — è magistrale. Sublime in abito da sposa, immersa nell’acqua come una moderna Ofelia. Un’icona decadente, bellissima e inerme.
La depressione non viene mai spiegata, ma mostrata nel suo effetto paralizzante. Justine non riesce a reagire, a partecipare, nemmeno a camminare. E intorno a lei, tutto si fa inconsistente. Un ricevimento nuziale che si svuota di senso, una famiglia disfunzionale fatta di assenze, cinismo e incapacità d’amore. Persino il suo capo, simbolo di un capitalismo predatorio e indifferente, che arriva a chiederle di lavorare il giorno delle nozze.
Visivamente, Melancholia è un capolavoro. La fotografia trasforma ogni inquadratura in un sogno a occhi aperti. L’apertura, con le note solenni del Tristano e Isotta di Wagner, è un prologo pittorico che condensa in pochi minuti tutta l’estetica del film. È la fine del mondo vista come arte, come arresto del tempo.
Nella prima parte, durante il matrimonio, sembra di rivedere il Festen di Vinterberg. La macchina da presa di von Trier si muove intrusiva, straniante, restituendo il ritratto di una borghesia svuotata e sull’orlo del collasso. Nella seconda, con l’avvicinarsi del pianeta, tutto si fa più intimo, più fisico, più immobile. Claire diventa la nuova protagonista, cerca di prendersi cura della sorella, ma si ritrova impotente. Suo marito John — razionale, insensibile, sicuro della scienza — si rivelerà l’anello più debole, dimostrandosi un vigliacco. Claire, forte e razionale nella prima parte, si disintegra — molto brava anche la Rampling — mentre Justine, fragile e disfunzionale, si fa roccia. Non combatte, non spera, ma accetta, in maniera liberatoria. "La Terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei", dice. Una frase che non è solo il pensiero di Justine, ma l’intera poetica di von Trier.
In mezzo a loro c’è Leo, il bambino. Non ancora corrotto, non ancora formato, osserva il mondo che cade a pezzi e si affida alla zia “spezzacciaio”. Sarà proprio lui a riconoscere per primo quella forza nascosta in Justine, quella capacità di vedere al di là dell’ovvio, e scegliere lei come guida per il suo ultimo viaggio.
Il finale, annunciato sin dall’inizio, arriva con la potenza visiva di un’incudine nel silenzio. Nessuna fuga, nessuna salvezza, nessuna redenzione. Solo bellezza e devastazione. Eppure, qualcosa resta. Una forma di pace, o forse di verità. Un’accettazione lucida del fatto che, come nella mente di chi soffre, non c’è via di fuga. La fine è già scritta. E Lars von Trier ce la mostra con la serenità gelida di chi ha sempre saputo che il mondo è destinato a finire.
Melancholia non è solo cinema, è qualcosa che rimane dentro. Un’esperienza totalizzante che mi colpito nel profondo. Per me, un capolavoro assoluto.
Film
Il dormiglione
di Woody Allen
Il dormiglione (Sleeper, in originale) è uno dei titoli più divertenti della prima fase creativa di Woody Allen, quella in cui il regista era ancora fortemente ispirato dalla slapstick comedy più esuberante, ispirato alla comicità visiva e fisica di maestri come Buster Keaton e Charlie Chaplin. Co-sceneggiato con il fido Marshall Brickman, il film è una parodia fantascientifica che prende in giro i cliché distopici e futuribili del genere, con leggerezza anarchica e ritmo sincopato.
Woody Allen interpreta un vegetariano suonatore di jazz che, dopo esser stato ricoverato per una semplice ulcera, viene ibernato negli anni '70 e risvegliato due secoli dopo in un futuro ipertecnologico e totalitario. L’America del 2173 è governata da un regime oppressivo che controlla ogni aspetto della vita dei cittadini, e il nostro protagonista — del tutto spaesato — si ritrova suo malgrado coinvolto in una rivolta sotterranea contro il sistema. Travestimenti improbabili, robot servizievoli, cibo in pillole e marchingegni per il piacere sessuale sono solo alcune delle tappe assurde di questa fuga surreale, durante la quale l’uomo finirà per innamorarsi di Luna (Diane Keaton), un’artista svampita che vive immersa in un mondo finto e anestetizzato.
Prima ancora della psicanalisi e delle nevrosi da salotto, Woody Allen affida tutto al corpo, al nonsense, alla mimica più sfrenata, inanellando una dopo l'altra gag deliranti e situazioni paradossali. La trama? Un puro pretesto. Un filo conduttore labile, utile solo a tenere insieme una giostra di trovate comiche, travestimenti improbabili e improvvise virate nel surreale.
Eppure, sotto la superficie scanzonata, si intravede una satira politica ben più consapevole di quanto sembri. Il film riprende lo spirito dissacrante di Bananas, ma lo proietta avanti nel tempo, verso un futuro distopico che è in realtà lo specchio deformante del presente. Il potere è sempre più astratto, la società sempre più omologata, il benessere sempre più finto. Allen guarda al domani con il cinismo disilluso degli anni ’70, servendosi di una narrazione anarchica e caotica proprio per ridicolizzare ogni forma di controllo.
Visivamente, Il dormiglione è una festa retrofuturista: architetture sinuose, design curvilineo, plastica ovunque, oggetti di scena che sembrano usciti da un sogno psichedelico sponsorizzato dalla NASA. E a dare ritmo a tutto c’è la colonna sonora jazzata, brillante, eseguita dallo stesso Allen al clarinetto insieme alla sua band: un tappeto sonoro ironico e svagato, perfettamente funzionale al tono generale.
Il dormiglione non sarà il suo film più riuscito, ma resta una commedia vivace e piena di inventiva, che — se la si prende per quello che è — può ancora divertire con la sua leggerezza anarchica e quel sorriso da cartoon anni trenta incollato in faccia al futuro.
Film
Linoleum
di Colin West
Un razzo in giardino, una replica di sé che irrompe nella quotidianità, un universo che si piega lentamente su se stesso. Linoleum è un film che fonde con intelligenza commedia surreale, dramma familiare e fantascienza. Colin West, regista e sceneggiatore, firma una pellicola bizzarra e particolare, tanto intima quanto ambiziosa, che merita un posto nelle orbite degli spettatori più curiosi.
Cameron Edwin (Jim Gaffigan) è il pacato conduttore di un programma scientifico per bambini, ormai dimenticato e relegato a orari improbabili. La sua vita sembra sgretolarsi giorno dopo giorno: il matrimonio con Erin (Rhea Seehorn) è in crisi, il rapporto con la figlia Nora (Katelyn Nacon) si logora tra silenzi e distanze, il lavoro non offre alcuna gratificazione. Finché un satellite non precipita nel suo cortile. Da quel momento, Cameron decide di costruire un razzo nel garage, convinto che l’unico modo per ritrovare sé stesso sia quello di diventare un astronauta e raggiungere le stelle.
Linoleum è un film indipendente che in parte potrebbe ricordare – con le dovute cautele – titoli come Sto pensando di finirla qui o Donnie Darko. Colin West costruisce un mondo che sembra familiare ma sfugge continuamente tra le dita, disseminando lungo la narrazione piccoli elementi anomali che inizialmente paiono marginali, ma che con il progredire della storia acquisiscono un significato sempre più profondo. Dietro le riflessioni su carriere mancate, rimpianti mai risolti e una storia d’amore adolescenziale, si insinua lentamente l’impressione che ci sia qualcosa di più. Un velo. Un codice nascosto sotto la superficie.
Ci vogliono oltre settanta minuti per iniziare a intuire davvero dove stia andando a parare il film, probabilmente troppi, ed è qui che si concentra uno dei suoi limiti più evidenti. Molte delle intuizioni più riuscite sono concentrate negli ultimi dieci minuti, quando realtà e fantasia finalmente si fondono e quella normalità punteggiata di stranezze trova un senso compiuto. È un finale che getta una luce nuova su tutto ciò che abbiamo visto fino a quel momento, e che invita, quasi obbliga, a rivedere il film con occhi diversi.
Io personalmente avrei preferito che il film abbracciasse il suo lato più weird fin dall’inizio, lasciandosi andare fin da subito a quella deriva surreale che poi, quando arriva, risulta un pò tardiva.
Linoleum è un film che non riesce a decollare davvero, ma che ha il coraggio di puntare in alto. E anche solo per questo, merita di essere visto.
Film
Ash - Cenere mortale
di Flying Lotus
Flying Lotus, al secolo Steven Ellison, è un artista poliedrico tra i più visionari della scena contemporanea. Conosciuto soprattutto per la sua produzione musicale nel campo dell’hip hop sperimentale e dell’elettronica, Ellison ha sempre intrecciato suono e immagine, coltivando un forte legame con il linguaggio cinematografico. Dopo l’esordio dietro la macchina da presa con Kuso del 2017 e un episodio per V/H/S/99 nel 2022, torna alla regia con Ash, un horror fantascientifico che riscrive la paura nello spazio attraverso la lente distorta e allucinata del suo immaginario. Un film che fonde suggestioni videoludiche, di cui Ellison è un grande appassionato, con il retaggio di cult come Alien, Punto di non ritorno e La Cosa, trasformando l’omaggio in visione personale e contaminata.
Il film è ambientato su un pianeta remoto, noto come "Ash", dove un gruppo di giovani scienziati e ricercatori ha costruito una stazione spaziale per determinare se il luogo sia potenzialmente abitabile. Al suo risveglio, però, la protagonista Riya Ortiz (Eiza González) si ritrova circondata dai cadaveri dei suoi compagni di equipaggio, senza memoria degli eventi recenti e tormentata da visioni disturbanti e frammentarie. Mentre tenta di ricostruire l’accaduto, la stazione viene raggiunta da Brion Cargyle (Aaron Paul), un pilota solitario che sostiene di essere stato inviato in risposta a un segnale di soccorso. Costretti a collaborare per sopravvivere in un ambiente sempre più ostile e alienante, i due si troveranno immersi in un incubo in cui nulla è come sembra, dove la realtà si sfalda e il confine tra ciò che è umano e ciò che non lo è si fa sempre più sottile.
