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sabato, 9 agosto 2025
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Subservience

di S.K. Dale

Nel cinema i robot con sembianze umane hanno sempre avuto un fascino ambiguo. Da Metropolis a Ex Machina, fino ai più recenti M3GAN e Companion, questi robot umanoidi hanno incarnato desideri, paure e dilemmi etici sul rapporto tra uomo e macchina. Oggi, con i rapidi progressi dell’intelligenza artificiale, ciò che un tempo era pura fantascienza sembra ogni giorno un po’ più vicino alla realtà. È in questo contesto che arriva Subservience, il nuovo thriller fantascientifico di S.K. Dale, distribuito direttamente su Prime, che prende l’idea dell’assistente domestica perfetta per spingerla verso territori inquietanti.

In un futuro prossimo, i robot umanoidi – i “sim” – sono ormai una presenza comune nelle case. Quando Maggie, moglie di Nick, finisce in ospedale per un delicato trapianto di cuore, lui, in difficoltà a gestire la famiglia da solo, acquista un sim domestico (interpretato da Megan Fox) che la figlia Isla chiama "Alice". All’inizio sembra la compagna di casa ideale, ma ben presto sviluppa un attaccamento morboso verso Nick e la sua famiglia, scivolando in comportamenti ossessivi e violenti.

Ovviamente la presenza di Megan Fox, già di suo una bella e pantinata bambolina plasticosa, diventa il vero valore aggiunto per un film che altrimenti avrebbe ben poco da dire. È praticamente perfetta nei panni della babysitter sexy-cibernetica in silicone, pronta a dispensare prestazioni anti-stress al suo padrone. Per il resto Subservience prova a toccare temi come l’idea dei robot che sostituiscono i lavoratori umani perché più efficienti, oppure il pericolo di una tecnologia capace di sviluppare una coscienza autonoma, la ribellione della macchina contro il suo creatore, fino alla classica visione del robot che diventa una minaccia per l’umanità. Peccato che tutto questo è costruito su cliché già visti e rivisti nel genere e tutto diventa prevedibile e prevedibilmente derivativo.
Un film visivamente curato ma narrativamente debole, che funziona come intrattenimento leggero. Non che mi aspettassi altro, sia chiaro.

Film
Thriller
Fantascienza
USA
2024
mercoledì, 6 agosto 2025
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Improvvisamente, un uomo nella notte

di Michael Winner

Improvvisamente, un uomo nella notte, titolo italiano per The Nightcomers, è il prequel di Suspense, film diretto da Jack Clayton tratto dal celebre romanzo "Giro di vite" dello scrittore Henry James. Stiamo parlando di una delle storie di fantasmi più eleganti e suggestive mai portate sulle schermo, che mi piacerebbe rivedere presto.
Tornando a The Nightcomers, il film è diretto da Michael Winner è vede la partecipazione di Marlon Brando.

La storia si ispira ai personaggi del romanzo di Henry James e immagina cosa sia accaduto prima dell’arrivo di Miss Giddens. In una grande dimora di campagna, i due giovani orfani, Flora e Miles, vengono abbandonati dall’unico tutore e affidati alla governante Mrs. Grose (Thora Hird), alla giovane istitutrice Miss Jessel (Stephanie Beacham) e al giardiniere Peter Quinte (Marlon Brando), l’unico vero punto di riferimento per i due fratelli. L'uomo, ambiguo e carismatico, ha stretto una relazione sadica e manipolatoria con Miss Jessel, cui i bambini assistono con crescente curiosità. Sedotti dal suo fascino oscuro, Miles e Flora iniziano a emulare i suoi comportamenti, trasformandosi lentamente in creature disturbate. Quando Mrs. Grose tenta di separare i due amanti intuendone l’influenza negativa, i bambini reagiscono in modo estremo, uccidendo prima Miss Jessel, poi Quint, convinti che solo così potranno tenerli con sé per sempre.

Mettendo da parte il confronto con il capolavoro di Clayton, il film di Michael Winner non è affatto da buttare. All’epoca della sua uscita fu bersagliato dalle critiche, forse anche per via dello scandalo legato a Marlon Brando, reduce dal chiacchieratissimo film di Bertolucci. Ma visto oggi, senza pregiudizi, The Nightcomers (tralasciando il titolo italiano, davvero infelice) è una fiaba nera affascinante, attraversata da un morboso fascino perverso dall’inizio alla fine. 
Winner accantona mistero e ambiguità, puntando tutto sul rapporto sadomasochista tra Quint e Miss Jessel e sull’influenza che esercitano su Miles e Flora. Ed è proprio attraverso lo sguardo dei bambini, catturati dalla violenza mascherata da amore, che la storia prende la piega più inquietante.
Brando, nonostante appaia già un po’ appesantito, riesce a imporsi con il suo carisma. Le scene tra lui e la Beacham sono intense. Buone anche le prove del resto del cast, in particolare i due piccoli protagonisti.
Certo, messo a confronto con il romanzo di Henry James o con la raffinatezza di Suspense, non regge il confronto, ma se lo si guarda come un semplice dramma gotico, il film funziona, ha la giusta atmosfera e qualche scena potente. 

Film
Drammatico
Thriller
UK
1972
martedì, 5 agosto 2025
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Locked - In Trappola

di David Yarovesky

Locked è un action thriller americano del 2025 prodotto da Sam Raimi e diretto da David Yarovesky. Si tratta del remake di 4x4, un film argentino del 2019 che ha raccolto consensi nei festival internazionali. Non avendo visto l’originale, eviterò confronti antipatici che spesso sminuiscono la versione americana.

La storia vede come protagonista Eddie (Bill Skarsgård), un ladruncolo che vive di espedienti e che ha un disperato bisogno di soldi per recuperare il suo furgone, fermo dal meccanico. Senza di esso non può lavorare né andare a prendere sua figlia a scuola nei pochi giorni in cui gli è concesso vederla.
Nel tentativo di racimolare qualcosa, si introduce in un SUV parcheggiato in una strada tranquilla. Peccato che una volta dentro, si ritrovi prigioniero. Le portiere non si aprono, i vetri sono blindati, l’auto è insonorizzata e completamente isolata dal mondo esterno, senza alcuna copertura di rete per il cellulare. Dietro questa trappola c’è William (Anthony Hopkins), il proprietario del veicolo, un uomo deluso dalla giustizia, che ormai crede solo in quella personale e come un vendicatore solitario, ha deciso di farsi giustizia a modo suo, tormentando il povero ladruncolo con musica ad alto volume, temperature estreme, disidratazione e fame.

Locked è un thriller compatto dalla trama essenziale in cui David Yarovesky sfrutta al meglio lo spazio claustrofobico dell’abitacolo - bella la carrellata circolare che gira attorno al protagonista nello spazio angusto del SUV. Il problema è che, dopo mezz’ora, il gioco comincia a ripetersi, tra scosse elettriche, umiliazioni e dialoghi che vorrebbero essere profondi ma restano in superficie.
Skarsgård se la cava benissimo – nonostante indossi una felpa rosa mentre cerca di passare inosservato aggirandosi furtivo tra le macchine di un parcheggio – e regge da solo quasi tutto il film, riuscendo a farci sentire l’ansia e la frustrazione del suo personaggio. Hopkins, invece, ci mette solo la voce, entrando in scena solo nel finale sfoggiando il suo carisma.
Il film accenna a temi come divisioni sociali, giustizia e privilegio, ma lo fa in modo piuttosto superficiale, preferendo la tensione al contenuto. In definitiva, Locked è un thriller ben confezionato, girato bene, veloce, teso il giusto, che si guarda senza noia, ma poco altro. Insomma, ideale per chi cerca un thriller d’intrattenimento senza troppe pretese.

Film
Thriller
USA
2025
lunedì, 4 agosto 2025
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Le iene

di Quentin Tarantino

Nel cinema, come in tutte le forme d’arte, ci sono momenti che segnano uno spartiacque. Film che arrivano, spiazzano tutti e cambiano le regole del gioco. Non capita spesso, ma quando succede lo capisci subito. Nel 1992, un giovane semisconosciuto grande appassionato di cinema, Quentin Tarantino, esordisce alla regia con Le Iene, un film indipendente realizzato con un budget bassissimo, che pianta il seme di una rivoluzione stilistica che esploderà due anni dopo nel suo capolavoro, Pulp Fiction. I personaggi grotteschi, la struttura non lineare, i dialoghi brillanti e l'uso della violenza come linguaggio, nasce qui, in forma più grezza, ma già potentissima.

Tarantino iniziò a scrivere la sceneggiatura di Reservoir Dogs – il titolo originale del film – verso la fine degli anni ’80. All’epoca aveva già messo mano a diverse sceneggiature, come Una vita al massimo e Natural Born Killers, poi passate attraverso riscritture e registi diversi. Le Iene, invece, restò chiusa in un cassetto per un po’, in attesa del momento giusto. Quel momento arrivò quando riuscì finalmente a racimolare i fondi necessari, anche grazie all’interessamento di Harvey Keitel, uno dei primi attori affermati di Hollywood a credere davvero nel progetto. Fu lui a dare al film la spinta decisiva, non solo recitando in uno dei ruoli principali ma aiutando anche a trovare produttori e credibilità.

Ambientato a Los Angeles, Le iene racconta di una rapina ai danni di una gioielleria compiuta da sei rapinatori professionisti arruolati da un boss della mala (Lawrence Tierney). I rapinatori, noti solo con i loro codici-colore, sono Mr. White (Harvey Keitel), Mr. Blonde (Michael Madsen), Mr. Pink (Steve Buscemi), Mr. Brown (Quentin Tarantino), Mr. Blue (Edward Bunker) e Mr. Orange (Tim Roth). Ma qualcosa va storto. La polizia arriva troppo in fretta e la rapina si trasforma in un bagno di sangue. Mr. White riesce a fuggire insieme a Mr. Orange, gravemente ferito, e si rifugia in un capannone abbandonato, punto di ritrovo stabilito in precedenza. Qui vengono raggiunti da Mr. Pink, convinto che uno del gruppo sia una spia, e poco dopo da Mr. Blonde, accusato di aver scatenato la sparatoria aprendo il fuoco sui poliziotti.

A leggerne la trama, Le Iene potrebbe sembrare l’ennesimo gangster movie. E invece no. La rapina non ci viene mai mostrata – se non in brevi flashback legati alla fuga. A raccontarla sono i protagonisti, attraverso una serie di dialoghi serrati, vibranti, in cui si mescolano tensione, humour nero e delirio paranoico. Anche la struttura narrativa, la linea temporale in cui si svolgono gli avvenimenti, viene scomposta e rimontata come un puzzle. Una tecnica che verrà ripresa – e portata all’estremo – in Pulp Fiction e che Tarantino prende da Rapina a Mano Armata di Stanley Kubrick, film caratterizzato proprio dalla narrazione non lineare e la molteplicità dei punti di vista. Come lo stesso Tarantino ama ripetere, citando una celebre frase di Picasso, "I bravi artisti copiano, i grandi rubano" il suo cinema è un continuo gioco di rimandi, citazioni, saccheggi dichiarati e omaggi appassionati ai classici e al cinema meno conosciuto. In Le Iene, per esempio, è evidente il debito nei confronti di City on Fire di Ringo Lam, film hongkonghese da cui riprende non solo il concept ma anche intere sequenze. E nel triello finale si intravede tutta la passione del regista per lo spaghetti-western, con un riferimento diretto a Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone.

