
Il settimo sigillo
di Ingmar Bergman
Il settimo sigillo è probabilmente il film più conosciuto di Ingmar Bergman. Non necessariamente il più intimo né il più complesso, ma di certo il più rappresentativo. L’opera che ha consacrato il regista svedese sulla scena internazionale e che ha impresso alcune delle sue immagini più potenti nell’immaginario collettivo.
La partita a scacchi con la morte, i paesaggi spogli battuti dal vento, lo sguardo inquieto dei protagonisti, tutto in questo film è diventato simbolo, omaggiato e parodiato fino a farsi mito.
Nel cuore di un Medioevo devastato dalla peste e dalla disperazione, il cavaliere Antonius Block (Max von Sydow), insieme al suo fedele scudiero (Gunnar Björnstrand), fa ritorno in Svezia dopo anni di crociate. Ma ad attenderlo sulla spiaggia non c’è la pace, bensì la Morte in persona, venuta a reclamare la sua anima. Deciso a guadagnare tempo per trovare un senso all’esistenza e alla fede perduta, il cavaliere sfida la Morte a una partita a scacchi. Il loro duello diventa il filo conduttore di un viaggio attraverso un paesaggio desolato e simbolico, popolato da contadini superstiziosi, flagellanti, attori erranti, donne accusate di essersi concessa al diavolo e uomini senza Dio. Un pellegrinaggio terreno e spirituale, tra la paura dell’Apocalisse e il desiderio di redenzione.
Il settimo sigillo nasce come trasposizione cinematografica di un’opera teatrale scritta dallo stesso Bergman per i suoi studenti, ispirata agli affreschi delle chiese contadine svedesi, dove la Morte danza con i vivi accompagnandoli in silenzio verso la fine.
Non stupisce, quindi, che il film porti con sé un’impronta teatrale, fatta di dialoghi intensi e situazioni emblematiche, quasi da sacra rappresentazione. A tratti sembra di assistere a un dramma shakespeariano, ma più spoglio, più essenziale, e soprattutto più esistenziale.
Il protagonista, Antonius Block, non è l’eroe tragico, ma un uomo stanco, che si interroga sul senso dell’esistenza e sulla presenza – o assenza – di Dio, che si chiede se la vita sia solo un caso, una parentesi prima del nulla. Il suo ritorno dalle crociate non ha nulla dell’epico, è il viaggio di un’anima svuotata, che cerca risposte in un mondo in cui la fede è diventata fanatismo, la peste divora i corpi e la paura brucia le streghe. E intorno a lui si muovono figure che sembrano simboli viventi, Lo scudiero cinico e disilluso, la coppia di attori di strada pieni di speranza, il fabbro e la moglie grotteschi, la ragazza muta che solo davanti alla fine ritrova la parola. Sembra quasi un mazzo di tarocchi (il cavaliere, la morte, il saltimbanco, la vergine, etc), ognuno con il suo archetipo da incarnare. Tutti parlano, a modo loro, dell’essere umani.
La partita a scacchi non è solo la scena più celebre del film, è il cuore della pellicola, una lunga sfida contro il nulla, un tentativo disperato di rinviare l’appuntamento con la fine e di trovare qualche indizio sul senso dell’esistenza. La morte, col suo volto pallido e impassibile, gioca ma non rivela nulla. Ascolta, sorride, fa il suo lavoro. E il cavaliere, nel suo bisogno disperato di credere in qualcosa, non ottiene altro che il silenzio.
Perché questo film non consola, non offre risposte, non apre spiragli. Al massimo, fa spazio al dubbio. E ci mette davanti a un’idea scomoda, che l’unica vera risposta potrebbe essere il nulla.
Non è un film perfetto, e non lo vuole essere. È freddo, a tratti distante. Non ti prende per mano, non ti commuove facilmente. Ma ti resta dentro. Ti interroga. E magari non subito, ma dopo un po’ ti accorgi che ti ha lasciato addosso qualcosa.
Dal punto di vista visivo è straordinario. La regia è rigorosa e precisa, la fotografia in bianco e nero di Gunnar Fischer è qualcosa che non si dimentica. Il paesaggio svedese sembra scolpito nella pietra, e riflette alla perfezione l’animo inquieto dei personaggi. I volti, le ombre, i contrasti, tutto ha un peso, tutto racconta qualcosa.
Straordinari gli attori, su cui spicca un giovane Max von Sydow, il cui volto scavato riesce a restituire tutta la malinconia e la disperazione del cavaliere. Ma è anche impossibile dimenticare la maschera inquietante e compassata della Morte, interpretata da Bengt Ekerot, diventata icona della settima arte – chissà se Marty Feldman si sia ispirato a lui per il suo Igor, ovviamente in chiave comica.
Il settimo sigillo è un film figurativamente magnetico, stratificato. Pieno di simboli, riferimenti religiosi, allegorie medievali. Bergman prende l’arte sacra, trasformando le paure di un’epoca in domande universali. Un film pieno di metafore e profondamente esistenzialista che ci ricorda che è umano cercare risposte - e cedere alla religione e al fanatismo per trovare conforto e un senso di appartenenza - ma che in fondo ognuno di noi è destinato, prima o poi, a guardare negli occhi la morte, quindi tanto vale nel frattempo vivere con leggerezza e magari assaporare delle fragole appena raccolte.
Vabbè, detto questo, il prossimo film me lo scelgo un pò più leggero.

Mulholland Drive
di David Lynch
Se dovessi stilare una classifica dei miei film preferiti, Mulholland Drive occuperebbe senza esitazione il primo posto. Nutro un amore viscerale per David Lynch e una venerazione profonda per Mulholland Drive che considero un capolavoro.
Secondo una classifica della BBC che ha coinvolto 177 critici cinematografici di 36 paesi, Mulholland Drive è considerato il miglior film del ventunesimo secolo. Un film enigmatico, stratificato, che ha generato fiumi di interpretazioni, saggi, recensioni, e analisi di ogni tipo. Al di là delle parole, vedere un film di Lynch non è mai semplicemente "guardare un film". È un’esperienza. E Mulholland Drive è, forse, la sua manifestazione più sublime.
Mulholland Drive nasce nel 1999 come un progetto televisivo destinato alla ABC, concepito come pilota di una serie che avrebbe dovuto proseguire l'eredità di Twin Peaks. Nonostante l'entusiasmo iniziale, la ABC rifiutò il progetto, giudicandolo troppo oscuro, lento e confuso per il pubblico televisivo mainstream. Dopo il rifiuto, Lynch si trovò con un'opera incompleta, senza una destinazione e con nessun produttore americano disposto a finanziare il film. Fu grazie all'intervento del produttore francese Pierre Edelman e al sostegno finanziario di StudioCanal che il progetto trovò nuova vita. Lynch riscrisse e ampliò la sceneggiatura, aggiungendo nuove scene che trasformarono il pilota in un film completo. Le riprese aggiuntive si svolsero nell'ottobre del 2000, con un finanziamento di 7 milioni di dollari.
Il risultato fu un'opera che trascendeva le convenzioni narrative, mescolando realtà e sogno in un'esperienza cinematografica unica. Mulholland Drive venne presentato al Festival di Cannes nel 2001, dove Lynch vinse il premio per la miglior regia, consacrando il film come uno dei capolavori del cinema contemporaneo.
A grandi linee, la trama di Mulholland Drive è la seguente.
Una misteriosa donna (Laura Harring) scampata a un incidente d’auto lungo la celebre strada collinare di Los Angeles si rifugia, spaesata e priva di memoria, in un appartamento apparentemente disabitato. Poco dopo, nello stesso appartamento arriva Betty (Naomi Watts), un’aspirante attrice dal sorriso luminoso, appena atterrata a Hollywood con il sogno di sfondare nel cinema. Dall'incontro tra le due ragazze nasce un legame ambiguo e intenso, mentre insieme tentano di scoprire l’identità perduta di Rita (il nome adottato dalla sconosciuta) seguendo una serie di indizi che si fanno via via più oscuri.
Nel frattempo un regista hollywoodiano (Justin Theroux) viene minacciato da grotteschi e ambigui mafiosi affinche scelga l'attrice che dovrà interpretare il ruolo della protagonista del suo prossimo film. Un killer pasticcione, un uomo terrorizzato da un sogno ambientato dietro un ristorante, un cowboy enigmatico, e uno spettacolo teatrale dove tutto è finto ma sembra tremendamente reale, completano un mosaico narrativo dove i confini tra realtà e illusione si dissolvono.