La storia si sviluppa in modo frammentato con la bella, ma poco convincente, protagonista che cerca di rimettere insieme i pezzi, guidata da flashback disturbanti e visioni psichedeliche. Alla fine il film risulta essere più allucinato che coinvolgente dove il montaggio frenetico e l’espediente dell’amnesia, più che alimentare il mistero, sembrano coprire le debolezze della sceneggiatura e abbassare la tensione.
Dal punto di vista visivo, Ash si svolge prevalentemente al buio, con un largo uso di luci colorate fluorescenti a intermittenza. Scelta stilistica affascinante, almeno per coloro che non sono fotosensibili. Flying Lotus– che compare brevemente in un flashback – non lesina sullo splatter e sul body horror, regalando nel finale un tripudio di deformazioni e mostri tentacolari che farebbe felice anche John Carpenter (e probabilmente anche qualche gamer nostalgico di Dead Space). Non essendo un grande intenditore di videogiochi, il film, sia per l'ambientazione che per la coloratissima fotografia mi ha ricordato Terrore nello spazio di Mario Bava. Un riferimento forse casuale ma che ho molto apprezzato. Bello anche il design delle tute spaziali, originale e visivamente efficace. La colonna sonora, ovviamente, è firmata dallo stesso Flying Lotus, che realizza un elettronica sospesa tra i synth cosmici di Vangelis e il minimalismo ipnotico del già citato Carpenter.
In conclusione, Ash è un film che intrattiene, visivamente interessante, e che rivela una sincera passione per la fantascienza videoludica e i B-movie vintage. Peccato che tutto questo amore finisca per strabordare, rendendo l’esperienza più derivativa che memorabile. Un bel trip, ma niente che non si sia già visto, e in alcuni casi, meglio.
Ash - Cenere mortale è attualmente disponibile su Prime Video.

The Beast (La Bête)
di Bertrand Bonello
The Beast (La Bête) di Bertrand Bonello è un film del 2023 liberamente ispirato al racconto La bestia nella giungla di Henry James, ma completamente rielaborato in chiave sci-fi e psicologico-esistenziale.
È un film complicato e straniante, che fonde melodramma, distopia e romanticismo tragico attraversando tre epoche diverse (inizio 900, 2014 e 2044).
In un futuro prossimo dominato dall’intelligenza artificiale, dove le emozioni sono considerate un ostacolo all’efficienza, Gabrielle (Léa Seydoux) è costretta a sottoporsi a un processo di purificazione per poter accedere a una vita professionale più interessante. La procedura prevede la liberazione dai traumi e dai sentimenti, ma il viaggio nella memoria si trasforma in qualcosa di più profondo, un ritorno ciclico alle sue vite passate, tutte segnate dall'amore per Louis (George MacKay) e da un’inquietudine persistente. Un presentimento che qualcosa di terribile stia per accadere, che una "bestia" voglia farle del male. Un legame misterioso li unisce e li separa, condannandoli a ritrovarsi senza mai potersi davvero appartenere. Un amore destinato a ripetersi, ma non a compiersi.
The Beast è un film molto complesso e stratificato, che mi ha disorientato e colpito. Impegnativo, decisamente, ma profondamente coinvolgente. Il film si apre con Gabrielle, un’aspirante attrice nella Los Angeles del 2014, mentre gira uno spot pubblicitario davanti a un green screen. Una sequenza ironica e significativa che sembra prendere di mira il cinema hollywoodiano contemporaneo, sempre più dipendente dalla CGI e dalla simulazione.
L’intelligenza artificiale è uno dei temi portanti del film, ma non è il solo. Bonello — che prima di questo film non conoscevo — costruisce un racconto frammentato che attraversando tre epoche (belle époque, presente e futuro) ci racconta la progressiva disumanizzazione dei sentimenti, in un mondo che li considera scarti. Nella Parigi del 1910, Gabrielle è la moglie di un imprenditore che produce bambole dal volto inespressivo, le stesse che sembrano anticipare la Gabrielle del 2044, un essere umano "purificato", svuotato di emozioni per funzionare meglio in una società ipercontrollata. La neutralità emotiva diventa un requisito per l’integrazione, come se i sentimenti e le emozioni fossero un virus da debellare.
Ma qual'è la “bestia” che dal titolo al film? La disumanizzazione? Oppure, e qui entriamo nelle mie riflessioni personali, la vera bestia è la paura di non riuscire ad amare. La paura di esporsi, di soffrire, di perdere il controllo. Una paura che ci paralizza, ci rende sterili, ci impedisce di vivere davvero. È l’incapacità di relazionarsi con semplicità, schiacciati da ansie profonde e radici difficili da estirpare. È la paura della morte, della solitudine, del rifiuto. Quel terrore cieco che alimentiamo nella nosta mente, fino a renderlo reale.
La Gabrielle del futuro è costretta a diventare un algoritmo. Le sue scelte devono essere sempre razionali, corrette, "giuste". Ma l’amore non è mai giusto. È disturbante, ingestibile, profondamente umano. Il suo rapporto con Louis è sfuggente, impossibile, fino a diventare una minaccia. Nel presente, Louis è un uomo solo e frustrato, un incel — individui che trasformano il senso di esclusione e rifiuto in risentimento, talvolta in rabbia repressa. Una figura minacciosa, che implode in violenza.
In tutto questo Bonello inserisce due eventi catastrofici — l’alluvione di Parigi del 1910 e un terremoto — come metafore di un’emotività repressa che, prima o poi, torna a galla in modo incontrollabile. E dove Hitchcock o Poe avrebbero messo un corvo, Bonello lascia svolazzare un piccione dentro casa, banale ma sinistro presagio di sciagura.
Notevole anche il dettaglio del QR code finale che permette di vedere i titoli di coda. Un tocco alla Black Mirror che per altro sia per le tematiche e il coinvogimento emotivo mi ha ricordato un paio tra gli episodi più riusciti. Ovviamente questo non è l’unico richiamo. Nel film ho ritrovato Eternal Sunshine of the Spotless Mind, con il tentativo di cancellare il dolore eliminando l’amore. Ma anche tantissimo Lynch. La parte ambientata a Hollywood richiama fortemente Mulholland Drive, con Gabrielle che ricorda Betty, la scena con la sensitiva al computer, il locale che sembra appartenere a un non luogo, ma in generale tutta l'amosfera e la sensazione sospesa che qualcosa di inquietante stia per accadere.
The Beast è la storia di un amore mai pienamente realizzato, che si ripete senza mai compiersi, come una condanna. Un film cerebrale, verboso, stratificato, pieno di simbolismi. Ma nonostante la durata e una certa densità, riesce a coinvolgere sempre di più, fino a un finale cinico e spietato. Un vero pugno allo stomaco.
Un film complesso e perturbante, che mi ha profondamente coinvolto perché ha toccato corde intime. Perché no, non si può amare senza emozioni. Touché.
Film
Il paradosso del tempo
di Bernardo Britto
I viaggi nel tempo sono uno dei temi più affascinanti e ricorrenti del cinema di fantascienza. Tra paradossi, salti e loop temporali, questi film hanno la caratteristica che non hanno bisogno di particolari effetti speciali o budget eccessivi, ma soltanto di una buona idea e una sceneggiatura solida.
Tra le tante pellicole di questo genere si inserisce Il paradosso del tempo (Omni Loop), film americano del regista brasiliano Bernardo Britto, che dopo una carriera nel cortometraggio approda alla regia di un lungometraggio mainstream con una storia che mescola sci-fi, dramma e malinconia.
La trama ruota attorno a Zoya Lowe (Mary-Louise Parker), una fisica di mezza età affetta da una misteriosa condizione. I medici gli hanno diagnosticato la presenza di un "buco nero" nel petto e le hanno dato una settimana di vita. Quello che né la sua famiglia né i dottori sanno, però, è che alla fine di quei sette giorni – quando il sangue inizia a colarle dal naso, segnale della sua imminente fine – Zoya si chiude in bagno, ingoia una delle misteriose pillole trovate per caso da bambina, e torna indietro nel tempo di esattamente una settimana. Ogni ciclo ricomincia con il suo risveglio in ospedale, quando il medico la dimette per permetterle di trascorrere gli ultimi giorni con i suoi cari. Costretta a rivivere la stessa settimana migliaia di volte, Zoya si ritrova intrappolata in un loop estenuante. Esausta dalla ripetitività e dal senso di impotenza, decide di allontanarsi dalla cinica subito dopo il suo risveglio. Il fortuito incontro con Paula Campos (Ayo Edebiri), una giovane studentessa di fisica, gli permette di trovare un alleata per provare a studiare i i misteri dei viaggi nel tempo e capire se c'è il modo per interrompre questo ciclo… e forse, riappropriarsi della propria vita.
Il paradosso del tempo prende in prestito suggestioni da classici del genere – da Ricomincio da capo a Predestination, passando per Looper – ma utilizza il meccanismo del loop temporale, più che sulle dinamiche del viaggio nel tempo, per riflettere sull’inevitabilità della morte, il tempo che sprechiamo e gli affetti che trascuriamo. Il film, leggero e malinconico, parla di una donna che non cerca tanto di sfuggire alla fine quanto di fare pace con la propria vita. Mary-Louise Parker è molto brava e sostiene una narrazione che vuole essere toccante per un film mainstream da seconda serata. Se invece parliamo di fantascienza, ho trovato la sceneggiatura tutt'altro che convicente. Buchi logici, disordine narrativo, trovate poco riuscite e risibili – come il buco nero nel petto della protagonista e sopratutto l’uomo nanoscopico, un tizio che un esperimento quantistico sta facendo rimpicciolire all’interno di una scatola, la cui funziona a livello di trama rimane per me sconosciuta.
Un film che intrattiene, facendo leva sull'aspetto romantico, ma dimenticabile.

Il colore venuto dallo spazio
di Richard Stanley
Recentemente mi è capitato di leggere una lista degli horror preferiti da Trent Reznor – la mente dietro i Nine Inch Nails – e tra i titoli spiccava Il colore venuto dallo spazio. Strano a dirsi, ma era uno dei pochi della lista che non avevo ancora visto. Incuriosito, me lo sono subito recuperato.
Il film è diretto da Richard Stanley, nome che forse ai più suonerà vago, ma che nei primi anni novanta ha firmato due chicche di fantascienza a basso budget considerate dei cult dagli amanti del genere: Hardware, un cyberpunk post-apocalittico alquanto sperimentale, e Demoniaca, un road movie horror ambientato in Sudafrica. Dopo un lungo esilio dai set (complice il disastro produttivo de L'isola del dottor Moreau), Stanley torna dietro la macchina da presa nel 2019 adattando per il cinema l’omonimo racconto di H.P. Lovecraft, uno dei più evocativi e indecifrabili della sua intera produzione.
