
Lost in Translation
di Sofia Coppola
Lost in Translation è la seconda opera da regista di Sofia Coppola, successiva al brillante esordio con Il giardino delle vergini suicide. Una storia di due solitudini che si incontrano e si sfiorano, sullo sfondo di una Tokyo caotica e alienante, dove l’incomunicabilità diventa il linguaggio universale dei sentimenti inespressi. L’ho rivisto di recente, ed è incredibile come questo film, a più di vent’anni dalla sua uscita, sia ancora in grado di emozionarmi.
La trama è semplice. Bob Harris, una star del cinema ultracinquantenne in declino (un memorabile Bill Murray), si trova a Tokyo per girare uno spot pubblicitario per un whisky locale. Il suo soggiorno, privo di stimoli e caratterizzato da lunghe serate vuote in un lussuoso ma alienante hotel, lo porta a incontrare Charlotte (Scarlett Johansson), una giovane donna che accompagna il marito fotografo, assente e preso dal lavoro. Tra i due nasce un’amicizia che si trasforma in una connessione profonda, basata non tanto sulle parole, quanto sugli sguardi, i gesti e la comune sensazione di isolamento.
Avendo avuto la fortuna di visitare il Giappone ormai parecchi anni fa, rivedere Lost in Translation mi ha riportato alla mente una miriade di ricordi legati a quell’esperienza. La sensazione di essere immerso in un mondo così diverso, dove ogni dettaglio sembra affascinante e alieno al tempo stesso, è qualcosa che ho rivissuto con grande intensità. Sofia Coppola, che ha dichiarato di essersi sentita disorientata la prima volta a Tokyo, riesce a tratteggiare perfettamente questo spaesamento. Le luci al neon, le strade affollate, le sale giochi rumorose e i templi di Kyoto fanno da cornice a una storia che si sviluppa senza bisogno di grandi eventi o dialoghi espliciti. I due protagonisti, stranieri in un paese dalla cultura distante e dalla lingua incomprensibile, non cercano nemmeno di capire fino in fondo ciò che li circonda. Le passeggiate di Charlotte nei giardini e nei templi, osservate con una distratta curiosità, rappresentano perfettamente questa alienazione, che non è solo geografica, ma anche emotiva. Questo atteggiamento, da parte di una certa critica, è stato letto come una forma di superficialità tipica di una mentalità americana, diffidente e incapace di avvicinarsi a una cultura che non comprende. In realtà, almeno per come la vedo io, credo che questa distacco non sia altro che il riflesso dello spaesamento interiore e del profondo senso di smarrimento dei due protagonisti.
Bill Murray ci regala una grande performance, tra il comico e il tragico, con un’ironia che emerge in scene come quella in cui è alle prese con il regista giapponese dello spot. Scarlett Johansson, allora appena ventenne, è di una bellezza semplice e disarmante, capace di trasmettere la vulnerabilità e il disagio del suo personaggio con incredibile intensità. La relazione tra Bob e Charlotte è una storia d’amore sospesa, fatta di gesti minimi e dolci malinconie. Non ci sono baci appassionati né dichiarazioni d’amore, ma piccoli momenti che restano impressi, come quando i due cantano insieme al karaoke, si ritrovano nel letto insieme mantenendo la giusta distanza che non impedisce però una tenera intimità, e sopratutto nell'iconica scena dell'addio finale in cui Bill Murray abbraccia Scarlett Johansson e le sussurra teneramente la frase all'orecchio che rimarrà per sempre un mistero per noi. Una scena che si svolge sulle note di Just Like Honey dei Jesus and Mary Chain, che, insieme agli altri brani della colonna sonora, firmata da artisti come Air, My Bloody Valentine e Squarepusher, rende il film ancora più indimenticabile.
Lost in Translation, insieme a Eternal Sunshine of the Spotless Mind, rimane uno dei film romantici a cui sono più legato. Entrambi hanno vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura, mentre in Italia vengono accomunati per avere ricevuto dei titoli completamente fuori luogo. "L'amore Tradotto" per il film della Coppola non è certo meno imbarazzante di quello scelto per il film di Gondry.
Lost in Translation non è solo una storia d’amore mai consumata, ma il malinconico incontro tra due solitudini che si comprendono, si sfiorano e infine si lasciano andare al loro destino. Non è un capolavoro ma un film a cui sono molto affezionato.

(500) Days of Summer
di Marc Webb
Non sono un amante delle commedie romantiche, ma ogni tanto mi concedo qualche eccezione. Insomma, film come Harry ti presento Sally, Il favoloso mondo di Amélie, ma anche Serendipity, non vi nascondo che se mi capita li vedo sempre volentieri.
Incuriosito da un meme che spunta spesso sui social, e soprattutto attirato dagli occhioni di Zooey Deschanel e il suo fascino un po' stralunato, mi sono visto (500) Days of Summer, film del 2009 ed esordio alla regia per Marc Webb.
