Dogman
di Matteo Garrone
Matteo Garrone è uno dei registi italiani più apprezzati degli ultimi anni. Nei suoi film racconta spesso persone ai margini e situazioni difficili, alternando storie molto realistiche a visioni più fiabesche. Dal successo di Gomorra fino a Il racconto dei racconti, il suo cinema si riconosce per lo stile potente e per l’attenzione ai dettagli visivi.
Dopo L’imbalsamatore e Primo amore, Garrone torna con Dogman a ispirarsi a un fatto di cronaca nera, quello del cosiddetto "Canaro della Magliana", che negli anni ottanta sconvolse l’Italia per la brutalità del delitto.
Ambientato in un quartiere periferico di una imprecisata città meridionale (il film è stato girato a Castel Volturno), Dogman racconta la storia di Marcello (Marcello Fonte), un uomo tranquillo, minuto e apparentemente mite, benvoluto dai suoi concittadini, che gestisce un piccolo negozio di toelettatura per cani. Marcello conduce una vita semplice, scandita dal lavoro e dall’affetto per la figlia e per gli animali che accudisce con dedizione. La sua quotidianità, fatta di piccoli gesti e silenzi, viene però turbata dalla presenza di Simone (Edoardo Pesce), un ex pugile dal carattere violento con la passione della cocacina e del furto che domina con la forza il quartiere. Tra i due nasce un rapporto ambiguo, fatto di soggezione e complicità forzata, che finisce per trascinare Marcello in una spirale di tensione e paura sempre più opprimente.
In Dogman, Matteo Garrone affronta una delle storie più cupe della cronaca italiana trasformandola in una parabola di solitudine e umiliazione. Non c’è compiacimento né spettacolarizzazione della violenza — decisamente attenuata rispetto al fatto di cronaca — ma la volontà di raccontare una desolazione sociale corrosa dalla povertà e dall’indifferenza. Le strade abbandonate, i palazzi consumati dal sale e dal vento, i volti segnati degli abitanti delineano una comunità di sconfitti che sopravvive a fatica ai margini di tutto. In questo luogo senza tempo dal cielo perennemente plumbeo, Marcello è una figura tragica e fragile, un uomo mite ma ambiguo, diviso tra il desiderio di piacere e la paura di opporsi. Solo la figlia, con la sua innocenza, rappresenta un piccolo spiraglio di luce, l’unico legame con una dimensione umana ancora intatta.
Tecnicamente impeccabile, Dogman è un’opera di rigore e misura. Garrone asciuga i dialoghi fino all’essenziale, lascia che siano i silenzi e i gesti a parlare, costruisce inquadrature che sembrano scolpite nel cemento. La fotografia, cupa e lattiginosa, amplifica la sensazione di abbandono, mentre la regia segue i personaggi con sguardo attento e implacabile, capace di coglierne ogni crepa, ogni esitazione, senza mai emettere giudizi.
Marcello Fonte, premiato a Cannes per la sua interpretazione, dà vita a un protagonista di rara intensità. La sua recitazione, spontanea e dolorosamente autentica, regge l’intero film e trasforma una storia di degrado in una tragedia universale. Dogman è una delle più potenti storie di vendetta mai raccontate dal cinema italiano, ma soprattutto è un western della solitudine, il ritratto di un’umanità dimenticata, dove la violenza diventa l’unico linguaggio possibile e la fragilità un lusso che non ci si può permettere.
Davvero notevole.
La grande guerra
di Mario Monicelli
Recentemente mi sono accorto che molti dei film italiani del passato a cui, in un modo o nell’altro, sono legato, portano la firma di Mario Monicelli. Mi riferisco a I soliti ignoti, L’armata Brancaleone, Amici miei, ma anche a Il marchese del Grillo. Film che ho visto e rivisto in passato quando passavano in televisione, senza però rendermi conto che dietro a quelle storie tanto diverse c’era lo stesso regista.
Spulciando la sua filmografia, mi sono reso conto di non aver mai visto uno dei suoi titoli più celebrati, La grande guerra. Probabilmente perché non ho mai amato il neorealismo italiano, tantomeno i film di guerra. Ma ogni tanto, per ampliare i propri orizzonti e riscoprire le radici del nostro cinema, vale la pena uscire dalla propria comfort zone cinematografica.
Il film racconta la storia di due uomini comuni, Giovanni Busacca e Oreste Jacovacci, interpretati rispettivamente da Vittorio Gassman e Alberto Sordi, catapultati nella tragedia della Prima guerra mondiale. Diversi per indole e provenienza — uno milanese sbruffone, l’altro romano opportunista e pavido — si ritrovano arruolati nello stesso battaglione, uniti più dal desiderio di sopravvivere che da un autentico spirito patriottico.
Attraverso le loro disavventure, Monicelli costruisce un racconto corale che mescola ironia e dramma, restituendo la quotidianità di una guerra assurda e spietata, fatta di fame, paura e disillusione. Leone d’Oro per il miglior film al Festival di Venezia, La grande guerra non ebbe vita facile fin dalla sua produzione, venendo osteggiato da critici, giornalisti e politici perché, per la prima volta, mostrava con realismo e cinismo le reali condizioni dei soldati italiani — spesso analfabeti, male armati e peggio equipaggiati — mandati a morire in un conflitto di cui non comprendevano fino in fondo le ragioni.
Rispetto ai corrispettivi film di guerra hollywoodiani del periodo, non c’è il clima epico e celebrativo, bensì un realismo amaro e disincantato, dove i protagonisti non sono eroi ma due uomini comuni, pavidi e opportunisti, che cercano in ogni modo di scansare il pericolo e tirare a campare. Eppure, proprio loro, nel finale, finiranno per affrontare la morte con un coraggio che non hanno mai mostrato in vita.
Una pellicola dissacrante su un tema fino ad allora intoccabile, che demolisce la retorica patriottica e mette a nudo i massacri della Grande Guerra e le miserie dell’esercito italiano, stemperando il tutto con un uso intelligente e calibrato della commedia.
Tra le tante sequenze, mi ha colpito un piano sequenza in cui una fucilazione avviene sullo sfondo mentre intorno la vita del campo continua come se nulla fosse, oppure la scena del soldato ucciso perchè costretto a consegnare una lettera dal comando agli ufficilali con gli auguri di Natale e l’ordine di distribuire grappa ai reparti.
Meno necessarie, secondo me, le parti più sentimentali, quelle che coinvolgono il personaggio di Silvana Mangano, che spezzano un po’ il ritmo e la coerenza del tono generale.
La grande guerra non rientra tra i "miei" film — non è il tipo di cinema che soddisfa i miei gusti — ma ne risconosco il suo valore storico e culturale. È un film che cammina costantemente sul filo tra dramma e commedia, capace di trovare un equilibrio raro, sostenuto dall'interpretazioni straordinarie di Gassman e Sordi.
I due, insieme, restituiscono un ritratto autentico dell’Italia dell’epoca, fatto di dialetti che si intrecciano tra soldati di ogni regione, di piccoli espedienti per tirare avanti e di quella miscela di ingenuità e furbizia che, nel bene e nel male, ha sempre contraddistinto il nostro paese.
Un film che ricorda quanto la guerra, anche quando è raccontata con ironia, resti sempre una tragedia collettiva fatta di uomini qualunque.
La mesita del comedor - The Coffe Table
di Caye Casas
Ogni tanto mi piace spulciare tra quei film poco conosciuti, quelli di nicchia, passati magari in qualche rassegna di cinema di genere e mai arrivati nelle sale. E' il caso di La mesita del comedor, un film spagnolo del 2022 diretto da Caye Casas, conosciuto a livello internazionale come The Coffe Table, disponibile in Italia su MyMovies One, la piattaforma streaming di MyMovies. Il film ha guadagnato un certa notorietà quando Stephen King l’ha consigliata sui social, definendola uno dei film più macabri che avesse mai visto.
E che faccio, me lo perdo? Non sia mai.
La storia è semplice, ma non per questo meno sconvolgente. Si svolge quasi interamente all’interno di un appartamento.
Jesus (David Pareja) e María (Estefanía de los Santos) sono una coppia che da poche settimane ha avuto un figlio. Si sono appena trasferiti nella loro nuova casa e Jesus, per celebrare l’arrivo del bambino, decide di comprare un tavolino di vetro — un oggetto di dubbio gusto, che il commerciante descrive come “pregiato e indistruttibile” — nonostante l’esplicito disappunto della moglie.
Il tavolino, un oggetto apparentemente banale e insignificante, sarà l'inizio della loro tragedia.
Il regista Caye Casas ha descritto il suo film come "un’opera scomoda e politicamente scorretta, con un umorismo estremamente nero, una tragedia basata sulla crudeltà casuale della vita reale e su un destino avverso".
Da qui in avanti mi è impossibile parlarne senza entrare nel territorio degli spoiler. Posso dire soltanto che, da padre, questo film ha toccato corde particolarmente sensibili e che per tutta la visione ho provato un disagio crescente, aspettando la sua conclusione per potermi finalmente liberare della tensione accumulata.
Arrivati a questo punto, è chiaro che il bambino muore. Mentre Jesus inizia a montare il tavolino, María esce per fare la spesa, lasciandolo solo col neonato per la prima volta. Poi accade la tragedia: un banalissimo incidente domestico che, nel giro di pochi secondi, trasforma la quotidianità di questa coppia in un incubo irreversibile. Jesus inciampa e cade sul tavolino di vetro, decapitando il bambino che aveva in braccio. Una scena che rimane fuori campo e che mi ha ricordato quella di Love Life di Koji Fukada.
La perdita di un figlio, violenta e provocata, è un dolore troppo grande per essere accettato. Si prova a negarlo, a rimuoverlo, a fingere che non sia mai accaduto. Ed è ciò che fa Jesus, che sotto shock ripone il corpo del neonato nella culla, pulisce il sangue dal tappeto, raccoglie i vetri ma non ha il coraggio di toccare la testa del piccolo, finita sotto la poltrona. Quando María rientra, le racconta di essersi ferito durante il montaggio del tavolo, di aver messo a dormire il piccolo, aiutandola a preparare il pranzo per il fratello e la nuova compagna, arrivati proprio per conoscere il bambino.
È una strada senza via d’uscita, che non fa che rimandare l’inevitabile. Casas costruisce una tensione insostenibile, che cresce scena dopo scena fino a un finale che ha il sapore amaro della liberazione. La mesita del comedor è un film di una potenza emotiva devastante, sorretto da due interpretazioni straordinarie. Pur muovendosi sul confine del grottesco, mantiene una ferocia realistica, come una satira crudele sull’assurdità della vita, sulla fragilità del caso e sulla violenza del dolore umano.
Uno di quei film che ti rimane addosso.
Revenge
di Coralie Fargeat
Prima ancora del grande successo di The Substance, la regista francese Coralie Fargeat aveva già catturato l’attenzione con Revenge, il suo folgorante esordio del 2017. Un film che reinventa un genere con un linguaggio visivo potente e un approccio sorprendentemente contemporaneo, trasformando una storia di violenza in un’esplosione di rivendicazione fisica e simbolica.
Jen (Matilda Lutz), giovane americana, ha una relazione con Richard (Kevin Janssens), un uomo ricco e sposato. Richard la porta in una lussuosa villa nel deserto per un weekend bollente, ma l’intimità viene interrotta dall’arrivo anticipato dei suoi amici, Stan (Vincent Colombe) e Dimitri (Guillaume Bouchède), intenzionati a una battuta di caccia. Quando Richard si allontana, uno dei due amici aggredisce Jen e la stupra. Al ritorno dell’uomo, Jen minaccia di denunciare l’accaduto e chiede di tornare a casa. Richard si rifiuta, le offre denaro per farle dimenticare tutto, ma lei rifiuta e tenta di fuggire. Inseguita, viene spinta in un dirupo, ma sopravvive e, incazzata nera, decide di intraprendere una vendetta spietata contro i suoi aggressori.