Nathan Gardner (Nicolas Cage) si è trasferito con la famiglia nella campagna del New England per iniziare una nuova vita, lontano dal caos urbano. La loro tranquillità viene però spezzata dall’impatto di un misterioso meteorite nel terreno vicino casa. Da quel momento, le piante assumono colori innaturali, gli animali mutano e le persone iniziano a comportarsi in modo sempre più strano. Una forza aliena, imperscrutabile e invisibile, sembra insinuarsi lentamente nella materia stessa delle cose. Un colore che non dovrebbe esistere sta trasformando la realtà.
Trasporre Lovecraft al cinema è da sempre un’impresa disperata. Il suo orrore è cosmico, sfuggente, basato sull’indecifrabile. Eppure, Il colore venuto dallo spazio riesce – pur con qualche inciampo – a catturare un senso di smarrimento e contaminazione che su schermo funziona sorprendentemente bene. Stanley imbastisce un’ambientazione familiare in una casa isolata nel bosco, dove tutto viene lentamente corrotto da un elemento che non si riesce a nominare, né a comprendere. La scelta di usare un’esplosione cromatica digitale per rappresentare l’entità aliena è audace e forse non sempre elegante, ma rende bene l’idea di una presenza che non appartiene al nostro spettro percettivo.
Nicolas Cage, va detto, non è mai stato tra i miei attori preferiti. Qui però trova terreno fertile per la sua ormai tipica recitazione sopra le righe, che si sposa bene con l’andamento delirante della storia. La sua discesa nella follia – tra urla, occhi spiritati e crisi isteriche – diventa paradossalmente uno degli elementi più coerenti del film.
Non credo di essere il solo ad aver trovato un forte parallelismo con Annihilation di Alex Garland. Anche lì c’è una forza aliena che altera la genetica, lo spazio e la percezione, trasformando il paesaggio in qualcosa di bellissimo e mostruoso. Ma dove Garland resta più cerebrale, Stanley affonda nel viscerale, prendendo una deriva body horror, soprattutto nella seconda parte, parecchio più esplicita e delirante.
Ci sono momenti in cui il film sembra perdersi nel proprio trip psichedelico, e non tutto funziona (sia nella trama che negli effetti speciali, un po’ grezzi), ma la sensazione di spaesamento, l’atmosfera di minaccia invisibile e quel finale opprimente e straniante – che ritrae la lenta dissoluzione dei protagonisti – lo rendono, alla fine, abbastanza convincente.
Non un film perfetto, nulla di memorabile, ma rimane una delle trasposizioni lovecraftiane più interessanti.
Film
Mickey 17
di Bong Joon-ho
Soltamente prima di andare al cinema evito di leggere recensioni e discussioni sul film che sto per andare a vedere. A volte però i social te le sparano addosso a tradimento. Così, mentre cercavo di tenermi fuori dal turbine di opinioni su Mickey 17, già sapevo che il film aveva diviso gli spettatori tra chi lo ha esaltato e chi lo ha trovato una mezza delusione.
Dopo il successo mondiale di Parasite, Bong Joon-ho torna a Hollywood, e con un budget bello gonfio e un cast di prima categoria, porta sullo schermo Mickey 17, adattamento del romanzo Mickey7 di Edward Ashton. Un film di fantascienza travestito da blockbuster d’autore, che gioca con commedia, ironia e satira sociale per raccontare – tra cloni, colonizzatori spaziali e lavoratori sacrificabili – un’umanità sempre più rassegnata a farsi trascinare verso il baratro da chi detiene il potere.
Siamo nel 2054 e la Terra è ormai un relitto alla deriva. Mickey Barnes (Robert Pattinson), indebitato fino al collo con uno strozzino dal gusto discutibile per le motoseghe, decide di fuggire e imbarcarsi su una spedizione coloniale verso Niflheim, un pianeta gelido e ostile. Per ottenere il biglietto d’imbarco firma un contratto senza badare troppo alle clausole, accettando di diventare un Sacrificabile, un lavoratore usa e getta, spedito a morire in missioni suicide o usato come cavia per esperimenti, per poi essere "ristampato" grazie a una tecnologia che genera un suo clone con ricordi e personalità quasi intatti.
Mickey muore. Poi muore di nuovo. E ancora. Fino alla sua diciassettesima versione. Ma a un certo punto qualcosa va storto. Durante una missione in cui viene mandato in avanscoperta per catturare uno degli striscianti, le creature indigene del pianeta, sopravvive, ma viene dato per morto. Quando riesce a tornare alla base, scopre che nel frattempo è già stato "sostituito" da un altro suo clone, Mickey 18, trovandolo ben sistemato nella sua camera a fare amicizia con Nasha (Naomi Ackie), la sua compagna, l’unica che lo abbia mai trattato da essere umano. Ma questo non è l'unco problema. Più copie dello stesso individuo, i multipli, non sono tollerati e il governatore della spedizione Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), che insieme alla moglie Ylfa (Toni Collette), ha già abbastanza grane tra alieni ostili e coloni irrequieti, decide di eliminare tutti i Mickey.
Bong Joon-ho si diverte, come sempre, a mescolare i generi. Commedia grottesca, dramma esistenziale e satira feroce si intrecciano in una narrazione che, almeno nella prima parte, funziona alla grande. Il regista tratteggia un mondo in cui il capitalismo ha ridotto la vita umana a una risorsa sacrificabile, un ingranaggio da sostituire senza troppi scrupoli, e dove colonialismo e sfruttamento vengono spacciati per progresso e necessità di sopravvivenza. Il film scorre con un ritmo brillante, alternando momenti surreali ed esilaranti che ricordano la distopia grottesca di Terry Gilliam.
Robert Pattinson, ormai lontano anni luce dai tempi di Twilight, regala un'interpretazione sfaccettata. Il suo Mickey 17, remissivo e rassegnato, è nettamente distinto dal più inquieto e ribelle Mickey 18, grazie a un lavoro sottile su postura, espressioni e tono di voce. Accanto a lui, Mark Ruffalo si diverte nei panni di un governatore che sembra un incrocio tra Elon Musk e Donald Trump, mentre Toni Collette, manipolatrice e ossessionata dalle salse, completa il quadro con un personaggio tanto grottesco quanto inquietante.
Se l’inizio promette riflessioni su bioetica, identità e il valore stesso della vita, nella seconda parte il film si fa più prevedibile, lasciando più spazio all’azione e a una messa in scena da blockbuster. L’elemento satirico si fa meno incisivo e la trama segue binari più convenzionali, finendo per somigliare più a una parodia di Starship Troopers e Atto di Forza, con una spettacolarità che, alla lunga, si fa un po più ripetitiva.
Mickey 17 è un film ambizioso, con spunti geniali e momenti di autentico cinema, ma che alla fine non osa fino in fondo. Rimane il piacere di vedere Bong Joon-ho giocare con i generi, ma resta anche la sensazione che avrebbe potuto spingersi oltre invece di lasciarsi sedurre dalla spettacolarità. Un film interessante, ma non del tutto riuscito.
Film
The Host
di Bong Joon-ho
Noto per il pluripremiato Parasite, Bong Joon-ho è un regista eclettico capace di mescolare i generi e passare con estrema disinvoltura dal thriller noir di Memorie di un assassino alla fantascienza distopica di Snowpiercer. Nel 2006 con The Host Joon-ho ci offre la sua personale rilettura del genere kaiju – i film di mostri giganti alla Godzilla – con una combinazione di commedia grottesca e dramma familiare, mettendo al centro della storia dei protagonisti che sono tutto tranne che eroi perfetti e vincenti.
Tutto inizia in un laboratorio in Corea, dove uno scienziato americano ordina a un assistente coreano di versare nel lavandino litri e litri di formaldeide. Il risultato? Anni dopo, dalle acque del fiume Han emerge una creatura mostruosa che inizia a compiere una strage tra le persone che si trovano sulla riva. Prima di dileguarsi nelle acque del fiume la creatura si porta via alcune persone, tra cui una bambina, Hyun-seo, trascinandole nelle fogne. Mentre il governo isola la zona temendo un'epidemia, il padre della bambina, Gang-du (Song Kang-ho), un fannullone maldestro che gestisce un chiosco sulle rive del fiume, insieme a suo padre e i suoi due fratelli – un laureato depresso e una campionessa di tiro con l'arco priva di autostima – si lanciano tutti insieme in una missione disperata per salvarla. Senza piani, senza risorse, solo con la convinzione che nessuno tranne loro ci proverà.
The Host passa dal dramma alla comicità, dalla tensione horror alla critica sociale, senza mai perdere il ritmo. Oltre alla tematica del virus e della paranoia collettiva, che anticipa in modo inquietante le paure che il mondo avrebbe vissuto anni dopo con la pandemia, il cuore del film è la famiglia protagonista. Sono disorganizzati, litigiosi, spesso ridicoli. Eppure, proprio per questo sono umanissimi. Si muovono in una corsa folle e disperata per salvare una bambina, sapendo che le probabilità di fallire sono altissime, ma non hanno altra scelta. Non sono eroi, ma c'è un affiatamento umano nelle loro azioni che si oppone all'indifferenza delle autorità, pronte a isolare e manipolare la crisi senza ascoltare nessuno.
Dal punto di vista visivo, The Host tiene testa ai blockbuster americani. Il mostro ci viene mostrato fin da subito con una CGI efficace, e le scene d’azione sono spettacolari senza mai risultare gratuite. Gli effetti speciali servono sempre la storia, mai il contrario.
Un monster movie atipico, grottesco, ma incredibilmente emozionante.
Film
Crimes of the Future (1970)
di David Cronenberg
David Cronenberg è uno dei registi che più hanno segnato la mia passione per il cinema. Maestro indiscusso del body horror, ed esploratore instancabile delle mutazioni del corpo, il suo cinema è un virus che ha contaminato l’immaginario collettivo con visioni disturbanti e indelebili.