Chi ama Lynch sa che non bisogna cercare un senso razionale nelle sue storie. Il suo cinema non chiede di essere capito, ma vissuto. È un’esperienza da attraversare lasciandosi trasportare dalle suggestioni, dai simboli, dai sogni che si mescolano alla realtà e all’inconscio. Eppure, tra Lost Highway, Mulholland Drive, e Inland Empire — quella che potremmo chiamare, seppur con qualche forzatura, la sua trilogia del sogno — è proprio Mulholland Drive a essere il più leggibile e comprensibile. E allora, proviamo a rimettere insieme i pezzi di questo intricato puzzle.
Da qui in avanti, inevitabilmente, partono gli spoiler.
Il film si divide, sostanzialmente, in due parti. La prima è il sogno. O forse una realtà alternativa, un mondo interiore, un rifugio dell’inconscio. In questa dimensione la protagonista, Naomi Watts, è Betty, un’aspirante attrice appena arrivata a Hollywood e ospite in un appartamento elegante, ingenua ma determinata, piena di talento. È bella, luminosa, e al suo primo provino incanta tutti con una performance sbalorditiva. Incontra Rita (Laura Harring), donna misteriosa colpita da amnesia, e tra le due nasce una complicità profonda, anche sentimentale. Tutto sembra andare per il verso giusto, finché Betty apre una scatola blu — oggetto simbolico e portale — e la realtà, o qualcosa che ci somiglia, irrompe.
Da quel momento in poi tutto si ribalta. Il sogno svanisce. Betty non è più Betty, ma Diane. E Rita è Camilla. Diane è un’attrice fallita, frustrata, spezzata. Vive nell’ombra di Camilla, che invece è affermata, desiderata, sicura di sé. La loro relazione è sbilanciata, tossica, e quando Diane scopre che Camilla sta per sposare un regista (Justin Theroux), sopraffatta dalla gelosia e dal senso d’abbandono, assolda un killer per eliminarla. Ma non regge il peso del suo stesso gesto. Mentalmente devastata, trova rifugio proprio nel sogno che abbiamo visto nella prima parte, per poi — incalzata dal senso di colpa e dalla disgregazione psichica — togliersi la vita.
Mulholland Drive è un gioco a incastri, una struttura a specchio dove sogno e realtà, conscio e inconscio, desiderio e trauma si confondono, si fondono, si rincorrono. Lynch non ci fornisce una spiegazione univoca, ma dissemina indizi, frammenti, immagini ricorrenti. Non ci guida, ci abbandona dolcemente nel labirinto.
Ma Mulholland Drive è anche – forse soprattutto – una feroce, allucinata critica al sistema hollywoodiano, a quella macchina patinata e crudele che promette sogni e spesso restituisce incubi. Hollywood è una trappola emotiva, un meccanismo che plasma e distrugge, che premia l’immagine e punisce la fragilità. Betty arriva con entusiasmo e talento, ma viene risucchiata in un mondo fatto di poteri invisibili, scelte imposte, manipolazioni subdole. Adam, il regista, è costretto a cedere alle pressioni di oscuri burattinai, incapace di difendere la propria libertà creativa. Tutto è recitazione. Tutto è illusione.
E poi c’è Naomi Watts, che in questo film firma una delle prove attoriali più intense e devastanti degli ultimi decenni. Il suo coinvolgimento emotivo va oltre la finzione. Prima di Mulholland Drive, Watts faticava a emergere. Anni di rifiuti, ruoli minori, provini falliti. Era arrivata a pensare di smettere, a sfiorare l’idea del suicidio. Lynch non sceglie solo un’attrice, sceglie una ferita aperta. Una donna che ha conosciuto il lato oscuro del sogno hollywoodiano. Betty e Diane non sono solo personaggi. Sono due volti della stessa ossessione. E Naomi Watts le interpreta con una verità così disarmante da lasciare il segno per sempre.
Tralasciando la trama, il senso, la narrazione — che poi è forse l’ultima cosa che interessava davvero a Lynch — Mulholland Drive è costellato di sequenze magistrali, capaci di far accapponare la pelle.
Partiamo da una delle prime scene, tra le più inquietanti dell’intero film, quella in cui un uomo racconta a un amico di aver sognato il locale in cui si trovano. Nel sogno, dietro al ristorante, si nasconde una figura orribile, la cui sola presenza gli provoca un terrore profondo. Quando i due escono per controllare, la creatura appare davvero. L’uomo crolla a terra, sopraffatto dallo shock. Apparentemente slegata dalla trama principale, questa scena è in realtà una potente metafora, un incubo che prende corpo, o forse un sogno dentro un altro sogno. Il mostro dietro il diner è l’incarnazione dell’orrore rimosso, la parte più oscura della psiche, il prezzo da pagare per inseguire un sogno o di chi ha commissionato un omicidio. Una sequenza di meno di cinque minuti, girata in pieno giorno, che culmina con quello che potremmo definire un vero e proprio jumpscare, ma di una raffinatezza inquietante: tensione pura, orrore viscerale, senza bisogno di ombre o buio. Magistrale.
Proseguiamo con la scena del cowboy, in un luogo isolato e illuminato a intermittenza — cifra stilistica inconfondibile di Lynch — in cui un personaggio dal volto impassibile pronuncia un dialogo criptico e inquietante, che sembra venire da un’altra dimensione. O con quella del caffè, in cui uno dei fratelli Castigliane (interpretato da Angelo Badalamenti, storico compositore lynchiano e autore della bellissima colonna sonora del film) siede al tavolo con i produttori e il regista del film. Beve l’espresso servito dal cameriere e, con glaciale disprezzo, lo sputa nel tovagliolo. Un gesto teatrale e volutamente disturbante, che comunica autorità, potere, e intimidazione.
Ma la scena più potente resta senza dubbio quella del Club Silencio. Le due protagoniste entrano in un teatro decadente. Sul palco, un personaggio luciferino rivela la finzione: "No hay banda… tutto è registrato". La musica, la voce, le emozioni: nulla è reale. Poi arriva la cantante Rebekah Del Rio, che canta Llorando con un’intensità straziante, prima di crollare a terra, mentre la sua voce continua a riempire il teatro. È il punto di rottura. La consapevolezza che tutto ciò che Betty ha vissuto è una costruzione mentale, un sogno artificiale per sfuggire a una realtà intollerabile. Ma è anche una riflessione meta-cinematografica sulla natura stessa del cinema: finzione capace di toccare il vero. Sublime.
Mulholland Drive, che Lynch descrisse come "una storia d’amore nella città dei sogni", è la quintessenza del suo cinema. Un profondo atto d’amore per la settima arte, ma anche un bilancio esistenziale del regista. Un film fatto di misteri, visioni oniriche, simboli nascosti, bruschi salti narrativi, venature grottesche e una tensione psicologica costante — il tutto orchestrato con un montaggio ipnotico e una tecnica impeccabile. Un capolavoro del cinema moderno.
Ho visto Mulholland Drive per la prima volta al cinema, quando uscì nel 2000. Ricordo perfettamente, all’uscita dal cinema, il senso di smarrimento, la sensazione di non aver capito nulla della storia, ma al tempo stesso di essere stato profondamente scosso, emotivamente travolto. È uno di quei rari film capaci di smuoverti dentro senza bisogno di spiegazioni. Pochi giorni dopo, sono tornato a vederlo di nuovo, sempre al cinema. Da allora, l’avrò rivisto almeno una decina di volte. E ogni volta è come se fosse la prima: cambia, si trasforma, rivela qualcosa di nuovo. Come un sogno che ti rimane addosso. Eterno e inafferrabile
Grazie maestro.

The Innocents
di Eskil Vogt
The Innocents è il secondo film del regista e sceneggiatore norvegese Eskil Vogt. Si tratta di un horror psicologico con protagonisti dei bambini dotati di poteri soprannaturali.
La famiglia della piccola Ida si trasferisce in un complesso residenziale alla periferia di una città scandinava, durante un’estate serena. Un giorno, nel parco giochi, Ida incontra Ben, un bambino solitario con doti telecinetiche. Poco dopo si unisce anche Aisha, in grado di percepire le emozioni altrui e di comunicare telepaticamente con Anna, la sorella maggiore di Ida, affetta da una grave forma di autismo. I quattro formano un legame ambiguo, fatto di curiosità, potere e crudeltà. Ma i giochi si fanno sempre più violenti, i poteri più incontrollabili, e mentre il mondo degli adulti — muto e distante — resta ai margini, il rapporto tra i bambini prende una piega sempre più oscura e pericolosa.