A partire da I Spit on Your Grave, in Italia noto come Non violentate Jennifer, sono stati diversi i film che raccontano donne vittime di violenza sessuale che trasformano il loro trauma in una feroce e sanguinosa vendetta. Si tratta di un vero e proprio genere, il rape & revenge, nato negli anni settanta in stile shock exploitation, spesso a basso budget, caratterizzato da violenza esplicita, sangue e scene estreme, pensato per impressionare lo spettatore.
Revenge di Coralie Fargeat segue le stesse coordinate narrative, ma con la particolarità di essere il primo film del genere diretto da una donna. Fargeat trasforma una ragazza provocante, frivola e ingenua in una sorta di Rambo al femminile. Se vi aspettate realismo su come una giovane possa sopravvivere a ferite devastanti e diventare esperta di sopravvivenza e armi letali, probabilmente rimarrete delusi: come in molti film degli anni ottanta, qui si chiede allo spettatore la sospensione dell’incredulità.
Accettato questo patto, gli amanti dell’action più estremo troveranno tutto ciò che cercano: scene di sangue a profusione, tensione costante senza un attimo di tregua e uno scenario suggestivo che diventa teatro della violenza. Tecnicamente e visivamente, il film è girato con eleganza estrema, quasi patinata. L’iperrealismo cromatico rende la violenza al contempo estetica e catartica, rileggendo il genere in chiave contemporanea.
Personalmente avrei spinto di più sull’aspetto allucinogeno, deformando il punto di vista della protagonista per accentuare il suo stato di alterazione, ma evidentemente il budget ha imposto dei limiti.
Una menzione particolare va a Matilda Lutz, già apprezzata in A Classic Horror Story, capace di fornire un’interpretazione intensa, soprattutto fisica, passando da vittima a spietata macchina da guerra. È lei che regge il film sulle proprie spalle.
Interessante anche la figura dello stupratore, un Tuco contemporaneo uscito da un western di Leone, simbolo di una mascolinità tossica e animalesca che la Fargeat non esita a ridicolizzare.
Per gli appassionati del genere, Revenge resta un film imprescindibile, capace di unire estetica, violenza e empowerment femminile in una chiave moderna e spettacolare.
Film
Under the Skin
di Jonathan Glazer
Diciamolo chiaramente: la prima volta che ho visto Under the Skin mi aspettavo un film di fantascienza come tanti di quel periodo, con protagonista la bella Scarlett Johansson. Ovviamente sono rimasto spiazzato, come credo sia capitato a molti. Ma mentre altri ne sono usciti confusi o infastiditi, io sono rimasto affascinato da quell'estetica ipnotica, seducente e inquietante al tempo stesso, che per certi aspetti mi ha ricordato molto Lynch.
Ispirato al romanzo Sotto la pelle di Michel Faber, Under the Skin è un film inglese del 2013 diretto da Jonathan Glazer - prima del suo acclamato La zona d’interesse - che ha diviso pubblico e critica. Accolto inizialmente con perplessità, ha col tempo conquistato un seguito di culto e numerosi riconoscimenti, entrando di diritto tra i film più discussi e significativi della fantascienza contemporanea.
Un'entità aliena assume le sembianze di una donna misteriosa (interpretata da Scarlett Johansson) che vaga per le strade e le campagne della Scozia. Vestita da donna umana ma aliena nel corpo e nell’anima, la protagonista si aggira alla guida di un furgone bianco di notte, attirando uomini isolati e vulnerabili. Questi vengono sedotti, invitati a seguirla in un luogo remoto e poi condotti in una sorta di camera oscura, un ambiente straniante, dove la luce e il suono si deformano, e dove le sue vittime sono spellate dalla loro identità, immersi in un liquido nero primordiale, consumate e soppresse.
Under the Skin è un film di fantascienza dal ritmo lento, quasi privo di dialoghi, che potrebbe risultare noioso o schiacciato dalla pretenziosità di "autorialità". È un’opera che mette a dura prova la pazienza dello spettatore, che può sembrare criptica, ma che in realtà è abbastanza lineare, quasi ripetitiva. Al posto di David Bowie a cadere sulla Terra, qui abbiamo un alieno che assume le fattezze di una donna bellissima — per me Scarlett Johansson con i capelli neri raggiunge in questo film l’apice della sua bellezza — che, come una vedova nera — ehm, scusate il riferimento alla sua interpretazione "vendicativa" — vaga per attirare giovani uomini, poi fatti scomparire in un lago di pece amniotica.
In sostanza, la storia è questa: l’osservazione della vita reale degli esseri umani dal punto di vista di un alieno freddo e privo di emozioni. Tra i giovanotti incontrati dalla nostra bella aliena, oltre agli ignari scozzesi, ripresi da una telecamera nascosta mentre la Johansson si aggira per le strade, troviamo un ragazzo dal viso completamente deforme, interpretato da Adam Pearson, affetto realmente da neurofibromatosi.
L’estetica del film è così perturbante e pervasiva da costituire, di fatto, l’intera pellicola. Under the Skin gioca sul confine tra desiderio e pericolo, bellezza e disgusto. Anche la colonna sonora di Mica Levi fa la sua parte, creando un’atmosfera di straniamento e incastrandosi con gli scenari urbani e naturali, dalle strade deserte alle spiagge nebbiose, dalle foreste silenziose ai locali notturni.
Conosciuto anche per il nudo integrale di Scarlett Johansson, Under the Skin è più di un film di fantascienza, è un’esperienza visiva, quasi corporea. Un’opera ermetica, fredda e silenziosa, priva di spiegazioni chiare e con una struttura ellittica che vive di tensioni, fragilità e domande che restano aperte.
Bones and All
di Luca Guadagnino
Primo film ambientato negli Stati Uniti per Luca Guadagnino, che dopo Suspiria torna all'horror con Bones and All, film del 2022 tratto del romanzo Fino all'osso di Camille DeAngelis. Specifichiamo, il genere horror in questo film è solo il pretesto per raccontare una storia d'amore tra due adolescenti – affetti da una particolare condizione – che viaggiano nelle strade polverose di un america di provincia alla ricerca della loro identità.
Il film segue le vicende di Maren (Taylor Russell), una diciottenne che fin dall’infanzia manifesta istinti cannibali. Dopo l’ennesimo episodio, il padre decide di abbandonarla, lasciandola sola con una cassetta in cui gli racconta la sua storia e il suo certificato di nascita. Inizia così il viaggio di Maren attraverso gli Stati Uniti, alla ricerca della madre e di un’origine che possa spiegare la sua diversità. Durante questo viaggio scopre altri suoi simili tra i quali Sully (Mark Rylance) un anziano ma inquietante cannibale in cerca di compagna, Jake (Michael Stuhlbarg) un cannibale psicopatico ed efferrato e sopratutto Lee (Timothée Chalamet), un ragazzo tormentato dal passato, in fuga tanto dagli altri quanto da sé stesso. Insieme, Maren e Lee attraversano l’America profonda, affrontando le proprie paure, le pulsioni, e il rapporto con la diversità e l’emarginazione.
Tra horror cannibalesco, dramma on-the-road e racconto di formazione, Bones and All è una storia di solitudine, desiderio di appartenenza e disperata ricerca d’amore. Guadagnino costruisce un film che riflette sull’emarginazione e sulla diversità, scegliendo di raccontarle attraverso una sensibilità più emotiva che realmente horror.
Dal punto di vista visivo il film è curatissimo. La fotografia è calda e malinconica, le inquadrature ampie restituiscono l’immensità dell’America rurale, e la regia conferma la grande padronanza tecnica di Guadagnino, capace di trasformare ogni scena in un quadro sospeso. Tuttavia, dietro questa eleganza formale, ho trovato una certa debolezza narrativa. La sceneggiatura procede in modo lineare, senza veri slanci e particolari evoluzioni. Brava e convincente Taylor Russell, meno Chalamet mono espressivo. Anche la loro storia d’amore, pur attraversata da momenti di intensità, non riesce a coinvolgere del tutto, per colpa di una scrittura che tende a ripetersi e a scivolare verso un melò adolescenziale dai toni prevedibili.
Le scene horror, dosate con attenzione, non cercano mai la paura quanto piuttosto il disagio. I momenti di autentica tensione arrivano quasi esclusivamente grazie alla presenza magnetica di Mark Rylance, unico personaggio davvero inquietante del film. Tutto il resto si muove su un piano più sentimentale ed esistenziale, dove il cannibalismo diventa metafora della fame interiore, del bisogno d’amore, della difficoltà di accettare ciò che di noi stessi non vogliamo vedere.
La colonna sonora firmata da Trent Reznor e Atticus Ross accompagna con discrezione, ma non lascia il segno come in altri loro lavori.
Bones and All resta quindi un film interessante e ben realizzato, visivamente affascinante ma che alla fine non è riuscito a coinvolgermi veramente.
I 400 colpi
di François Truffaut
Quando si parla di Nouvelle Vague si pensa subito a un momento di rottura, a un cinema che, alla fine degli anni cinquanta, iniziò a ribellarsi alle regole del racconto classico e alle convenzioni tradizionali per cercare di rappresentare la realtà sociale in modo più autentico, attraverso forme e tecniche espressive nuove. François Truffaut, con I 400 colpi – il suo film d’esordio, uscito nel 1959 – ne divenne uno dei volti simbolo, raccontando la giovinezza con uno sguardo inedito, personale e insieme universale.
Ricordo di averlo visto per la prima volta molti anni fa, ma allora non mi aveva colpito. Mi era parso quasi estraneo al mio modo di intendere il cinema. Non mi lapidate, so che sto parlando di uno dei cento film più importanti della storia del cinema, ma da ragazzino ero più attratto dall’immaginifico, dal surreale, che dalla rappresentazione cruda e talvolta impietosa della realtà. Rivedendolo oggi, con uno sguardo più maturo e consapevole del contesto storico, I 400 colpi mi è apparso un film sorprendentemente vitale, di una freschezza registica ancora intatta, capace di raccontare con amarezza e sincerità la fragilità di un’età sospesa tra innocenza e disillusione.
Vincitore del premio per la Migliore regia al Festival di Cannes, il titolo del film, tradotto alla lettera in italiano, ne fa perdere il senso originale, dal momento che in francese Les Quatre Cents Coups è un modo di dire che significa più o meno "fare il diavolo a quattro", in riferimento alle avventure turbolente del suo giovane e ribelle protagonista.
Il film racconta la storia di Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud), un ragazzino parigino che vive un’adolescenza inquieta tra scuola, casa e strada. Trascurato dai genitori, più preoccupati di impartirgli regole che di offrirgli affetto, e frainteso da ottusi insegnanti, Antoine cerca di ritagliarsi un suo spazio di libertà, ma ogni suo tentativo di ribellione lo porta sempre più ai margini. L’unico vero legame affettivo è quello con René, l’amico con cui condivide le giornate fatte di assenze da scuola e scorribande per le strade di Parigi. Tra piccole fughe, bugie e punizioni, la sua vita diventa un lento percorso di esclusione che culmina qunado viene sorpreso a rubare una macchina da scrivere, e viene mandato in un riformatorio. Qui subisce umiliazioni e punizioni, fino a quando riesce a scappare, correndo verso il mare, simbolo di una libertà tanto desiderata quanto irraggiungibile.
Primo capitolo di un ciclo di cinque film con Jean-Pierre Léaud nei panni di Antoine Doinel – attore destinato a diventare uno dei volti simbolo del cinema di Truffaut – I 400 colpi è un racconto di formazione che mette in scena il malessere inquieto di un ragazzino che si ribella a ogni forma di autorità. Chiaramente autobiografico, e pilastro del cinema futuro del regista francese, il film racconta con sincerità disarmante l’ipocrisia della famiglia, del mondo adulto e delle istituzioni educative. Truffaut osserva tutto con uno sguardo lucido, privo di moralismi e pietismi, restituendo il netto distacco tra il mondo dei grandi e quello degli adolescenti. Ne nasce il ritratto di un disagio esistenziale profondo, vissuto con dignità da un ragazzo che nessuno sembra davvero comprendere.