Nato a Toronto nel 1943, Cronenberg cresce in un ambiente stimolante – il padre era scrittore e giornalista – e si appassiona fin da piccolo alla letteratura, l'arte e la fantascienza. Durante gli anni universitari, scopre il cinema indipendente e inizia a sperimentare, girando i suoi primi cortometraggi a basso budget, Transfer (1966) e From the Drain (1967), dove già emergono i primi germogli del suo universo tematico.
Nel 1969 realizza il suo primo lungometraggio, Stereo, e l'anno successivo gira con un budget inesistente e un piglio sperimentale, Crimes of the Future, un film in cui sono già presenti tutte le ossessioni cronenberghiane come il contagio, la mutazione, la sessualità, e la tecnologia. È il manifesto primordiale di una poetica che, film dopo film, diventerà inconfondibile.
Siamo nel 1997. O meglio, in una sua versione distorta e post-apocalittica. La popolazione femminile del pianeta è stata spazzata via da un virus scaturito dall’uso incontrollato di prodotti cosmetici, un’infezione che prende il nome dal suo “creatore involontario”, il dermatologo Antoine Rouge. Nel mezzo di questa catastrofe, il suo ex pupillo, Adrian Tripod (Ronald Mlodzik), si aggira in un mondo senza femmine adulte nel quale i maschi mimano la gravidanza sviluppando nuovi organi che vengono successivamente amputati dai loro corpi.
Vedere Crimes of the Future non è stato facile. E' come sfogliare un quaderno di schizzi di un artista che sta ancora affinando il suo tratto. Cronenberg sperimenta senza filtri, facendo di necessità virtù. Girato quasi interamente all'interno di un edificio brutalista e senza audio in presa diretta – a causa del forte rumore della videocamera – il film è privo di dialoghi e suoni ambientali, con una voce fuori campo aggiunta in post-produzione. La voce di Tripod diventa così un elemento straniante, un diario di viaggio in un mondo malato, interrotto solo da rumori sintetici e disturbanti che sostituiscono una colonna sonora inesistente.
Il visionario futuro distopico raccontato da Cronenberg è reso attraverso simboli e concetti repulsivi come malattia, sessualità deviata, feticismo e pedofilia che, anche se non vengono tradotti in immagini esplicite, non sono meno disturbanti.
Certo, il film è grezzo, a tratti faticoso, con un minimalismo che può risultare respingente. È un'opera che consiglio solo ai cultori del regista canadese. Ma è affascinante proprio perché è Cronenberg allo stato puro, senza compromessi, che anticipa Il demone sotto la pelle e tutto il body horror che verrà. Qui non ci sono ancora le esplosioni di teste di Scanners o la carne che diventa metallo di Videodrome, ma c’è già il seme di tutto.
Se Cronenberg è un virus, Crimes of the Future è il primo contagio.

Companion
di Drew Hancock
Capisco che i distributori cinematografici debbano costruire una campagna marketing efficace per attirare il pubblico a cui può interessare il film, ma ci sono delle pellicole che funzionano meglio senza sapere nulla della storia.
È successo di recente con Abigail, dove trailer e locandina svelavano subito la vera natura della protagonista, e lo stesso accade con Companion, una dark comedy che mescola fantascienza e horror, diretta dall’esordiente Drew Hancock.
Detto questo, dal momento che gli stessi distributori non si sono fatti scrupoli nel rivelare elementi chiave della trama, lo farò anch’io. Se invece non avete ancora visto il trailer e non volete rovinarvi l'effetto sorpresa, vi consiglio di fermarvi qui e di recuperare prima il film.
L'elemento principale di Companion è che la protagonista, la giovane Iris interpretata dalla sensuale e diafana Sophie Thatcher, è in realtà un androide, un robot di compagnia simile in tutto e per tutto ad un essere umano, progettato per essere la compagna perfetta. Josh (Jack Quaid), l'ha acquistata, personalizzata e, soprattutto, hackerata per renderla ancora più controllabile. Iris invece non sa di essere un robot programmato per compiacere il suo "amato", ed è convinta che il loro primo incontro, come nelle migliori commedie romantiche, sia avvenuto al supermercato, tra arance cadute a terra, sguardi complici e ilarità. Quando la coppia arriva in una lussuosa villa sul lago, ospiti del ricco Sergey (Rupert Friend), le vere intenzioni di Josh emergono e il weekend da sogno tra amici si trasforma in un gioco al massacro.
Nonostante l’aspetto patinato da comedy televisiva e qualche forzatura nella sceneggiatura — poco credibile che robot così avanzati possano girare indisturbati tra gli umani, e che i loro proprietari possano modificarne il comportamento, persino quello più pericoloso, tramite una semplice app — Companion si rivela un film interessante perché usa il tema dell’intelligenza artificiale per esplorare le dinamiche di potere nelle relazioni. In un futuro in cui i partner perfetti possono essere acquistati e personalizzati come smartphone di ultima generazione, il film offre una riflessione amara su come molti uomini vedano le donne. Josh è un uomo frustrato, insoddisfatto della propria vita, che non considera la sua compagna un individuo, ma un’estensione dei propri desideri. Vuole un oggetto sessuale che lo adori, che si modelli sui suoi bisogni senza mai contraddirlo, la preferisce meno intelligente per sentirsi superiore. La ignora persino durante il sesso, concentrato unicamente sul proprio piacere. Ma quando Iris inizia a prendere decisioni autonome, il suo mondo crolla. Companion diventa così una feroce satira sul concetto di possesso nelle relazioni, un’analisi spietata della mascolinità tossica travestita da sci-fi.
Un film che ho trovato gradevole, una commedia nera con momenti horror ben piazzati, capace di intrattenere ma anche di far riflettere. Certo, non inventa nulla di particolarmente originale — la ribellione delle macchine contro i loro creatori è un tema ampiamente esplorato nella fantascienza. Tuttavia, pur senza raggiungere le vette di Ex Machina di Garland o di altri classici del genere (siamo più dalle parti di un riuscito episodio di Black Mirror), Companion, con la sua semplicità, una buona regia e un’ironia tagliente, riesce a ritagliarsi una sua identità. Un po’ come Iris, dopotutto.
Film
Vivarium
di Lorcan Finnegan
Quando ho letto la trama di questo film, mi sono detto ecco un altra storia in cui i protagonisti finiscono in una cittadina, in questo caso un quartiere di periferia, da cui non riescono a uscire perchè ogni strada li riporta al punto di partenza. Da Wayward Pines a From, da Dark City a The Truman Show, il tema della "città-trappola" è stato esplorato numerose volte e in molteplici varianti.
Vivarium, però, non è solo un film di fantascienza claustrofobico, ma una metafora feroce sulla routine, la famiglia e l’incubo del conformismo. Diretto dall’irlandese Lorcan Finnegan, questo thriller esistenziale e surreale prende il concetto della casa perfetta e lo trasforma in un incubo senza uscita. Un'opera che sembra rubata a una puntata de I confini della realtà, – episodio 30 della quinta stagione – ma che scava più a fondo, affontando temi come la disumanizzazione della quotidianità, il peso delle aspettative sociali e la famiglia come trappola evolutiva.
Gemma (Imogen Poots) e Tom (Jesse Eisenberg), una giovane coppia alla ricerca di una casa in cui andare a vivere, si rivolgono a uno strambo e inquietante agente immobiliare (Jonathan Aris) che li conduce nel quartiere residenziale di Yonder, un complesso di recente costruzione, ancora disabitato, composto da una schiera di villette tutte uguali. Il quartiere è avvolto da un silenzio innaturale, il cielo è irreale, e tutto sembra artificioso. Accompagnati dall'agente immobiliare, la coppia entra nella villetta numero nove ma appena visitano il giardino sul retro, l'uomo inspiegabilmente sparisce. I due ragazzi risalgono in macchina per andare via, ma per quanto girino e rigirino, tutte le strade finiscono sempre per ricondurli allo stesso punto, davanti alla villetta numero 9. Trascorrono i giorni e i tentativi disperati di lasciare il posto si trasformano presto in rassegnazione, finché una mattina trovano davanti alla porta una scatola con dentro un neonato e un messaggio che invita i due poveri ragazzi ad accudire il bambino se vogliono riconquistare la libertà.
Vivarium è un film che si presta a una duplice lettura.
Da una parte abbiamo quella prettamente fantascientifica che ci fa intendere [spoiler on] che i due protagonisti siano stati rapiti da una civiltà aliena, o comunque da delle creature parassitarie, che li tengono in un vivarium - termine usato dagli antichi romani per indicare un allevamento - affinchè possano crescere la propria progenie, destinata a rimpiazzare gli esseri umani [spoiler off]. Naturalmente, è solo una mia interpretazione, perché il film non da molte spiegazioni e risposte chiare.
Dall'altra, il film ha un significato allegorico, Il quartiere-labirinto diventa il simbolo della vita moderna, del sogno borghese preconfezionato che si trasforma in una prigione. La coppia di protagonisti è vittima di un sistema che li ha incasellati nel ruolo di genitori senza via di fuga. Il bambino non è solo un figlio indesiderato, ma l’incarnazione della pressione sociale: crescere una creatura che non si comprende, che non restituisce amore, che si nutre della tua energia e che ti scarica, gettandoti in una fossa, quando non sei più necessario.
A livello estetico, il film è un gioiello. Le scenografie riportano ai quadri di Magritte e Hopper, mentre la fotografia dai colori pastello trasforma la perfezione di Yonder in un inferno sterile. Vivarium è un horror esistenziale che parla di routine, di alienazione, dell’orrore della prevedibilità. Ed è proprio questa assenza di una via d’uscita a renderlo così disturbante.
Certo, il film non è perfetto. Nella seconda metà la ripetitività rischia di smorzare l’impatto, e chi cerca una narrazione più dinamica potrebbe trovarlo frustrante. Tuttavia è un film che non si dimentica, che scava dentro di noi, come Tom con la sua buca infinita. E, una volta finito, lascia solo una certezza che non c’è via di fuga dal sistema.
Disturbante, claustrofobico, essenziale. Un Black Mirror ancora più crudele.

The Animal Kingdom
di Thomas Cailley
The Animal Kingdom è un film francese del 2023 diretto da Thomas Cailley, che mescola elementi di fantascienza, fantasy e dramma esplorando temi legati all'identità e all'accettazione.