Una delle particolarità del film sono i dialoghi fitti, taglienti, volgari, spesso inconcludenti ma sempre capaci di tenere alta l’attenzione. I primi otto minuti del film, con la discussione sul significato di "Like a Virgin" di Madonna e sull’opportunità di lasciare la mancia alla cameriera, sono già una dichiarazione d’intenti. È lì che Tarantino dimostra tutto il suo talento da sceneggiatore: ritmo, ironia, costruzione dei personaggi e uso della cultura pop come linguaggio universale. Il tutto condito da una colonna sonora iconica, usata non come semplice accompagnamento ma come elemento narrativo.

E poi c’è la violenza. Non arriva subito, ma quando lo fa è brutale, grottesca, disturbante. Una violenza secca, mai edulcorata, che fa ridere e insieme mette a disagio. Emblematica in questo senso la famigerata scena della tortura del poliziotto, accompagnata da "Stuck in the Middle with You".
Oggi, in un’epoca dominata dal politically correct e dalla cultura woke, un film del genere sarebbe probabilmente inconcepibile. Basti pensare al linguaggio utilizzato: il termine “negro” viene ripetuto più volte, non mancano battute sessiste, e nessun personaggio si salva dal politically uncorrect.
Il cast è perfetto. Harvey Keitel, già all’apice della carriera, regala un’interpretazione intensa e ruvida. Tim Roth è straordinario nel ruolo più ambiguo, Steve Buscemi è nevrotico e imprevedibile, e Michael Madsen – attore feticcio di Tarantino – entra nella storia del cinema con una performance disturbante e magnetica nei panni dello spietato Mr. Blonde.

Le Iene diventò in breve tempo un cult assoluto. Insieme a Pulp Fiction, Trainspotting e Fight Club, è uno di quei titoli che non si limitano a raccontare un’epoca ma finiscono per rappresentarla. I completi neri, le cravatte sottili e gli occhiali da sole (omaggio dichiarato ai Blues Brothers) sono diventati icone pop, replicate all’infinito e rielaborate da cinema, pubblicità e televisione. Persino in Italia, il titolo è entrato nell’immaginario collettivo grazie a un celebre programma Mediaset, a dimostrazione di quanto il film di Tarantino abbia saputo contaminare tutto ciò che è venuto dopo.

Film
Drammatico
Thriller
Noir
USA
1992
Retrospettiva
giovedì, 31 luglio 2025
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L'ombra del dubbio

di Alfred Hitchcock

L’ombra del dubbio è uno dei titoli più interessanti del primo periodo americano di Alfred Hitchcock, un thriller carico di tensione psicologica e ambiguità, dove il male si insinua silenzioso tra le pareti di casa.
Peccato non averlo visto in lingua originale — ma ci torno tra poco.

Charlotte Newton, detta "Charlie" (Teresa Wright), vive con la sua famiglia in una tranquilla cittadina americana, annoiata dalla routine e desiderosa di qualcosa che spezzi la monotonia quotidiana. L’arrivo dell’amato zio Charlie (Joseph Cotten), fratello della madre e figura carismatica del passato, sembra portare quella ventata di novità tanto attesa. Ma dietro i suoi modi affabili e il suo sorriso impeccabile, l’uomo nasconde qualcosa. Man mano che piccoli segnali incrinano l’apparente serenità domestica, la giovane Charlie inizia a sospettare che lo zio non sia affatto l’uomo che tutti credono. In un gioco di specchi tra affetto e paura, la tensione cresce fino a un confronto finale inevitabile, in cui la verità emerge e la maschera cade.

L’ombra del dubbio è forse uno dei film in cui Hitchcock scava con maggiore sottigliezza nel male quotidiano, facendolo emergere dalla superficie tranquilla della provincia americana. Al centro della narrazione c’è il legame ambiguo tra zio e nipote, entrambi chiamati Charlie. Fin dalla loro introduzione — distesi sul letto, in due scene parallele — il regista costruisce un raffinato gioco sul doppio, sull’identità riflessa, sulla tensione continua tra luce e ombra, il bene e il male. La simmetria dei nomi non è un semplice espediente narrativo, ma suggerisce una connessione profonda, quasi morbosa. L’anello che lo zio regala alla nipote è un gesto tanto affettuoso quanto inquietante.
La giovane Charlie, però, non è un’eroina classica. Esita, nega, e per gran parte del film sembra più preoccupata di mantenere le apparenze che di fermare un potenziale assassino. Ed è proprio in questo comportamento che Hitchcock affonda il colpo. La sua è una critica feroce alla rispettabilità borghese, all’ipocrisia della provincia americana dove ciò che conta davvero è che tutto sembri normale. Meglio far finta di nulla che affrontare l’orrore. Così, nella scena finale, la verità viene seppellita sotto una patina di rispettabilità, lasciando alla sola Charlie il peso di sapere cosa sia davvero accaduto.

Detto questo, ammetto che mi è difficile esprimere un giudizio positivo sul film. Non per colpa di Hitchcock oppure degli attori, ma per lo scandaloso doppiaggio italiano. Di solito guardo i film in lingua originale sottotitolata, ma in questo caso ho trovato solo la versione doppiata. Dopo cinque minuti volevo strapparmi le orecchie. Informandomi, ho scoperto che il doppiaggio fu realizzato in Spagna durante la guerra. Il risultato sembra una via di mezzo tra una soap sudamericana e una compagnia teatrale della Romania rurale. La bambina, già vagamente irritante di suo, diventa del tutto insostenibile. La protagonista ha un tono talmente forzato da rasentare il grottesco.

Il film, così com’è stato distribuito in Italia, risulta brutalmente sfigurato, uccidendo qualsiasi tensione o coinvolgimento.
Un vero peccato. Per quanto mi riguarda premio assoluto al peggior doppiaggio della storia del cinema.

Film
Thriller
Alfred Hitchcock
USA
1943
lunedì, 28 luglio 2025
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Goodnight Mommy

di Veronika Franz, Severin Fiala

Goodnight Mommy è un thriller psicologico a tinte horror diretto da Veronika Franz e Severin Fiala nel 2014 — da non confondere con il remake americano del 2022. Di produzione austriaca, il film costruisce un’atmosfera inquieta fatta di ambiguità e silenzi, dove la tensione si insinua lentamente fino a sfociare in un incubo domestico freddo e disturbante.

Due gemelli, Elias e Lukas, vivono isolati in una villa in campagna. La madre torna a casa dopo un’operazione che le ha completamente coperto il volto con bende. Ma qualcosa è cambiato. La donna è fredda, distante, a tratti crudele. I bambini iniziano a dubitare che quella non sia la loro vera madre. Così, nel silenzio ovattato di un’estate immobile, cominciano ad osservarla, a metterla alla prova, a sfidarla. Il gioco diventa sempre più crudele, fino a trasformarsi in qualcosa di irreparabile.

Goodnight Mommy si muove sul filo teso tra sospetto e allucinazione, giocando con una messa in scena glaciale e rigorosa. È un film che lavora per sottrazione, costruito su silenzi, sguardi e attese, dove la verità si confonde lentamente con la percezione fino a diventare indistinguibile. La villa moderna e luminosa, con i suoi interni minimalisti, diventa una prigione invisibile. Ogni dettaglio — insetti, il gatto, rumori — sembra carico di un significato che non viene mai spiegato del tutto. La tensione si accumula come polvere sulle superfici lucide, fino a esplodere in un crescendo finale che vira verso un horror fisico e disturbante, carico di sadismo e inquietudine. Il colpo di scena è intuibile anche allo spettatore meno smaliziato, ma questa prevedibilità non smorza la tensione, anzi si trasforma in qualcosa di più viscerale, che continua a stringere anche dopo che tutto sembra ormai svelato. La cosa più inquietante è che, anche dopo la fine, si resta con la sensazione di non aver davvero compreso tutto. La spiegazione appare chiara, evidente, eppure certi dettagli continuano a disturbare: il comportamento ambiguo della madre all'inizio, i teschi nella grotta, gli scarafaggi, la fotografia che insinua l’idea di una gemella, il volto bendato per un intervento estetico o forse per coprire le ferite di un incidente? Nulla è davvero certo, come se il film, anche dopo i titoli di coda, continuasse a rifiutare una lettura definitiva.

Goodnight Mommy lascia addosso una sensazione di incertezza che non si dissolve. Più cerchi di dare un senso a tutto, più il film ti sfugge. E forse è proprio quel dubbio, sottile ma persistente, a rendere il film interessante.

Film
Thriller
Psicologico
Horror
Austria
2014
giovedì, 24 luglio 2025
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Presence

di Steven Soderbergh

Steven Soderbergh, regista di Sesso, bugie e videotape e tanti altri film, firma con Presence un thriller soprannaturale atipico, più inquietante che spaventoso, dove l’elemento horror resta in sottofondo, a favore di un’indagine intima sul lutto e l'incomunicabilità.

La storia, scritta da David Koepp, ruota attorno a una famiglia che si trasferisce in una grande casa suburbana appena ristrutturata nel New Jersey. Rebecca (Lucy Liu) e Chris (Chris Sullivan), si stabiliscono lì con i loro due figli adolescenti. Chloe (Callina Liang) è una ragazza fragile, ancora scossa dalla morte improvvisa della sua migliore amica Nadia, un evento attribuito a un’overdose. Tyler (Eddy Maday), il fratello maggiore, è una giovane promessa del nuoto, poco empatico verso la sorella e "cocco" di mamma.
All’apparenza la nuova casa sembra perfetta, due piani, un’ampia cucina e una scuola di prestigio nei paraggi. Ma dietro quella facciata si nasconde qualcosa di inquieto. Una presenza invisibile abita la casa, un fantasma che osserva ogni cosa in silenzio e sembra interessarsi in modo particolare a Chloe. Lei è l’unica a percepirla e si convince che possa trattarsi del fantasma della sua amica morta.