Le sue piccole trasgressioni – almeno quelle iniziali – vengono amplificate dalle figure autoritarie che lo circondano, riflesso di una famiglia frammentata: una madre frustrata, segnata da una maternità non voluta, un patrigno assente e mediocre, e una scuola governata da insegnanti bigotti e conservatori. L’unico luogo in cui Antoine trova un po’ di pace è il cinema, che gli offre l’illusione di una fuga possibile, un rifugio dove tutto può ancora essere reinventato.
Straordinaria la prova del giovane Jean-Pierre Léaud, che con spontaneità e istinto riesce a rendere la fragilità e la rabbia di un adolescente in cerca d’amore. Truffaut cattura con sensibilità rara l’incomprensione e la solitudine, ma anche quelle piccole crudeltà quotidiane che segnano l’infanzia. Indimenticabile la scena del colloquio con la psicologa, girata con lei fuori campo, e ancor di più il celebre finale: la corsa verso il mare, simbolo di libertà, che si chiude con quello sguardo in macchina – fermato nel fotogramma finale – in cui si concentra tutta la tensione tra desiderio e impossibilità di essere davvero liberi.
Curioso che la foto che Antoine ruba all’uscita del cinema sia quella di Harriet Andersson, protagonista di Monica e il desiderio di Bergman, altro film rimasto nella storia per un intenso sguardo in macchina, quasi un dialogo ideale tra due adolescenti del cinema europeo.
Dal punto di vista tecnico, I 400 colpi sorprende per la sua naturalezza. Truffaut filma con libertà e spontaneità, spesso con camera a mano, alternando primi piani ravvicinati a splendidi campi lunghi, come un testimone silenzioso delle inquietudini di Antoine. L’uso della luce naturale e delle strade di Parigi restituisce un realismo vibrante, mentre la fotografia in bianco e nero di Henri Decaë e la colonna sonora malinconica di Jean Constantin creano un’atmosfera sospesa tra dolcezza e disincanto, cifra inconfondibile del film.
Un grande esempio di cinema capace, attraverso la storia di un ragazzino incompreso, di raccontare una generazione che cambia e non viene capita. Un classico senza tempo che a più di sessant’anni dalla sua uscita continua a interrogarci sul significato della libertà e sul bisogno di essere visti, compresi, e amati.
Film
The Truman Show
di Peter Weir
Peter Weir, regista che ho amato più per l'onirico Picnic ad Hanging Rock che per il celebrato L’Attimo fuggente, alla fine degli anni novanta porta sullo schermo The Truman Show, una brillante satira sul potere dei media e sulla spettacolarizzazione della vita. Un film che anticipa di qualche anno l’esplosione dei reality e segna per Jim Carrey la svolta verso il suo primo ruolo drammatico di rilievo.
Truman Burbank vive a Seahaven convinto che la sua quotidianità sia naturale. In realtà la sua vita è il set di un programma televisivo in onda ventiquattro ore su ventiquattro, e ogni persona intorno a lui è attore o comparsa. Quando piccoli indizi cominciano a incrinare la sua percezione della realtà, Truman inizia a sospettare che il mondo che conosce sia costruito e decide di cercare una via d'uscita. La progressiva presa di coscienza mette in crisi l'intero sistema che ha fondato lo spettacolo, fino allo scontro finale tra il bisogno di verità dell'individuo e la macchina mediatica che lo ha creato.
The Truman Show è un classico degli anni novanta, un vero e proprio cult di una generazione. Rivederlo oggi, a distanza di decenni, forse attenua l’effetto sorpresa, ma resta una pellicola folgorante, capace di anticipare il fenomeno dei reality show — esploso poco dopo anche in Italia con il Grande Fratello, i talent e tutto quel mare di programmi spazzatura — mescolando fantascienza e commedia, spot pubblicitario e sit-com di altri tempi. In superficie appare come un film leggero e divertente, ma sotto la patina c'è una critca tagliente verso media e società. Il confine tra libertà e illusione viene mostrato come una prigione dorata, un acquario perfetto dove tutto è costruito, un surrogato di realtà da osservare per vivere le emozioni degli altri piuttosto che affrontare le proprie.
Jim Carrey offre una prova sorprendente, liberandosi dai ruoli comici che lo avevano reso celebre per incarnare un moderno Adamo intrappolato in una sorta di Eden orwelliano, manipolato da un dio distopico interpretato da un bravissimo Ed Harris. La sua ricerca della verità passa anche attraverso il ricordo di un'Eva perduta, unica traccia autentica in un mondo di menzogne.
Oggi, immersi in reel, tiktok e video generati dall’intelligenza artificiale, il film non colpisce più con la stessa forza profetica, ma rimane uno specchio scomodo in cui guardarsi, un monito sulla fragilità della nostra libertà di spettatori e individui.
Film
The Life of Chuck
di Mike Flanagan
Mike Flanagan torna a confrontarsi con Stephen King, dopo Il gioco di Gerald e Doctor Sleep, portando sullo schermo The Life of Chuck, racconto incluso nella raccolta Se scorre il sangue del 2020. Nonostante il nome dei due autori, coloro che si aspettano un horror classico potrebbero rimanere delusi. Il film più che un incubo è un sogno, un viaggio intimo e malinconico sul senso della vita e sul tempo che scivola via.
Nello scrivere questa recensione mi è difficile evitare qualche spoiler. Avvertiti.
La storia è divisa in tre atti e racconta la vita, a ritroso, di Charles "Chuck" Krantz (Tom Hiddleston). Nel primo atto ci troviamo in un mondo sull’orlo della fine, tra improvvisi blackout, scomparsa di internet, città svuotate. Un’apocalisse senza spiegazioni. Eppure, in mezzo al collasso, iniziano a comparire cartelloni pubblicitari con il volto sorridente e rassicurante di Chuck. Nel secondo conosciamo l’uomo dietro quel sorriso, un contabile di banca in trasferta per un congresso che, mentre passeggia per strada, incontra una ragazza che suona la batteria mettendosi a ballare come un professionista. Infine nel terzo, troviamo il nostro protagonista, prima bambino (interpretato dal figlio di Flanagan) poi adolescente. Rimasto orfano da piccolo, Chuck è stato adottato dai nonni paterni (il nonno è intepretato da Mark Hamill) che gli trasmettono l’amore per la danza e la passione per la matematica. La sua infanzia appare serena, se non fosse per una presenza inquietante: nella vecchia casa coloniale in cui vivono c’è una stanza sotto il tetto sempre chiusa a chiave, un luogo proibito che alimenta mistero e curiosità.
The Life of Chuck è un romanzo di formazione raccontato a ritroso. L’apocalisse iniziale è la metafora della malattia che divora Chuck dall’interno, mentre i cartelloni che lo ringraziano "per questi fantastici 39 anni" diventano l’ultimo segnale di memoria prima che il suo universo si spenga. Proprio come le stelle che il professore – riunitosi all’ex moglie – vede sparire nel cielo, con paura ma anche con un'insospettata serenità.
Il momento più riuscito arriva nel secondo atto, con la danza improvvisata in strada di Hiddleston, un gesto semplice, quasi liberatorio che racchiude l’essenza di un'intera vita. Più debole il terzo atto, che nel tentativo di fare da collante con i precedenti finisce per accentuare il sentimentalismo retorico che pervade tutto il film.
The Life of Chuck sembra un Truman Show che si svolge all’interno della propria testa, nel proprio universo interiore, unito alla malinconia esistenziale a ritroso de Il curioso caso di Benjamin Button. Un film che nel momento della morte vuole ricordarci come nei dettagli quotidiani, nei gesti minimi e negli incontri imprevisti si nasconda la vera grandezza, ma che a mio avviso indulge troppo in frasi a effetto, dialoghi carichi di perle di saggezza e un narratore onnipresente che spiega ciò che lo spettatore vede già chiaramente sullo schermo.
Personalmente, continuo a preferire il Flanagan delle sue serie televisive.
La vita di Adele
di Abdellatif Kechiche
La vita di Adele è un film che ho sempre visto in maniera distratta, mai per intero, quando passava in televisione o su qualche piattaforma. Deciso a scrollarmi di dosso un po’ del malessere lasciato dall’ultimo film che ho visto, ho scelto di cambiare genere gettandomi a capofitto in una storia sentimentale di tre ore. Vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2013, il film, diretto dal regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, è tratto dalla graphic novel Il blu è un colore caldo di Jul’ Maroh e racconta il percorso di formazione emotiva e affettiva della sua protagonista.
La storia ruota intorno ad Adele (Adèle Exarchopoulos), una liceale che vive la propria quotidianità tra scuola, amicizie e primi amori. Un incontro casuale con Emma (Léa Seydoux), giovane artista dai capelli blu, le apre un mondo nuovo fatto di desiderio, scoperta e libertà. Tra le due nasce una relazione intensa, totalizzante, che accompagna Adèle nella ricerca della sua identità e nel confronto con i pregiudizi sociali. Il film segue il loro legame dalla nascita della passione fino alle inevitabili fratture, raccontando il passaggio dall’adolescenza all’età adulta e il prezzo che a volte l’amore chiede di pagare.
La vera forza di La vita di Adele è la protagonista, Adele Exarchopoulos, e l’empatia quasi voyeuristica che si crea tra lei e il regista. Kechiche rimane letteralmente "incollato" ad Adele, seguendola con primi piani prolungati senza arretrare davanti all’esibizione di carne, lacrime, carezze, cibo masticato, umori e secrezioni. È la vita di Adele raccontata nei dettagli, dall’imbarazzo dei primi approcci con i ragazzi, alla fulminante comparsa di Emma, fino alla confusione iniziale rispetto alla propria sessualità, all’attesa del primo bacio, all’estasi del sesso, alla convivenza, alla gelosia e infine alla sofferenza della separazione. Emozioni comuni e ordinarie, forse, ma che diventano universali grazie all’espressività della Exarchopoulos e dei suoi occhi che raccontano la fragilità e la passionalità di una giovane donna. Una performance di straordinaria naturalezza. Davvero brava.
Il film è un vero e proprio percorso di formazione. La regia di Kechiche è ineccepibile, con una narrazione impregnata di realismo che lascia spazio ai dettagli quotidiani e alle dinamiche sociali: memorabili, ad esempio, le cene dai rispettivi genitori, che raccontano attraverso il cibo – molto presente nella pellicola – l’estrazione culturale e sociale delle protagoniste. Anche le tanto criticate, prolungate ed esplicite scene di sesso, io le ho trovate sensuali e appassionate senza mai scadere nel volgare. Dal mio punto di vista, quindi filtrato da una lente maschile ed etero, sono tra le più intense mai viste sul grande schermo. Ammetto che probabilmente la mia percezione cambierebbe se si considerassero altre prospettive, ma ciò non toglie la loro forza emotiva.
Il film esplora con autenticità la scoperta dell’amore e del sesso, la convivenza, il logoramento dei sentimenti e le inevitabili fratture nelle relazioni. Tre ore che volano, leggere nonostante la durata, con una prima parte più scorrevole e una seconda che a tratti tende a dilungarsi – le scene di feste, ad esempio, risultano più ordinarie e ridondanti – ma sempre coerente con il ritmo della vita reale, fatta di dubbi, attese, aspirazioni, gioie e abbandoni.
In definitiva, La vita di Adele è un film intenso, emozionante e profondamente realistico, che racconta con sincerità e passione la complessità dei sentimenti e il percorso di crescita di una giovane donna.
Film
La ragazza della porta accanto
di Gregory Wilson
Vedere questo film è stato devastante.
Quando penso all’horror, non sono le case infestate, gli zombi o i mostri nascosti in soffitta a turbarmi davvero. Tutto ciò che appartiene al soprannaturale resta confinato nella fantasia, e finisce per diventare quasi un esercizio di evasione. Diverso è quando l’orrore prende forma attraverso persone comuni, uomini e donne capaci di compiere atrocità inimmaginabili. Quando la crudeltà è radicata nell’animo umano, non c’è filtro, non c’è distanza di sicurezza. Se poi ciò che vediamo è ispirato a una vicenda realmente accaduta, il disagio diventa ancora più insopportabile.