Eskil Vogt mette in scena un film freddo, austero, e sospeso. La distanza tra il mondo dei bambini e quello degli adulti diventa abissale, invalicabile. Gli adulti, infatti, sono figure di contorno. Non vedono, non capiscono, non intervengono. L’infanzia è lasciata sola ad affrontare poteri troppo grandi, e con essi responsabilità ben oltre la propria età.
Seguendo il solco del filone sui "bambini crudeli" in chiave fantastica — dal Villaggio dei dannati in poi — Vogt ci racconta il lato oscuro dell’infanzia: dagli scherzi atroci e gratuiti di Ida verso la sorella disabile, fino a momenti di autentico sadismo difficili da sostenere (sarà un problema mio, ma la scena di crudeltà verso il gatto, anche se fittizia, personalmente l’ho trovata assai fastidiosa).
A differenza di molti film del genere, The Innocents evita sia le facili spiegazioni psicologiche che ogni deriva melodrammatica. Il male non arriva da una possessione o da qualche trauma passato: è interno, naturale, quasi organico. Nasce da un cuore troppo giovane per distinguere davvero il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. I poteri dei bambini vengono mostrati con sobrietà, senza mai cedere alla spettacolarizzazione da blockbuster. Insomma non aspettatevi azione, effetti visivi o ritmo da cinecomic da film Marvel, tanto per intenderci.
Il film è lento, dilatato, e forse una durata leggermente più contenuta gli avrebbe giovato. Ma quello che per molti potrebbero rappresentare dei difetti, costruibuiscono a creare un’atmosfera densa di tensione e disagio, amplificato dallo stile visivo — movimenti di macchina lenti, inquadrature strette sui volti, campi lunghi — e dalla bravura dei giovani protagonisti, tutti diretti con notevole sensibilità.
The Innocents è un film difficile, aspro, e allo stesso tempo profondamente umano. Non è solo un horror, è una riflessione cupa sull’età dell’innocenza, sul confine sottile tra empatia e indifferenza. In un’epoca dominata da superpoteri urlati e mondi salvati, The Innocents sceglie il silenzio, la lentezza e una ferocia sommessa. E ci ricorda, con inquietante lucidità, che i mostri più spaventosi non sono quelli che immaginiamo… ma quelli che crescono tranquilli nei cortili sotto casa.

La strada
di Federico Fellini
Federico Fellini ottiene il primo successo internazionale con La strada, nel 1954. Presentato in anteprima alla 15ª Mostra del Cinema di Venezia, inizialmente il film non fu accolto con troppo entusiasmo. Anzi, la reazione fu piuttosto fredda, se non apertamente ostile. Pubblico e critica, ancora legati al neorealismo italiano, lo giudicarono troppo sentimentale e onirico, distante dal rigore sociale e realistico dominante all’epoca, mentre numerose critiche colpirono anche l’interpretazione di Anthony Quinn e Giulietta Masina, tanto che Dino De Laurentiis, il produttore, fu tentato di interrompere la distribuzione.
Il tempo però diede ragione a Fellini e La strada vinse l’Oscar per il miglior film straniero nel 1957 (il primo film italiano a ottenere questo riconoscimento), venendo apprezzato da autori come Kurosawa, che lo considerava uno dei film più commoventi mai realizzati. Nel giro di pochi anni, il film passò da essere "incompreso" a "fondamentale", aprendo la strada a una nuova stagione del cinema italiano, più personale, metaforico, spirituale.
La trama segue le vicende di Gelsomina (Giulietta Masina), una giovane donna semplice e dallo sguardo smarrito, venduta dalla madre povera a Zampanò (Anthony Quinn), un rozzo saltimbanco girovago, affinché diventi sua moglie e lo assista durante i suoi spettacoli. Inizia così, in sella a uno sgangherato motocarro, un viaggio attraverso l’Italia più povera e desolata, fatto di strade polverose, paesaggi malinconici e cittadine di provincia, vivendo alla giornata nella speranza di racimolare qualche soldo per campare. Gelsomina, ingenua e sensibile, nonostante la brutalità dell’uomo — che la costringe a cucinare, pulire e assolvere varie incombenze coniugali — rimane devota a Zampanò. L’incontro con il Matto (Richard Basehart), un funambolo gentile e misterioso che si diverte a prendere in giro il burbero Zampanò, le apre uno spiraglio su un altro modo di esistere, dove anche le creature più fragili hanno un senso e un posto nel mondo. Ma la realtà è crudele, e il destino di questi personaggi erranti si consuma nel rimpianto e nella solitudine.
La strada è una favola sull’incomprensione, sull’impossibilità di comunicare davvero, ma anche sull’umanità irriducibile che resiste sotto la crosta della miseria e dell’abbandono. Un viaggio nell’Italia dimenticata, quella delle campagne spoglie, dei paesi di provincia, delle strade fangose, delle baracche traballanti e delle osterie fumose. Gelsomina — con il volto tondo, gli occhi spalancati e i capelli a carciofo — è un personaggio chapliniano sospeso tra la tenerezza e il dolore. Triste, ma con una grazia sghemba, mai compiaciuta. I suoi gesti timidi, i sorrisi sbilenchi, i silenzi pieni di attesa: tutto in lei incarna la purezza dell’ingenuità. È una specie di Pinocchio che non mente, ma che resta prigioniera di un Mangiafuoco muscoloso e ignorante, incapace di vedere il valore delle cose fragili.
Zampanò è un animale ferito che non sa amare e non sa chiedere scusa. Un uomo che distrugge ciò che non capisce, semplicemente perché non sa farne altro.
Il film è costruito come un racconto di formazione senza redenzione, un circo senza tende, dove ogni incontro è una possibilità sprecata. Il Matto, l'acrobata dall'animo gentile — un grillo parlante consapevole del proprio destino — è l’unico a cogliere la bellezza di Gelsomina, a dirle che tutto ha un senso, persino lei. E in quella frase («anche il sasso serve a qualcosa») c’è già tutto il Fellini che verrà. Quello sfumato e trasognato, che non si spiega ma si intuisce.
La musica di Nino Rota accompagna tutto il film con un tema diventato immortale, suonato dalla tromba stonata di Gelsomina, dal violino del Matto o fischiettato da una donna che stende i panni.
La strada è una favola amara e malinconica, un viaggio nel mondo del circo e degli artisti di strada, fatto di attese, crudeltà e piccole epifanie. E quando, alla fine, Zampanò si accascia sulla spiaggia e piange — goffo, solo, disarmato — Fellini ci ricorda che anche i più duri, i più chiusi, forse, hanno amato. Solo troppo tardi.
Film

Madre!
di Darren Aronofsky
Tra la fine degli anni '90 e l’inizio dei duemila, Darren Aronofsky era uno dei miei registi preferiti. π – Il teorema del delirio e Requiem for a Dream, sono due film che, ciascuno a suo modo, mi hanno segnato nel profondo. Poi, con il passaggio da regista indipendente a nome consolidato nel sistema hollywoodiano, qualcosa si è incrinato. Fatta eccezione per Il cigno nero e, forse, per The Wrestler, la deriva mistico-biblica ed esistenziale di The Fountain e Noah mi ha fatto prendere le distanze dal suo cinema, trovandolo autoreferenziale e ridondante.
Madre!, uscito nel 2017 e presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, si colloca in questa fase della sua filmografia, riprendendo le stesse tematiche ma da un punto di vista diverso e decisamente più interessante. Accolto tra sonori fischi e sporadici applausi, il film ha diviso pubblico e critica, lasciando molti spettatori spaesati, se non apertamente irritati. Eppure, dietro la provocazione e l’allegoria esasperata, qualcosa continua a muoversi.