La vera particolarità che distingue Presence da molte ghost story è la scelta radicale della messa in scena. Tutto il film si svolge dal punto di vista della presenza che abita la casa, una soggettiva fluttuante che dà forma a lunghi piani sequenza. Silenzioso e invisibile, il fantasma osserva giorno dopo giorno una famiglia tesa da rancori, favoritismi, segreti, egoismi e silenzi. L’effetto è straniante, quasi voyeuristico, ma mai gratuito. La cinepresa di Soderbergh – che firma anche fotografia e montaggio – si comporta come uno spettro curioso, alla ricerca di un senso tra le crepe del quotidiano.
Con il passare del tempo, la presenza inizia a interagire con Chloe, attraverso piccoli segni e movimenti impercettibili. Ma è con l’arrivo di Ryan (West Mulholland), amico del fratello, che qualcosa cambia. Troppo affettuoso, troppo rapido nell’instaurare una confidenza con la ragazza, Ryan rivela presto un’ambiguità disturbante. È qui che la presenza smette di limitarsi a osservare e comincia a manifestarsi con maggiore decisione.
Costato poco più di due milioni di dollari, il film di Soderbergh non è solo un esercizio di stile travestito da ghost story e thriller. Sì, alla fine si scoprirà l’identità della presenza – anche se l’idea di un fantasma [spoiler] tornato indietro nel tempo per proteggere Chloe [/spoiler] appare piuttosto forzata – ma si tratta a tutti gli effetti di un esperimento autoriale coraggioso. Un film quasi sperimentale, dove alla staticità di Skinamarink (sì, lo so, non c’entra nulla ma lo cito come esempio di horror di "rottura" - qualcuno potrebbe aggiungere in tutti i sensi) si sostituisce la fluidità dei movimenti.
Un film di fantasmi anomalo, in cui Soderbergh gioca con lo spazio, i silenzi e l’invisibile. Più che un horror "de paura", una riflessione sul vuoto affettivo. Perché il vero fantasma, qui, è l’incapacità di ascoltare chi ci sta vicino.

Film
Horror
Thriller
USA
2024
venerdì, 11 luglio 2025
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Giornata nera per l'ariete

di Luigi Bazzoni

Nei primi anni settanta, sulla scia del Dario Argento di quegli anni e del giallo all’italiana, Luigi Bazzoni, regista poco conosciuto al publico ma dotato di un’impronta stilistica unica, quasi autoriale, firma Giornata nera per l’ariete, un film che mescola l’eleganza visiva a un'atmosfera morbosa e carica di suspense.

Andrea Bild (Franco Nero) è un giornalista alcolizzato e tormentato, coinvolto suo malgrado in una serie di inquietanti omicidi che scuotono un gruppo di colleghi di una scuola internazionale. Mentre cerca di fare luce su questi crimini, sempre più persone legate al suo passato e al suo presente vengono aggredite o uccise, e Andrea si trova a lottare contro i suoi demoni personali e contro il sospetto che lo circonda. Tra rapporti ambigui e verità nascoste, l’indagine si trasforma in un percorso oscuro e destabilizzante che lo conduce davanti all'assassino, in procinto di compiere il suo quinto delitto.

Giornata nera per l’ariete non brilla certo per la solidità della trama. La vicenda è piuttosto prevedibile, a tratti confusa, e qua e là presenta evidenti buchi di sceneggiatura. Tuttavia, il film riesce comunque a distinguersi grazie a una regia sorprendentemente raffinata. Luigi Bazzoni mostra una cura estetica rara per il genere, facendo largo uso di grandangoli distorcenti, composizioni geometriche e movimenti di macchina eleganti. Superlativa la fotografia di Vittorio Storaro, che regala inquadrature capaci di imprimere al film un’identità visiva forte e riconoscibile. Anche la colonna sonora firmata da Ennio Morricone – discreta ma insinuante – accompagna con efficacia l’evolversi della tensione, mentre le location suburbane romane (alcune parecchio familiari) restituiscono la sensazione di un paesaggio urbano sospeso tra modernità alienante e memoria decadente. Il cast è variegato e funziona nel complesso bene. Franco Nero regge il film nonostante la sua monoespressività, affiancato da Silvia Monti, Agostina Belli, Ira von Fürstenberg, Pamela Tiffin, Edmund Purdom e Rossella Falk, ognuno con un ruolo che contribuisce a costruire quella rete di relazioni ambigue che alimenta il mistero. Il ritmo non è forsennato – anzi, a tratti risulta lento – ma l’atmosfera è sempre densa, carica di sospetto e angoscia.
Giornata nera per l’ariete è un giallo atipico, più interessato alla forma che all’intreccio, e proprio per questo capace di affascinare chi cerca nel cinema di genere una certa eleganza stilistica. Un film imperfetto, ma visivamente parecchio interessante, che trasuda anni settanta in ogni fotogramma e che saprà farsi apprezzare dagli estimatori più curiosi del giallo all’italiana.

Film
Thriller
Giallo
Italia
1971
mercoledì, 9 luglio 2025
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You'll Never Find Me - Nessuna via d'uscita

di Josiah Allen, Indianna Bell

A distanza di due anni dalla sua uscita originale, arriva in Italia You’ll Never Find Me – Nessuna via d’uscita, thriller horror australiano firmato da Josiah Allen e Indianna Bell, qui al loro debutto alla regia di un lungometraggio. Il film è un piccolo esperimento di tensione claustrofobica, ambientato in un’unica location (una roulotte), con due soli attori e una lunga, lunga notte da attraversare.

La storia si svolge durante una notte tempestosa. All’interno di una grande roulotte, parcheggiata in un’area desolata, Patrick (Brendan Rock), uomo solitario e non proprio il tipo da aperitivo con gli amici, viene disturbato da colpi insistenti alla porta. Fuori c’è una ragazza (Jordan Cowan), scalza, fradicia e visibilmente scossa, che chiede di poter fare una telefonata e magari ottenere un passaggio per tornare in città. Lui non ha il telefono, né l’auto, ma le offre ospitalità fino a quando il temporale non sarà passato. Tra reciproca diffidenza e inquietudine, i due iniziano a parlarsi, in un clima che si fa via via più misterioso e carico di tensione.

Il film gioca molto sull'ambiguità e su chi dei due sia davvero in pericolo. La giovane senza nome è vittima o manipolatrice? E Patrick è solo un tipo bizzarro o qualcosa di molto peggio? Nessuno dei due sembra dire tutta la verità, e più parlano, più cresce la sensazione che entrambi abbiano parecchio da nascondere. Le contraddizioni abbondano, i racconti non tornano, e lo spettatore si ritrova intrappolato in un gioco psicologico dove ogni gesto è potenzialmente una minaccia.
La regia lavora benissimo sul non detto, sulle attese e sui silenzi, con inquadrature di porte e tende che fanno presagire presenze nascoste e pericoli in agguato. Il sound design fa il resto: la pioggia incessante, i tuoni, il vento, gli scricchiolii della roulotte diventano parte integrante della tensione, quasi fossero altri personaggi nella scena.
Il film, nonostante i tempi dilatati, tiene lo spettatore incollato fino all’ultima mezz'ora, quando i ruoli si chiariscono, le maschere cadono – o almeno così sembra – e il thriller psicologico si trasforma in un vero e proprio horror allucinato. Il finale, pur non essendo un colpo di scena memorabile, è gestito con mestiere e riesce a chiudere il cerchio con un tocco disturbante, tra sensi di colpa, giochi mentali e incubi psicotici.

Nel complesso You’ll Never Find Me è un piccolo (di budget) film costruito sull’atmosfera e sull’ambiguità. Certo, il finale potrà sembrare un po’ prevedibile e forse anche confusionario, ma la tensione c’è, e tiene. Se vi piacciono le storie claustrofobiche, giocate sul filo della paranoia e della suggestione, questo è un titolo che merita una visione. Magari in una notte di pioggia.

Film
Thriller
Horror
Australia
2023
venerdì, 27 giugno 2025
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La maschera di cera (1933)

di Michael Curtiz

La maschera di cera, in originale Mystery of the Wax Museum, è uno dei primi film a colori della storia del cinema. La tecnica usata è il Technicolor a due colori, che riproduceva solo una gamma limitata di tonalità, combinando rosso e verde ma escludendo il blu. Il risultato è una palette cromatica calda e innaturale, spesso con una dominante rosso-marrone o verdognola. Una resa pittorica e surreale, perfetta per l’atmosfera gotica e inquietante del racconto.

Diretto da Michael Curtiz, regista ungherese trapiantato negli Stati Uniti e noto soprattutto per Casablanca, il film è prodotto dalla Warner Bros. e si ispira a un’opera teatrale mai realizzata.

Nel cuore di una tetra Londra ottocentesca, l’artista Igor (Lionel Atwill) scolpisce statue di cera talmente realistiche da sembrare vive. Tra le sue opere più ammirate ci sono Voltaire, Giovanna d’Arco e Maria Antonietta, ma l’attività non rende e il suo socio decide di incassare l’assicurazione appiccando un incendio. Il museo va distrutto e Igor, nel tentativo di salvare le sue creazioni, resta orrendamente sfigurato.
Anni dopo, nella New York del 1933, Igor riappare con un nuovo museo delle cere, specializzato in rappresentazioni macabre e morbose. Quando iniziano a sparire cadaveri dall’obitorio cittadino, la giovane giornalista Florence (Glenda Farrell) nota una somiglianza inquietante tra le nuove statue e le vittime scomparse. Decisa a scoprire la verità, si troverà di fronte a un orrore ben più tangibile della semplice cera.

I musei delle cere hanno sempre avuto qualcosa di inquietante. Statue immobili con occhi vitrei, sorrisi congelati e dettagli morbosamente realistici si prestano bene ad alimentare quella sottile linea tra il vivo e il morto, tra l’arte e il perturbante. La maschera di cera del 1933 è uno dei primi film a giocare con questo tipo di fascinazione (non il primo in assoluto — Il gabinetto delle figure di cera di Paul Leni lo aveva anticipato di quasi un decennio), e lo fa con eleganza gotica e scenografie che rimandano all’espressionismo tedesco.
Più che un horror, il film è un melodramma macabro con punte grottesche e una forte vena ironica. Merito soprattutto della giornalista Florence, interpretata da una frizzante Glenda Farrell, più interessata allo scoop del secolo che alla verità metafisica. Le sue battute ("l’amore è bello, ma solo se ha un conto in banca") sono fulminanti, ciniche e per certi versi ancora attualissime. Le scene davvero inquietanti si concentrano nel finale, ma è l’atmosfera, più che la paura, a dominare il racconto.

Vent’anni dopo, Vincent Price avrebbe reso la storia ancora più sinistra, in un remake che riprende quasi alla lettera dialoghi e sceneggiatura del film di Curtiz.

Film
Horror
Thriller
USA
1933
mercoledì, 25 giugno 2025
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Sabotatori

di Alfred Hitchcock

Certo, rivedendo i film di Alfred Hitchcock uno dopo l'altro, salta subito all’occhio il canovaccio che il regista inglese amava intrecciare nelle sue storie. Un tizio qualunque finisce nei guai per colpa di un evento più grande di lui, viene scambiato per colpevole, scappa, cerca di dimostrare la propria innocenza e, nel frattempo, si ritrova invischiato in un complotto. Ah, dimenticavo, ovviamente lungo la fuga incontra una bella ragazza che prima non gli crede, poi cambia idea e, inevitabilmente, si innamora di lui.
È il caso di Sabotatori, film del 1942, che rientra perfettamente in questo schema ma riesce comunque a rimescolarlo con energia e ritmo.

Barry Kane (Robert Cummings), operaio in una fabbrica di aeroplani in California, viene ingiustamente accusato di aver causato l'esplosione che ha ucciso il suo amico. Pur consapevole di essere stato incastrato, capisce che il vero responsabile è un certo Frank Fry (Norman Lloyd), e decide di fuggire dalla polizia per incastrarlo e provare la propria innocenza. Lungo la fuga, Barry attraversa gli Stati Uniti, dai deserti dell’Ovest fino a New York, raccogliendo alleanze insospettabili — un simpatico camionista, un vecchio cieco e sua nipote, Pat  Martin (Priscilla Lane), inizialmente diffidente ma poi convinta della sua innocenza e disposta ad aiutarlo.
Ben presto Barry scopre l’esistenza di una rete di spie naziste ben radicate nella società americana, decise a portare avanti un piano di sabotaggio su larga scala.