È proprio questo il caso di La ragazza della porta accanto, film del 2007 diretto da Gregory Wilson, tratto dall’omonimo romanzo di Jack Ketchum ispirato al terribile omicidio di Sylvia Likens.
Negli anni cinquanta, in una tranquilla cittadina americana, due ragazzine rimaste orfane – Meg (Blythe Auffarth) e sua sorella Susan, rimasta disabile nell’incidente che ha causato la morte dei loro genitori – vengono affidate alle cure della zia Ruth Chandler (Blanche Baker), madre di tre ragazzi. All’apparenza rispettabile, Ruth si rivela presto autoritaria e disturbata, trascinando i figli e i giovani del quartiere in un perverso gioco di crudeltà e soprusi. Meg, la maggiore, diventa il bersaglio di una spirale di violenze sempre più disumane, mentre l’amico David, segretamente innamorato di lei, assiste impotente alla sua segregazione in cantina, dove subisce un calvario sadico e crudele.
Sebbene la violenza e gli atti sadici siano perlopiù tenuti fuori campo, La ragazza della porta accanto è un film estremamente disturbante, destinato a stomaci forti. Nulla a che vedere con i vari torture-porn che imperversavano negli anni in cui uscì la pellicola di Wilson. Nonostante le sevizie e le atroci umiliazioni restino fuori campo, il film non ha bisogno di scene esplicite per colpire duro. Lo fa attraverso dialoghi, tensione psicologica e suggestioni, riuscendo a creare nello spettatore una forte empatia per la povera protagonista e il suo lungo percorso di degradazione morale e fisica, atrocemente travestito da innocente gioco infantile.
A orchestrare tutto c’è la zia, donna disturbata che coinvolge i figli e altri giovani del quartiere, offrendo loro birre e sigarette e trasformandoli in complici delle sue crudeltà. Ciò che fa più male è la perversione dei ragazzi, ormai plagiati in maniera incredibile dalla donna, che finiscono per compiere ogni tipo di nefandezza contro Meg. L’unico che si sottrae a queste atrocità è il giovane David, che inizialmente assiste in silenzio, impotente, incapace di intervenire. La sua frustrazione e il senso di colpa si trasformano in una voragine di dolore quando Meg gli confessa il suo amore, poco prima di espiare per le violenze subite.
Tecnicamente ineccepibile e interpretato da un cast eccellente – molto brava la Baker, il film lascia un’impronta indelebile, soprattutto perché si ispira a fatti realmente accaduti a Indianapolis nel 1965, quando la sedicenne Sylvia Likens fu torturata e uccisa dalla donna a cui era stata affidata. Il film non è una ricostruzione fedele degli eventi – anche i nomi dei protagonisti sono diversi, ma alcune delle sevizie documentate sono state riportate in questa pellicola. Nello stesso anno uscì anche An American Crime, ispirato allo stesso caso, ma tra i due, da quello che leggo in giro, questo risulterebbe più crudo e spietato.
La ragazza della porta accanto è un horror viscerale e diretto, che si insinua sotto la pelle e lascia scosso per ore dopo la visione. Un film da vedere, pur sapendo che può fare molto male.
Film
84m²
di Kim Tae-joon, Sharon S. Park
Distribuito su Netflix, 84m² di Kim Tae-joon (anche sceneggiatore) e Sharon S. Park è un thiller domestico che mescola inquietudine quotidiana, stress finanziario e paranoia.
No Woo-sung (interpretato da Kang Ha-neul) è un giovane impiegato di Seul che, dopo anni di sacrifici, riesce finalmente a comprarsi un appartamento di 84 m², un traguardo quasi irraggiungibile in un mercato immobiliare esclusivo e implacabile. All’inizio la vita sembra migliorata, ma ben presto il valore dell’appartamento crolla, i debiti si accumulano, e Woo-sung si ritrova costretto a lavorare anche la notte per far quadrare i conti. La situazione prende una piega inquietante quando il nostro protagonista inizia a sentire strani rumori provenienti dagli appartamenti adiacenti e i vicini lo accusano di essere lui il responsabile del baccano notturno.
84m² è un thriller claustrofobico e alienante, una metafora lucidissima sul sogno – o meglio sull’incubo – di avere una casa di proprietà a Seul. Tra speculazione edilizia e crisi economica, quello che dovrebbe essere il traguardo della felicità e la prova di essere dei vincenti si rivela una trappola, un paradiso che presto si trasforma in prigione economica. Gli inquilini, più che abitanti, sono condannati a una vita da sfruttati, schiacciati dai debiti e intrappolati in un sistema che divora molto più di quanto restituisca. A questa dimensione collettiva se ne aggiunge una più intima, in cui l’appartamento si trasforma in un luogo ostile, dove ogni rumore diventa minaccia e ogni sguardo dei vicini si trasforma in sospetto.
Il film di Kim Tae-joon è interessante, ha una regia elegante, tempi perfetti, e parte da una buona idea. Peccato che, dopo un avvio solido e intrigante, tutto concentrato sul protagonista il film inizi a inciampare su se stesso. L’insistenza nel sorprendere lo spettatore ad ogni costo produce un intreccio narrattivo un po' pasticciato, che sacrifica la chiarezza e smorza l’impatto della critica sociale, pur restando ben riconoscibile.
Film godibile e accattivante ma confuso nel finale.
L'uomo in più
di Paolo Sorrentino
Ho sempre avuto un rapporto altalenante con il cinema di Paolo Sorrentino. Alcuni suoi film li ho apprezzati, altri invece li ho trovati pretenziosi e un po distanti.
Non avevo mai visto L’uomo in più, il suo esordio del 2001, il film che ha dato il via al lungo sodalizio con Toni Servillo. Un occasione per guardare, a distanza di oltre vent’anni, i primi germogli del suo cinema.
Ambientato a Napoli nei primi anni ottanta, il film racconta le vite parallele di due uomini che condividono lo stesso nome, Antonio Pisapia. Il primo, interpretato da Toni Servillo, è un cantante di successo in piena crisi personale e professionale. Il secondo, impersonato da Andrea Renzi, è un calciatore il cui promettente futuro viene spezzato da un grave infortunio. Entrambi si trovano costretti ad affrontare la caduta dall’olimpo della notorietà e a confrontarsi con la solitudine, l’ossessione per il proprio passato e la difficoltà di reinventarsi. I loro destini, simili e intrecciati solo da uno sguardo, diventano lo specchio di un’umanità fragile che si muove sul confine tra successo e disfatta.
L'opera prima di Sorrentino è la drammatica storia di due perdenti. Un calciatore e un cantante. Due uomini che condividono lo stesso nome e che hanno conosciuto il successo, salvo poi vederselo strappare via di colpo, precipitando nel fallimento.
Antonio Pisapia calciatore è un uomo chiuso, introverso, onesto, incapace di accettare compromessi. Gioca in una squadra di media classifica di Serie A ed è l’idolo dei tifosi. Quando rifiuta di partecipare a un giro di scommesse e partite truccate, subisce un grave infortunio in allenamento che stronca la sua carriera. Antonio non vuole però rinunciare al calcio e sogna di diventare allenatore. Si inventa perfino un nuovo modulo di gioco – da cui il titolo del film, l'uomo in più. Ma la sua ossessione, unita all’ingenuità e a una malinconia che allontana chiunque, gli chiude porte e possibilità, fino a fargli perdere anche se stesso.
Tony Pisapia, invece, è un cantante melodrammatico all’apice della carriera. Egocentrico, narcisista, vive sopra le righe tra alcol e droga, indifferente a tutto e a tutti, tranne che alla madre, con cui condivide il dolore e il senso di colpa per la morte del fratello. Quando viene arrestato per un rapporto con una minorenne, la sua fama crolla in un istante. Una volta uscito dal carcere nessuno vuole più avere a che fare con lui, e Tony vaga in bilico tra la ricerca dell’ultimo applauso e il desiderio di sentirsi finalmente libero.
Ispirandosi liberamente alla figura di Franco Califano e alla tragica vicenda di Agostino Di Bartolomei – che da romanista ho vissuto con particolare intensità – Sorrentino racconta l’amaro destino di due uomini segnati dalla stessa condanna, quella di conoscere la gloria e doverne poi affrontare la perdita. Due anime specchiate, fragili, destinate a consumarsi nel ricordo.
L'uomo in più è un film poetico e struggente, con personaggi ben delineati, una sceneggiatura solida e una regia elegante, ancora lontana dagli eccessi estetici che il regista adotterà in seguito. Memorabile il piano sequenza che segue Servillo in discoteca, così come l’uso della musica, già centrale nel suo cinema, capace di risaltare le sequenze più emotive.
Servillo è espressivo e convincente senza mai scivolare nella macchietta. Il suo monologo finale nello studio televisivo rimane impresso. Anche Andrea Renzi è molto convincente, anche se il suo personaggio triste e malinconico gli impone di essere più discreto e modesto.
Senza dubbio L’uomo in più rappresenta il Sorrentino che preferisco, quello più vicino a Le conseguenze dell’amore, che rimane per me il suo capolavoro. Un film sulla solitudine e sull'incapacità di reinventarsi dopo un crollo, che sia dovuto al destino o alle proprie colpe. Commovente e profondo. Mi è piaciuto molto.
Bolero
di Anna Fontaine
I biopic non sono tra i miei generi preferiti, figuriamoci francese e in lingua originale, ma a volte ci si lascia guidare da altri stimoli e si va al cinema con il piacere di condividere l’esperienza.
Bolero è un film diretto da Anne Fontaine che racconta la storia di Maurice Ravel, il famoso compositore francese noto per l'opera che da il titolo al film.
Ambientato nel vibrante contesto parigino degli anni venti, il film segue Ravel (Raphaël Personnaz) nel momento cruciale della sua carriera, quando riceve l’incarico di comporre la musica per un balletto commissionato dalla carismatica Ida Rubinstein (Jeanne Balibar). Compositore geniale ma schivo, segnato da fragilità interiori e da un percorso artistico mai lineare, Ravel nutre un amore tormentato e platonico per Misia (Dora Tillier), donna sposata e musa affascinante.
In un periodo di insicurezza e crisi creativa, Ravel si lascia guidare dalle suggestioni della vita quotidiana, dai suoni e dai ritmi che si ripetono in maniera ossessiva. Dopo molte notti insonni — e un centinaio di sigarette di troppo — nasce una delle opere più iconiche del Novecento: il Bolero, una partitura ipnotica di diciassette minuti, costruita su un tema replicato senza sosta fino a un vorticoso crescendo finale.
Il successo sarà straordinario, ma con il passare degli anni l’ispirazione si affievolirà e una misteriosa malattia cerebrale lo condurrà a un lento declino, chiudendo la parabola di un artista che aveva saputo trasformare l’ossessione in arte immortale.
Terminato il film, prima dei titoli di coda compare un cartello che ricorda come, ogni quindici minuti, da qualche parte nel mondo, qualcuno stia ascoltando o suonando il Bolero. Già nei titoli di testa, attraverso una serie di spezzoni, assistiamo alla sua esecuzione nei modi più disparati. È la conferma di quanto questa composizione, nata un secolo fa, sia entrata a far parte della memoria collettiva, capace di conquistare sia gli appassionati di musica che i non intenditori. Io, per dire, ho ascoltato il Bolero per la prima volta che avevo dieci, undici anni, rovistando tra vecchi vinili di musica classica che conservo ancora oggi. Quel ritmo ipnotico quella melodia che cresce in maniera ripetitiva, mi si è piantato in testa e non ne è più uscita. Una composizione che per i tempi era assai audace.
