
La ragazza della porta accanto
di Gregory Wilson
Vedere questo film è stato devastante.
Quando penso all’horror, non sono le case infestate, gli zombi o i mostri nascosti in soffitta a turbarmi davvero. Tutto ciò che appartiene al soprannaturale resta confinato nella fantasia, e finisce per diventare quasi un esercizio di evasione. Diverso è quando l’orrore prende forma attraverso persone comuni, uomini e donne capaci di compiere atrocità inimmaginabili. Quando la crudeltà è radicata nell’animo umano, non c’è filtro, non c’è distanza di sicurezza. Se poi ciò che vediamo è ispirato a una vicenda realmente accaduta, il disagio diventa ancora più insopportabile.
È proprio questo il caso di La ragazza della porta accanto, film del 2007 diretto da Gregory Wilson, tratto dall’omonimo romanzo di Jack Ketchum ispirato al terribile omicidio di Sylvia Likens.
Negli anni cinquanta, in una tranquilla cittadina americana, due ragazzine rimaste orfane – Meg (Blythe Auffarth) e sua sorella Susan, rimasta disabile nell’incidente che ha causato la morte dei loro genitori – vengono affidate alle cure della zia Ruth Chandler (Blanche Baker), madre di tre ragazzi. All’apparenza rispettabile, Ruth si rivela presto autoritaria e disturbata, trascinando i figli e i giovani del quartiere in un perverso gioco di crudeltà e soprusi. Meg, la maggiore, diventa il bersaglio di una spirale di violenze sempre più disumane, mentre l’amico David, segretamente innamorato di lei, assiste impotente alla sua segregazione in cantina, dove subisce un calvario sadico e crudele.
Sebbene la violenza e gli atti sadici siano perlopiù tenuti fuori campo, La ragazza della porta accanto è un film estremamente disturbante, destinato a stomaci forti. Nulla a che vedere con i vari torture-porn che imperversavano negli anni in cui uscì la pellicola di Wilson. Nonostante le sevizie e le atroci umiliazioni restino fuori campo, il film non ha bisogno di scene esplicite per colpire duro. Lo fa attraverso dialoghi, tensione psicologica e suggestioni, riuscendo a creare nello spettatore una forte empatia per la povera protagonista e il suo lungo percorso di degradazione morale e fisica, atrocemente travestito da innocente gioco infantile.
A orchestrare tutto c’è la zia, donna disturbata che coinvolge i figli e altri giovani del quartiere, offrendo loro birre e sigarette e trasformandoli in complici delle sue crudeltà. Ciò che fa più male è la perversione dei ragazzi, ormai plagiati in maniera incredibile dalla donna, che finiscono per compiere ogni tipo di nefandezza contro Meg. L’unico che si sottrae a queste atrocità è il giovane David, che inizialmente assiste in silenzio, impotente, incapace di intervenire. La sua frustrazione e il senso di colpa si trasformano in una voragine di dolore quando Meg gli confessa il suo amore, poco prima di espiare per le violenze subite.
Tecnicamente ineccepibile e interpretato da un cast eccellente – molto brava la Baker, il film lascia un’impronta indelebile, soprattutto perché si ispira a fatti realmente accaduti a Indianapolis nel 1965, quando la sedicenne Sylvia Likens fu torturata e uccisa dalla donna a cui era stata affidata. Il film non è una ricostruzione fedele degli eventi – anche i nomi dei protagonisti sono diversi, ma alcune delle sevizie documentate sono state riportate in questa pellicola. Nello stesso anno uscì anche An American Crime, ispirato allo stesso caso, ma tra i due, da quello che leggo in giro, questo risulterebbe più crudo e spietato.
La ragazza della porta accanto è un horror viscerale e diretto, che si insinua sotto la pelle e lascia scosso per ore dopo la visione. Un film da vedere, pur sapendo che può fare molto male.
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