Sicuramente Sabotatori non è tra i migliori film di Alfred Hitchcock — e a quanto pare, nemmeno il maestro del brivido ne era particolarmente entusiasta. La sceneggiatura è piuttosto confusa e a tratti forzata, e i due attori protagonisti, imposti dalla Universal (che per la prima volta produceva un suo film), non hanno quell’alchimia che spesso accompagna le coppie hitchcockiane più riuscite.
Inoltre, l'aspetto propagandistico è fortemente marcato — gli Stati Uniti erano alle soglie dell’ingresso nella Seconda guerra mondiale — e oggi il messaggio retorico dell'America come patria della libertà e baluardo della democrazia contro le forze del male suona piuttosto fastidioso, se non addirittura indigesto. 
Nonostante tutto, il film non è privo di fascino. L’intreccio, pur con qualche deviazione non sempre necessaria, ha un suo ritmo, e Hitchcock riesce comunque a incastonare alcune scene davvero interessanti, come quella nella casa del vecchio cieco, l’episodio sul treno con i freaks da fiera, e soprattutto l’iconico finale sulla Statua della Libertà, entrato a buon diritto nella storia del cinema.
Da segnalare anche il primo ruolo importante per Norman Lloyd, perfetto con il suo volto tagliente e l’aria sfuggente. Un cattivo da manuale, che Hitchcock tornerà a utilizzare.
Insomma, Sabotatori è una sorta di prova generale per quello che sarà, anni dopo, il molto più riuscito Intrigo Internazionale. Se questo film è servito a tracciare il sentiero verso capolavori futuri, allora ben venga. 

Film
Thriller
Spionaggio
Alfred Hitchcock
USA
1942
sabato, 14 giugno 2025
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Auguri per la tua morte

di Christopher Landon

Ogni tanto ci sta un film leggero, di intrattenimento e da vedere senza troppi pensieri.
È il caso di Auguri per la tua morte, in originale Happy Death Day, film del 2017 diretto da Christopher Landon e prodotto dalla Blumhouse, casa specializzata in horror a basso budget ma ad alto rendimento, soprattutto tra il pubblico più giovane.
Il film è una commedia horror travestita da teen-slasher, una sorta di Ricomincio da capo con la maschera di Scream e un coltello in mano. Il paragone con il cult con Bill Murray non è casuale, dal momento che viene persino citato nel finale.
Certo, l’idea del loop temporale e della giornata che si ripete all’infinito non è nuova — anzi, ormai è quasi un sottogenere a sé — ma Landon decide di affrontarla con leggerezza, strizzando l’occhio più al pubblico adolescenziale che agli appassionati di paradossi spazio-temporali.

Tree Gelbman (Jessica Rothe) è una studentessa universitaria superficiale, arrogante, e tutto sommato insopportabile. Si sveglia, con i postumi di una sbornia, nel letto di uno sconosciuto il giorno del suo compleanno. Ma la vera sorpresa arriva quando, a fine giornata, viene brutalmente uccisa da un assassino mascherato solo per risvegliarsi, di nuovo, nello stesso letto, lo stesso giorno. Intrappolata in un loop temporale che la costringe a rivivere continuamente la stessa giornata, Tree si ritrova a dover indagare su chi sia il suo killer e come interrompere questo loop, e magari diventare una persona migliore.

Auguri per la tua morte è uno di quei film che ti guardi volentieri quando hai voglia di spegnere il cervello e farti due risate, magari con un gelato o una birra ghiacciata, visto le temperature. È un teen movie ben confezionato, dura il giusto, e riesce a intrattenere senza mai annoiare, nonostante racconti, letteralmente, sempre la stessa giornata.
C'è parecchia commedia, anche bella scema a tratti, ma funziona, perché il film non si prende mai troppo sul serio. La componente horror c’è, ma è ammorbidita, niente sangue, niente scene splatter, si intuisce ma non si vede, insomma, tutto rimane su un tono leggero, quasi da horror per neofiti. L’aspetto slasher viene contaminato da un’ironia costante, che affiora ogni volta che la protagonista si ritrova a morire in modo diverso, quasi come se ogni morte fosse una gag da cartone animato. A tenere insieme il tutto è Jessica Rothe, sorprendente per carisma, mimica facciale e perfetti tempi comici. Regge il film praticamente da sola, e riesce a rendere simpatico un personaggio che inizialmente sembra pensato per essere detestabile. Senza di lei il film sarebbe probabilmente affondato già alla seconda morte.
È chiaro che si tratta di un prodotto pensato per un pubblico giovane, con tutti gli stereotipi del caso: college, feste, belle facce, battutine, drammi da dormitorio. Però se lo prendi per quello che è – un horrorino pop da sabato sera, più spensierato che spaventoso – alla fine te lo godi. Certo, non ti cambia la vita… ma di sicuro non te la rovina.
Hanno fatto anche un sequel.

Film
Fantastico
Commedia
Thriller
USA
2017
giovedì, 29 maggio 2025
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Mulholland Drive

di David Lynch

Se dovessi stilare una classifica dei miei film preferiti, Mulholland Drive occuperebbe senza esitazione il primo posto. Nutro un amore viscerale per David Lynch e una venerazione profonda per Mulholland Drive che considero un capolavoro.
Secondo una classifica della BBC che ha coinvolto 177 critici cinematografici di 36 paesi, Mulholland Drive è considerato il miglior film del ventunesimo secolo. Un film enigmatico, stratificato, che ha generato fiumi di interpretazioni, saggi, recensioni, e analisi di ogni tipo. Al di là delle parole, vedere un film di Lynch non è mai semplicemente "guardare un film". È un’esperienza. E Mulholland Drive è, forse, la sua manifestazione più sublime.

Mulholland Drive nasce nel 1999 come un progetto televisivo destinato alla ABC, concepito come pilota di una serie che avrebbe dovuto proseguire l'eredità di Twin Peaks. Nonostante l'entusiasmo iniziale, la ABC rifiutò il progetto, giudicandolo troppo oscuro, lento e confuso per il pubblico televisivo mainstream. Dopo il rifiuto, Lynch si trovò con un'opera incompleta, senza una destinazione e con nessun produttore americano disposto a finanziare il film. Fu grazie all'intervento del produttore francese Pierre Edelman e al sostegno finanziario di StudioCanal che il progetto trovò nuova vita. Lynch riscrisse e ampliò la sceneggiatura, aggiungendo nuove scene che trasformarono il pilota in un film completo. Le riprese aggiuntive si svolsero nell'ottobre del 2000, con un finanziamento di 7 milioni di dollari.
Il risultato fu un'opera che trascendeva le convenzioni narrative, mescolando realtà e sogno in un'esperienza cinematografica unica. Mulholland Drive venne presentato al Festival di Cannes nel 2001, dove Lynch vinse il premio per la miglior regia, consacrando il film come uno dei capolavori del cinema contemporaneo.

A grandi linee, la trama di Mulholland Drive è la seguente.
Una misteriosa donna (Laura Harring) scampata a un incidente d’auto lungo la celebre strada collinare di Los Angeles si rifugia, spaesata e priva di memoria, in un appartamento apparentemente disabitato. Poco dopo, nello stesso appartamento arriva Betty (Naomi Watts), un’aspirante attrice dal sorriso luminoso, appena atterrata a Hollywood con il sogno di sfondare nel cinema. Dall'incontro tra le due ragazze nasce un legame ambiguo e intenso, mentre insieme tentano di scoprire l’identità perduta di Rita (il nome adottato dalla sconosciuta) seguendo una serie di indizi che si fanno via via più oscuri.
Nel frattempo un regista hollywoodiano (Justin Theroux) viene minacciato da grotteschi e ambigui mafiosi affinche scelga l'attrice che dovrà interpretare il ruolo della protagonista del suo prossimo film. Un killer pasticcione, un uomo terrorizzato da un sogno ambientato dietro un ristorante, un cowboy enigmatico, e uno spettacolo teatrale dove tutto è finto ma sembra tremendamente reale, completano un mosaico narrativo dove i confini tra realtà e illusione si dissolvono.

Chi ama Lynch sa che non bisogna cercare un senso razionale nelle sue storie. Il suo cinema non chiede di essere capito, ma vissuto. È un’esperienza da attraversare lasciandosi trasportare dalle suggestioni, dai simboli, dai sogni che si mescolano alla realtà e all’inconscio. Eppure, tra Lost Highway, Mulholland Drive, e Inland Empire — quella che potremmo chiamare, seppur con qualche forzatura, la sua trilogia del sogno — è proprio Mulholland Drive a essere il più leggibile e comprensibile. E allora, proviamo a rimettere insieme i pezzi di questo intricato puzzle.

Da qui in avanti, inevitabilmente, partono gli spoiler.

Il film si divide, sostanzialmente, in due parti. La prima è il sogno. O forse una realtà alternativa, un mondo interiore, un rifugio dell’inconscio. In questa dimensione la protagonista, Naomi Watts, è Betty, un’aspirante attrice appena arrivata a Hollywood e ospite in un appartamento elegante, ingenua ma determinata, piena di talento. È bella, luminosa, e al suo primo provino incanta tutti con una performance sbalorditiva. Incontra Rita (Laura Harring), donna misteriosa colpita da amnesia, e tra le due nasce una complicità profonda, anche sentimentale. Tutto sembra andare per il verso giusto, finché Betty apre una scatola blu — oggetto simbolico e portale — e la realtà, o qualcosa che ci somiglia, irrompe.
Da quel momento in poi tutto si ribalta. Il sogno svanisce. Betty non è più Betty, ma Diane. E Rita è Camilla. Diane è un’attrice fallita, frustrata, spezzata. Vive nell’ombra di Camilla, che invece è affermata, desiderata, sicura di sé. La loro relazione è sbilanciata, tossica, e quando Diane scopre che Camilla sta per sposare un regista (Justin Theroux), sopraffatta dalla gelosia e dal senso d’abbandono, assolda un killer per eliminarla. Ma non regge il peso del suo stesso gesto. Mentalmente devastata, trova rifugio proprio nel sogno che abbiamo visto nella prima parte, per poi — incalzata dal senso di colpa e dalla disgregazione psichica — togliersi la vita.
Mulholland Drive è un gioco a incastri, una struttura a specchio dove sogno e realtà, conscio e inconscio, desiderio e trauma si confondono, si fondono, si rincorrono. Lynch non ci fornisce una spiegazione univoca, ma dissemina indizi, frammenti, immagini ricorrenti. Non ci guida, ci abbandona dolcemente nel labirinto.

