
Martyrs
di Pascal Laugier
L’horror è sicuramente il mio genere preferito. Ne ho visti tanti, continuo a guardarne, ma raramente riescono ancora a farmi davvero paura. Col tempo ho imparato ad apprezzarne le sfumature, i sottogeneri, i giochi visivi e narrativi. Ma dopo anni passati ad assorbire i meccanismi tipici del genere, la mia attenzione si è spostata altrove. Ora guardo più al modo in cui viene trattata una tematica, a una messa in scena originale, a una scelta registica fuori dal comune.
Tra i sottogeneri che ancora riescono a scuotermi c’è quello comunemente definito "torture porn". Un’etichetta forse riduttiva, ma utile per orientarsi. Da Hostel a Saw, da The Devil’s Rejects fino al giapponese Grotesque, è emersa una corrente in cui la violenza non è solo presente, ma fulcro narrativo. Viene ostentata, protratta, spinta fino al limite della sopportazione.
Martyrs, film francese del 2008 diretto da Pascal Laugier, parte da lì. Dal dolore, dalla tortura. Ma va molto oltre. Non è il solito film estremo che punta a scioccare lo spettatore. È qualcosa di più disturbante, più profondo, più spiazzante. E lascia addosso un senso di disagio che non svanisce facilmente.
Il film si apre con una bambina, Lucie, che fugge urlando da una fabbrica abbandonata, quasi nuda e ricoperta di sangue. Per oltre un anno è stata tenuta prigioniera e sottoposta a torture fisiche e psicologiche. Gravemente traumatizzata, viene accolta in un orfanotrofio dove stringe un legame profondo con Anna, un'altra ragazza con un passato difficile alle spalle. Crescendo insieme, le due diventano amiche intime.
Quindici anni più tardi, Lucie ormai adulta (interpretata da Mylène Jampanoï), è convinta di aver finalmente individuato i responsabili delle sue sofferenze. Senza esitare, fa irruzione nella casa di una famiglia borghese uccidendola a colpi di fucile. Poi, disperata, telefona ad Anna (Morjana Alaoui) chiedendole di venire ad aiutarla. Anna si precipita, sconvolta, trovandosi di fronte a una scena devastante. Teme che l’amica abbia perso il contatto con la realtà, travolta dai propri fantasmi interiori. Lucie, infatti, continua ad autoinfliggersi ferite sostenendo di essere perseguitata da una creatura mostruosa. Ma quello che Anna scoprirà in quella casa è qualcosa che va oltre ogni sua immaginazione, oltre ogni limite. E rappresenta solo l’inizio di una spirale di orrore che non lascia vie d’uscita.
Altro non dico, perché Martyrs è costruito su una serie di svolte narrative che vanno scoperte passo dopo passo. Quella che sembra una semplice storia di vendetta alla Old Boy, si trasforma presto in qualcos’altro, spiazzante e radicale. La prima parte, intensa e brutale, è solo un preludio. È la preparazione emotiva, visiva e tematica per un secondo atto che ribalta tutto, portando lo spettatore in un territorio completamente diverso, dove l’orrore non è più solo fisico ma esistenziale. È qui che il film mostra la sua vera natura.
Martyrs non è un film piacevole. Non cerca di esserlo, nemmeno per un attimo. Non è il disgusto a prevalere, non lo schifo da corpi mutilati che spesso accompagna certo cinema estremo. Qui si prova dolore, puro e senza filtri. È un horror dell’anima, un’esperienza che annichilisce. Nero come la pece, privo di qualunque ironia o compiacimento, spinge lo spettatore dentro un abisso in cui la tortura non è mai spettacolo, ma accanimento insopportabile.
Eppure, dal punto di vista narrativo, Martyrs non cede mai. La tensione resta costante, serrata. Gli ambienti sono spogli, bui, opprimenti, e il frequente uso della camera a mano amplifica il senso di disorientamento e terrore. Tecnicamente è un film ineccepibile. Girato con rigore, orchestrato con lucidità, interpretato con una credibilità emotiva che toglie il fiato.
Pascal Laugier rilegge il torture porn, lo stravolge, lo svuota del suo compiacimento visivo per restituirci qualcosa di più intimo, più viscerale. Qui non ci sono frattaglie che esplodono sullo schermo come nei film americani. L’orrore è sottopelle, nascosto dietro l’apparenza di una società borghese, anziana e decadente, terrorizzata dall’approssimarsi della fine. Una società che sceglie di infliggere sofferenza a vittime innocenti nel disperato tentativo di trovare una risposta all’unica domanda che davvero ci accomuna: cosa c’è dopo la morte?