Tornando al film di Anne Fontaine, si apprezzano l’eleganza della fotografia e la cura scenografica, così come la prova convincente di Raphaël Personnaz. Alcuni dettagli, come gli scorci industriali che evocano le suggestioni sonore da cui Ravel trae ispirazione, funzionano molto bene. I limiti emergono però nei personaggi femminili, poco sviluppati, e in un ritmo che si fa spesso lento e monotono, con lungaggini che appesantiscono la narrazione. La struttura resta quella classica del biopic, ovvero senza particolari guizzi, sussulti o colpi di scena. Anche l’accenno a un Ravel asessuato, forse vicino a un disturbo dello spettro autistico, resta appena suggerito e mai approfondito.
In definitiva, un film elegante ma convenzionale e prevedibile che si guarda e si dimentica in fretta. Ne più nè meno di quello che mi aspettavo.
Film
Primo Amore
di Matteo Garrone
Dopo il successo de L’imbalsamatore, che lo aveva imposto all’attenzione della critica come una delle voci più originali del nuovo cinema italiano, Matteo Garrone nel 2004 torna alla regia con Primo amore. Un titolo che potrebbe suggerire una storia sentimentale convenzionale ma che, al contrario, si ispira invece a un fatto di cronaca realmente accaduto alla fine degli anni novanta, narrato dal protagonista stesso nel libro "Il cacciatore di anoressiche".
La storia vede come protagonista Vittorio (Vitaliano Trevisan), un orafo vicentino, che incontra Sonia (Michela Cescon) ad un appuntamento al buio in una stazione degli autobus. La prima frase che pronuncia Vittorio è "ti immaginavo più magra". Nonostante il campanello di allarme e i dubbi sulla possibilità di riuscita del loro rapporto, i due iniziano a frequentarsi. Vittorio è attratto dalla dolcezza e l'intelligenza della ragazza ma è ossessionato dalla magrezza, il suo ideale di donna deve avere un corpo scheletrico. Sonia sembra essere attratta dal suo lato oscuro e sebbene percepisca qualcosa di dissonante in lui, accetta di dimagrire, quasi come un atto d’amore.
Quello che sembra un semplice sacrificio affettivo si trasforma gradualmente in una prigionia fisica. I due vanno a vivere insieme e Vittorio inizia a sorvegliare ossessivamente il peso di Sonia, imponendo regole di controllo estremo e nascondendole il cibo. Sonia smette di riconoscersi, vede il proprio corpo consumarsi e scivola in un incubo di deperimento e autodistruzione.
Primo Amore è la storia di due solitudini che si incontrano e si consumano dentro un’ossessione. Da un lato c’è un uomo malato, possessivo e violento, incapace di vivere un sentimento se non attraverso il controllo, dall’altro una donna fragile, che si lascia trascinare in una spirale di sottomissione psicologica fino a perdere se stessa. Dimagrendo, Sonia non perde soltanto il corpo ma anche la vitalità, l’identità e i luoghi affettivi che la definivano.
Il cuore del film sta proprio nel tentativo disperato di cambiare l’altro, di piegarlo a un ideale, di plasmarlo come fosse materia grezza. Non è un caso che Vittorio sia un orafo: la bilancia, la precisione maniacale e la ricerca della perfezione diventano simboli di un amore trasformato in ossessione. È così che il rapporto si fa lentamente perversione psicologica. Vittorio domina Sonia attraverso il controllo del corpo, mentre lei oscilla tra il desiderio di essere ammirata e quello di scomparire, divisa tra masochismo e bisogno di riconoscimento.
Molto brava la prova di Michela Cescon, che si è sottoposta pure ad un dimagrimento di quindici chili. Più debole la prova di Vitaliano Trevisan, che ha preso parte con Garrone alla sceneggiatura. Comprendo che il suo personaggio deve essere volutamente cupo e poco comunicativo, ma i suoi dialoghi sono spesso al limite del comprensibile, e non è tanto per il dialetto veneto. Sono biascicati, borbottii, confusi con i rumori di fondo. Magari sarà stata una scelta pure voluta ma io l'ho trovata penalizzante. Per la cronaca Trevisan pare avesse dei disturbi psichici e si è suicidato nel 2022.
Passando alla regia, Garrone dirige con uno stile sobrio e implacabile, fatto di inquadrature statiche e ambienti spogli che trasmettono claustrofobia. Molto belle alcune sequenze, come quella con i volti dei protagonisti sfocati, ridotti a fantasmi, mentre il resto che li circonda è perfettamente distinguibile, oppure la cena al ristorante dai toni grotteschi - ripresa da un episodio realmente accaduto, ma mache l’allucinazione delle cipolle scambiate per cosce di pollo, fino alla scena con Sonia, nuda e scheletrica, contro la parete della cantina. Una immagine che richiama drammaticamente il ricordo di un lager.
Primo Amore è un film cupo e disperato, girato con uno stile iperrealistico e personale, tratta un tema delicato senza essere troppo eccessivo.
Terminata la visione, ho voluto approfondire la vicenda reale di Marco Mariolini recuperando su YouTube la puntata di Storie maledette in cui Franca Leosini lo intervista in carcere.
Un documento agghiacciante che amplifica ancora di più la sensazione di disagio lasciata dal film.
Nymphomaniac
di Lars von Trier
Nymphomaniac, il film scritto e diretto da Lars von Trier nel 2013, che insieme ad Antichrist e Melancholia conclude la cosidetta "trilogia della depressione", è un film decisamente impegnativo. Sia per la durata, il tema e la messa in scena.
Presentato al Festival di Berlino 2014 e poi alla Mostra di Venezia, il film, a causa della sua lunghezza (all'incirca quattro ore) è stato diviso in due pellicole distinte e proiettato nelle sale con diversi tagli. Successivamente è stato distribuito, in DVD e BlueRay, la director's cut, la versione definitiva voluta dal regista danese, sempre divisa in due film, ma della durata complessiva di circa cinque ore e mezza.
Io, ovviamente, mi sono visto la versione definitiva. La versione dove, oltre ai dialoghi nella loro interezza, ci sono le scene di sesso, che tanto hanno fatto scalpore e scandalo, mostrate in modo esplicito.
Diviso in otto capitoli più un epilogo, Nymphomaniac è la storia di Joe (interpretata da Charlotte Gainsbourg), una donna che si definisce "ninfomane". Ritrovata in un vicolo, sanguinante e piena di contusioni dal vecchio Seligman (Stellan Skarsgård), accetta di essere portata a casa dell'uomo per farsi curare. Tra una tazza di tè e un letto in cui riposare, Joe decide di confidargli la sua vita, iniziando dal periodo giovanile (interpretata da Stacy Martin). Nel lungo racconto emergono le prime esperienze sessuali, i rapporti compulsivi e le relazioni emotivamente distaccate, in un percorso che ripercorre la sua evoluzione erotica fin dall’infanzia.
Dopo l’horror di Antichrist e la fantascienza apocalittica di Melancholia, con Nymphomaniac Lars von Trier affronta il tema della pornografia. Ma attenzione, non si tratta di un film pensato per suscitare eccitazione. Le scene di sesso, pur esplicite e con i genitali in primo piano, non hanno nulla di seducente o invitante. Sono atti compulsivi, freddi, quasi meccanici, più vicini a una fame bulemica che a un piacere condiviso. Von Trier utilizza il sesso come strumento narrativo e provocatorio, un’esca per attirare lo spettatore, così come il pescatore fa con i pesci. E lo fa con una consapevolezza calcolata, basti pensare alla campagna promozionale del film, con i poster degli attori ritratti nel momento dell’orgasmo, che generò scandalo e curiosità in parti uguali.
Le scene più spinte – amplessi con doppia penetrazione, fellatio, sadomasochismo – non sono state girate dagli attori principali. Come ha spiegato al tempo la produttrice Louise Vesth, questi simulavano i rapporti, mentre le controfigure (probabilmente degli attori porno) li eseguivano realmente. In fase di montaggio, grazie alla post-produzione digitale, i due materiali venivano fusi in un’unica immagine.
Tolte le scene di sesso, che rientrano nella narrazione e che dopo un pò passano in secondo piano, la scena che mette davvero alla prova lo spettatore è probabilmente quella dell’aborto autoindotto da Joe, girata senza filtri né anestesia. Una sequenza cruda e disturbante, reso ancora più insostenibile dagli inserti radiografici. È uno dei tanti esempi di come Von Trier porti il corpo femminile al limite, privandolo di qualsiasi grazia per mostrarne la sofferenza e la disperazione.
Al di là delle provocazioni, il film è un’esplorazione cupa e spietata della sessualità femminile, decisamente al negativo. Joe si racconta senza filtri, svelando un percorso segnato da alienazione, dolore e incomprensioni. È anaffettiva, egoista, crudele. Rifiuta l’amore considerandolo una debolezza, un ostacolo al desiderio. Non a caso, con Jerome – l’uomo più importante della sua vita, da cui avrà una gravidanza indesiderata – non riesce a provare orgasmo. Ciò che sperava fosse una cura alla depressione si rivela invece la malattia stessa: il sesso come dipendenza, come voragine che alimenta frustrazione e insoddisfazione. Da qui la deriva verso esperienze sempre più estreme, fino al coinvolgimento nella criminalità.
Seligman, il suo interlocutore, rappresenta l’altra faccia, quella più razionale e logica. Ascolta con calma, interviene con divagazioni filosofiche, religiose, matematiche. Paragona la vita di Joe a Bach, ai numeri di Fibonacci, al fly fishing, cercando sempre un appiglio razionale che gli permetta di assolverla, di ricondurre il caos a un ordine che in realtà non esiste.
Sul piano tecnico, Von Trier alterna cinepresa a mano, split screen, bianco e nero, sovrimpressioni, costruendo un linguaggio visivo frammentato ma coerente. A risaltare è soprattutto la direzione degli attori. Charlotte Gainsbourg offre una prova intensa, mentre Stacy Martin porta sullo schermo la fase giovanile di Joe con sorprendente naturalezza. Tra i comprimari spiccano Uma Thurman in una scena memorabile, otto minuti di pura disperazione nei panni di una moglie tradita, e Christian Slater nel ruolo del padre di Joe. Accanto a loro Shia LaBeouf che interpreta Jerome, Jamie Bell, Connie Nielsen, una giovanissima Mia Goth alla sua prima esperienza cinematografica, e l’immancabile Willem Dafoe. Un cast internazionale, eterogeneo e sorprendentemente compatto.
Arrivati alla fine di questa maratona, resta la sensazione di aver assistito a un film ambizioso, imperfetto, sfrontato. Nymphomaniac è politicamente scorretto, la protagonista viene descritta come una donna moralmente riprovevole, e il sesso non è mai liberazione ma malattia. Non stupisce che Von Trier sia stato accusato di misoginia, ma al tempo stesso bisogna riconoscergli il coraggio di spingersi oltre i confini del cinema, sfidando lo spettatore. In fondo, più che sul sesso, Nymphomaniac è un film sull’isolamento e la solitudine. Il finale, che capovolge il ruolo di Seligman, non offre alcuna redenzione. Un pugno nello stomaco che ti lascia senza fiato.
È un’opera che non lascia indifferenti. Disturbante, spietato, a tratti respingente, ma capace di imprimersi con forza. Nel bene e nel male.
Chiamami col tuo nome
di Luca Guadagnino
Chiamami col tuo nome (nel mercato internazionale conosciuto come Call Me by Your Name) è un film del 2017 diretto da Luca Guadagnino. Tratto dall'omonimo romanzo di André Aciman e sceneggiato da James Ivory, il film ha vinto numerosi premi internazionali tra cui l'oscar per la migliore sceneggiatura non originale.
Ambientato nell’estate del 1983, tra le campagne di Brescia e Bergamo, il film racconta di Elio (Timothée Chalamet), diciassettenne sensibile e riflessivo che trascorre le vacanze nella villa di campagna della sua famiglia. L’arrivo di Oliver (Armie Hammer), affascinante e spigliato dottorando americano ospite di suo padre, professore di archeologia, rompe l’equilibrio di quell’estate tranquilla. Tra lunghe passeggiate in bici, bagni nel lago, conversazioni colte e tensioni erotiche, tra i due nasce un legame profondo e irripetibile.