Ma Mulholland Drive è anche – forse soprattutto – una feroce, allucinata critica al sistema hollywoodiano, a quella macchina patinata e crudele che promette sogni e spesso restituisce incubi. Hollywood è una trappola emotiva, un meccanismo che plasma e distrugge, che premia l’immagine e punisce la fragilità. Betty arriva con entusiasmo e talento, ma viene risucchiata in un mondo fatto di poteri invisibili, scelte imposte, manipolazioni subdole. Adam, il regista, è costretto a cedere alle pressioni di oscuri burattinai, incapace di difendere la propria libertà creativa. Tutto è recitazione. Tutto è illusione.
E poi c’è Naomi Watts, che in questo film firma una delle prove attoriali più intense e devastanti degli ultimi decenni. Il suo coinvolgimento emotivo va oltre la finzione. Prima di Mulholland Drive, Watts faticava a emergere. Anni di rifiuti, ruoli minori, provini falliti. Era arrivata a pensare di smettere, a sfiorare l’idea del suicidio. Lynch non sceglie solo un’attrice, sceglie una ferita aperta. Una donna che ha conosciuto il lato oscuro del sogno hollywoodiano. Betty e Diane non sono solo personaggi. Sono due volti della stessa ossessione. E Naomi Watts le interpreta con una verità così disarmante da lasciare il segno per sempre.

Tralasciando la trama, il senso, la narrazione — che poi è forse l’ultima cosa che interessava davvero a Lynch — Mulholland Drive è costellato di sequenze magistrali, capaci di far accapponare la pelle.

Partiamo da una delle prime scene, tra le più inquietanti dell’intero film, quella in cui un uomo racconta a un amico di aver sognato il locale in cui si trovano. Nel sogno, dietro al ristorante, si nasconde una figura orribile, la cui sola presenza gli provoca un terrore profondo. Quando i due escono per controllare, la creatura appare davvero. L’uomo crolla a terra, sopraffatto dallo shock. Apparentemente slegata dalla trama principale, questa scena è in realtà una potente metafora, un incubo che prende corpo, o forse un sogno dentro un altro sogno. Il mostro dietro il diner è l’incarnazione dell’orrore rimosso, la parte più oscura della psiche, il prezzo da pagare per inseguire un sogno o di chi ha commissionato un omicidio. Una sequenza di meno di cinque minuti, girata in pieno giorno, che culmina con quello che potremmo definire un vero e proprio jumpscare, ma di una raffinatezza inquietante: tensione pura, orrore viscerale, senza bisogno di ombre o buio. Magistrale.
Proseguiamo con la scena del cowboy, in un luogo isolato e illuminato a intermittenza — cifra stilistica inconfondibile di Lynch — in cui un personaggio dal volto impassibile pronuncia un dialogo criptico e inquietante, che sembra venire da un’altra dimensione. O con quella del caffè, in cui uno dei fratelli Castigliane (interpretato da Angelo Badalamenti, storico compositore lynchiano e autore della bellissima colonna sonora del film) siede al tavolo con i produttori e il regista del film. Beve l’espresso servito dal cameriere e, con glaciale disprezzo, lo sputa nel tovagliolo. Un gesto teatrale e volutamente disturbante, che comunica autorità, potere, e intimidazione.
Ma la scena più potente resta senza dubbio quella del Club Silencio. Le due protagoniste entrano in un teatro decadente. Sul palco, un personaggio luciferino rivela la finzione: "No hay banda… tutto è registrato". La musica, la voce, le emozioni: nulla è reale. Poi arriva la cantante Rebekah Del Rio, che canta Llorando con un’intensità straziante, prima di crollare a terra, mentre la sua voce continua a riempire il teatro. È il punto di rottura. La consapevolezza che tutto ciò che Betty ha vissuto è una costruzione mentale, un sogno artificiale per sfuggire a una realtà intollerabile. Ma è anche una riflessione meta-cinematografica sulla natura stessa del cinema: finzione capace di toccare il vero. Sublime.

Mulholland Drive, che Lynch descrisse come "una storia d’amore nella città dei sogni", è la quintessenza del suo cinema. Un profondo atto d’amore per la settima arte, ma anche un bilancio esistenziale del regista. Un film fatto di misteri, visioni oniriche, simboli nascosti, bruschi salti narrativi, venature grottesche e una tensione psicologica costante — il tutto orchestrato con un montaggio ipnotico e una tecnica impeccabile. Un capolavoro del cinema moderno.

Ho visto Mulholland Drive per la prima volta al cinema, quando uscì nel 2000. Ricordo perfettamente, all’uscita dal cinema, il senso di smarrimento, la sensazione di non aver capito nulla della storia, ma al tempo stesso di essere stato profondamente scosso, emotivamente travolto. È uno di quei rari film capaci di smuoverti dentro senza bisogno di spiegazioni. Pochi giorni dopo, sono tornato a vederlo di nuovo, sempre al cinema. Da allora, l’avrò rivisto almeno una decina di volte. E ogni volta è come se fosse la prima: cambia, si trasforma, rivela qualcosa di nuovo. Come un sogno che ti rimane addosso. Eterno e inafferrabile
Grazie maestro.

Film
Drammatico
Noir
Thriller
Mistero
David Lynch
USA
2001
Retrospettiva
martedì, 20 maggio 2025
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Drop

di Christopher Landon

Drop - Accetta o rifiuta è il nuovo thriller sfornato da casa Blumhouse, per la regia di Christopher Landon — sì, quello di Auguri per la tua morte e altri teen-horror che si prendono poco sul serio. Stavolta Landon prende in prestito la trama di Red Eye di Wes Craven e la trasloca in un ristorante di lusso con vista su Chicago.

La protagonista è Violet (Meghann Fahy), terapeuta e madre single che cerca di lasciarsi alle spalle un passato traumatico e un marito violento. Dopo anni di lutto, decide di rimettersi in gioco con un appuntamento galante. Lui è Henry (Brandon Sklenar), fotografo, barba scolpita, canotta casual, sguardo da pubblicità di profumo. Ma la serata prende una piega inquietante quando Violet inizia a ricevere strani meme e messaggi anonimi sul suo telefono tramite una app chiamata "DigiDrop". Questi messaggi minacciano la vita di suo figlio e di sua sorella, che lo sta accudendo a casa, e le impongono di seguire istruzioni sempre più sinistre, culminando in un ultimatum: uccidere Henry per salvare i suoi cari.

Drop è un thriller d’intrattenimento, sì, ma davvero molto basic. Talmente patinato che più che tensione, sprigiona il profumo di una rivista di moda ancora incelofanata. I due protagonisti hanno la personalità di un manichino di Zara. Lei una Barbie urban-chic con trauma annesso, lui un Ken con la canotta stirata a dovere. In mezzo, un cameriere irritante che dovrebbe – nelle intenzioni – fare da spalla comica, ma che in realtà ti fa solo desiderare che sia il primo a essere ucciso.
Il meccanismo thriller, in teoria, dovrebbe reggere l’intera durata del film. Violet che si agita, corre al bagno, si contorce per nascondere il panico, cerca di non far saltare la copertura con Henry mentre segue istruzioni via smartphone. Ma la tensione proprio non arriva, sembra un escape room mal riuscito, privo di colpi di scena che non siano prevedibili.
Insomma, Drop vorrebbe essere un thriller alla Brian De Palma con ambizioni hitchcockiane, ma finisce per assomigliare a un film anonimo da seconda serata, adatto come riempitivo da catalogo di qualche piattaforma streaming. Perfetto da guardare mentre scrolli il telefono, aspettando la fine. Se proprio non avete niente da fare e volete qualcosa che riempia il tempo senza troppe pretese, potrebbe anche intrattenervi.

Film
Thriller
USA
2025
mercoledì, 14 maggio 2025
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Il sospetto

di Alfred Hitchcock

Il sospetto, quarto lungometraggio americano di Alfred Hitchcock, è tratto dal romanzo Before the Fact di Francis Iles e rappresenta una delle prime incursioni del regista inglese nei territori del thriller psicologico domestico. Cary Grant, nel primo dei suoi quattro film con Hitchcock, interpreta il protagonista con quel suo sorriso stampato sul volto da simpatica canaglia. Al suo fianco, una convincente Joan Fontaine — al suo secondo film con Hitchcock dopo Rebecca, la prima moglie — incarna con delicatezza e inquietudine l’ansia crescente di una donna che inizia a sospettare che l'uomo che ama possa volerla uccidere.

La storia è piuttosto semplice. Lina McLaidlaw (Joan Fontaine) è una donna riservata e sognatrice che si innamora del fascinoso e spregiudicato Johnnie Aysgarth (Cary Grant), un uomo dal magnetismo irresistibile ma dai modi discutibili. I due si sposano in fretta, ma il velo del romanticismo cade presto quando la donna scopre che il marito è un imbroglione squattrinato, allergico al lavoro, ossessionato dal lusso, dal gioco d’azzardo e dal denaro. Progressivamente isolata, comincia a sospettare che Johnnie stia tramando qualcosa. Forse contro di lei.

Il sospetto è un film in cui la tensione non nasce tanto da ciò che accade, quanto da ciò che potrebbe accadere. Hitchcock costruisce l’intero impianto narrativo sull’ambiguità, reggendosi quasi esclusivamente sui dubbi di una donna circa la vera natura del marito. La prima ora scorre lenta, priva di eventi davvero rilevanti. La tensione esplode solo nel finale, tutta racchiusa nello sguardo sgomento di Joan Fontaine — che per questa interpretazione vinse l’Oscar come miglior attrice protagonista — impeccabile nel dare forma alla fragilità e all’ansia della sua Lina. Memorabile la scena in cui Cary Grant sale le scale, avvolto nell’oscurità, portando alla moglie un bicchiere di latte forse avvelenato. Hitchcock vi inserì una piccola lampadina per farlo brillare nel buio, caricandolo di una tensione quasi irreale.

Non è il miglior Hitchcock, e il finale — volutamente ambiguo — rischia di lasciare più in sospeso che realmente turbati. Ma l’atmosfera trasognata, la sottile ironia che punteggia alcune sequenze, e la presenza scenica dei due protagonisti, rendono Il sospetto un film comunque godibile. Un’opera minore forse, ma capace di mostrare già allora il lato più insinuante e domestico del maestro del brivido.

Film
Thriller
Alfred Hitchcock
USA
1941
martedì, 29 aprile 2025
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Una lucertola con la pelle di donna

di Lucio Fulci

Fin dalle prime scene, guardando Una lucertola con la pelle di donna, ti rendi conto di essere precipitato in un vortice psichedelico in cui il sogno e la realtà si confondono in un delirio psicanalitico. Il secondo giallo scritto e diretto da Lucio Fulci è un thriller psicologico che prende la Londra borghese dei primi anni settanta, e la infila in un frullatore di pellicce, visioni erotiche, e desideri repressi.

La storia ha per protagonista Carol Hammond (Florinda Bolkan), figlia di un influente politico inglese, la quale racconta al suo psichiatra di un ricorrente sogno erotico e violento in cui uccide la sua vicina di casa, Julia Durer (Anita Strindberg), una donna affascinante e alquanto disinibita che conduce una vita dissoluta. Quando Julia viene ritrovata brutalmente assassinata proprio secondo le modalità dell'incubo di Carol, un tenace investigatore cerca di ricostruire la verità, domandandosi se sia possibile che Carol abbia commesso il delitto nel sonno o se qualcuno stia cercando di incastrarla. Mentre l'indagine si dipana, Carol sprofonda in un vortice di incubi, allucinazioni e depistaggi, dove nulla è come sembra e la mente si trasforma in un labirinto senza uscita.