Il finale è stato molto discusso. C’è chi lo ha trovato vago, chi pretenzioso. Personalmente lo considero uno dei finali più potenti del cinema horror — forse non al livello di The Mist, ma non lontano. È crudele, definitivo, e probabilmente l’unico possibile. Chiude il film con una nota disturbante che rimane dentro, come un graffio che non si rimargina.
Un horror che riesce a suscitare orrore ha raggiunto il suo scopo. E Martyrs ci riesce benissimo. La prima volta che l’ho visto sono rimasto mezz’ora a fissare il soffitto prima di riuscire ad addormentarmi. La seconda volta ho messo in pausa più volte, costretto ad alzarmi e prendere fiato. È un film che non si dimentica. E proprio per questo, rimane uno dei miei horror preferiti del XXI secolo.
Film
Lasciami entrare
di Tomas Alfredson
Lasciami entrare, film del 2008 diretto da Tomas Alfredson, è probabilmente il mio film preferito sui vampiri del 21esimo secolo. Tratto dall’omonimo romanzo di John Ajvide Lindqvist - che conservo da tempo in libreria, ancora da leggere - è una produzione svedese che reinventa il mito del vampiro con grazia e crudeltà, raccontando una storia di solitudine, orrore e tenerezza, filtrato attraverso lo sguardo disarmato di due bambini.
Svezia, inverni lunghi e silenziosi. Oskar (Kåre Hedebrant) ha dodici anni, vive con la madre in un quartiere periferico di Stoccolma e passa le giornate a immaginare vendette contro i bulli che lo tormentano a scuola. Una sera, nel cortile del suo palazzo, incontra Eli (Lina Leandersson), una coetanea appena trasferitasi nell'appartamento accanto. È strana, pallida, con un odore insolito e, nonostante il gelo, indossa solo una t-shirt. Tra i due nasce un’amicizia timida, fatta di parole sussurrate, incontri notturni e un’innocenza che si macchia presto di sangue. Perché Eli non è una bambina qualunque. E' una vampira, e intorno a lei iniziano a moltiplicarsi i cadaveri.
Proprio nell’anno in cui Twilight invadeva il grande schermo con la sua versione patinata e adolescenziale del vampiro romantico, Lasciami entrare arrivava silenzioso e gelido dalla Svezia esplorando con delicatezza e pudore temi come la difficoltà di crescere, il doloroso passaggio dall’infanzia all’adolescenza, la diversità, e la scoperta della sessualità. Il sangue scorre, ma senza mai diventare spettacolo.
Oskar è un dodicenne fragile e solitario, figlio di genitori divorziati e privo di veri punti di riferimento. La madre, assente dietro la maschera di una routine affettuosa, e il padre, distante e distratto, lasciano il ragazzo a combattere da solo contro il bullismo dei coetanei e il senso di esclusione che lo accompagna ogni giorno. Isolato e pieno di rancore, Oskar sviluppa un morboso interesse per la cronaca nera e le armi da taglio, immaginando vendette che non riesce a compiere. A rompere questo vuoto arriva Eli, così diversa, eppure stranamente simile a lui. Eli è una creatura millenaria intrappolata nel corpo di una bambina, capace di uccidere con lucidità ma anche di comprendere la solitudine meglio di chiunque altro. Anche lei è un’emarginata, condannata a vivere ai margini del mondo, senza amici né famiglia, accompagnata solo da un anziano tutore con cui condivide un rapporto ambiguo, fatto più di necessità che di affetto.
Il legame tra Oskar ed Eli nasce nel silenzio, si costruisce lentamente, fatto di messaggi in codice, carezze e gesti trattenuti. La loro relazione resta sospesa in una zona grigia, ambigua, mai esplicitamente sessuale, ma percorsa da una sottile tensione che mescola innocenza e desiderio, fragilità e attrazione. Tra i due protagonisti il maschile e il femminile si confondono. Lui, biondo, efebico, vittima. Lei, dai tratti più duri, i capelli scuri, lo sguardo imperscrutabile e la sicurezza di chi ha già visto troppo. A un certo punto Eli dice chiaramente: “Non sono una ragazza”. Più tardi, in un'inquadratura fugace e discreta, si intravede una cicatrice all’altezza del sesso, possibile traccia di una mutilazione. Un dettaglio che aggiunge un ulteriore livello di ambiguità, aprendo domande sull'identità di Eli, sul genere, sul corpo, sul modo in cui l’amore riesce a esistere al di là di ogni definizione.