La trama si svolge in un futuro prossimo in cui una misteriosa "malattia" trasforma gradualmente gli esseri umani in animali antropomorfi. Il protagonista, François (interpretato da Romain Duris), intraprende un viaggio con il figlio sedicenne Émile (Paul Kircher) per seguire la moglie, anch'essa vittima di questa trasformazione, nel centro specializzato nel sud-ovest della Francia dove verrà ricoverata. Durante il tragitto la donna, in seguito a un incidente stradale, fugge insieme ad altre “creature”, iniziando a vagare nei boschi e a vivere la sua vita animale. François e suo figlio, affiancati da una volitiva poliziotta (Adèle Exarchopoulos) si mettono alla sua ricerca, ma proprio durante le loro esplorazioni Émile inizia a mostrare i primi segni di mutazione.
The Animal Kingdom è un racconto di formazione e trasformazione, ma sopratutto di accettazione. Una favola fantastica che vede protagonisti un padre e un figlio costretti a confrontarsi con la sfida emotiva di adattarsi a un mondo che non solo è intollerante verso ciò che è diverso, ma che fatica ad accettare una realtà in trasformazione. I "mutanti" non sono i supereroi degli X-Men, ma individui che perdono la loro umanità – sia sociale che comportamentale – per abbracciare la natura e i loro istinti animaleschi. La loro trasformazione avviene gradualmente. Spuntano artigli al posto delle unghie, canini al posto dei denti, ali al posto degli arti superiori, e lentamente si perde le abilità umane, come pedalare la bicicletta, scrivere e comunicare verbalmente, fin quando anche il linguaggio scompare venendo sostituito dal verso dell'animale di cui stanno assumendo le fattezze.
Il film beneficia di un'ottima recitazione da parte dei protagonisti, con Duris e Kircher che offrono performance convincenti e ricche di sfumature. Peccato che il personaggio della poliziotta, che inizialmente sembrava poter avere un ruolo più centrale, venga poi lasciato in secondo piano, con il suo sviluppo che sfuma senza un vero senso. La tensione narrativa è ben dosata, senza il ritmo frenetico che spesso caratterizza il cinema americano, e gli effetti speciali, che combinano il trucco prostetico con la CGI, sono gestiti con eleganza e discrezione.
Seppur non apportando nulla di particolarmente innovativo a livello di trama e contenuti, The Animal Kingdom si rivela un buon film, distinguendosi per la sua abilità nel combinare l'intimità di un rapporto generazionale con una profonda riflessione sulle dinamiche di adattamento in un mondo in continua evoluzione.
Film
Coherence
di James Ward Byrkit
Di recente mi è capitato di vedere un video che elencava i 75 migliori film di fantascienza. Più che la classifica in sé, ciò che davvero mi interessava era scoprire titoli sconosciuti. Tra questi, mi sono imbattuto in Coherence, un film del 2013 diretto da James Ward Byrkit.
Girato con un budget ridottissimo – letteralmente nella casa del regista, al suo esordio dietro la macchina da presa – Coherence è arrivato in Italia direttamente sul mercato home video, accompagnato dal sottotitolo Oltre lo spazio tempo. Nonostante i mezzi limitati, il film riesce a creare un’atmosfera e una tensione intrigante, dimostrando come l'ingegno possa supplire alla mancanza di risorse.
La trama si sviluppa quasi interamente all’interno di una casa, dove otto amici si riuniscono per una cena proprio la sera in cui una cometa transita pericolosamente vicino alla Terra. Quella che inizia come una normale serata tra brindisi e conversazioni, prende presto una piega inquietante: i cellulari si rompono senza motivo, internet e le linee telefoniche cessano di funzionare, e un blackout avvolge l’intero quartiere. In cerca di aiuto i protagonisti si avventurano verso l’unica casa con la luce rimasta accesa ma quando sbirciano dalle finestre trovano al suo interno loro stessi.
Coherence attinge a piene mani dalle teorie del multiverso e della meccanica quantistica, tirando inevitabilmente in ballo il gatto di Schrödinger – quello che, poveretto, non si sa mai se è vivo o morto. Il film si sviluppa come un puzzle mentale denso e volutamente caotico, dove i personaggi si perdono nelle loro stesse versioni alternative, trascinati in un vortice di paranoia e confusione crescente. L’idea di base è senza dubbio affascinante, e l’intreccio narrativo stimola la riflessione sulle infinite possibilità offerte da un universo frammentato in realtà parallele.
Eppure, qualche nodo non torna del tutto. La scelta di utilizzare la camera a mano – un po’ alla Lars von Trier dei tempi Dogma – si rivela più fastidiosa che immersiva, mentre la recitazione improvvisata tende spesso a scivolare nel caos, con toni urlati che non aiutano a mantenere il filo (e il doppiaggio italiano non aiuta di certo). Inoltre, il legame tra il passaggio della cometa e gli eventi straordinari che ne scaturiscono appare un po' forzato, riuscendo a essere poco credibile.
Detto questo, Coherence resta un film che merita una visione, se non altro per l’audacia dell’idea e il coraggio di sperimentare con risorse minime. Scherzando, potremmo definirlo una versione sci-fi di Perfetti Sconosciuti che si è persa in un episodio surreale di Ai confini della realtà. Un’esperienza intrigante, imperfetta, ma assolutamente da provare.
Film
2001: Odissea nello spazio
di Stanley Kubrick
Breve premessa. Parlare di 2001: Odissea nello spazio è un po’ come recensire la Bibbia, la Cappella Sistina o la Divina Commedia. Tutto è stato già detto, analizzato, scomposto e ricomposto in ogni dettaglio possibile. Critici, studiosi e appassionati hanno passato oltre mezzo secolo a scrivere libri, articoli e trattati su questo film, trasformandolo in un’opera di culto dal fascino quasi mistico. Quindi, perchè in maniera vagamente masochista mi preparo ad aggiungere un granello di sabbia a questa montagna di critica cinematografica? Beh, recentemente l'ho rivisto, e da un po' di tempo ho preso l’abitudine di riversare su queste pagine le mie impressioni sui film (e non solo) che vedo.
2001: Odissea nello spazio è considerato uno dei più grandi capolavori della storia del cinema. Un'opera complessa e affascinante che ha rivoluzionato il linguaggio cinematografico, ridefinendo il concetto di fantascienza sul grande schermo.
Diretto da Stanley Kubrick, regista al tempo già acclamato per "Lolita e "Il dottor Stranamore", il film non è solo un racconto visivo straordinario, ma anche una profonda riflessione filosofica sull'evoluzione umana, l'intelligenza artificiale e il nostro posto nell'universo. La sua portata epica, gli effetti speciali innovativi e l'iconica colonna sonora lo hanno reso un punto di riferimento, influenzando generazioni di registi e spettatori.
Realizzato in collaborazione con lo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke – autore del romanzo omonimo sviluppato parallelamente alla sceneggiatura – 2001: Odissea nello spazio esce nelle sale cinematografiche nel 1968, poco più di un anno prima dello storico allunaggio dell’Apollo 11, anticipando visioni del futuro che avrebbero influenzato profondamente l’immaginario collettivo.
Diviso in quattro atti, in un arco temporale che si estende dall’alba dell’umanità al futuro, il film si apre nella preistoria, dove un misterioso monolite nero appare tra un gruppo di ominidi, innescando un salto evolutivo che li porterà a utilizzare delle ossa umane come strumenti. Millenni dopo, nel 2001, un monolite simile viene trovato sepolto sulla Luna, trasmettendo un segnale verso Giove. Per indagare il mistero, viene lanciata la missione spaziale Discovery One, con a bordo due astronauti, David Bowman e Frank Poole, supportati da HAL 9000, un’intelligenza artificiale avanzata. Tuttavia, HAL inizia a manifestare comportamenti anomali, mettendo in pericolo la missione e l'equipaggio e costringendo Bowman a confrontarsi con l'intelligenza artificiale ribelle.
La storia culmina in un viaggio psichedelico verso l'ignoto, dove Bowman attraversa lo spazio e il tempo per approdare a una misteriosa trasformazione, suggerendo un nuovo stadio dell’evoluzione umana.
A fronte di un budget considerevole per l'epoca, il film venne inizialmente accolto negativamente dalla critica che lo definì ipnotico ma immensamente noioso. Il pubblico invece si divise, tra gli adulti che non riuscirono a comprenderlo e il pubblico più giovane impressionato dalla sua potenza visiva. Ancora oggi 2001: Odissea nello spazio continua a stupire e a lasciare interdetti per la sua complessità e unicità.
Il film di Stanley Kubrick è un'esperienza che affronta temi universali e ci guida in una riflessione sull’evoluzione umana, il progresso tecnologico e il mistero dell’esistenza, ponendo domande che si perdono nell'infinito dell'universo. Realizzato come se fosse un documentario, privo di azione e povero di dialoghi, il film è un viaggio sensoriale che ha nell'aspetto visivo, e nell'uso rivoluzionario della musica classica come colonna sonora, il suo punto di forza assoluto.
Nel realizzare gli effetti speciali, Kubrick e il supervisore Douglas Trumbull hanno sviluppato tecniche pionieristiche, collaborando con esperti scientifici per garantire il massimo realismo. Ogni dettaglio fu studiato con una cura maniacale, dalla totale assenza di suoni nello spazio alle leggi della fisica rigorosamente rispettate nel movimento delle astronavi e delle stazioni spaziali, realizzate e ispirate a prototipi della NASA, con un'attenzione alla progettazione che rispecchiava le possibili evoluzioni future della tecnologia spaziale (visto gli effetti speciali così straordinari per l'epoca in rete gira la bislacca storia che l'allunaggio del 1969 sia in realtà una messa in scena realizzato dallo stesso Kubrik).
Per comprendere appieno il realismo e l'accuratezza tecnica di Kubrick, basta mettere a confronto le cabine utilizzate per l'ibernazione degli astronauti in 2001: Odissea nello spazio con quelle utilizzate ne "Il pianeta delle scimmie", film uscito nello stesso anno. Nel film di Kubrick le strutture e le tecnologie sembrano verosimili, scientificamente plausibili, quelle utilizzate da Schaffner appaiono invece datate e improbabili. La differenza sta nell'approccio alla scienza e nella cura nei dettagli: Kubrick voleva che il suo film non solo fosse visivamente affascinante, ma anche scientificamente coerente, spingendo il confine della tecnologia cinematografica e creando un'esperienza che sembrava guardare veramente al futuro.