Chiamami col tuo nome racconta un amore estivo tra un diciassettenne e un ventiquattrenne — anche se Chalamet sembra uscito dalle medie e Hammer un trentenne — e parla di desiderio e memoria, di quell’attimo in cui l’amore ti piomba addosso e, proprio perché dura poco, resta scolpito nei ricordi. Il film mi ha ricordato molto Ballo da sola di Bertolucci, con l’unica differenza che qui si narra di un rapporto omosessuale. Certo, non è un dettaglio da poco, ma tolto questo rimane una storia d’amore semplice, quasi ingenua, e la solita difficoltà di viverla alla luce del sole, destinata a chiudersi con la fine dell’estate. Insomma, niente lieto fine e tanta malinconia.
Dal punto di vista tecnico il film è impeccabile, con grande cura del dettaglio, belle sequenze dei paesaggi bergamaschi, e tutti gli ingredienti di quel cinema "costruito" per piacere, soprattutto all’estero. Peccato che io, dopo venti minuti, stessi già guardando l’orologio. Lento, lunghissimo, con una rappresentazione della famiglia borghese da Mulino Bianco — tutti sorridenti, comprensivi, carini ed educati — e un finale che dovrebbe commuovere, ma che ho trovato buonista e un po’ furbo. In questo film nessuno litiga, nessuno sbaglia, nessun’ombra. Anche la tipa che viene scaricata da Elio alla fine si rifà viva per diventare sua amica. Le scene erotiche sono molto edulcorate e persino la “famosa” scena della pesca — che Guadagnino voleva pure tagliare — alla fine è appena accennata e non si conclude.
Chiariamoci, il film è confezionato benissimo. I premi e gli applausi della critica non arrivano per caso. La colonna sonora funziona (e non solo per il brano di Sufjan Stevens), Chalamet è davvero bravo, l’ambientazione è affascinante, con i borghi antichi e la ricostruzione curata degli anni ottanta, e l’atmosfera estiva italiana, con cicale e tempi dilatati, è resa benissimo. Solo che, a me, non mi ha lasciato nulla. Probabilmente è un tipo di cinema distante dai miei gusti ma ho come il sospetto che, se la storia d’amore non fosse stata tra due ragazzi, questo film non avrebbe avuto la stessa risonanza.
Ho trovato questo film buonista, retorico, forzatamente inclusivo e profondamente noioso. Ma sono molti che lo reputano un capolavoro.
Mr. Vendetta
di Park Chan-wook
Mr. Vendetta, uscito nel 2002 e diretto dal regista sudcoreano Park Chan-wook, è il primo film della cosidetta Trilogia della vendetta. Un percorso narrativo e tematico che proseguirà con il pluripremiato Old Boy e troverà la sua conclusione con Lady Vendetta, esplorando in tre atti distinti le molteplici sfumature di un sentimento tanto umano quanto distruttivo.
Protagonista della storia è Ryu (Shin Ha-kyun), un ragazzo sordomuto che vive con la sorella gravemente malata, bisognosa di un trapianto di rene. Licenziato dalla fabbrica dove lavorava e senza i mezzi per affrontare le costose cure, decide di rivolgersi al mercato nero degli organi. Qui, però, viene ingannato da alcuni trafficanti che, dopo avergli asportato un rene in cambio della promessa di fornirne uno compatibile con la sorella, gli sottraggono anche il denaro, lasciandolo senza soldi e senza organo.
Disperato, Ryu cede al piano della sua fidanzata, una giovane attivista radicale, e rapisce la figlia di Park Dong-jin (Song Kang-ho), l’ex datore di lavoro responsabile del suo licenziamento, con l’intenzione di chiedere un riscatto da destinare all’operazione della sorella. Inizialmente la bambina viene affidata alla sorella di Ryu, ignara della reale situazione e convinta di fare solo da babysitter. Quando però scopre la verità, la donna si toglie la vita. La tragedia si aggrava quando la bambina, proprio mentre Ryu sta seppellendo il corpo della sorella, muore accidentalmente annegando in un fiume.
Sconvolto dalla perdita della figlia, Park Dong-jin si mette sulle tracce di Ryu per vendicarsi, mentre quest’ultimo riversa la propria rabbia sui trafficanti d’organi che lo hanno truffato.
Mr. Vendetta, se messo a confronto con i successivi capitoli della trilogia, è indubbiamente il più crudo e disperato. Un film ancora grezzo sul piano stilistico, ma carico di violenza, disperazione e morte, praticamente per tutti. Park Chan-wook ci va giù pesante con il suicidio della sorella, la morte della bambina ripresa in campo lungo, le torture, le autopsie disturbanti, l’assassinio di Ryu. Ogni colpo è secco, senza attenuanti, come se il regista volesse toglierci qualsiasi possibilità di distacco emotivo.
Qui la vendetta non è pianificata, ma nasce dall’impulso e dalla disperazione, come reazione a errori e fallimenti. Tutti sono insieme innocenti e colpevoli, in un mondo dove non esistono buoni né giusti, ma solo una sete di vendetta miope, che si avvita su sé stessa lasciando una lunga scia di sangue.
Il protagonista sordomuto incarna l’incomunicabilità e l’isolamento da cui si innesca il vortice di violenza. Park lo racconta con immagini potenti, inquadrature prolungate e silenzi carichi di tensione, dove l’assenza di musica mette in risalto suoni esterni – gocce, grida – che diventano eco della sua solitudine. Alla fine i protagonisti del film non sono né eroi né mostri, ma esseri umani fragili, incapaci di fermarsi una volta spinti sull’orlo del baratro.
Sicuramente meno ispirato a livello stilistico rispetto ai successivi ma da vedere, per chi piace il genere, ovviamente.
Improvvisamente, un uomo nella notte
di Michael Winner
Improvvisamente, un uomo nella notte, titolo italiano per The Nightcomers, è il prequel di Suspense, film diretto da Jack Clayton tratto dal celebre romanzo "Giro di vite" dello scrittore Henry James. Stiamo parlando di una delle storie di fantasmi più eleganti e suggestive mai portate sulle schermo, che mi piacerebbe rivedere presto.
Tornando a The Nightcomers, il film è diretto da Michael Winner è vede la partecipazione di Marlon Brando.
La storia si ispira ai personaggi del romanzo di Henry James e immagina cosa sia accaduto prima dell’arrivo di Miss Giddens. In una grande dimora di campagna, i due giovani orfani, Flora e Miles, vengono abbandonati dall’unico tutore e affidati alla governante Mrs. Grose (Thora Hird), alla giovane istitutrice Miss Jessel (Stephanie Beacham) e al giardiniere Peter Quinte (Marlon Brando), l’unico vero punto di riferimento per i due fratelli. L'uomo, ambiguo e carismatico, ha stretto una relazione sadica e manipolatoria con Miss Jessel, cui i bambini assistono con crescente curiosità. Sedotti dal suo fascino oscuro, Miles e Flora iniziano a emulare i suoi comportamenti, trasformandosi lentamente in creature disturbate. Quando Mrs. Grose tenta di separare i due amanti intuendone l’influenza negativa, i bambini reagiscono in modo estremo, uccidendo prima Miss Jessel, poi Quint, convinti che solo così potranno tenerli con sé per sempre.
Mettendo da parte il confronto con il capolavoro di Clayton, il film di Michael Winner non è affatto da buttare. All’epoca della sua uscita fu bersagliato dalle critiche, forse anche per via dello scandalo legato a Marlon Brando, reduce dal chiacchieratissimo film di Bertolucci. Ma visto oggi, senza pregiudizi, The Nightcomers (tralasciando il titolo italiano, davvero infelice) è una fiaba nera affascinante, attraversata da un morboso fascino perverso dall’inizio alla fine.
Winner accantona mistero e ambiguità, puntando tutto sul rapporto sadomasochista tra Quint e Miss Jessel e sull’influenza che esercitano su Miles e Flora. Ed è proprio attraverso lo sguardo dei bambini, catturati dalla violenza mascherata da amore, che la storia prende la piega più inquietante.
Brando, nonostante appaia già un po’ appesantito, riesce a imporsi con il suo carisma. Le scene tra lui e la Beacham sono intense. Buone anche le prove del resto del cast, in particolare i due piccoli protagonisti.
Certo, messo a confronto con il romanzo di Henry James o con la raffinatezza di Suspense, non regge il confronto, ma se lo si guarda come un semplice dramma gotico, il film funziona, ha la giusta atmosfera e qualche scena potente.
Il volto
di Ingmar Bergman
In uno dei periodi più turbolenti della sua vita, segnato da tensioni artistiche e complicazioni sentimentali, Ingmar Bergman scrive e dirige Il volto — Ansiktet in originale, noto anche come The Magician. È uno dei suoi film più misteriosi e ambigui, un’opera sospesa tra teatro e cinema, illusione e realtà. Girato in un elegante bianco e nero, Il volto prende le forme di un dramma teatrale con venature da commedia grottesca, toccando temi come l’identità, la finzione e il dualismo tra razionalità e magia.
Siamo nella Svezia di inizio Ottocento. Una compagnia itinerante di illusionisti, venditori di magie, ipnosi e filtri curativi, guidata dall’enigmatico Vogler (Max von Sydow), giunge alle porte di Stoccolma a bordo di una carrozza. Alla dogana, Vogler e i suoi compagni – tra cui Manda (Ingrid Thulin), la moglie travestita da giovane assistente, la vegliarda nonna e l’affabulatore Tubal – vengono fermati e condotti in un palazzo per ordine della polizia. Per poter esibirsi, devono ottenere un lasciapassare e sottoporsi a una sorta di “esame” da parte di Vergerus (Gunnar Björnstrand), un medico scettico e nemico delle superstizioni, affiancato da un poliziotto ipocrita e da un governatore annoiato, ma affascinato dal richiamo dell’ignoto.
Il volto è un film che mette in scena un duello invisibile. Da una parte l’ignoto, la superstizione, la fascinazione per l’inspiegabile. Dall’altra la scienza, la ragione, l’ossessione per il vero. Bergman prende questi due mondi e li fa scontrare senza indicarci mai da che parte stia la verità. Anzi, fa di tutto per confondere le carte. A tratti sembra schierarsi con la magia, altre volte con la logica più spietata, ma più spesso si diverte a togliere la maschera a entrambi.
La tensione tra Vogler, il mesmerista silenzioso, e Vergerus, il medico razionalista, è il motore narrativo del film. Ma attorno a loro si muove una galleria di personaggi che sembrano usciti da un piccolo teatro dell’assurdo. Tutti nascondono qualcosa, e nel momento in cui le maschere iniziano a cadere emerge l'amara verità che nessuno è davvero ciò che sembra. La maga è solo una truffatrice. Il capo della polizia un mediocre autoritario. Vogler, alla fine, non è un uomo dai poteri straordinari, ma un povero artista spaventato, vulnerabile, lontanissimo dall’aura mitica che si era costruito. Persino Vergerus, l’incarnazione della razionalità, crolla sotto il peso di uno scherzo ben orchestrato, lasciando trapelare una crisi interna che non può più essere nascosta dietro il rigore della scienza.
Dal punto di vista visivo, Il volto è un piccolo gioiello. La fotografia in bianco e nero di Gunnar Fischer amplifica l’ambiguità del film, muovendosi tra chiaroscuri teatrali, inquadrature strette e spazi angusti che mettono i personaggi sotto pressione. Le sequenze ambientate nell’attico sembrano uscite da un horror espressionista. Bravi anche gli interpreti con un Max von Sydow perfetto nel ruolo di silenzioso illusionista, quasi disumano nel suo pallore. Sembra un vampiro.
Il volto è un film in bilico fra il drammatico e il surreale, tra grottesco e ironia. Le sottotrame sentimentali che coinvolgono i membri della compagnia e le domestiche del palazzo contribuiscono ad alleggerire la pellicola.
Bergman costruisce un'opera ambigua e stratificata che riflette sul potere dell’illusione, sull’identità dell’artista e sull’inevitabile bisogno umano di maschere.