La storia si svolge in una grande casa isolata nel mezzo del nulla e ha per protagonisti uno scrittore di mezz'età in crisi creativa (Javier Bardem) e la sua giovane e devota moglie (Jennifer Lawrence), impegnata a ristrutturare l’abitazione danneggiata da un precedente incendio. La loro apparente tranquillità viene interrotta dall’arrivo improvviso di un misterioso sconosciuto (Ed Harris), seguito poco dopo dalla sua invadente moglie (Michelle Pfeiffer). Lo scrittore accoglie con entusiasmo i due ospiti, ma l’equilibrio comincia a vacillare quando arrivano anche i loro figli. Quel che inizia come un dramma domestico si trasforma progressivamente in un incubo claustrofobico, in cui il confine tra realtà e metafora si assottiglia fino a dissolversi.
Di seguito ci sono degli spoiler, quindi, per chi ancora non l'avesse visto, consiglio vivamente di non proseguire con la lettura.
Madre! si articola in due parti ben distinte. Nella prima, la storia risulta interessante, ambigua e carica di tensione con evidenti riferimenti al cinema di Polanski. La macchina da presa segue ossessivamente la Lawrence, incollandosi al suo volto, ai suoi movimenti, restituendo in modo quasi soffocante la sua angoscia crescente. Il suo sguardo è l’unico tramite attraverso cui assistiamo all’invasione lenta e inesorabile della casa, luogo simbolico che lei ha ricostruito con cura e dedizione, e che ora vede sfaldarsi sotto i suoi occhi. La casa pulsa, soffre, sanguina. E' una creatura viva, specchio delle sue ferite interiori. Il marito, al contrario, appare completamente ignaro (o peggio, indifferente) al disagio crescente della moglie. Accoglie gli ospiti con entusiasmo, attratto dalla loro ammirazione, come se cercasse di alimentare il suo ego. La tensione esplode con il fraticidio compiuto da uno dei figli della coppia molesta. Improvvisamente la casa viene invasa da una folla di estranei, accorsi per una veglia funebre che degenera rapidamente in un rito grottesco e caotico. Dopo essere riuscita, non senza difficoltà, a scacciarli, la protagonista ritrova una fragile intimità con il marito, che culmina in un amplesso quasi liberatorio. Ne segue un concepimento inatteso, che sembra riaccendere anche l’ispirazione dello scrittore, ora pronto a scrivere la sua nuova opera.
Nella seconda metà, il film da dramma surreale si trasforma in un vero e proprio incubo catastrofico. Sono trascorsi nove mesi — anche se il tempo pare essersi fermato — e lo scrittore ha terminato il suo poema, accolto con entusiasmo da una moltitudine di adoratori che assediano la casa. La protagonista è sul punto di partorire, ma continua a essere ignorata. Il suo ruolo rimane subordinato alle esigenze e all’egocentrismo del marito. La casa viene nuovamente invasa, stavolta da una folla fanatica e sempre più violenta, in una lunga sequenza apocalittica in cui esplosioni, saccheggi e brutalità trasformano l’abitazione in un campo di battaglia. Il parto avviene nel mezzo del caos, ma la gioia per la nascita è effimera. Il neonato (figura chiaramente messianica) viene sottratto alla madre e letteralmente divorato dalla folla adorante, in una delle scene più raccapriccianti e simboliche del film. Sconvolta dal dolore, la protagonista appicca un incendio, sacrificando sé stessa e tutto ciò che resta. Sopravvive solo lo scrittore, che estrae dal suo petto il residuo d’amore necessario per far ripartire il ciclo. E infatti, tutto ricomincia. Una nuova Madre, una nuova illusione d’armonia.
Madre! è un film ambizioso e stratificato, costruito su metafore e allegorie religiose piuttosto esplicite. Lei incarna Madre Natura, la Terra, la prima grande musa ispiratrice. Lui è il Creatore, un Dio egoista e distaccato nei confronti della stessa Terra che ha generato. La coppia di intrusi richiama Adamo ed Eva, i loro figli sono Caino e Abele. Il cristallo custodito nello studio rappresenta il frutto proibito, il lavandino che esplode durante la veglia è il Diluvio Universale, il figlio nato nel caos è un Messia sacrificato da un’umanità cieca e idolatra.
Il limite principale del film è proprio questa eccessiva trasparenza simbolica. Il significato non viene evocato, ma ribadito, quasi imposto. L’allegoria è talmente scoperta da risultare prevedibile. Il mistero — quella qualità che invita a tornare su un’opera per coglierne nuove sfumature — qui lascia spazio a una narrazione che cerca costantemente di farsi decifrare. Ed è un peccato, perché un’opera così visivamente potente e concettualmente ricca non avrebbe bisogno di spiegarsi. Il buon cinema d’autore non cerca conferme. Suggerisce, non istruisce. E in questa differenza, sottile ma sostanziale, risiede gran parte del suo fascino.
Il film ha sollevato non poche critiche sulla rappresentazione femminile. La protagonista è una figura passiva, una martire silenziosa e devota che assiste impotente allo scempio del proprio mondo. In questo senso, sembra l’antitesi della donna di Antichrist di Lars von Trier, che da strega diventa santa. In entrambi i casi, la donna è ridotta a simbolo, priva di voce e identità, vittima di una visione maschile che la sublima per poi consumarla.
Al di là dell'aspetto narrativo, dal punto di vista tecnico il film si distingue per una regia invasiva e totalizzante, quasi claustrofobica, e per una fotografia efficace, che dai toni caldi della prima parte si incupisce nel finale, accentuando il senso di disagio. L’assenza di colonna sonora lascia spazio a un sound design ossessivo, fatto di respiri, scricchiolii e battiti, che amplificano la tensione. Riguardo Jennifer Lawrence, lei è pure brava a interpretare la donna sottomessa ma proprio faccio fatica a vederla in questo ruolo. Problema mio.
Madre! è un film eccessivo, caotico, visivamente potente, deliberatamente divisivo. Lo si può leggere come parabola biblica, come critica ecologista, come riflessione sull’atto creativo o sull’egocentrismo dell’artista, o forse come tutte queste cose insieme. Di certo, è un film che non passa inosservato. Che lo si consideri un’allegoria potente o un esercizio di stile pretenzioso, non si può negare il suo impatto emotivo e visivo. Un film coraggioso, ambizioso e imperfetto.
Film
The Ugly Stepsister
di Emilie Blichfeldt
Prima che la Disney le trasformasse in cartoline animate da lieto fine e canti gioiosi, le fiabe dei fratelli Grimm erano tutt'altro che rassicuranti. Incesti, mutilazioni, matricidi, vendette crudeli. I racconti popolari raccolti da Jacob e Wilhelm Grimm affondavano le radici nell'inconscio collettivo europeo, dove il bosco era davvero oscuro e le principesse raramente uscivano illese. In quelle versioni originarie, le fiabe erano strumenti di ammonimento, più che di intrattenimento, e custodivano dentro di sé un'anima profondamente gotica, a tratti disturbante.
Emilie Blichfeldt, regista e sceneggiatrice norvegese, con The Ugly Stepsister, riporta alla luce l’anima più cupa della fiaba di Cenerentola, ribaltandone il punto di vista e trasformandola in un racconto di ossessione e deformazione emotiva. Questa volta al centro della storia non c’è Cenerentola, ma Elvira, una delle sorellastre, figura marginale nella narrazione classica, qui protagonista di un incubo viscerale, fatto di rancori covati, bellezza malata e desideri corrosi.
La storia la conosciamo tutti, più o meno. In un indefinito paese nordeuropeo del XVIII secolo, Elvira (interpretata da Lea Myren) e sua sorella Alma seguono la madre Rebekka nella casa di un anziano uomo benestante con cui si è sposata nella speranza di ottenere ricchezza e privilegi. Elvira, insicura e sgraziata, si ritrova a convivere con la nuova sorellastra Agnes, la cui bellezza e grazia la rendono immediatamente favorita agli occhi di tutti. Quando il padre di Agnes muore improvvisamente, Rebekka scopre che l’uomo era in realtà privo di ricchezze. Preoccupata di essere troppo vecchia per trovare un nuovo marito facoltoso, decide allora di trasformare Elvira nella candidata ideale per conquistare il principe Julian, che ha appena annunciato un ballo a corte alla ricerca di una sposa.
Per rendere la figlia presentabile agli occhi dell’aristocrazia, Rebekka impone a Elvira un ferreo addestramento alle buone maniere, la sottopone a crudeli interventi di chirurgia estetica rudimentale e la convince a ingerire una tenia per perdere peso rapidamente. Un doloroso calvario che logora il corpo e l’identità di Elvira, alimentando dentro di lei un rancore viscerale nei confronti di Agnes, che invece sembra ottenere tutto senza sforzo, senza dover mai lottare per il proprio aspetto o talento.