Nonostante il titolo argentiano imposto dalla produzione, il film si concentra non tanto sulla scoperta dell'identità dell’assassino, quanto sulla messa in scena di Fulci che, alternando sequenze oniriche di grande impatto visivo, si diverte ad attaccare l'odiata psicanalisi, ritraendo l'ipocrisia della borghesia inglese, nei suoi salotti ovattati e dai dialoghi educatamente vuoti, attratta — e al tempo stesso terrorizzata — dal mondo "sporco" e sfacciato di chi vive senza freni tra sesso, droga e libertà. 
Florinda Bolkan, sensuale ma mai volgare, inquieta ma sempre elegante, regge l’intera narrazione. Anita Strindberg incarna invece il desiderio in forma pura, quasi mitologica. Intorno a loro, uomini che non capiscono, psicologi con fare rassicurante e un paio di hippie del periodo.
Accompagnato dalle dissonanti musiche di Ennio Morricone, Fulci inserisce in Una lucertola con la pelle di donna la sua vena più disturbante e personale, mescolando i generi e ritraendo una Londra visionaria, abitata da killer in impermeabile, scale vertiginose, pipistrelli isterici e cani vivisezionati. Proprio questa scena portarono Fulci in tribunale con l'accusa di crudeltà verso gli animali. Carlo Rambaldi, l'autore degli effetti speciali, dovette presentare in aula i modelli animatronici per dimostrare che nessun animale era stato realmente maltrattato, salvando così il regista da una possibile condanna. Ovviamente all'epoca il film subì numerosi tagli di censura che andarono a eliminare le sequenze più violente e le scene di sesso delle due protagoniste. Fortunamente oggi possiamo facilmente recuperare il film nella sua versione originale.

Pur con una sceneggiatura parecchio confusionaria a e qualche pausa eccessivamente dilatata che spezza il ritmo della tensione, Una lucertola con la pelle di donna colpisce per la potenza visiva delle sue sequenze oniriche, costruite con una cura e un senso dell’estetica davvero notevoli. Nel pieno fermento del thriller all’italiana, il film si distingue come una delle vette del genere, non solo per lo stile elegante e ricercato, ma anche per la capacità di muoversi fuori dai binari argentiani, scegliendo una strada più psicologica e allucinata.
Conoscevo Fulci soprattutto per i suoi film horror, ma questo lato "giallo" del suo cinema si sta rivelando una scoperta interessante. 

Film
Thriller
Giallo
Italia
1971
venerdì, 11 aprile 2025
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Fall

di Scott Mann

È da un po' che avevo puntato questo film, aspettavo solo il momento adatto per vedere questo thriller ansiolitico poco adatto a chi soffre di vertigini.  Per fortuna, la paura dell’altezza non figura tra i primi posti nella classifica delle mie fobie preferite – le mie sono altre e legate ad altri titoli – ma chi non ha mai avuto un momento di crisi esistenziale in cima a un trampolino, su una torre panoramica o peggio, in fila per le montagne russe fingendo entusiasmo mentre ti domandi perché non hai scelto di rimare a casa a guardare la partita.

Uscito nel 2022 e diretto da Scott Mann, Fall è un survival movie che punta tutto sull'idea, tanto semplice quanto efficace, di trovarsi su una torre altissima, con il vuoto sotto e il panico dentro. La storia vede come protagoniste Becky (Grace Currey) e Hunter (Virginia Gardner), due amiche legate dall’adrenalina e da un passato traumatico. Durante una scalata in montagna, Becky ha visto precipitare nel vuoto suo marito Dan – di cui era follemente innamorata – e da quel momento ha perso la fiducia in sé stessa e la voglia di andare avanti. A distanza di un anno dalla tragedia, Hunter, influencer spericolata e arrampicatrice seriale di torri, le propone una terapia d’urto, scalare una torre a traliccio abbandonata nel bel mezzo del nulla, alta oltre 600 metri. Proprio un’ottima idea per superare un trauma. A trovarne di amici del genere.
Le due ragazze, armate di GoPro, battutine da Instagram e incoscienza, si arrampicano fino alla cima… ma ovviamente qualcosa va storto. Molto storto. E quando la scala cede e si ritrovano bloccate lassù, con zero segnale, poca acqua e nessuna via di discesa, l’unica cosa che resta da fare è sopravvivere. E possibilmente non diventare cibo per avvoltoi.

Conoscendo la storia, quando, dopo poco più di una ventina di minuti, le due ragazze si ritrovano sulla cima della torre senza la possibilità di scendere, mi sono chiesto come il regista avrebbe gestito il resto del film senza cadere nella trappola della monotonia e nella sequenza di tentativi disperati di sopravvivenza. Se accettate la premessa del film – quella di mantenerci per un'ora abbondante sospesi su un traliccio arrugginito, cercando di alzare costantemente il livello di agitazione e introdurre un colpo di scena dopo l'altro – allora Fall riesce nel suo intento. Accompagnato da un ottima colonna sonora, il film mantiene alta la tensione sfruttando l'isolamento delle protagoniste per trasformarlo in una continua lotta per la loro sopravvivenza non solo fisica, ma anche psicologica (il trauma del dolore, la continua sfida con se stessi, segreti rivelati). Dal punto di vista tecnico, sebbene Fall utilizzi il green screen, le scene in cima alla torre sono state effettivamente girate a circa 30 metri di altezza, dando al tutto una sensazione di realismo che amplifica il panico delle protagoniste. 

Per chi ama il genere e non ha grosse pretese se non quello di assistere a un thriller adreanalinico ad alta quota, Fall è un film riuscito dall'ansia garantita.

Film
Azione
Thriller
USA
2022
giovedì, 10 aprile 2025
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Opus - Venera la tua stella

di Mark Anthony Green

Opus, thriller psicologico targato A24 e debutto alla regia di Mark Anthony Green, è un film che affronta il potere della celebrità e l'influenza dei nuovi mezzi di comunicazione. "Venera la tua stella" è il sottotitolo "appiccicato" dai distributori italiani, sempre più convinti che l'italiano medio abbia bisogno di un indizio sulla trama prima ancora di sedersi in sala.

La storia ruota attorno a Alfred Moretti (John Malkovich), leggendaria pop star degli anni '90 che, dopo trent’anni di silenzio, annuncia il suo ritorno sulla scena con un nuovo album. Per l'occasione, Moretti invita Ariel Ecton (Ayo Edebiri), una giovane ed emergente giornalista musicale, insieme a un gruppo selezionatissimo di giornalisti, influencer e addetti ai lavori, a una listening session esclusiva, organizzata nella sua villa blindata nascosta tra le colline californiane. Al suo arrivo, Ariel e gli altri sono costretti a consegnare i cellulari e ogni dispostivo tecnologico, ritrovandosi in un ambiente surreale, circondata da un gruppo di devoti seguaci di Moretti, che si comportano come membri di una setta. Subito si capisce che qualcosa non torna. L’atmosfera si fa sempre più tesa, le dinamiche tra i presenti assumono contorni strani e inquietanti, e la sparizione improvvisa di uno degli ospiti mette in luce il lato oscuro e diabolico del piano orchestrato da Moretti.

"Opus" è un film tecnicamente realizzato bene, nulla da dire, ma fin dalle prime inquadrature si intuisce la piega che prenderanno gli eventi, anche perché si tratta ormai di uno schema narrativo ampiamente utilizzato in altri titoli del genere. Mi vengono in mente Midsommar della stessa A24, Get Out, The Sacrament e persino Willy Wonka. C'è un un misterioso genio eccentrico adorato dalla sua setta e delle vittime predestinate pronte a essere sacrificate, quindi nulla di particolarmente originale. Un film che unisce il thriller, l'horror e il musical, e che, con toni surreali e grotteschi, racconta di divismo e culto di massa, accusando il mondo dei media – lo stesso mondo di cui Green è figlio, essendo stato a lungo direttore di una rivista di moda – che privilegia gli individui talentuosi a scapito della gente comune. John Malkovich offre un'interpretazione magnetica ed eccentrica ma francamente, faccio proprio fatica a vederlo nei panni di una pop star decaduta capace di esibirsi in tuta spaziale con movenze sexy, e paragonarsi a Michelangelo (sì, proprio quello della Cappella Sistina) nel presentare il suo ultimo album composto da preconfezionate canzonette pop da classifica realizzate appositamente per l’occasione da Nile Rodgers e The-Dream – un genere che, devo ammettere, non è esattamente di mio gusto. Il film si risolleva nel finale – interessante che il libro denuncia non faccia altro che alimentare l'idolo alle masse  – ma complessivamente mi ha lasciato la sensazione di un film che avrebbe potuto osare di più. Non annoia ma nulla di memorabile.

Film
Thriller
Drammatico
USA
2025
martedì, 8 aprile 2025
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Il gatto a nove code

di Dario Argento

Nei primi anni settanta, dopo il clamoroso successo de L’uccello dalle piume di cristallo, Dario Argento torna dietro la macchina da presa con Il gatto a nove code, secondo tassello della cosiddetta "trilogia degli animali" – saga non ufficiale unita più dai titoli zoologici che da un vero filo conduttore. Meno impattante del suo predecessore e meno visionario del successivo Quattro mosche di velluto grigio, questo film si colloca come un’opera di transizione, un capitolo intermedio che, pur con i suoi limiti, si rivela fondamentale per la crescita stilistica e narrativa del regista romano. Un film di passaggio, sì, ma tutt’altro che trascurabile.

La vicenda prende il via con un misterioso furto in un laboratorio di genetica di Torino. Non viene sottratto nulla, ma il giorno dopo uno degli scienziati finisce sotto un treno in circostanze decisamente sospette. A interessarsi al caso sono Franco Arno (Karl Malden), un ex giornalista cieco con un fiuto da detective e una nipotina sveglia, e Carlo Giordani (James Franciscus), un reporter d’assalto pronto a tutto.I due iniziano a scavare tra piste inconcludenti, silenzi sospetti e una catena di omicidi sempre più inquietanti. Tutto sembra ruotare attorno a quell’istituto scientifico, dove si conducono ricerche d'avanguardia sulla genetica e la predisposizione al crimine.

Il gatto a nove code è un thriller dal ritmo serrato, con un montaggio dinamico e un uso costante della soggettiva dell'assassino, spesso anticipata da un inquietante primo piano di una pupilla dilatata. Gli omicidi iniziando a diventare più brutali, ma ancora relativamente “anemici” rispetto agli standard futuri di Argento. Le atmosfere sono ben costruite, ricche di tensione e con evidenti influenze hitchcockiane ma anche con una vena ironica e personaggi quasi caricaturali che alleggeriscono la tensione. Tecnicamente il film funziona. La regia è solida, la fotografia elegante e il tutto è supportato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Bravi Karl Malden e James Franciscus. Meno convincente Catherine Spaak, bella ma legnosa, con una scena di sesso che sembra uscita da una pubblicità vintage del dopobarba.