Le iene
di Quentin Tarantino
Nel cinema, come in tutte le forme d’arte, ci sono momenti che segnano uno spartiacque. Film che arrivano, spiazzano tutti e cambiano le regole del gioco. Non capita spesso, ma quando succede lo capisci subito. Nel 1992, un giovane semisconosciuto grande appassionato di cinema, Quentin Tarantino, esordisce alla regia con Le Iene, un film indipendente realizzato con un budget bassissimo, che pianta il seme di una rivoluzione stilistica che esploderà due anni dopo nel suo capolavoro, Pulp Fiction. I personaggi grotteschi, la struttura non lineare, i dialoghi brillanti e l'uso della violenza come linguaggio, nasce qui, in forma più grezza, ma già potentissima.
Tarantino iniziò a scrivere la sceneggiatura di Reservoir Dogs – il titolo originale del film – verso la fine degli anni ’80. All’epoca aveva già messo mano a diverse sceneggiature, come Una vita al massimo e Natural Born Killers, poi passate attraverso riscritture e registi diversi. Le Iene, invece, restò chiusa in un cassetto per un po’, in attesa del momento giusto. Quel momento arrivò quando riuscì finalmente a racimolare i fondi necessari, anche grazie all’interessamento di Harvey Keitel, uno dei primi attori affermati di Hollywood a credere davvero nel progetto. Fu lui a dare al film la spinta decisiva, non solo recitando in uno dei ruoli principali ma aiutando anche a trovare produttori e credibilità.
Ambientato a Los Angeles, Le iene racconta di una rapina ai danni di una gioielleria compiuta da sei rapinatori professionisti arruolati da un boss della mala (Lawrence Tierney). I rapinatori, noti solo con i loro codici-colore, sono Mr. White (Harvey Keitel), Mr. Blonde (Michael Madsen), Mr. Pink (Steve Buscemi), Mr. Brown (Quentin Tarantino), Mr. Blue (Edward Bunker) e Mr. Orange (Tim Roth). Ma qualcosa va storto. La polizia arriva troppo in fretta e la rapina si trasforma in un bagno di sangue. Mr. White riesce a fuggire insieme a Mr. Orange, gravemente ferito, e si rifugia in un capannone abbandonato, punto di ritrovo stabilito in precedenza. Qui vengono raggiunti da Mr. Pink, convinto che uno del gruppo sia una spia, e poco dopo da Mr. Blonde, accusato di aver scatenato la sparatoria aprendo il fuoco sui poliziotti.
A leggerne la trama, Le Iene potrebbe sembrare l’ennesimo gangster movie. E invece no. La rapina non ci viene mai mostrata – se non in brevi flashback legati alla fuga. A raccontarla sono i protagonisti, attraverso una serie di dialoghi serrati, vibranti, in cui si mescolano tensione, humour nero e delirio paranoico. Anche la struttura narrativa, la linea temporale in cui si svolgono gli avvenimenti, viene scomposta e rimontata come un puzzle. Una tecnica che verrà ripresa – e portata all’estremo – in Pulp Fiction e che Tarantino prende da Rapina a Mano Armata di Stanley Kubrick, film caratterizzato proprio dalla narrazione non lineare e la molteplicità dei punti di vista. Come lo stesso Tarantino ama ripetere, citando una celebre frase di Picasso, "I bravi artisti copiano, i grandi rubano" il suo cinema è un continuo gioco di rimandi, citazioni, saccheggi dichiarati e omaggi appassionati ai classici e al cinema meno conosciuto. In Le Iene, per esempio, è evidente il debito nei confronti di City on Fire di Ringo Lam, film hongkonghese da cui riprende non solo il concept ma anche intere sequenze. E nel triello finale si intravede tutta la passione del regista per lo spaghetti-western, con un riferimento diretto a Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone.
Una delle particolarità del film sono i dialoghi fitti, taglienti, volgari, spesso inconcludenti ma sempre capaci di tenere alta l’attenzione. I primi otto minuti del film, con la discussione sul significato di "Like a Virgin" di Madonna e sull’opportunità di lasciare la mancia alla cameriera, sono già una dichiarazione d’intenti. È lì che Tarantino dimostra tutto il suo talento da sceneggiatore: ritmo, ironia, costruzione dei personaggi e uso della cultura pop come linguaggio universale. Il tutto condito da una colonna sonora iconica, usata non come semplice accompagnamento ma come elemento narrativo.
E poi c’è la violenza. Non arriva subito, ma quando lo fa è brutale, grottesca, disturbante. Una violenza secca, mai edulcorata, che fa ridere e insieme mette a disagio. Emblematica in questo senso la famigerata scena della tortura del poliziotto, accompagnata da "Stuck in the Middle with You".
Oggi, in un’epoca dominata dal politically correct e dalla cultura woke, un film del genere sarebbe probabilmente inconcepibile. Basti pensare al linguaggio utilizzato: il termine “negro” viene ripetuto più volte, non mancano battute sessiste, e nessun personaggio si salva dal politically uncorrect.
Il cast è perfetto. Harvey Keitel, già all’apice della carriera, regala un’interpretazione intensa e ruvida. Tim Roth è straordinario nel ruolo più ambiguo, Steve Buscemi è nevrotico e imprevedibile, e Michael Madsen – attore feticcio di Tarantino – entra nella storia del cinema con una performance disturbante e magnetica nei panni dello spietato Mr. Blonde.
Le Iene diventò in breve tempo un cult assoluto. Insieme a Pulp Fiction, Trainspotting e Fight Club, è uno di quei titoli che non si limitano a raccontare un’epoca ma finiscono per rappresentarla. I completi neri, le cravatte sottili e gli occhiali da sole (omaggio dichiarato ai Blues Brothers) sono diventati icone pop, replicate all’infinito e rielaborate da cinema, pubblicità e televisione. Persino in Italia, il titolo è entrato nell’immaginario collettivo grazie a un celebre programma Mediaset, a dimostrazione di quanto il film di Tarantino abbia saputo contaminare tutto ciò che è venuto dopo.
Film
In the Mood for Love
di Wong Kar-wai
L’amore più intenso, almeno al cinema, è spesso quello che non si consuma. Quello fatto di sguardi, silenzi, gesti trattenuti. Pensiamo a L’età dell’innocenza, Lost in Translation, al recente Past Lives e, naturalmente, a In the Mood for Love — un film che ha riscritto le regole del romanticismo sullo schermo e che ancora oggi è considerato uno dei capolavori del genere.
Diretto dal regista hongkonghese Wong Kar-wai, In the Mood for Love racconta la storia d’amore trattenuta tra un uomo e una donna vittime dell’infedeltà dei rispettivi coniugi.
Hong Kong, 1962. Il signor Chow (Tony Leung) e la signora Chan (Maggie Cheung) si trasferiscono lo stesso giorno in due appartamenti adiacenti. I rispettivi coniugi sono spesso assenti per lavoro e i due si ritrovano sempre più spesso a condividere piccoli momenti quotidiani. Quando scoprono che i loro partner li stanno tradendo l’uno con l’altro, nasce tra loro un legame silenzioso, profondo, fatto di empatia e dolore condiviso. Ma entrambi decidono di non ripetere lo stesso errore, di non cedere alla tentazione, trattenendo i sentimenti e lasciando che l’amore resti sospeso.
Malinconico, struggente, elegantissimo, il film esplora il confine tra sensualità e castità, tra ciò che si dice e ciò che resta inespresso. La tensione tra i protagonisti vive nei gesti mancati, negli sguardi rubati, nei dialoghi interrotti. Un desiderio impalpabile, reso ancora più seducente da un’estetica impeccabile e da una regia che cattura due corpi che si sfiorano senza mai toccarsi.
La narrazione si affida a movimenti di macchina lenti, primi piani intimi, inquadrature che spiano i personaggi da angoli nascosti o spazi angusti. Maggie Cheung attraversa il film con grazia magnetica, avvolta nei suoi cheongsam impeccabili, troppo eleganti per una semplice passeggiata. Ogni suo gesto è incorniciato dalla fotografia sognante di Christopher Doyle, fatta di luci soffuse, cromie calde e contorni sfumati. Spesso la vediamo di spalle, o riflessa in uno specchio, come se la macchina da presa cercasse invano di trattenerla.
Accanto a lei, Tony Leung — premiato a Cannes nel 2000 — è misurato, trattenuto, sempre con i capelli perfettamente impomatati. La sua interpretazione si nutre di silenzi e dettagli minimi, una tristezza sommessa che si insinua scena dopo scena.
I due protagonisti, che abitano in un appartamento condiviso, si muovono sotto lo sguardo opprimente dei locatori, in una città che sembra sempre pronta a giudicare. È come se dovessero essere loro a espiare le colpe dei rispettivi coniugi, che non vediamo mai in volto e restano fuori campo, ridotti a voci e oggetti dimenticati.
La colonna sonora ha un ruolo centrale, spesso protagonista. Il tema ricorrente di "Yumeji’s Theme" accompagna i loro movimenti rallentati, trasformando ogni scena in un rituale dolente. I brani di Nat King Cole aggiungono sensualità e struggimento, rendendo la tensione emotiva quasi tangibile.
Il film è una riflessione sottile sul desiderio, sull’amore impossibile e sulla fragilità dei legami umani. Non tutte le storie devono compiersi per essere autentiche. A volte è proprio nell’incompiutezza che l’amore diventa eterno.
Film
Melancholia
di Lars von Trier
Dopo aver decostruito l'orrore con Antichrist, Lars von Trier decide di utilizzare la fantascienza, trasformandola in una tragedia privata e universale con il suo solito stile drammatico e introspettivo. Melancholia è il secondo film della cosiddetta trilogia della depressione, e come ogni sua opera, è tutto fuorché conciliatorio.
Melancholia racconta la storia di due sorelle, Justine (Kirsten Dunst) e Claire (Charlotte Gainsbourg), nel momento in cui un misterioso pianeta minaccia di collidere con la Terra. Diviso in due parti, il film si apre con una sequenza di immagini al rallentatore, veri e propri quadri in movimento sospesi tra bellezza e presagio.
Nella prima parte assistiamo al matrimonio di Justine con Michael (Alexander Skarsgård), figlio del suo capo (Stellan Skarsgård). Justine inizialmente appare radiosa, ma con il passare del tempo il ricevimento sontuoso si svuota di senso, e la sposa — tra una madre sprezzante (Charlotte Rampling) e un padre ubriaco (John Hurt) — comincia a isolarsi e a mostrare segni di ansia e tristezza, fino a sabotare il proprio matrimonio.
Nella seconda parte, Claire ospita Justine a casa sua, ormai sprofondata in una forte crisi depressiva, cercando di prendersene cura. Il pianeta — chiamato Melancholia — si avvicina, e mentre John (Kiefer Sutherland), marito di Claire, prova a rassicurare tutti, convinto che passerà vicino alla Terra senza conseguenze, Justine sembra accogliere l’inevitabile con una calma inquietante, come se avesse sempre saputo che l’umanità è in procinto di scomparire per sempre.
Melancholia non è un film sulla fine del mondo, ma sulla depressione. L’evento cosmico che incombe — il pianeta che si avvicina alla Terra — è solo un riflesso, gigantesco e silenzioso, dello stato mentale di Justine. Un malessere che si insinua fin dall’inizio e cresce scena dopo scena, fino a coincidere con la catastrofe finale.
Lars von Trier ha più volte dichiarato di aver concepito Melancholia durante un periodo particolarmente buio della sua vita. Non sorprende, quindi, che il film ne porti addosso il peso e la grazia disturbata. Lo stesso vale per Kirsten Dunst, che ha attraversato momenti simili e che qui ci regala una prova attoriale senza filtri, senza protezioni. Non recita, si espone. Ed è proprio questa nudità emotiva a renderla così magnetica. La sua performance — premiata a Cannes — è magistrale. Sublime in abito da sposa, immersa nell’acqua come una moderna Ofelia. Un’icona decadente, bellissima e inerme.