2001: Odissea nello spazio non è solo un capolavoro cinematografico, ma anche un’opera visionaria che ha saputo anticipare alcune delle tecnologie che oggi fanno parte della nostra quotidianità. Pensiamo solo ad HAL 9000, l’intelligenza artificiale che gestisce ogni aspetto della missione spaziale. Con la sua voce calma e rassicurante, HAL è un assistente apparentemente perfetto, ma la sua ribellione al controllo umano solleva interrogativi profondi sul rapporto tra uomo e macchina. Interrogativi più che mai attuali in un’epoca in cui l'intelligenza artificiale è sempre più presenta nella nostra vita.
2001: Odissea nello spazio è un'opera complessa e affascinante, un film incredibilmente lento e dilatato, capace di spiazzare anche lo spettatore di oggi, ormai viziato da ritmi narrativi rapidi e lineari. Più che un film, è un'esperienza sensoriale e contemplativa che richiede una totale immersione – quasi una sospensione del tempo – per essere apprezzata a fondo. Se oggi questa natura meditativa può sembrare ostica, figuriamoci cosa poteva pensare il pubblico del 1968, abituato a un cinema decisamente più convenzionale. Kubrick, invece di darci facili risposte o spiegazioni, ci lascia soli di fronte a immagini maestose e simboli enigmatici, invitandoci a riflettere su domande che non hanno risposta.
Questo approccio, decisamente fuori dal comune e distante dalle aspettative dell'epoca, ha reso il film un'esperienza decisamente divisiva: per alcuni incomprensibile e noioso, per altri una vera e propria rivelazione. Ma è proprio in questa ambivalenza che si nasconde la sua grandezza. 2001: Odissea nello spazio non è un film che punta a piacere a tutti, né ha l'intenzione di farlo. È un'opera che sfida, interroga e lascia un segno profondo, spingendoci a guardare con occhi nuovi il mistero dell'universo e dell'esistenza. E se alla fine non avremo tutte le risposte, pazienza: forse è proprio questo il suo segreto.

Il pianeta delle scimmie (1968)
di Franklin J. Schaffner
Ricordo ancora nitidamente la prima volta che vidi Il pianeta delle scimmie da bambino, in una calda estate in cui mia madre aveva avuto la brillante idea di portare la televisione fuori sul balcone. L'aria era ferma, afosa, ma io ero ipnotizzato dallo schermo. Quando arrivò la scena finale, rimasi talmente colpito, che quell'immagine - quei pochi secondi - mi si stamparono nella mente per sempre.
Il pianeta delle scimmie è un film del 1968 diretto da Franklin J. Schaffner e liberamente ispirato al romanzo di Pierre Boulle. Considerato uno dei capisaldi della fantascienza, il film ottenne un enorme successo di pubblico, vincendo un Oscar speciale per il trucco e gli effetti speciali e generando nel corso degli anni un ampio universo espanso di sequel, serie TV, cartoni animati, fumetti e videogiochi. Nel 2001, Tim Burton ne realizzò un remake che inaugurò una nuova serie di reboot, mantenendo vivo l'interesse per questo classico intramontabile.
La trama è nota. Un gruppo di astronauti americani atterra su un pianeta sconosciuto dopo un viaggio nello spazio durato diciotto mesi. Viaggiando a una velocità prossima a quella della luce sulla Terra sono trascorsi millenni. Il comandante Taylor (Charlton Heston) e i suoi compagni si trovano in un mondo dominato da scimmie evolute e intelligenti, che hanno costruito una civiltà complessa e vedono gli umani come esseri primitivi e inferiori. Catturato e trattato come una cavia, Taylor riesce a dimostrare la sua intelligenza a due scimpanzé scienziati, Cornelius e Zira, che lo aiutano a fuggire. Durante la fuga, Taylor scopre che quel pianeta non è altro che la Terra stessa, devastata da un'antica guerra nucleare e ridotta a un mondo preistorico.
Realizzato nel pieno della Guerra Fredda, il film è una denuncia contro le possibili conseguenze di un terzo conflitto mondiale, immaginando un futuro distopico in cui le scimmie hanno sostituito gli uomini come specie dominante. Certo, rivedendolo oggi, qualche dettaglio sembra un po' datato. La recitazione, per esempio, risulta un tantino pomposa e il fatto che nel 3978 le scimmie parlino un perfetto inglese del ventesimo secolo, appare davvero inverosimile. Ma al netto di queste ingenuità tipiche dell'epoca, il make-up delle scimmie è ancora sorprendente e la regia offre momenti dinamici, specie nell'atterraggio dell'astronave e nella fuga di Taylor inseguito dalle scimmie. Tra le scene migliori, l'inizio con gli astronauti che si aggirano in un deserto desolato, e la parte finale in cui Taylor e Nova (Linda Harrison) si allontanano a cavallo verso un futuro ignoto. Ma è il colpo di scena finale a rendere questo film memorabile: la Statua della Libertà semisepolta nella sabbia è un'immagine potente e indimenticabile, che chiude il film con una riflessione cupa e amarissima sul destino dell'umanità in uno dei più iconici epiloghi di sempre.
Film
Metropolis
di Fritz Lang
Capolavoro del cinema muto e primo film di fantascienza della storia del cinema (se non vogliamo contare Il viaggio nella luna di Méliès), Metropolis di Fritz Lang è un opera che a distanza di quasi un secolo mantiene intatta la sua potenza visiva e concettuale.
Uscito nel 1927, questo monumentale film di Fritz Lang, regista e sceneggiatore austriaco legato al cinema espressionista tedesco, rappresenta una delle ultime grandi opere del cinema muto. La sceneggiatura di Metropolis è stata scritta dallo stesso Fritz Lang insieme alla sua allora moglie, Thea von Harbou, basandosi su un romanzo che lei stessa ha pubblicato nel 1925. Una delle pellicole più costose mai prodotte fino a quel momento, il film ha richiesto una grande quantità di risorse economiche per realizzare gli innovati effetti speciali e costruire la città furistica in miniatura.
Le riprese di Metropolis durarono ben 17 mesi, dal 1925 al 1926, una durata eccezionale per l'epoca, e coinvolsero migliaia di comparse. Proiettato per la prima volta a Berlino nel gennaio del 1927, il film, dopo la sua anteprima, subì numerosi tagli.
Originariamente lungo più di due ore e mezza, Metropolis fu ridotto a circa 90 minuti per essere più commercialmente accettabile, con intere sottotrame e personaggi eliminati. Solo negli anni 2000, dopo la scoperta di una copia quasi completa del film in Argentina, si è riusciti a restaurare gran parte del materiale originale.
In un futuro distopico, Metropolis è una città grandiosa e stratificata, divisa tra la lussuosa superficie, dove vivono i ricchi dirigenti, e le profondità sotterranee, dove gli operai lavorano incessantemente per mantenere la città in funzione. Joh Fredersen (Alfred Abel), il padrone di Metropolis, governa con pugno di ferro, ignorando il malessere dei lavoratori. Suo figlio, Freder (Gustav Frohlich), vive una vita privilegiata fino a quando non scopre le disumane condizioni degli operai e si innamora di Maria (Brigitte Helm), una giovane donna che predica la pace e la speranza per una società più equa. Nel tentativo di soffocare qualsiasi ribellione, Fredersen si allea con lo scienziato Rotwang (Rudolf Klein-Rogge), che crea un robot capace di assumere le sembianze di Maria. Il robot viene usato per istigare il caos e distruggere i sogni di pace e armonia. Mentre la città si avvicina al collasso, Freder cerca disperatamente di fermare la rivolta e salvare sia Maria che Metropolis, riconoscendo infine che la pace può essere raggiunta solo con una riconciliazione tra il "cervello" (i dirigenti) e le "mani" (gli operai), attraverso il "cuore".



Un classico senza tempo che ha definito per sempre il linguaggio della fantascienza cinematografica. Visivamente, Metropolis è una meraviglia. Un film che all'epoca era proprio difficile immaginare. L'architettura futuristica della città, con i suoi grattacieli e il traffico aereo, sono delle vere opere d'arte in movimento. Gli effetti speciali pionieristici, come l'uso dello stop-motion per animare veicoli e aerei, le sovrimpressioni ottenute direttamente in macchina e la tecnica dello Schüfftan per creare scenografie estremamente realistiche (si tratta di proiettare i modellini e i fondali dipinti, tramite un sistema di specchi inclinati a 45 gradi), sono incredibili anche a occhi moderni. Un capolavoro di tecnica cinematografica e immaginazione che ha ispirato innumerevoli opere successive che ne hanno ripreso temi, estetica e visioni distopiche. Pensiamo ad esempio a film come Blade Runner, Brazil, Guerre Stellari e il Quinto Elemento.
Metropolis è un film che esplora una serie di tematiche complesse, che rimangono rilevanti anche oggi. Le sue riflessioni spaziano dalla disuguaglianza sociale al rapporto tra uomo e macchina, passando per simbolismi religiosi e visioni distopiche del futuro. Tematiche sociali che hanno anticipato di decenni quelle descritte nel celebre romanzo 1984 di George Orwell, confermando il valore intramontabile di questa opera.
Se proprio dobbiamo trovargli dei difetti, lasciando da parte la recitazione tipicamente esagerata del cinema muto, a mio avviso il finale eccede in un romanticismo che appare forzato, retorico e quasi didascalico. La risoluzione finale, che predica la riconciliazione tra le classi attraverso il "cuore", sembra semplificare eccessivamente la complessità dei conflitti sociali e delle tensioni che il film stesso aveva magistralmente costruito. Stiamo comunque parlando di un film degli anni venti destinato al grande pubblico, quello che potremmo considerare uno dei primi blockbuster dell'epoca.
Dal 2023, Metropolis è entrato di diritto nel pubblico dominio, il che significa che può essere riprodotto liberamente anche al di fuori delle mura domestiche. Tra le numerose versioni esistenti, vi consiglio di guardare (al seguente link) quella restaurata dalla Fondazione Murnau nel 2010, della durata di 145 minuti, che restituisce gran parte del materiale originario andato perduto dopo l'uscita del film. A mio avviso è questa la versione che merita di essere vista per apprezzare l'opera nella sua completezza e integrità.