La loro unione nasce così, tra due esseri feriti, due sopravvissuti — uno al mondo, l’altra al tempo. Ma la loro storia è destinata a incupirsi, perché l’amore, proprio come il vampirismo di Eli, è una forma di dipendenza. Una necessità che consuma. Nel finale, quando li ritroviamo su un treno, in apparente fuga libera verso il futuro, appare evidente che sarà lui a nutrire Eli, a proteggerla, a portarla con sé di città in città, fino alla vecchiaia e alla morte. Prenderà il posto dell’anziano tutore che, troppo stanco e ormai inutile, ha scelto di togliersi la vita per amore o per disperazione. L’orrore di questo verdetto resta sommerso, sussurrato, eppure palpabile. È un orrore malinconico, quasi romantico, che ti porta a pensare che, in fondo, l'amore non sia altro che una promessa silenziosa di sacrificio portata avanti fino alla fine.
Lasciami entrare - il cui titolo richiama una regola della mitologia vampirica, secondo cui un vampiro può varcare la soglia solo se invitato - ritrae con rigore una Svezia suburbana, invernale, spoglia e silenziosa, dove il buio scende presto e il gelo sembra avvolgere anche i rapporti umani. La regia sobria di Alfredson lavora per sottrazione, evitando ogni enfasi e affidandosi ai silenzi, ai dettagli, agli sguardi. Straordinari i due giovani protagonisti, capaci di restituire tutta la delicatezza e l'ambiguità dei personaggi. La sceneggiatura firmata dallo stesso autore del romanzo, e la fotografia fredda e misurata di Hoyte van Hoytema completano un’opera che somiglia a un racconto di formazione, attraversato però da una lama sottile di orrore. Un horror che non punta alla paura fine a se stessa, ma usa il vampirismo come metafora per raccontare l’emarginazione, la solitudine, e il bisogno disperato di legami.
Ah, dimenticavo, hanno fatto il solito remake americano. Da evitare.
Film
Prossima fermata: l'inferno
di Ryuhei Kitamura
Prossima fermata: L’Inferno (The Midnight Meat Train) è un film horror del 2008 tratto dal racconto di Clive Barker conosciuto in Italia come "Macelleria Mobile di Mezzanotte", uno dei suoi racconti più celebri pubblicato nell'antologico "Libri di Sangue".
Diretto dal regista giapponese Ryuhei Kitamura, il film, nonostante abbia un cast di livello, ha avuto una produzione travagliata e una pessima distribuzione negli Stati Uniti. In Italia è uscito direttamente in homevideo con un titolo decisamente osceno (ma mantenere l'evocativo titolo tradotto in italiano da Tullio Dobner non era meglio?).
Riguardo la produzione, Clive Barker, che oltre ad aver scritto il soggetto è uno dei produttori, al tempo si lamentò con i vertici della Lionsgate per il trattamento riservato a questo film convinto che un giorno gli appassionati del genere l'avrebbero apprezzato vedendolo in dvd o in televisione. Ammetto che se recentemente non avessi riletto Barker documentandomi sulle trasposizioni cinematografiche delle sue opere probabilmente questo film me lo sarei perso. Sarebbe stato un peccato.
La trama vede come protagonista Leon Kauffmann (Bradley Cooper), un fotografo di New York che cerca di realizzare un servizio sulla vita notturna della città. Durante una delle sue uscite notturne, Leon si imbatte in Mohagany (Vinnie Jones), un misterioso e inquietante individuo che si aggira per la metropolitana. Quando scopre che Mohagany in realtà è un serial killer responsabile di una serie di omicidi brutali, Leon diventa ossessionato nel cercare di svelare il mistero dietro questi orribili crimini.
Il film funziona ed è abbastanza fedele al racconto di Barker. Tra smembramenti, occhi che escono dalle orbite, dacapitazioni e gente appesa a ganci di macelleria, la pellicola non lesina sulle scene di sangue e violenza. Alcuni effetti potrebbero risultare un pò artificiosi a causa di una CGI troppa invasiva ma alla fine contribuiscono a generare delle sequenze splatter visivamente interessanti e disturbanti (ovviamente per gli amanti del genere gore). Buona anche la regia di Kitamura che riesce a creare un'atmosfera di tensione costante. Le scene nella metropolitana, in particolare, sono intrise di un senso di claustrofobia e pericolo imminente. Ottimo Vinnie Jones nel ruolo del silenzioso serial killer/macellaio meno convincente Bradley Cooper nella parte del protagonista e particolarmente fastidiosa l'attrice Leslie Bibb, la compagna del fotografo, che prima cazzia il suo compagno per la sua ossessione e poi decide di introdursi nella casa del serial killer per recuperare la macchina fotografica. Probabilmente il fatto di non averlo visto in lingua originale me lo ha un pò penalizzato.
Alla fine è un film da recuperare, non privo di difetti ma che si lascia vedere e offre agli amanti del cinema horror un ottimo intrattenimento a base di sangue, violenza e colpi di scena.
Film