In Italia, il titolo è stato trasformato in (500) giorni insieme, perdendo però il gioco di parole con il nome della protagonista, Summer, che nella versione italiana è diventata Sole.
La storia in breve. Tom (Joseph Gordon-Levitt) è un giovane architetto mancato, che lavora in una società specializzata nella realizzazione di biglietti d'auguri. La sua routine cambia radicalmente quando nella sua vita irrompe Summer (Zooey Deschanel), la nuova segretaria del suo capo. Tom se ne innamora perdutamente, convinto che sia "quella giusta" ma la fanciulla, pur ricambiando le sue attenzioni, dichiara fin da subito di non volere una relazione seria. Nonostante ciò, i due iniziano a frequentarsi, con Tom che è convinto di riuscire a farle cambiare idea anche a costo di mettere in discussione il suo concetto di amore e le sue aspettative.
Attraverso una narrazione non lineare, tra salti temporali, momenti gioiosi e ricordi agrodolci, (500) Days of Summer racconta non una storia d’amore, ma bensì la storia di un innamoramento. Vincente l'idea di alternare lo stato d'animo dei due protagonisti scegliendo di saltare da un giorno all'altro della storia non in ordine cronologico.
Marc Webb, forte della sua esperienza nei videoclip, utilizza un linguaggio visivo ricco e creativo, inserendo animazioni, momenti musical, oppure dividendo lo schermo con aspettative e realtà messe a confronto, arrivando a infilare citazioni cinematografiche di maestri come Bergman, Truffaut, e Nichols, con ironia e spigliatezza.
La colonna sonora è uno degli elementi distintivi del film. Brani di Regina Spektor, The Temper Trap, Pixies e, soprattutto, The Smiths, accompagnano e definiscono l’atmosfera del film. Iconica la scena in ascensore, in cui Tom ascolta "There Is a Light That Never Goes Out" e Summer, attratta dalla musica, si avvicina, dando il via alla loro storia. E' un film che vuole essere "indie" - vedi la classica t-shirt dei Joy Division di Tom o l’inquadratura del vinile dei Red Lorry Yellow Lorry in un negozio di dischi - anche se in realtà si rivolge a un pubblico di massa.
(500) Days of Summer è la storia di un amore a senso unico che in qualche modo mi ha ricordato Eternal Sunshine of the Spotless Mind - ovviamente con tutti i distinguo del caso in quanto ritengo il film di Michel Gondry un capolavoro. Tuttavia, anche nel film di Webb la storia è raccontata dal punto di vista maschile, quello di Tom, mettendo in luce una relazione sbilanciata e mai davvero paritaria.
Molto bravi gli attori con Joseph Gordon-Levitt che convince nel ruolo dell'ingenuo e sognatore Tom, e Zooey Deschanel - per la quale ammetto un certo debole - brava a rendere Summer la cinica e candida regina delle stronze. Sì lo so, qualcuno potrebbe obiettare che Summer fin da subito ha messo in chiaro i confini della loro relazione, però successivamente i suoi comportamenti sono parecchio contradditori che mi portano a pensare che il personaggio interpretato dalla Deschanel abbia tratti narcisistici e manipolatori nei confronti del povero innamorato.
Pur partendo da una trama quasi banale, (500) Days of Summer è un film fresco che si guarda con piacere, ma che è anche capace di lasciare spunti di riflessione sull'amore, o meglio, sulla sua idealizzazione.

Past Lives
di Celine Song
Past Lives è il film di esordio di Celine Song, regista e sceneggiatrice sudcoreana trapiantata in Canada e oggi residente negli Stati Uniti.
Il film, prodotto dalla A24, è stato presentato nel 2023 in numerosi festival cinematografici ottenendo un grande riscontro di critica e di pubblico.
La storia vede protagonisti un uomo e una donna sudcoreani, due amici di infanzia, Nora Moon (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo), ed è divisa in tre atti, separati l’uno dall’altro da dodici anni.
Nella prima parte vediamo i due protagonisti bambini frequentare la stessa scuola. I due sono troppo giovani perchè la loro relazione si possa definire amore, ma il loro è un legame forte ed esclusivo. Quando i genitori di lei decidono di trasferisi in Canada, le loro strade si dividono. Il loro addio avviene quasi senza parole in una scena in cui i due ragazzini si separano a un bivio di una strada in salita.
Trascorrono dodici anni e Hae, giovane ingegnere, decide di cercare Nora su internet. Per una serie di coincidenze i due si ritrovano, anche se virtualmente. Nora è diventata una sceneggiatrice e si è trasferita a New York. Nora e Hae iniziano a farsi delle videochiamate avvicinandosi sentimentalmente ma quando Nora capisce che la distanza tra di loro è incolmabile e nessuno di loro, per motivi diversi, ha intenzione di trasferirsi nel paese dell'altro, preferisce interrompere i contatti.