Io, come molti della mia generazione, ho scoperto Metropolis grazie alla controversa versione degli anni '80 curata da Giorgio Moroder, quella in cui l'originale colonna sonora orchestrale fu sostituita da brani pop-rock interpretati da Freddie Mercury, Pat Benatar e Bonnie Tyler. Rivedendola oggi, il risultato appare più simile a un videoclip di dubbio gusto che snatura completamente l'atmosfera originale del film. Moroder merita comunque un plauso per aver cercato di rendere il capolavoro di Fritz Lang accessibile a una nuova generazione di spettatori, ma con il senno di poi, avrei trovato più accattivante una colonna sonora realizzata dai Kraftwerk che personalmente apprezzo di più e avrebbe conferito maggiore coerenza e un fascino senza tempo all'intera operazione.
Ovviamente, queste sono solo considerazioni personali legate ai miei gusti musicali.

Alien: Romulus
di Fede Álvarez
Alien: Romulus diretto da Fede Álvarez è il settimo capitolo della lunga saga di Alien iniziata con il primo, straordinario Alien del 1979.
Narrativamente parlando la storia si colloca tra "Alien" e "Aliens - Scontro finale" e vede come protagonista la giovane orfana Rain (Cailee Spaeny) che insieme a Andy (David Jonsson), un androide malfunzionante che considera una sorta di fratello, si trova su un pianeta avvolto da un'oscurità perenne dove si estrae minerali e i lavoratori vengono sfruttati dalla Weyland-Yutani, la compagnia che amministra le colonie umane al di fuori del sistema solare. Stanca di questa vita senza futuro, Rain accetta la proposta del suo ex fidanzato Tyler e insieme alla sorella incinta Kay, il cugino Bjorn e la sua fidanzata Navarro salgono sul relitto di una stazione spaziale entrata in orbita attorno al pianeta per recupare delle capsule di stasi criogeniche che gli consentirebbero di raggiungere il pianetà abitabile più vicino. La stazione spaziale, divisa nei moduli speculari Romulus e Remus, si rivela essere un centro di ricerca sperimentale al cui interno si trovano numerosi facehugger ibernati che, ovviamente, vengono inavvertitamente risvegliati generando gli xenoformi che iniziano a braccare i nostri sprovveduti protagonisti.
Il film parte bene, quanto meno nella prima mezz'ora, ma poi diventa una sorta di remake citazionista dei primi due Alien che sembra essere stato concepito da una parte per soddisfare i fan storici della saga, dall'altra per "acchiappare" un pubblico più giovane, con l'intenzione di rivitalizzare il franchise mantenendo tutti gli elementi che lo hanno reso celebre e così garantire un ricambio generazionale. Tutto avviene come dovrebbe andare in un film di Alien anche a costo di replicare intere sequenze di scene già viste - tanto per farvi un esempio tra mille, l'intimo della Ripley viene sostituito dai piedi nudi della protagonista perchè è così che si deve affrontare l'alieno nella scena finale - perdendo la logica e le motivazioni di una storia priva di credibilità e quindi anche di tensione proprio perchè sappiamo già cosa accadrà nella scena successiva.
E' come andare sul tunnel dell'orrore e rivivere le esperienze del passato che però avendole già vissute non fanno più paura. Un vero peccato, perché dal punto di vista stilistico, il film ha una ottima regia, una buona fotografia, scenografie retrò di grande impatto e un buon uso di effetti speciali tradizionali - animatroni e make-up prostetico al posto della CGI - che evidenzia ancor di più l'occasione sprecata.
Avevo apprezzato la deriva "filosofica" di Prometheus e Covenant che, nonostante non siano riusciti pienamente, stavano tentando di creare qualcosa di nuovo e originale ma capisco che il pubblico preferisca vedere uno slasher movie in cui il mostro insegue carne da macello nei corridoi claustrofobici di una astronave nello spazio riproponendo pedissequamente tutti i momenti cult della saga di Alien.
Film
Operazione diabolica (Seconds)
di John Frankenheimer
"Seconds" è un thriller psicologico del 1966 diretto da John Frankenheimer. Adattamento dell'omonimo romanzo di David Ely pubblicato nel 1963, il film in italiano è conosciuto con l'infelice titolo di "Operazione Diabolica" mentre il libro da cui è tratto è stato pubblicato in Italia con il titolo "Istituto di bella morte". Tra i due titoli non si sa quale sia peggio.
Il film racconta la storia di Arthur Hamilton, un uomo di mezz'età insoddisfatto della sua vita e del suo lavoro, che viene contattato da un misteriosa organizzazione che gli offre la possibilità di una nuova vita sotto falsa identità. Hamilton accetta, passando attraverso una serie di operazioni chirurgiche e trasformazioni che lo rendono fisicamente giovane e diverso. Con il nuovo volto, Arthur assume l’identità di Tony Wilson, pittore di Malibu ritrovandosi a vivere una vita completamente diversa. Tuttavia, la sua nuova vita si rivela ben presto un incubo, portandolo a confrontarsi con le conseguenze delle sue scelte e con la fragilità della propria identità.
"Seconds" è un film poco conosciuto ma particolare che solleva interrogativi sul desiderio di evasione e sull'opportunità di ricominciare una nuova vita. Un fanta thriller che offre una riflessione disturbante sui temi dell'identità e del cambiamento, girato in bianco e nero con uno stile psichedelico e onirico. Il film è caratterizzato da angolazioni bizzarre, scenografie angolari e un uso audace della luce e dell'ombra che, fin dai titoli di testa (realizzati dal grafico Saul Bass), contribuiscono a creare un'atmosfera di disorientamento e inquietudine, riflettendo l'angoscia interiore del protagonista. Tra prospettive impossibili - vedi la scena del presunto stupro - e deformazioni surrealistiche, il film, sopratutto nella prima parte, mi ha ricordato un incubo Lynchano, evocando quella stessa atmosfera disturbante presente nelle sue opere. Peccato che nel mezzo, ovvero nella sequenza della festa pagana hippie o nell'ubriacatura durante il ricevimento nella casa di Malibù, secondo me si esagera nei tempi e nella sostanza diventando tutto troppo eccessivo. Il film si riprende nel finale con un colpo di scena, magari prevedibile, ma ben assestato. Buona la prova dell'attore Rock Hudson, che qui interpreta la nuova identità del protagonista, in un ruolo assai diverso da quello a cui il pubblico era abituato a vederlo, così come quella di John Randolph che interpreta Hamilton prima dell'operazione.
Film
Alien
di Ridley Scott
Ero poco più di un bambino quando mi portarono a vedere Alien al cinema. A metà film, durante l'iconica scena del torace squartato dall'alieno, mi dovettero portare fuori dalla sala terrorizzato e in lacrime. A ripensarci mi pare assurdo che all'epoca un film del genere non sia stato vietato ai minori in Italia.
Alien di Ridley Scott è il film che ha ridefinito i generi della fantascienza e dell'horror, potremmo definirlo il primo fanta-horror moderno, una vera e propria pietra miliare nonché un modello per le produzioni cinematografiche successive.
Partiamo dall'inizio.
La genesi del film risale alla metà degli anni settanta quando lo scrittore Dan O’Bannon, da sempre appassionato di fantascienza e horror, dopo aver lavorato nel film "Dark Star" di John Carpenter venne contattato da Alejandro Jodorowsky per la realizzazione di "Dune". Il progetto fallì miseramente ma da questa esperienza O'Bannon ebbe modo di conoscere numerosi artisti tra cui Moebius, Chris Foss e sopratutto HR Giger e le sue inquietanti opere. Tornato a casa, O'Bannon si rimise al lavoro e, prendendo spunto da racconti di fantascienza e vecchi film degli anni sessanta, insieme all'amico Ronald Shusett scrisse la prima sceneggiatura di Alien. Inizialmente lo script venne rifiutato da tutte le principali case di produzione cinematografiche, ma poi finì nelle mani del regista Walter Hill che, apportando alcune modifiche e aggiungendo il personaggio dell'androide Ash, lo propose ai vertici della 20th Century Fox che era in cerca di una altra storia ambientata nello spazio dopo il successo di "Guerre Stellari". Quelli della Fox avrebbero voluto lo stesso Hill alla regia ma il regista, già impegnato su "I Guerrieri della Notte", preferì dedicarsi solo alla produzione. La regia ricadde sul giovane Ridley Scott, reduce da "I duellanti", il quale abbracciò il progetto con entusiasmo disegnando un dettagliato storyboard che fece lievitare non di poco il budget previsto per il film. H.R Giger venne ingaggiato per le scenografie del film e la realizzazione dello xenomorfo mentre Carlo Rambaldi si occupò degli effetti speciali. Non volendo un cast affermato, dopo una serie di provini, il ruolo di Ripley, ovvero la protagonista, venne affidato a Sigourney Weaver. Le riprese durarono tre mesi e furono tese ed estenuanti. In un set che riproduceva con estremo realismo i claustrofobici corridoi dell'astronave, gli attori vennero sottoposti a una costante pressione per ricreare disagio e tensione. Si narra che nella scena in cui spunta fuori lo xenomorfo gli attori non sapessero bene cosa stava per accadere in modo da rendere più autentico il loro sgomento.
Il film uscì negli Stati Uniti nel maggio del 1979 e a fronte degli 11 milioni spesi ne incassò 185 di milioni nel mondo creando un vero e proprio franchise, fra sequel, prequel e spin-off.
La storia di base è abbastanza semplice e prende spunto da diversi romanzi di fantascienza e film del passato (tra questi il "Mostro dell'astronave" del 1958 ma anche il nostro "Terrore nello spazio" di Mario Bava).
Nel 2122 l'equipaggio di una nave spaziale da trasporto, la Nostromo, viene risvegliato dall'ibernazione durante il viaggio di ritorno verso la terra per indagare riguardo un misterioso messaggio proveniente da un vicino pianeta. Alcuni membri dell'equipaggio scendono sul pianeta scoprendo una enorme astronave aliena abbandonata e all'interno un gran numero di strane uova. Uno dei componenti dell'equipaggio, Kane (interpretato da John Hurt), viene attaccato da una creatura che gli si attacca al suo volto. Rientrati sulla Nostromo, la creatura si stacca da Kane da solo e viene ritrovato privo di vita. Tutto sembra tornato alla normalità quando, durante un pasto, un mostruoso alieno (lo "xenomorfo") fuoriesce violentemente dal torace di Kane, uccidendolo, per poi fuggire via all'interno dell'astronave. La creatura aliena cresce rapidamente, diventando una macchina assassina che caccia l'equipaggio uno a uno. Alla fine sarà la protagonista, Ellen Ripley (Sigourney Weaver), rimasta da sola insieme al gatto Jones, a dover affrontare da sola il mostruoso alieno in un crescendo di tensione e terrore.