The Ugly Stepsister è un body horror che strappa la storia di Cenerentola dalle mani della tradizione fiabesca e la reimmagina in un incubo fatto di chirurgia rudimentale, sangue, vomito e parassiti intestinali. Le sequenze disturbanti non sono molte, ma quando arrivano, colpiscono duro. Sono così insistite, dettagliate e viscerali che mi sono ritrovato a coprirmi gli occhi con le mani, sbirciando tra le dita, proprio come fanno i bambini, terrorizzati eppure incapaci di distogliere lo sguardo.
Una cosa però va chiarita, per chi dovesse indignarsi sostenendo che il film ha "deturpato" una fiaba innocente e romantica, va detto che quando lessi i racconti dei fratelli Grimm, fu proprio Cenerentola a colpirmi più di tutte. Soprattutto quel finale in cui la sorellastra si taglia un pezzo di piede pur di far entrare la scarpetta di vetro. Ecco, la Blichfeldt prende quell’immagine e la porta fino in fondo, senza sconti e senza pietà.
Al di là delle scene violente e dell'aspetto splatter, The Ugly Stepsister offre una riflessione tagliente sul desiderio di accettazione, sull’ossessione per la bellezza e sull’ansia di approvazione sociale. Un film che mette a nudo il legame tossico tra identità femminile e violenza estetica. In fondo, non è forse questa la struttura portante di tante fiabe tradizionali? Una ragazza qualunque che, pur di diventare bella e desiderabile agli occhi di un principe o di un ricco signorotto, si trasforma — si annulla — per ottenere una dote, un matrimonio, una salvezza. La critica di Emilie Blichfeldt aggiorna quel meccanismo con feroce lucidità, puntando il dito contro un’idea contemporanea di femminilità fatta di labbra gonfiate, zigomi scolpiti e seni rifatti. Il sogno non è più il castello, ma la villa con piscina. Non il principe, ma l’imprenditore rampante su uno yacht, immortalato in pose studiate su Instagram. Un desiderio disperato di apparire come merce di scambio, nella speranza che basti l’involucro giusto per sentirsi finalmente scelte, accettate, validate.
Davvero notevole l’esordio alla regia della Blichfeldt, qui affiancata da una fotografia elegante e da una colonna sonora elettronica che crea un interessante contrasto con l’ambientazione d’epoca. Buona pure l'interpretazione fisica e disperata di Lea Myren.
The Ugly Stepsister è sicuramente un film che non si dimentica, un'opera potente, attraversata da una feroce critica sociale. Bisogna ammettere che quando le registe decidono di colpire duro (vedi The Substance o Titane), ci vanno davvero a fondo.
Negli Stati Uniti il film è stato distribuito su Shudder, la piattaforma specializzata in horror, thriller e fantastico. In Italia, al momento, non è ancora uscito ufficialmente — ma chi sa dove cercare potrebbe trovare una versione sottotitolata.
Film
Battle Royale
di Kinji Fukasaku
Uscito nel 2000 e diretto da Kinji Fukasaku, Battle Royale è un cult generazionale che, tra polemiche e censure, si è affermato come uno dei film più controversi e chiacchierati dell'inizio del nuovo millennio. Tratto dal romanzo omonimo di Koshun Takami, è un’opera feroce, beffarda e assolutamente politically scorrect, che ha lasciato un’impronta profonda nel cinema giapponese e mondiale, influenzando registi come Quentin Tarantino e anticipando fenomeni come Hunger Games e Squid Game. Osteggiato e censurato in patria, a causa della sua estrema violenza e dei contenuti controversi, in Italia non ha mai avuto una distribuzione cinematografica. All'epoca il film circolava grazie al passaparola e alla nascente pirateria digitale, alimentando un’aura di culto tra cinefili e appassionati. Solo qualche anno più tardi venne distribuito nel mercato home video. Mi pare che non sia mai stato proiettato in sala, se non in qualche rassegna dedicata al cinema giapponese. Attualmente è disponibile su Prime Video, all’interno del canale CG Collection.
In un futuro prossimo, in un paese asiatico non meglio definito, il governo vara una legge brutale per contrastare la dilagante delinquenza giovanile. Ogni anno, una classe di studenti delle superiori viene scelta a sorte per partecipare al "Programma", un crudele gioco di sopravvivenza noto come Battle Royale. Con l’inganno, durante una gita scolastica, un’intera classe viene narcotizzata e trasportata su un’isola deserta. Al loro risveglio, i ragazzi si ritrovano con un collare esplosivo al collo e vengono accolti dal loro ex insegnante (interpretato da Takeshi Kitano) che, supportato da un’unità militare, li informa che hanno tre giorni per eliminarsi a vicenda. Solo uno di loro potrà sopravvivere e fare ritorno a casa. Se allo scadere del tempo ci saranno più sopravvissuti, tutti verranno giustiziati.
Sconcertati e presi dal panico, i compagni di classe ricevono uno zaino con un kit di sopravvivenza e un’arma diversa per ciascuno. Da quel momento, diventano nemici mortali, costretti a uccidersi l’un l’altro per sperare di sopravvivere.
In Battle Royale ci sono 42 studenti – 21 ragazzi e 21 ragazze – costretti a partecipare a una sorta di reality show mortale. Alcuni dei ragazzi sono ben delineati attraverso brevi flashback che ne approfondiscono le motivazioni, le paure, le relazioni. Ogni morte è accompagnata da una didascalia con il nome del concorrente eliminato e il numero dei superstiti rimasti, scandendo il ritmo del massacro con precisione matematica.
Kinji Fukasaku firma un film violento, grottesco e ipercinetico, una via di mezzo tra Il signore delle mosche e un manga splatter anni novanta. La sua critica alla società giapponese è velenosa e diretta. Gli adulti hanno rinunciato a comprendere la gioventù e hanno deciso di gestirla con il terrore. Il “Programma” è una distorsione del sistema educativo, dove l'autorità diventa punizione e la scuola un campo di battaglia. Le dinamiche tra i personaggi – amicizie, rivalità, tradimenti – emergono in un contesto sempre più disperato. Il film mantiene un buon livello di tensione e alterna momenti di pura adrenalina ad altri più stucchevoli (vedi le dichiarazioni d'amore in punto di morte). Certo, qua e là si sfiora l’assurdo – ragazzi che camminano con un'ascia in testa oppure con sei proiettili in corpo – ma d'altronde Battle Royale è una sorta di pulp distopico che non nasconde la sua vera natura. Takeshi Kitano è perfetto nel ruolo del professore borderline. Il suo personaggio è ambiguo, stanco, distaccato, ma mai del tutto privo di umanità. È l’incarnazione di un’autorità che non guida, ma osserva e punisce.
Nel finale il film inciampa un po’ in un moralismo posticcio e si lascia dietro qualche buco di sceneggiatura, ma resta comunque un cultone irriverente e brutale, capace di trasformare l’angoscia adolescenziale in una vera e propria guerra generazionale.
Nel 2003 è uscito il seguito, Battle Royale II: Requiem, diretto inizialmente da Kinji Fukasaku ma completato dal figlio Kenta Fukasaku dopo la morte del padre durante le riprese.
Esiste anche una versione manga di Masayuki Taguci pubblicata tra il 2000 e il 2005 in quindici volumi, che però mi dicono essere assai discutibile.

Buffalo '66
di Vincent Gallo
Buffalo '66 è un film a cui sono molto affezionato e che rivedo spesso volentieri. Sarà che l'ho visto per la prima volta in un particolare momento della mia vita, ma da allora mi è rimasto addosso. L’autore di questa pellicola è Vincent Gallo, artista poliedrico e controverso, difficile da incasellare. Attore, regista, musicista e pittore, ha costruito attorno a sé l’immagine di un personaggio sopra le righe, in costante attrito con l’industria cinematografica e, a volte, persino con il proprio pubblico. Amato e detestato con la stessa intensità, è proprio con Buffalo '66 — film del 1998 che ha scritto, diretto, prodotto, montato, musicato e interpretato — che Gallo si è consacrato come figura di culto del cinema indipendente americano. Peccato che, dopo questo esordio folgorante, abbia fatto ben poco.