La depressione non viene mai spiegata, ma mostrata nel suo effetto paralizzante. Justine non riesce a reagire, a partecipare, nemmeno a camminare. E intorno a lei, tutto si fa inconsistente. Un ricevimento nuziale che si svuota di senso, una famiglia disfunzionale fatta di assenze, cinismo e incapacità d’amore. Persino il suo capo, simbolo di un capitalismo predatorio e indifferente, che arriva a chiederle di lavorare il giorno delle nozze.
Visivamente, Melancholia è un capolavoro. La fotografia trasforma ogni inquadratura in un sogno a occhi aperti. L’apertura, con le note solenni del Tristano e Isotta di Wagner, è un prologo pittorico che condensa in pochi minuti tutta l’estetica del film. È la fine del mondo vista come arte, come arresto del tempo.
Nella prima parte, durante il matrimonio, sembra di rivedere il Festen di Vinterberg. La macchina da presa di von Trier si muove intrusiva, straniante, restituendo il ritratto di una borghesia svuotata e sull’orlo del collasso. Nella seconda, con l’avvicinarsi del pianeta, tutto si fa più intimo, più fisico, più immobile. Claire diventa la nuova protagonista, cerca di prendersi cura della sorella, ma si ritrova impotente. Suo marito John — razionale, insensibile, sicuro della scienza — si rivelerà l’anello più debole, dimostrandosi un vigliacco. Claire, forte e razionale nella prima parte, si disintegra — molto brava anche la Rampling — mentre Justine, fragile e disfunzionale, si fa roccia. Non combatte, non spera, ma accetta, in maniera liberatoria. "La Terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei", dice. Una frase che non è solo il pensiero di Justine, ma l’intera poetica di von Trier.
In mezzo a loro c’è Leo, il bambino. Non ancora corrotto, non ancora formato, osserva il mondo che cade a pezzi e si affida alla zia “spezzacciaio”. Sarà proprio lui a riconoscere per primo quella forza nascosta in Justine, quella capacità di vedere al di là dell’ovvio, e scegliere lei come guida per il suo ultimo viaggio.
Il finale, annunciato sin dall’inizio, arriva con la potenza visiva di un’incudine nel silenzio. Nessuna fuga, nessuna salvezza, nessuna redenzione. Solo bellezza e devastazione. Eppure, qualcosa resta. Una forma di pace, o forse di verità. Un’accettazione lucida del fatto che, come nella mente di chi soffre, non c’è via di fuga. La fine è già scritta. E Lars von Trier ce la mostra con la serenità gelida di chi ha sempre saputo che il mondo è destinato a finire.
Melancholia non è solo cinema, è qualcosa che rimane dentro. Un’esperienza totalizzante che mi colpito nel profondo. Per me, un capolavoro assoluto.
Film
Il posto delle fragole
di Ingmar Bergman
Scrivere qualcosa su un film di Ingmar Bergman, mi da sempre una sensazione di inadeguatezza. Se il film in questione è Il posto delle fragole, la soggezione cresce ancora di più.
Senza elencare tutti i premi e i riconoscimenti (li potete trovare facilmente su Wikipedia), dirò solo che Il posto delle fragole è un capolavoro senza tempo. Un’opera intima e introspettiva che cattura quel momento fragile della vita in cui si compie un bilancio esistenziale, si guarda indietro e si cerca di mettere ordine al disordine. Un poema visivo che mescola dolcezza e malinconia, sogno e realtà, vita e presagio di morte. Nulla è mai perduto e Bergman ce lo insegna.
Il professor Isak Borg (Victor Sjöström), medico in pensione, deve recarsi a Lund per ricevere un prestigioso riconoscimento accademico. Invece di prendere l’aereo, decide di affrontare il viaggio in auto, insieme alla nuora Marianne (Ingrid Thulin). Quello che inizia come un semplice tragitto si trasforma presto in un pellegrinaggio interiore: lungo la strada, Isak rivive sogni, ricordi d'infanzia e incontri simbolici che lo costringono a fare i conti con se stesso, con le sue scelte, con l’aridità emotiva che ha lasciato dietro di sé. Tra una sosta e l’altra — una casa che non c’è più, tre giovani autostoppisti, una coppia che litiga — il viaggio si fa via via più onirico e personale, fino a diventare una resa dei conti con la propria memoria. E in fondo, forse, anche una timida riconciliazione col passato.
Nonostante i simbolismi, presenti come in tutti i film di Bergman, Il posto delle fragole è uno dei suoi film più accessibili, forse uno dei più lirici, delicati e coinvolgenti.
E' un viaggio on the road alla ricerca del tempo perduto, un viaggio interiore tra sogni inquieti, ricordi sbiaditi, persone amate e perdute.
L'incubo iniziale è magistrale. Un incubo, avuto la notte prima di partire, in cui il nostro protagonista vaga in una città silenziosa, deserta e illuminata, dove il tempo ha smesso di funzionare. L'orologio sul lampione è privo di lancette così come il suo orologio da tasca. Si sente un tichiettio rimbombante - e nella mia testa subito echeggia Times di pinkfloidiana memoria. Compare un uomo con un cappello di spalle. Quando si volta l'uomo, senza occhi né bocca, cade a terra afflosciandosi su se stesso. Poi, in un’atmosfera irreale, un carro funebre trainato da due cavalli, senza alcun cocchiere si schianta contro un lampione, rovesciando una bara sul selciato. Quando Borg si china per esaminare la bara aperta, una mano lo afferra tirandolo a sé, riconoscendo nel volto del morto il proprio volto. Più tardi, durante il viaggio, Borg confiderà alla nuora che da qualche tempo fa sogni strani, come se volesse dire a se stesso qualcosa che non vuole ascoltare da sveglio. Che è morto pur essendo vivo.
Il protagonista, interpretato dal leggendario Victor Sjöström (regista del capolavoro Il carretto fantasma, che Bergman considerava un mentore), è un anziano medico in pensione, chiuso in una corazza di buone maniere e misantropia. Una sorta di Scrooge dickensiano, ma più trattenuto ed educato. Il suo nome, "Isak Borg", tradotto dallo svedese può suonare come “fortezza di ghiaccio” e condivide le iniziali con lo stesso Bergman. Ma il regista ha dichiarato più volte che Borg non è un suo alter ego, bensì un ritratto del padre. Un uomo freddo, distante, che ha sacrificato il contatto umano in nome di un’immagine rassicurante di sé. La nuora, personaggio bellissimo e sfumato, lo inchioda fin da subito: “un egoista che si nasconde dietro la sua bonarietà e i suoi modi raffinati.”
Il viaggio da Stoccolma a Lund è solo un pretesto per raccontare una vita intera. In ogni sosta, Borg incontra qualcosa che lo riguarda: la giovinezza perduta, l’amore non vissuto, il rancore che ha lasciato crescere nei rapporti familiari, la madre che è ancora viva ma più fredda di lui, il figlio Evald bloccato tra il cinismo e una tristezza trattenuta.
Ma il film non è un funerale. È un gesto di riconciliazione. La parabola di Isak è quella di un uomo che si guarda finalmente allo specchio, senza schermi. Scopre di essere ancora vivo. Scopre che la maschera che ha indossato per tutta la vita non era una protezione, ma una prigione. E che forse, alla fine, si può ancora sussurrare una parola gentile, regalare un gesto di tenerezza, lasciare uno spiraglio aperto.
Il finale è pieno di grazia. Isak conversa con la governante, quella figura ruvida e amorevole che gli è rimasta accanto come un’ombra fedele. Lei gli dice, con un sorriso: "Lascio la porta socchiusa. Se ha bisogno di qualcosa, sa dove trovarmi". E forse è lì, in quella frase semplice, che il professor Borg trova finalmente il suo posto delle fragole: un luogo non reale, ma emotivo. Un angolo della memoria in cui poter riposare, senza più difese.
Girato in un bianco e nero straordinario che esalta i contrasti e la densità degli spazi, Il posto delle fragole è diretto con mano magistrale, scritto con delicatezza e lucidità, interpretato con una profondità rara.
Un capolavoro che riesce a essere profondo con leggerezza.
Da rivedere a distanza di anni.
Le notti di Cabiria
di Federico Fellini
Le notti di Cabiria di Federico Fellini è probabilmente il film che ha consacrato Giulietta Masina come una delle attrici più straordinarie del nostro cinema. Un piccolo clown malinconico, fragile ma testardo, che cammina in equilibrio sul bordo di una Roma notturna e disperata. Tra neorealismo e poesia malinconica, il film, girato nel 1957, ha vinto l’Oscar come miglior film straniero, il secondo consecutivo per Fellini dopo La strada, ed è stato scritto a sei mani da Fellini insieme a Ennio Flaiano e Pier Paolo Pasolini.
La storia ha per protagonista una prostituta romana di periferia che si fa chiamare Cabiria (Giulietta Masina), piccola donna fiera e ostinata, abituata a cavarsela da sola tra bordi di strada e sogni a metà. Ingenua ma non stupida, Cabiria attraversa la notte romana in cerca di qualcosa che assomigli all’amore, o almeno a una tregua dalla solitudine. Rischia di essere uccisa da un amico che la deruba, viene umiliata, derisa, illusa, ma ogni volta si rialza, come se il mondo non fosse riuscito a spegnerle del tutto la speranza. Il film segue le sue peregrinazioni tra clienti volgari, attori vanitosi, santoni improbabili e uomini che promettono una vita nuova. Finché, nel finale, anche l’ultima illusione si spezza. Ma Cabiria, ancora una volta, resta in piedi.
Nonostante Fellini fosse già un regista affermato e riconosciuto a livello internazionale, Le notti di Cabiria ebbe diversi problemi di produzione e distribuzione. Il motivo? La protagonista è una prostituta, figura che nel cinema italiano degli anni ’50 era ancora un tabù. Eppure, sarà proprio questa figura marginale e scomoda a regalare al cinema uno dei suoi personaggi femminili più profondi e indimenticabili. Cabiria è interpretata da Giulietta Masina, attrice feticcio e compagna di vita di Fellini, che con la sua mimica candida e quegli occhi sempre sull’orlo delle lacrime, disegna il ritratto di una donna che vive sospesa tra illusione e disincanto. È sola, ingenua, spesso derisa, ma in lei brucia una vitalità indomita. Si rialza sempre, anche quando la vita la schiaccia. Con un sorriso fragile, forse illuso, ma pieno di speranza. Il personaggio di Cabiria era già apparso brevemente ne I vitelloni, ma è qui che prende forma piena, immersa in una Roma notturna e sottoproletaria, resa viva anche grazie ai dialoghi scritti da Pier Paolo Pasolini, che dona al film un realismo crudo e poetico. Cabiria batte il marciapiede insieme ad altre colleghe, ma sotto la corazza ruvida nasconde un animo gentile, il desiderio di essere amata, la voglia di riscatto.
Il film si apre con la scena in cui Cabiria viene buttata nel fiume dal suo fidanzato, che le ruba la borsetta con i risparmi. È l’inizio di un percorso a tappe, una serie di episodi apparentemente slegati, ma uniti dal filo rosso della disillusione. L’incontro con un famoso attore (interpretato da Amedeo Nazzari), l’episodio al santuario del Divino Amore dove, spinta dalla fede popolare, chiede alla Madonna di cambiare vita, e la struggente scena del teatro, dove viene ipnotizzata da un illusionista e si lascia andare davanti al pubblico, rivelando, tra le risate generali, la sua solitudine e il desiderio disperato di amore.
Le notti di Cabiria è un film ancora legato al neorealismo e lontano dal Fellini surreale e onirico, ma capace di fornire un sincero affresco di una donna sbandata, sola, fuori dal tempo e dal centro, eppure tenacemente viva. Un ritratto femminile che commuove senza mai diventare patetico, che graffia senza retorica. Cabiria è l’emblema di chi, nonostante tutto continua a cercare, a credere, a camminare. E quel sorriso finale, tra le lacrime, è una delle immagini più struggenti e luminose della storia del cinema.