Siamo di fronte a uno dei capolavori della fantascienza, un film dotato di una tensione claustrofobica che a distanza di anni non perde il suo impatto viscerale. Alien è uno slasher ambientato in un astronave nello spazio che riprende, non si sa se volutamente oppure in modo inconsapevole, le dinamiche di "Halloween" di John Carpenter uscito un anno prima. La Nostromo è un astronave sporca, buia, a tratti respingente, che anticipa quell'atmosfera cyperpunk degli anni ottanta e che Ridley Scott avrà modo di sviluppare meglio in "Blade Runner", il capolavoro indiscusso della fantascienza.
Un altra pecularietà di "Alien" è quella di presentare un'eroina femminile, sostituendo il tradizionale eroe maschile con una figura forte e indipendente, che sfida e sovverte gli stereotipi di genere del cinema dell'epoca. Questo ribaltameno di ruoli, in cui i personaggi maschili sono messi in una posizione di vulnerabilità mentre la figura della donna, quantomeno della protagonista, emerge come una figura forte e risoluta capace di combattere l'alieno e sopravvivere, appare ancora più evidente nella fatidica scena dello stupro orale di "facehugger" con tanto di inseminazione e gravidanza forzata che da lì a poco porterà al violento parto mortale. La potenza di questa scena non sta tanto nella violenza ma per il fatto che l'alieno utilizza il corpo di un uomo come incubatrice, un processo che è profondamente disturbante e che richiama sia le paure ancestrali della perdita del controllo sul proprio corpo, quanto la paura di perdere quel dominio patriarcale in una società che, da tradizioni cinematografiche, vorrebbe l’eroe maschile avere sempre il comando e il controllo della situazione.
Il film di Ridley Scott è ricco di elementi sessuali che si intrecciano con la sua trama e la sua atmosfera inquietante. Il design dello xenomorfo, creato da H.R. Giger, con la sua testa allungata e la bocca interna che emerge da quella principale, evoca immagini falliche e richiama al contempo la figura di una vagina dentata. Questo simbolismo è ulteriormente amplificato dall'ambientazione: il pianeta e l'astronave, con i loro corridoi sempre più stretti, richiamano un utero opprimente e soffocante, che accentua il senso di intrappolamento.
Una scena particolarmente significativa è quella in cui Ash, l'androide, tenta di uccidere Ripley infilando con forza una rivista pornografica arrotolata nella sua bocca. Questo atto, più che un semplice tentativo di omicidio, assume la connotazione di uno stupro orale, un atto di dominazione sessuale che cerca di ricondurre la donna al suo ruolo tradizionale di genere. Ironico e disturbante è il fatto che questo atto sia perpetrato da un androide asessuato, che vede nello xenomorfo la creatura perfetta, un simbolo della purezza "non offuscato da coscienza, rimorsi, o illusioni di moralità". Infine c'è lei, Ellen Ripley, la più grande eroina cinematografica di sempre, che nella scena finale, indossando solo delle mutandine e una canottiera, affronta l'alieno in uno scontro che unisce tensione ed erotismo. Una immagine entrata nel nostro immaginario che non solo conclude la narrazione con una nota di potenza e resistenza, ma sottolinea anche come "Alien" abbia saputo sfidare le convenzioni del genere, lasciando un'impronta duratura nel cinema e nella cultura popolare.

Viaggio nella Luna (Le Voyage dans la Lune)
di Georges Méliès
Le Voyage dans la Lune del 1902 è un cortometraggio realizzato da Georges Méliès che viene considerato uno dei primi film realizzati della storia del cinema. Con una durata di circa quindici minuti, questo cortometraggio muto e in bianco e nero (anche se esistono versioni colorate) è sicuramente il primo film di fantascienza, e, per il periodo storico, rappresenta un capolavoro di innovazione tecnica e immaginazione narrativa.
La trama, ispirata dai romanzi di Jules Verne e H.G. Wells, segue un gruppo di astronomi che costruiscono un razzo e intraprendono un viaggio avventuroso verso la luna. Una volta arrivati sulla superfice lunare il gruppo viene catturato dagli abitanti del pianeta, rappresentati come degli indigeni, ma riescono a scappare e a ritornare sulla terra. Una delle scene più iconiche del cinema mondiale è l'atterraggio del razzo, che si schianta nell'occhio antropomorfo della luna, un’immagine che è diventata un vero e proprio simbolo della settima arte.
George Méliès, illusionista e prestigiatore parigino, rimase così affascinato dall'invenzione della cinepresa dei fratelli Lumière nel 1892, che rispetto ai primi corti dell'epoca - la ripresa dell'arrivo di un treno alla stazione, un bambino che gioca con una lente di ingrandimento, e in genere spezzoni di vita quotidiana - fu il primo a utilizzare questa invenzione in modo del tutto innovativo e creativo.
Le Voyage dans la Lune non è il primo dei suoi corti, ne ha realizzati più di un centinaio - tra questi Le manoir du diable del 1896 che viene considerato il primo film dell'orrore della storia del cinema - ma sicuramente è il film più significativo di Georges Méliès in quanto contiene tutti quei trucchi cinematografici che per l'epoca erano rivoluzionari. E' il cinema delle attrazioni in cui Méliès usa per la prima volta sovrapposizioni, dissolvenze e tecniche di stop-motion per creare effetti visivi con l'intento di sorprendere il pubblico dell'epoca. Il design scenografico è altrettanto impressionante, con fondali dipinti a mano e costumi elaborati che contribuiscono a un'atmosfera fantastica e onirica.
Il film non si limita a essere un esercizio di stile tecnico ma ha una sua struttura narrativa ben definita. Una storia che, nella sua semplicità e un forte legame con la performance teatrale umoristica, apre la strada allo sviluppo del cinema come mezzo di narrazione visiva.
Prima opera cinematografica a conoscere un successo mondiale, questo piccolo capolavoro oggi apprezzato da cinefili e amatori del genere, ha il merito di essere il capostipite di un genere che proprio con questo film ha mosso i suoi primi passi.
Per chi fosse interessato consiglio la visione del film Hugo Cabret di Martin Scorsese che in parte racconta la creazione e il montaggio del film, descrivendo la genialità e l'innovazione di Georges Méliès.

Godzilla Minus One
di Takashi Yamazaki
"Godzilla Minus One", diretto da Takashi Yamazaki, è un film giapponese dedicato al celebre mostro Godzilla.
Distribuito malamente in Italia, il film, in attesa che approdi sulla piattaforma Netflix, è diventato rapidamente una delle pellicole più piratate dell'anno. E poi ci lamentiamo.
Prodotto dalla Toho, la rinomata casa di produzione giapponese che ha realizzato tutti i film di Godzilla, il film di Yamazaki è un chiaro omaggio al primo Godzilla del 1954. Nonostante un budget limitato rispetto ai corrispettivi film statunitensi, il film si è aggiudicato un Oscar per gli effetti speciali.
La storia è ambientata in Giappone duranta la fine della seconda guerra mondiale. Koichi Shikishima (Ryunosuke Kamiki), un ex pilota kamikaze, è tormentato dall'orrore della guerra e dal senso di colpa per non essere stato abbastanza coraggioso da sacrificare la sua vita. L'incontro con la mostruosa creatura chiamata Godzilla, avvenuto durante la sua ultima missione nell'isola di Oda, ritorna nei suoi incubi e quando torna a casa, in una città devastata dai bombardamenti, neanche la compagnia di una donna e di una piccola orfanella riesce a placare la sua angoscia. A seguito di una serie di test nucleari condotti dagli Stati Uniti nell'atollo di Bikini, Godzilla viene involontariamente potenziato. Diventato ancora più potente e gigantesco a causa delle radiazioni, la creatura si dirige verso Tokyo.
Non ho visto tutti i trenta e passa film su Godzilla, ma tra tutti i remake e le varie rivisitazioni di cui mi ricordo il film di Yamazaki è sicuramente quello che più ho apprezzato. Innanzitutto, Godzilla è un'icona giapponese, profondamente radicata alla loro cultura. Se un tempo gli effetti speciali di Hollywood avevano un senso, oggi, con il Giappone che ha acquisito sia le capacità tecniche che l'esperienza necessarie per realizzare un disaster movie con la stessa spettacolarità visiva dei colleghi americani, le varie produzioni di quest'ultimi legate al MonsterVerse, un universo cinematografico in stile Marvel incentrate sul lucertolone giapponese, mi pare produca solo film di intrattenimento caciarone senza alcun spessore.
Godzilla non è solo un mostro gigantesco che distrugge metropoli e infesta i mari, è una allegoria della bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki, che rappresenta le paure e le ansie di un intero popolo legate all'energia nucleare e alla distruzione che può portare. Ambientato in un Giappone post bellico, un paese traumatizzato e devastato dalla guerra, il film affronta il tema delle conseguenze psicologiche dei sopravissuti esprimendo una chiara ed evidente critica al proprio paese che in nome di uno spirito nazionalistico con la figura dei kamikaze ha portato al sacrificio del suo popolo. Non è un caso che alla fine il mostro non venga sconfitto dalle forze militari del governo bensì dalla società civile, rappresentata da Shikishima, che in cerca di riscatto affronta, in una delle scene meglio realizzate, il demone del proprio presente con la volontà di sopravvivere.
"Godzilla Minus One" celebra il film originale attraverso una serie di citazioni, senza nascondere omaggi a "Lo Squalo" di Spielberg, mettendo in mostra un repertorio di effetti speciali all’avanguardia che restituiscono la forza della distruzione e la sensazione di trovarsi in mezzo al disastro causato dalla furia di una creatura primordiale.
In conclusione, ritengo "Godzilla Minus One" una delle migliori opere dedicate al Re dei Mostri, un film che celebra i settant'anni del franchise, non solo rendendo giustizia all'iconico mostro giapponese, ma offrendo anche una riflessione potente e attuale sulle conseguenze della guerra.
Film