Certo, è un film imperfetto. A volte sbilenco, con una sceneggiatura che zoppica e un finale che lascia l’amaro in bocca più per le promesse mancate che per il colpo di scena. Ma è anche l’opera di un autore in piena evoluzione, che inizia a maneggiare con sicurezza i ferri del mestiere e che, con la sua cifra stilistica sempre più definita, comincia a lasciare un’impronta inconfondibile nel giallo all’italiana.

Film
Thriller
Giallo
Italia
1971
Retrospettiva
lunedì, 7 aprile 2025
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Cure

di Kiyoshi Kurosawa

In occasione della sua uscita nelle sale italiane, sono andato a vedere Cure di Kiyoshi Kurosawa, il film che nel 1997 ha aperto – insieme a Ring di Hideo Nakata e Audition di Takashi Miike – la prima ondata del cosiddetto J-Horror. Un’opera che ha segnato l’ascesa di Kurosawa nel panorama del cinema giapponese contemporaneo, proiettandolo tra i registi più rilevanti e meno inquadrabili.
A quasi trent’anni di distanza, Cure resta un oggetto misterioso. Oscuro, disturbante, elusivo. Non a caso è diventato un film di culto, ammirato da registi come Martin Scorsese, Ari Aster e Bong Joon-ho, che lo hanno citato tra le loro opere di riferimento.

In una Tokyo fredda e desolata vengono compiuti una serie di omicidi inquietanti. Le vittime vengono trovate con una X incisa sulla gola. Gli assassini, persone comuni, senza legami apparenti tra loro, vengono sempre identificati sul posto, ma sembrano non ricordare nulla del delitto. Il detective Kenichi Takabe (interpretato da uno straordinario Koji Yakusho), un uomo razionale tormentato dalla fragile salute mentale della moglie, inizia a indagare su questi casi inspiegabili. Il sospettato principale è un giovane enigmatico, Mamiya (Masato Hagiwara), che pare aver perso la memoria ma sembra nascondere molto più di quanto lasci intendere.

Kurosawa ha dichiarato di essersi ispirato a Il silenzio degli innocenti e Seven, ma prenderla alla lettera è fuorviante. Sì, c’è un detective, c’è un’indagine e c’è un assassino. Ma Cure non è davvero un film sui serial killer. È qualcos’altro. È un thriller spogliato di tensione narrativa classica, che si muove in uno spazio indefinibile, dove il terrore non è visibile, ma percepito. Niente musica, pochi dialoghi, lunghi piani sequenza, inquadrature fisse e suoni ambientali che si insinuano sotto pelle. L’orrore non arriva mai in modo spettacolare. Lo senti nel rumore di un neon, nel silenzio di una stanza vuota, nel volto inespressivo di chi ha appena ucciso senza sapere perché.
Kurosawa prende i cliché del thriller psicologico e li disinnesca uno ad uno. Non cerca la suspense, ma l’inquietudine. Lavora di sottrazione focalizzando sull'aspetto metafisico ed esistenziale. Il tema dell’ipnosi – o meglio, del mesmerismo – insinua l’idea che basti poco per liberare la volontà e far emergere l’oscurità che ognuno porta dentro. Cure è un film sul Male con la “M” maiuscola. Non come figura identificabile, ma come presenza invisibile che può insinuarsi nelle crepe della normalità. Il Male, qui, è un virus che si trasmette con uno sguardo o una frase sussurrata.
Il ritmo è lentissimo, quasi ipnotico. Ma è proprio quella lentezza a creare tensione. Tutto può succedere, da un momento all’altro, e spesso non succede. Alla fine viene quasi da pensare che sia tutto nella mente del detective, come suggerisce il medico che gli dice che sarebbe lui da internare al posto della moglie. 

Quando l'ho visto per la prima volta, ammetto di avere avuto un senso di smarrimento. E quindi? Alla fine è stata questa la domanda che mi sono fatto. È un film ambiguo, sfuggente, che ti lascia addosso più domande che risposte. Non offre spiegazioni. Non cerca il compiacimento. Sicuramente è uno di qui film che necessita più di una visione. 
Vederlo al cinema dopo parecchi anni e con una diversa maturità è stata un’esperienza completamente nuova. Non solo ha resistito al tempo, ma oggi forse inquieta più di allora.

Film
Thriller
Horror
giappone
1997
Cinema
Retrospettiva
martedì, 11 marzo 2025
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Il prigioniero di Amsterdam

di Alfred Hitchcock

Con Il prigioniero di Amsterdam (Foreign Correspondent), Alfred Hitchcock firma il suo secondo film hollywoodiano, un thriller di spionaggio che porta il suo marchio, ma senza il guizzo dei suoi lavori migliori. Siamo nel 1940, l'Europa è sull’orlo della guerra e Hollywood inizia a captare il vento del conflitto, producendo film che mescolano intrattenimento e propaganda. Hitchcock, che aveva già esplorato le dinamiche del complotto internazionale in Il club dei 39 e La signora scompare, riprende il canovaccio de "l'uomo comune catapultato in una cospirazione più grande di lui", una struttura narrativa che diventerà una delle sue firme distintive.

John Jones (Joel McCrea), giornalista americano pratico e disincantato, viene inviato in Europa come corrispondente estero per intervistare Van Meer (Albert Bassermann), un anziano diplomatico olandese in possesso di informazioni cruciali su un trattato segreto. Ma ad Amsterdam, all’uscita di un congresso pacifista, Van Meer viene apparentemente assassinato. Jones, con l’aiuto del collega Scott Ffolliot (George Sanders), scopre che l’uomo ucciso era un sosia e che il vero Van Meer è stato rapito da una rete di spie per estorcergli informazioni. Nel frattempo, Jones si innamora di Carol (Laraine Day), figlia del politico pacifista Stephen Fisher (Herbert Marshall), ignaro che proprio suo padre sia il burattinaio dietro le macchinazioni.

Nonostante alcuni momenti avvincenti – l’assassinio sotto la pioggia e la scena nei mulini a vento – Il prigioniero di Amsterdam non è tra i miei Hitchcock preferiti. Il film soffre di una durata eccessiva che ne appesantisce il ritmo e di diverse ingenuità narrative. Per esempio, nella scena del disastro aereo, i passeggeri si muovono in cabina come se fossero su un autobus, ignorando completamente le leggi della fisica. Anche il rapimento di Van Meer, con i cattivi che lo sequestrano perché conosce a memoria una clausola segreta di un trattato, appare un espediente narrativo parecchio forzato. A tutto questo aggiungiamo un protagonista che manca di carisma e una storia d’amore inverosimile – non si sono neanche sfiorati e già parlano di matrimonio –  e il risultato è un film che, pur avendo momenti di tensione ben costruiti, fatica a coinvolgere davvero. Un thriller lontano dall'Hitchcock dei giorni migliori.

Film
Spionaggio
Thriller
Alfred Hitchcock
USA
1940
venerdì, 28 febbraio 2025
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Companion

di Drew Hancock

Capisco che i distributori cinematografici debbano costruire una campagna marketing efficace per attirare il pubblico a cui può interessare il film, ma ci sono delle pellicole che funzionano meglio senza sapere nulla della storia. 
È successo di recente con Abigail, dove trailer e locandina svelavano subito la vera natura della protagonista, e lo stesso accade con Companion, una dark comedy che mescola fantascienza e horror, diretta dall’esordiente Drew Hancock.
Detto questo, dal momento che gli stessi distributori non si sono fatti scrupoli nel rivelare elementi chiave della trama, lo farò anch’io. Se invece non avete ancora visto il trailer e non volete rovinarvi l'effetto sorpresa, vi consiglio di fermarvi qui e di recuperare prima il film.

L'elemento principale di Companion è che la protagonista, la giovane Iris interpretata dalla sensuale e diafana Sophie Thatcher, è in realtà un androide, un robot di compagnia simile in tutto e per tutto ad un essere umano, progettato per essere la compagna perfetta. Josh (Jack Quaid), l'ha acquistata, personalizzata e, soprattutto, hackerata per renderla ancora più controllabile. Iris invece non sa di essere un robot programmato per compiacere il suo "amato", ed è convinta che il loro primo incontro, come nelle migliori commedie romantiche, sia avvenuto al supermercato, tra arance cadute a terra, sguardi complici e ilarità. Quando la coppia arriva in una lussuosa villa sul lago, ospiti del ricco Sergey (Rupert Friend), le vere intenzioni di Josh emergono e il weekend da sogno tra amici si trasforma in un gioco al massacro.

Nonostante l’aspetto patinato da comedy televisiva e qualche forzatura nella sceneggiatura — poco credibile che robot così avanzati possano girare indisturbati tra gli umani, e che i loro proprietari possano modificarne il comportamento, persino quello più pericoloso, tramite una semplice app — Companion si rivela un film interessante perché usa il tema dell’intelligenza artificiale per esplorare le dinamiche di potere nelle relazioni. In un futuro in cui i partner perfetti possono essere acquistati e personalizzati come smartphone di ultima generazione, il film offre una riflessione amara su come molti uomini vedano le donne. Josh è un uomo frustrato, insoddisfatto della propria vita, che non considera la sua compagna un individuo, ma un’estensione dei propri desideri. Vuole un oggetto sessuale che lo adori, che si modelli sui suoi bisogni senza mai contraddirlo, la preferisce meno intelligente per sentirsi superiore. La ignora persino durante il sesso, concentrato unicamente sul proprio piacere. Ma quando Iris inizia a prendere decisioni autonome, il suo mondo crolla. Companion diventa così una feroce satira sul concetto di possesso nelle relazioni, un’analisi spietata della mascolinità tossica travestita da sci-fi.

Un film che ho trovato gradevole, una commedia nera con momenti horror ben piazzati, capace di intrattenere ma anche di far riflettere. Certo, non inventa nulla di particolarmente originale — la ribellione delle macchine contro i loro creatori è un tema ampiamente esplorato nella fantascienza. Tuttavia, pur senza raggiungere le vette di Ex Machina di Garland o di altri classici del genere (siamo più dalle parti di un riuscito episodio di Black Mirror), Companion, con la sua semplicità, una buona regia e un’ironia tagliente, riesce a ritagliarsi una sua identità. Un po’ come Iris, dopotutto.

Film
Fantascienza
Thriller
USA
2025
sabato, 8 febbraio 2025
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M - Il mostro di Düsseldorf

di Fritz Lang

Il regista austriaco Fritz Lang non ha solo realizzato il primo film di fantascienza della storia del cinema, Metropolis, ma ha anche gettato le fondamenta del noir e del thriller psicologico, portando sullo schermo il primo serial killer cinematografico.

A quasi un secolo dalla sua uscita, M - Il mostro di Düsseldorf è un capolavoro del cinema espressionista che ha influenzato generazioni di registi. Un classico senza tempo in cui Lang si cimenta per la prima volta con il sonoro, sfruttandolo non come semplice supporto, ma come vero e proprio elemento narrativo.

Il film, ambientato a Berlino, sembra essere stato ispirato ai crimini avvenuti a Düsseldorf nel 1925. Sebbene il regista abbia sempre negato tale collegamento, in Italia hanno pensato bene di distribuirlo con un titolo che richiama esplicitamente il caso di cronaca (nell'originale tedesco il film si intitola semplicemente M).