Il film vede come protagonista Billy Brown, interpretato dallo stesso Vincent Gallo, che esce di prigione dopo aver scontato una condanna per un crimine che non ha commesso. Per saldare un debito di gioco, avendo perso una scommessa sulla vittoria dei Buffalo Bills al Super Bowl, è stato costretto da un allibratore senza scrupoli (Mickey Rourke) a prendersi la colpa e trascorrere cinque anni di carcere al posto del vero colpevole. Tornato a Buffalo, la sua città natale, Billy, ragazzo disadattato e nevrotico, segnato da traumi e gravi carenze affettive, contatta i genitori, a cui aveva raccontato di essere stato via per lavoro, di avere una carriera brillante e una moglie. Quando la madre insiste al telefono per incontrare la "nuora", Billy, in preda al panico, rapisce d’istinto una giovane ballerina, Layla (Christina Ricci), trovata per caso in una scuola di danza, costringendola a fingersi sua moglie per la visita a casa dei suoi genitori — con i quali, peraltro, non ha alcun tipo di rapporto reale.
Il pranzo con la madre (Anjelica Huston) e il padre (Ben Gazzara) di Billy, rivela un ambiente familiare freddo e disfunzionale. La madre, ossessionata dai Buffalo Bills, sembra più interessata alla squadra di football che al figlio, mentre il padre si comporta in modo distante, ambiguo e vagamente molesto. Nonostante l’assurdità della situazione, Layla sceglie di restare con Billy anche dopo il pranzo, forse attratta da lui, forse mossa da un impulso empatico. I due trascorrono insieme il resto della giornata — tra una sala da bowling, un ristorante e un motel — mentre Billy cova in segreto un proposito di vendetta: uccidere il giocatore della squadra dei Buffalo, Scott Wood, colpevole secondo lui di aver sbagliato di proposito il calcio decisivo che lo ha rovinato. Ignara di tutto, Layla diventa il contrappunto gentile alla rabbia trattenuta di Billy, in un viaggio che oscilla tra amarezza, tenerezza e disperazione.
Buffalo '66 è una storia triste, malinconica e surreale. L’incontro tra due anime sole e sbandate, ambientato in una decadente provincia americana, che si consuma nell’arco di una singola giornata e si trasforma in un legame fragile e profondo, fatto di silenzi, gesti impacciati e desideri inespressi. È un film sgraziato, imperfetto, ma con un’enorme anima. Un’opera dalla bellezza sghemba, costruita su intuizioni visive personali e potenti. Vincent Gallo, al suo esordio, dal punto di vista tecnico e registico fornisce una grande prova giocando con pellicole invertite e formati inusuali che restituiscono una texture granulosa, desaturata e onirica. Le inquadrature statiche, simmetriche, spesso spiazzanti, contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa e rarefatta.
Pur non essendo dichiaratamente autobiografico, il film attinge a piene mani dalla vita di Vincent Gallo, trasformando la sua esperienza familiare e il suo disagio esistenziale nei fili della trama. Il Billy Brown interpretato da Gallo è uno schizofrenico trattenuto, figlio di due genitori anaffettivi, incapace di relazionarsi col mondo e con le donne. Vorrebbe amare, ma ha paura del contatto, del lasciarsi andare, della fiducia. Alterna crisi verbali nevrotiche a momenti di totale distanza emotiva. Come nella scena delle fototessere, dove il suo sguardo è completamente assente segnato da una profonda tristezza, oppure durante il surreale pranzo con i suoi genitori. Proprio quest'ultima scena è tra le più emblematiche del film, anche dal punto di vista registico. In un silenzio imbarazzante che a tratti diventa grottesco, si innestano flashback che raccontano l’infanzia di Billy. Il più straziante è forse quello in cui la madre gli offre dei dolcetti al cioccolato, mentre sullo schermo si apre un riquadro che mostra un flashback con il piccolo Billy con il volto gonfio, allergico proprio a quel cibo che la madre dovrebbe sapere gli fa male.
Christina Ricci è semplicemente perfetta. La scena in cui balla il tip-tap sulle note eteree di Moonchild dei King Crimson, in una sala da bowling diventata improvvisamente deserta, è uno dei momenti più poetici e intensi del film. Ricci ha una bellezza dirompente e fuori dagli schemi, una specie di fata turchina curvy, goffa, sensuale e innocente allo stesso tempo. Una bellezza non omologata, più forte di qualsiasi retorica sull’inclusività. Il suo personaggio, Layla, di cui non sappiamo nulla, è uno specchio scomposto del protagonista. Anche lei probabilmente abbandonata, forse anch’essa in cerca di calore, si lascia trasportare in questo rapporto tossico senza mai sembrare davvero succube. C’è qualcosa in lei di teneramente squilibrato, come se la sindrome di Stoccolma si trasformasse in una forma pura, infantile, di amore incondizionato. È proprio la presenza della Ricci a dare luce e malinconia al film. I suoi silenzi, le frasi fuori luogo, gli sguardi pieni e stranianti. Rimane impressa nella memoria. Come quando, a tavola, cerca di conversare con la madre di Billy, interpretata da una glaciale e inquietante Anjelica Huston. O quando, più tardi, divide con Billy il letto di un motel in una scena sospesa tra imbarazzo, pudore e tenerezza.
Buffalo '66 è una storia d’amore assurda, astrusa, struggente e improbabile. Quasi impossibile credere che una ragazza possa accettare la violenza iniziale del protagonista, eppure il film lavora in una dimensione emotiva alternativa, dove il surreale prende il posto del plausibile. È un racconto di solitudini che si sfiorano, si riconoscono e, forse, si salvano a vicenda.
Da vecchio amante del prog-rock, oltre la già citata canzone dei King Crimson, non posso non ricordare anche Heart of the Sunrise degli Yes, che accompagna la sequenza finale nel locale a luci rosse, con i fermo immagine alla Matrix.
Sognante, poetico, a tratti angosciante, Buffalo '66 è un film profondamente malinconico, ma non disperato. Parla della fragilità, del disagio di chi si sente fuori posto in un mondo che lo ha respinto fin dall’inizio.
Un piccolo capolavoro indipendente che, ancora oggi, riesce a emozionarmi come la prima volta. Peccato che Vincent Gallo, dopo questo film, non si sia più davvero ripetuto.

Adolescence
Jack Thorne, Stephen Graham, Philip Barantini
Mi sono recuperato questa serie prodotta da Netflix, tanto discussa sia per le tematiche che per la messa in scena. Adolescence è una miniserie britannica in quattro episodi che, prendendo spunto dal brutale femminicidio compiuto da un ragazzino di tredici anni, affronta temi come l’adolescenza contemporanea, la mascolinità tossica e, soprattutto, l’incomprensione degli adulti nei confronti dei giovani di oggi.
La storia si apre con l’arresto di Jamie Miller, un ragazzo di 13 anni accusato dell’omicidio di una compagna di scuola, Katie Leonard. L’intera narrazione si sviluppa in tempo reale attraverso quattro episodi – ciascuno girato in un unico piano sequenza – che seguono le fasi successive all’arresto: dall’interrogatorio alla confessione, fino alle conseguenze legali e familiari. La serie non si concentra tanto sul "come" è avvenuto il crimine, quanto sul "perché", esplorando le influenze sociali e psicologiche che hanno portato Jamie a compiere un gesto così estremo.
Adolescence offre un ritratto inquietante e realistico del mondo adolescenziale di oggi, spesso invisibile agli occhi degli adulti. Mostra come i social media e la ricerca ossessiva di approvazione e popolarità possano influenzare negativamente i giovani, contribuendo a fenomeni come il bullismo e l’isolamento. Sotto la superficie di un ragazzino tranquillo, con buoni voti e abitudini apparentemente innocue, emerge come alcune teorie misogine popolari in rete, diffuse nella comunità nota come "manosfera" e nei gruppi Incel - come quella secondo cui l'80% delle donne sceglie solo il 20% degli uomini, possono radicalizzare giovani ragazzi fragili e confusi. Una delle scene più interessanti è quella presente nel secondo episodio, ambientato quasi interamente nel liceo. Mentre l'ispettore, insieme alla sua collega, cerca di interrogare i ragazzi alla ricerca dell'arma del delitto ma soprattuto di un movente, viene avvicinato proprio da suo figlio – che frequenta la stessa scuola e a sua volta subisce bullismo – rivelando che Katie aveva pubblicamente umiliato Jamie su Instagram, definendolo un incel attraverso un codice fatto di emoticon. Questo divario generazionale, l’incapacità degli adulti di comprendere il disagio giovanile, è probabilmente il tema centrale della serie.