Trascorrono altri dodici anni. Nora si è sposata con Arthur (John Magaro), un suo collega, e vive a Manhattan mentre Hae, lavora in una azienda di Seul e ha una relazione poco definita. Un giorno Hae decide di recarsi in vacanza a New York per incontrare finalmente l'amica di infanzia, il primo amore della sua vita.
Ispirata all'esperienza personale della regista coereana, "Past Lives" potrebbe sembrare semplicemente una storia d'amore, la storia di un amore mai consumato, ma in realtà è un film molto più profondo che tocca temi come il destino, il rimpianto e la riconciliazione, esplorando la complessità delle relazioni umane e il peso delle scelte che si compiono con una delicatezza e una sensibilità rara. Il film si distingue per un narrazione sottile e introspettiva e alterna momenti di dolcezza a riflessioni più amare, senza mai cadere nella trappola del melodramma e del romanticismo forzato. La sceneggiatura di Song è elegante e precisa, costruita su dialoghi autentici e momenti di silenzio che parlano più delle parole stesse. L'interpretazione dei protagonisti, compreso il marito di lei che ha un ruolo alquanto scomodo e delicato, è davvero notevole con pochi dialoghi ma profondi. E' una recitazione incentrata sugli sguardi, sui silenzi e sul non-verbale che esprime in modo vivido e profondo l'intensità della passione e delle scelte sentimentali. La regia di Celine Song è caratterizzata da una grande eleganza, con una scelta impeccabile delle inquadrature e un'accuratezza nei dettagli che sorprende, considerando che si tratta del suo esordio alla regia. Il film per certi versi mi ha ricordato Lost in Translation di Sofia Coppola e Eternal Sunshine in the Spotless Mind di Micheal Gondry (quest'ultimo appare per un momento alla televisione) per il tema delle esperienze perdute. Ottima la colonna sonora dei Grizzly Bear che accompagna e completa l’atmosfera della pellicola.
Un film delicato, struggente e malinconico che riesce a toccare ed emozionare in maniera autentica.

Foglie al vento
di Aki Kaurismäki
Sono fuori dalla mia comfort zone ma ogni tanto mi piace farmi persuadere e vedere qualcosa di diverso.
"Foglie al vento" è una malinconica storia d'amore di Aki Kaurismäki, apprezzato regista finlandese, che con questo film ha vinto il Premio della Giuria alla scorsa 76° edizione del Festival di Cannes.
In quella che sembra essere una grigia città dell'europa dell'est alla fine degli anni ottanta - ma in realtà la storia è ambientata nel presente dal momento che ci sono i bollettini della recente invasione russa dell'Ucraina - due anime solitarie vivono la loro vita precaria ai margini della società. Ansa (Alma Pöysti) è una donna sola che lavora in un supermercato dove viene presto licenziata per aver portato a casa un prodotto alimentare scaduto destinato al macero. Holappa (Jussi Vatanen) invece è un operaio metalmeccanico, altrettanto solo, mite e col vizio dell'alcol che viene pure lui licenziato dopo essere stato scoperto a bere durante il turno di lavoro. Una sera i due si incontrano in un locale di karaoke dove si scambiano un timido sguardo senza parlarsi. Un paio di giorni dopo Holappa incontra casualmente Ansa invitandola a vedere un film al cinema. All'uscita la donna gli lascia un pezzetto di carta con il suo numero di telefono ma l'uomo distrattamente se lo perde. I due si cercano, si trovano, e si perdono nuovamente, venendo trascinate come foglie al vento in una serie di casualità, imprevisti e malintesi che sembrano impedirgli di uscire dal loro triste isolamento esistenziale e raggiungere la felicità.
Foglie al vento è una storia d'amore che nasce dall'incontro di due solitudini. Un film semplice e poetico che si distingue per i pochi dialoghi, una trama minimale, e la forte malinconia dei due protagonisti. La forza espressiva dei loro sguardi vuoti ci racconta con estrema delicatezza un mondo respingente, grigio e degradato. Ci sono dei cenni di umorismo qua e là ma è la malinconia a farla da padrone. I lunghi silenzi vengono riempiti da una colonna sonora composta da canzoni che parlano di solitudine e di un disperato bisogno di amore. Tra queste c'è ne una - qui il link - suonata e cantata da due sorelle finlandesi, si fanno chiamare Maustetytöt. La canzone spicca perchè inserita nel contesto del film è di una tristezza così sconfortante da diventare quasi grottesca. Tante le citazioni come per esempio nel finale in cui viene celebrata la famosa camminata di Charlot in "Tempi Moderni".
Quando la semplicità diventa arte.