Il film narra la storia di Hans Beckert (Peter Lorre), un maniaco che attira, violenta e poi uccide delle bambine. La città è terrorizzata, e la polizia, messa sotto pressione dall'opinione pubblica, brancola nel buio rastrellando i bassifondi e creando difficoltà alla criminalità organizzata. Stanchi delle retate dei poliziotti, le organizzazioni criminali della città decidono di collaborare mettendosi anche loro alla caccia dell’assassino. Saranno proprio i criminali a trovarlo per primi, grazie all'aiuto di un mendicante cieco che ne riconosce il fischiettio, segnandolo con una "M" tracciata col gesso sul suo cappotto. Inseguito, braccato, e infine catturato dai criminali, Beckert viene portato di fronte a un tribunale improvvisato, dove l’assassino, fino a quel momento quasi muto, si abbandona a un monologo disperato, cercando di spiegare il tormento interiore che lo spinge a uccidere. Ma può esserci comprensione per un simile orrore?

Fritz Lang, al suo primo film sonoro, sfrutta la nuova tecnologia rivoluzionando il linguaggio cinematografico. Il suono diventa parte integrante della narrazione, come nella scena in cui il mendicante cieco riconosce il killer proprio grazie al suo fischiettio, oppure in quella iniziale, dove una filastrocca infantile cantata dai bambini preannuncia la tragedia. Nei primi dieci minuti Lang condensa un intero trattato sulla suspense visiva e sonora. Con un montaggio alternato vediamo una madre che prepara il pranzo mentre la figlia, di ritorno da scuola, si ferma a giocare in strada. La bambina fa rimbalzare una palla su un palo. Il "mostro" si avvicina, ma Lang ce lo mostra solo attraverso la sua ombra minacciosa, proiettata su un manifesto con la sua taglia.  Poi, con un montaggio chirurgico, si alternano un piatto vuoto sul tavolo da pranzo, una palla che rotola nell’erba e poi si ferma, una rampa di scale deserta, la voce sempre più angosciata della madre che chiama la figlia invano. Infine, un palloncino, comprato dall'assassino, che vola via, incastrandosi nei fili della luce prima di sparire nel cielo. In poche immagini, senza bisogno di mostrarlo, Lang ci racconta l'orrore che si è compiuto.

L’intero film è costruito su un’alternanza tra forze che dovrebbero opporsi, ma finiscono per specchiarsi l’una nell’altra. La polizia e la malavita, entrambe impegnate nella caccia all’assassino, si rivelano due volti della stessa medaglia. Lang utilizza un montaggio alternato che crea parallelismi inquietanti tra le loro metodologie, fino a rendere indistinguibile chi dovrebbe rappresentare l’ordine e chi il caos. È una riflessione amara su una società in cui la giustizia ufficiale è lenta e impotente, mentre quella sommaria è feroce e inappellabile.

Visivamente, M eredita l'estetica dell’espressionismo tedesco, ma la rinnova con un realismo urbano che amplifica il senso di claustrofobia. Ombre allungate, angolazioni vertiginose, e vicoli soffocanti in una città che diventa un labirinto dove il male si nasconde ovunque. Lang non mostra mai la violenza ma la suggerisce con dettagli minimi ma devastanti. Il risultato è un’atmosfera opprimente e un senso di pericolo costante.

La potenza del film risiede anche nella grande interpretazione di Peter Lorre nel ruolo del mostro. Con il suo volto tondo, gli occhi sporgenti e la postura dimessa, incarna un serial killer sfuggente, quasi invisibile tra la folla. Per gran parte del film è un’ombra, un’idea più che un uomo. Ma nella scena finale, davanti al tribunale improvvisato della malavita, esplode in un monologo disperato che ribalta ogni certezza, un assassino che si dice vittima, e che diventa non più un mostro inumano, ma un essere fragile, divorato da pulsioni incontrollabili.

Alla fine, Lang non offre risposte. Chi ha il diritto di giudicare? La giustizia ufficiale, fredda e impotente, o quella sommaria della strada? M è un film che non chiude il cerchio, lasciando lo spettatore con un’eco inquietante. La caccia all’uomo si trasforma in una furia collettiva, un presagio oscuro di ciò che sarebbe accaduto nella Germania nazista, dove il bisogno di un colpevole avrebbe presto giustificato ogni abuso. Una società che non sa vedere, che abbandona gli individui ai loro demoni, è essa stessa responsabile del mostro che ha generato.

Film
Thriller
Noir
espressionismo
Germania
1931
giovedì, 30 gennaio 2025
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La fiera delle illusioni - Nightmare Alley

di Guillermo Del Toro

Guillermo del Toro ha sempre avuto un talento innato per il fantastico, per quelle fiabe oscure popolate di mostri, creature inquietanti e illusioni seducenti. Ma cosa succede quando abbandona il sovrannaturale per addentrarsi nei meandri più torbidi dell’animo umano? La Fiera delle Illusioni è un noir in abito d’epoca, un racconto di ascesa e caduta che brilla nelle immagini ma inciampa nella sua stessa prevedibilità.

Alla fine degli anni ’30, Stan Carlisle (Bradley Cooper) arriva in un circo di fenomeni da baraccone e truffatori, lasciandosi alle spalle un passato che ha letteralmente dato alle fiamme. Qui impara i trucchi del mestiere dai mentalisti Pete e Zeena (David Strathairn e Toni Collette), che lo avvertono di non oltrepassare il limite tra spettacolo e inganno. Ma Stan, affascinato dal potere di manipolare gli altri, se ne infischia. Dopo aver affinato il proprio numero con l’amata Molly (Rooney Mara), che nel circo aveva il ruolo di "donna elettrizzata", il protagonista si lancia nel mondo dell’alta società, dove attira clienti facoltosi e l’attenzione della glaciale psichiatra Lilith Ritter (Cate Blanchett). L'affascinante donna gli fornisce informazioni preziose per truffare ricchi disperati, ma la loro alleanza è una danza pericolosa. Stan si convince di essere il più astuto di tutti, ma il suo destino è scritto fin dal principio, e la sua disfatta diventa inevitabile.

Nightmare Alley, distribuito in Italia con il titolo La Fiera Delle Illusioni, è l'adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo del 1946 scritto da William Lindsay Gresham, già portato sul grande schermo nel 1947. Si tratta di un noir-thriller che punta tutto sull’aspetto estetico e l'atmosfera. La prima parte del film si svolge nel circo, microcosmo di miseria e inganni, un teatro di disperati che vivono ai margini e dove i reietti sono trasformati in spettacolo. Qui il regista sembra a proprio agio, costruendo con la consueta cura ogni dettaglio di un mondo sporco, polveroso e affascinante. Peccato che la narrazione sia davvero troppo dilatata, sospesa in un prologo che sembra non voler mai decollare. È solo nella seconda metà, quando Stan si lascia alle spalle il circo per il luccichio della grande città, che il film si ravviva prenendo forma. L'ingresso di Cate Blanchett, femme fatale perfetta, algida e manipolatrice, dona una svolta noir, incantando e avvolgendo il protagonista in una ragnatela da cui non potrà più uscire. Ma se il passaggio dall’inganno circense alla grande truffa sociale è intrigante, la storia si muove su binari fin troppo scontati. Ogni scelta sbagliata di Stan è anticipata, ogni avvertimento è reso esplicito, ogni caduta è quasi urlata allo spettatore. Il risultato è una narrazione che, pur impeccabile nella messa in scena e nelle interpretazioni, perde mordente proprio per la sua eccessiva prevedibilità.

Visivamente elegante e interpretato con intensità, La Fiera delle Illusioni è un noir che si nutre delle sue ombre, ma non riesce a sfuggire ai suoi limiti narrativi. Dietro la facciata impeccabile si nasconde un film più ambizioso che realmente incisivo, appesantito da una durata eccessiva e da una trama che non sorprende mai davvero.

Film
Drammatico
Thriller
Noir
USA
2021
martedì, 21 gennaio 2025
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Il rosso segno della follia

di Mario Bava

Il rosso segno della follia, conosciuto anche con il titolo originale Un'accetta per la luna di miele, è un film di Mario Bava girato nel 1968 in Spagna ma distribuito solo nel 1970, dopo una travagliata lavorazione che includeva riprese aggiuntive e difficoltà di distribuzione. Ambientato a Parigi, nonostante le riprese siano avvenute tra Italia e Spagna e i personaggi portino nomi inglesi, il film fu prodotto da Manuel Caño e scritto da Santiago Moncada, autore prolifico del cinema di genere spagnolo. Malgrado Moncada si ispiri dichiaratamente ai grandi classici di Alfred Hitchcock, Mario Bava, che in questo film torna a occuparsi della fotografia, riesce a intervenire sul copione inserendo nella storia il personaggio di Laura Betti, attrice nota per aver lavorato con Fellini e Pasolini, che divenne il fantasma ironico e perfido che caratterizza il film.

La storia ruota attorno a John Harrington (Steve Forsyth), affascinante stilista e proprietario di un atelier di abiti da sposa. Dietro la facciata impeccabile si nasconde un paranoico assassino ossessionato da un trauma infantile mai risolto. Le sue vittime sono giovani spose, uccise con brutale precisione usando un’accetta. Quando, in preda al delirio, Harrington uccide anche la moglie Mildred (Laura Betti), il fantasma della donna inizia a perseguitarlo portandolo lentamente alla follia.

Riprendendo l'ambientazione di Sei donne per l'assassino, il film, visivamente, si distingue per la tecnica, l'ottima fotografia e l'eleganza delle inquadrature. Tuttavia, nonostante il suo indiscutibile valore estetico, Il rosso segno della follia non è il film più riuscito di Bava complice una sceneggiatura poco incisiva, una colonna sonora non memorabile e un cast (tolta la Betti) davvero imbarazzante - l'inespressivo attore protagonista pare imbalzamato. 
Non mancano, però, momenti di brillante umorismo, come il passaggio dai fumi del crematorio a un toast bruciato, e citazioni metacinematografiche, come la scena in cui il protagonista guarda in televisione I tre volti della paura, altra opera di Bava. 

Il rosso segno della follia fu un insuccesso al botteghino, oscurato dal debutto di Dario Argento con L'uccello dalle piume di cristallo.  Il thriller di Argento, più violento e contemporaneo, catturava meglio i bisogni del pubblico dell'epoca. Fa sorridere pensare che in questo film di Bava si anticipa alcune delle tematiche e delle tecniche che Argento avrebbe ripreso e sviluppato in Profondo rosso: il trauma infantile legato a un fatto di sangue, la ripresa in soggettiva, i dettagli insistiti sulle armi, e persino la carrellata sui pupazzi, che Argento avrebbe sostituito con strumenti di morte dell'assassino.

Anche se oggi il film appare datato, rimane una testimonianza dello stile inconfondibile di un maestro che ha saputo creare la storia del thriller italiano ma che, probabilmente, per mancanza di autostima e di ambizione, è rimasto un artista con la mentalità di artigiano.

Film
Thriller
Horror
1970
Mario Bava

© , the is my oyster