Ogni episodio di Adolescence è girato in un unico piano sequenza, senza interruzioni o tagli, una scelta registica audace e complessa che richiede concentrazione millimetrica da parte degli attori e grande abilità tecnica. Mi sono spulciato in rete i vari "making of" per capire se ci sono stati i classici "trucchi di passaggio" ma non li ho trovati. La cinepresa viene passata da un operatore a un altro a mo di staffetta per essere incastrata su un drone, come nel secondo episodio, oppure posizionata davanti alla macchina, come nell'ultimo episodio. quello che ho capito sono stati girati mediamente una decina di volte Questa scelta stilistica è stato uno dei motivi che mi ha accinato a questa serie. Tutto deve essere perfettamente sincronizzato, e il risultato è davvero coinvolgente. Molto bravi anche gli attori, a partire da Owen Cooper, che interpreta Jamie con una naturalezza disarmante, e Stephen Graham, che interpreta il padre, la cui recitazione contribuisce a rendere la narrazione ancora più coinvolgente.
I quattro episodi non sono tutti sullo stesso livello. Il più riuscito, a mio avviso, è il primo, con l’irruzione della polizia in casa Miller alle prime luci dell’alba. Anche il secondo mantiene alta la carica emotiva, culminando in un finale suggestivo con la cover di Fragile di Sting cantata da un coro di ragazzi. Il terzo episodio, centrato sul colloquio tra Jamie e la psicologa, e soprattutto l’ultimo – incentrato sulla famiglia – risultano invece un pò troppo dilatati.
Nel complesso ho trovato l'intera miniserie un'opera coraggiosa che invita a riflettere sui problemi dell'adolescenza nella nostra società.

The Beast (La Bête)
di Bertrand Bonello
The Beast (La Bête) di Bertrand Bonello è un film del 2023 liberamente ispirato al racconto La bestia nella giungla di Henry James, ma completamente rielaborato in chiave sci-fi e psicologico-esistenziale.
È un film complicato e straniante, che fonde melodramma, distopia e romanticismo tragico attraversando tre epoche diverse (inizio 900, 2014 e 2044).
In un futuro prossimo dominato dall’intelligenza artificiale, dove le emozioni sono considerate un ostacolo all’efficienza, Gabrielle (Léa Seydoux) è costretta a sottoporsi a un processo di purificazione per poter accedere a una vita professionale più interessante. La procedura prevede la liberazione dai traumi e dai sentimenti, ma il viaggio nella memoria si trasforma in qualcosa di più profondo, un ritorno ciclico alle sue vite passate, tutte segnate dall'amore per Louis (George MacKay) e da un’inquietudine persistente. Un presentimento che qualcosa di terribile stia per accadere, che una "bestia" voglia farle del male. Un legame misterioso li unisce e li separa, condannandoli a ritrovarsi senza mai potersi davvero appartenere. Un amore destinato a ripetersi, ma non a compiersi.
The Beast è un film molto complesso e stratificato, che mi ha disorientato e colpito. Impegnativo, decisamente, ma profondamente coinvolgente. Il film si apre con Gabrielle, un’aspirante attrice nella Los Angeles del 2014, mentre gira uno spot pubblicitario davanti a un green screen. Una sequenza ironica e significativa che sembra prendere di mira il cinema hollywoodiano contemporaneo, sempre più dipendente dalla CGI e dalla simulazione.
L’intelligenza artificiale è uno dei temi portanti del film, ma non è il solo. Bonello — che prima di questo film non conoscevo — costruisce un racconto frammentato che attraversando tre epoche (belle époque, presente e futuro) ci racconta la progressiva disumanizzazione dei sentimenti, in un mondo che li considera scarti. Nella Parigi del 1910, Gabrielle è la moglie di un imprenditore che produce bambole dal volto inespressivo, le stesse che sembrano anticipare la Gabrielle del 2044, un essere umano "purificato", svuotato di emozioni per funzionare meglio in una società ipercontrollata. La neutralità emotiva diventa un requisito per l’integrazione, come se i sentimenti e le emozioni fossero un virus da debellare.
Ma qual'è la “bestia” che dal titolo al film? La disumanizzazione? Oppure, e qui entriamo nelle mie riflessioni personali, la vera bestia è la paura di non riuscire ad amare. La paura di esporsi, di soffrire, di perdere il controllo. Una paura che ci paralizza, ci rende sterili, ci impedisce di vivere davvero. È l’incapacità di relazionarsi con semplicità, schiacciati da ansie profonde e radici difficili da estirpare. È la paura della morte, della solitudine, del rifiuto. Quel terrore cieco che alimentiamo nella nosta mente, fino a renderlo reale.
La Gabrielle del futuro è costretta a diventare un algoritmo. Le sue scelte devono essere sempre razionali, corrette, "giuste". Ma l’amore non è mai giusto. È disturbante, ingestibile, profondamente umano. Il suo rapporto con Louis è sfuggente, impossibile, fino a diventare una minaccia. Nel presente, Louis è un uomo solo e frustrato, un incel — individui che trasformano il senso di esclusione e rifiuto in risentimento, talvolta in rabbia repressa. Una figura minacciosa, che implode in violenza.
In tutto questo Bonello inserisce due eventi catastrofici — l’alluvione di Parigi del 1910 e un terremoto — come metafore di un’emotività repressa che, prima o poi, torna a galla in modo incontrollabile. E dove Hitchcock o Poe avrebbero messo un corvo, Bonello lascia svolazzare un piccione dentro casa, banale ma sinistro presagio di sciagura.
Notevole anche il dettaglio del QR code finale che permette di vedere i titoli di coda. Un tocco alla Black Mirror che per altro sia per le tematiche e il coinvogimento emotivo mi ha ricordato un paio tra gli episodi più riusciti. Ovviamente questo non è l’unico richiamo. Nel film ho ritrovato Eternal Sunshine of the Spotless Mind, con il tentativo di cancellare il dolore eliminando l’amore. Ma anche tantissimo Lynch. La parte ambientata a Hollywood richiama fortemente Mulholland Drive, con Gabrielle che ricorda Betty, la scena con la sensitiva al computer, il locale che sembra appartenere a un non luogo, ma in generale tutta l'amosfera e la sensazione sospesa che qualcosa di inquietante stia per accadere.
The Beast è la storia di un amore mai pienamente realizzato, che si ripete senza mai compiersi, come una condanna. Un film cerebrale, verboso, stratificato, pieno di simbolismi. Ma nonostante la durata e una certa densità, riesce a coinvolgere sempre di più, fino a un finale cinico e spietato. Un vero pugno allo stomaco.
Un film complesso e perturbante, che mi ha profondamente coinvolto perché ha toccato corde intime. Perché no, non si può amare senza emozioni. Touché.
Film
Il paradosso del tempo
di Bernardo Britto
I viaggi nel tempo sono uno dei temi più affascinanti e ricorrenti del cinema di fantascienza. Tra paradossi, salti e loop temporali, questi film hanno la caratteristica che non hanno bisogno di particolari effetti speciali o budget eccessivi, ma soltanto di una buona idea e una sceneggiatura solida.
Tra le tante pellicole di questo genere si inserisce Il paradosso del tempo (Omni Loop), film americano del regista brasiliano Bernardo Britto, che dopo una carriera nel cortometraggio approda alla regia di un lungometraggio mainstream con una storia che mescola sci-fi, dramma e malinconia.
La trama ruota attorno a Zoya Lowe (Mary-Louise Parker), una fisica di mezza età affetta da una misteriosa condizione. I medici gli hanno diagnosticato la presenza di un "buco nero" nel petto e le hanno dato una settimana di vita. Quello che né la sua famiglia né i dottori sanno, però, è che alla fine di quei sette giorni – quando il sangue inizia a colarle dal naso, segnale della sua imminente fine – Zoya si chiude in bagno, ingoia una delle misteriose pillole trovate per caso da bambina, e torna indietro nel tempo di esattamente una settimana. Ogni ciclo ricomincia con il suo risveglio in ospedale, quando il medico la dimette per permetterle di trascorrere gli ultimi giorni con i suoi cari. Costretta a rivivere la stessa settimana migliaia di volte, Zoya si ritrova intrappolata in un loop estenuante. Esausta dalla ripetitività e dal senso di impotenza, decide di allontanarsi dalla cinica subito dopo il suo risveglio. Il fortuito incontro con Paula Campos (Ayo Edebiri), una giovane studentessa di fisica, gli permette di trovare un alleata per provare a studiare i i misteri dei viaggi nel tempo e capire se c'è il modo per interrompre questo ciclo… e forse, riappropriarsi della propria vita.
Il paradosso del tempo prende in prestito suggestioni da classici del genere – da Ricomincio da capo a Predestination, passando per Looper – ma utilizza il meccanismo del loop temporale, più che sulle dinamiche del viaggio nel tempo, per riflettere sull’inevitabilità della morte, il tempo che sprechiamo e gli affetti che trascuriamo. Il film, leggero e malinconico, parla di una donna che non cerca tanto di sfuggire alla fine quanto di fare pace con la propria vita. Mary-Louise Parker è molto brava e sostiene una narrazione che vuole essere toccante per un film mainstream da seconda serata. Se invece parliamo di fantascienza, ho trovato la sceneggiatura tutt'altro che convicente. Buchi logici, disordine narrativo, trovate poco riuscite e risibili – come il buco nero nel petto della protagonista e sopratutto l’uomo nanoscopico, un tizio che un esperimento quantistico sta facendo rimpicciolire all’interno di una scatola, la cui funziona a livello di trama rimane per me sconosciuta.
Un film che intrattiene, facendo leva sull'aspetto romantico, ma dimenticabile.

Mimì - Il principe delle tenebre
di Brando De Sica
Ammetto che quando ho visto il nome del regista ho storto un po' il naso. Brando De Sica. Figlio di Christian, nipote di Vittorio, Carlo Verdone come zio. Il pregiudizio che in Italia, se non sei un figlio d'arte, il cinema lo guardi e basta, è scattato immediatamente. E invece Mimì – Il principe delle tenebre mi ha fregato. Non solo perché è un film coraggiosamente fuori tempo, diverso, ma anche perché ha toccato corde familiari della mia indole gotica.
La storia racconta di Mimì (Domenico Cuomo), un adolescente orfano, nato con i piedi deformi, che lavora in una pizzeria a Napoli. Bullizzato dal figlio di un boss camorrista, un giorno incontra Carmilla (Sara Ciocca), una giovane ragazza "dark" convinta di essere una discendente del conte Dracula. Lei rimane affascinata dal goffo Mimì – forse proprio per la sua deformità – e lui trova in Carmilla quel calore umano che gli è sempre mancato.
In una Napoli insolita e decadente, tra bande camorristiche appassionate di neomelodica e gruppi gotici che frequentano cimiteri, cripte, e feste alternative, Mimì – Il principe delle tenebre si presenta come un film strano e affascinante, capace di spaziare dall'horror al fantasy, dal noir alla dark comedy. La commistione di generi è dosata con intelligenza e la virata horror arriva al momento giusto. Brando De Sica, da quanto si dice in giro, è un appassionato di questo genere, e si vede. Le citazioni cinefile sono ovunque, ma non risultano mai esibite. Piuttosto, sono tracce, omaggi ben inseriti in una narrazione personale e visivamente curata. La regia è solida e la fotografia mi ha particolarmente colpito, con quei colori irreali – blu e rosso, caldi e freddi spesso contrapposti – che rimandano al cinema di Mario Bava. L'uso del colore è particolarmente significativo nella scena finale, dove Mimì e Camilla – ehm, Carmilla con la erre (cit) – vengono illuminati dal lampeggiante della polizia, in un contrasto emotivo che trascende la realtà.
L’epilogo, drammatico e ambiguo – è tutto vero o una fantasia del protagonista? – ha un tocco poetico e surreale. Al centro della storia, c'è una relazione d'amore tra due "diversi": una ragazza borderline, fragile e imprevedibile, e un ragazzo in cerca di identità, ingenuo, segnato nel corpo e nell'anima. Due anime rotte che cercano di salvarsi a vicenda.
I due attori protagonisti sono molto bravi. La giovane e minuta Sara Ciocca è sorprendente. Affascinante nella sua versione goth, fragile e vulnerabile nella sua cameretta da bambina. Domenico Cuomo è altrettanto bravo, capace di passare dalla timidezza di Mimì alla trasformazione violenta del "vampiro", con i suoi denti aguzzi e lo sguardo distorto. Il film, inoltre, è recitato bene. Finalmente in un film italiano i dialoghi, anche quando sono sussurrati, sono sempre chiari. Il dialetto napoletano non infastidisce, e quando è troppo stretto, intervengono i sottotitoli.
Guardandolo, mi è venuto spontaneo accostarlo a Lo chiamavano Jeeg Robot, ma con i vampiri al posto dei supereroi. E in alcune scene, come quella nelle catacombe, ho sentito forti echi del cinema di Guillermo del Toro.
Alla fine, Brando De Sica sembra più un orfano adottato da Tim Burton e dalla malinconia di Fellini che un regista cresciuto sulle spalle della becera commedia natalizia. Pare che per realizzare questo film non abbia sfruttato le sue conoscenze familiari, anzi, ci ha messo dieci anni e ha incontrato numerosi ostacoli. E si vede. È un film ostinato, personale, fuori rotta. Farsi strada nel cinema di genere in Italia non è facile. Ma io, sinceramente, tifo per lui. A volte i pregiudizi sono proprio deleteri.

Antichrist
di Lars Von Trier
Lars Von Trier è considerato uno dei più trasgressivi registi contemporanei. Un autore estremamente divisivo e allergico a ogni forma di compromesso. Per alcuni un genio provocatore, per altri un narcisista e un misogino compiaciuto. Personalmente, fin dai tempi di The Kingdom — la serie televisiva surreale degli anni novanta — il suo cinema esercita su di me un’attrazione magnetica. Idioti, Dogville e Dancer in the Dark restano, a mio avviso, tra le sue opere più significative. L’ultimo suo film che avevo visto era Il grande capo, poi l'ho perso di vista. Ora, con la giusta disposizione d'animo, ho deciso di recuperare la tanto discussa "trilogia della depressione", iniziando proprio da Antichrist, film controverso e urticante che ha diviso pubblico e critica fin dalla sua uscita.
Presentato al Festival di Cannes nel 2009, Antichrist scatenò fin da subito un acceso dibattito. La proiezione fu accolta da una pioggia di fischi e critiche feroci, soprattutto per alcune scene di sesso esplicito e per la brutale violenza che esplode nel finale del film. La conferenza stampa non contribuì certo a stemperare il clima. Von Trier, nel suo consueto stile provocatorio, si autoproclamò "il miglior regista del mondo" e dichiarò di non dover spiegazioni a nessuno, perché "Dio gli parlava personalmente". Tra sconcerto e imbarazzo, alcuni giornalisti lasciarono la sala. Il film venne escluso dal palmarès, tranne che per il premio alla Miglior Attrice assegnato a Charlotte Gainsbourg. Antichrist diventò immediatamente un caso mediatico e culturale, che ancora oggi continua a dividere.
Il film è suddiviso in un prologo, quattro capitoli — Dolore, Pietà, Disperazione e I tre mendicanti — e un epilogo, quasi fosse un dramma teatrale, ma costruito con l’estetica allucinata di un incubo visivo. La trama ruota attorno a due soli personaggi, una coppia (Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg) che, mentre si abbandonano a un intenso rapporto sessuale, non si accorgono che in un’altra stanza il loro figlioletto esce dalla culla, s’arrampica sulla sedia, sale sul tavolo accanto, si sporge dalla finestra e precipita nel vuoto. Una sequenza di straordinaria potenza visiva, girata in slow motion e in bianco e nero, che fonde eros e thanatos, bellezza e tragedia, con la musica struggente di Händel a rendere il tutto ancora più lacerante.
I due genitori, sconvolti dal lutto, cercano di affrontare il dolore in modo opposto. Lui, terapeuta, tenta di guidare la moglie in un percorso di elaborazione razionale del trauma. Lei, invece, si lascia risucchiare da un abisso di colpa e sofferenza che sfugge a ogni controllo. Per cercare di esorcizzare il dolore, la coppia si ritira nella loro baita nel bosco di Eden, dove lei aveva passato l'estate precedente con il figlio, lavorando alla sua tesi contro il femminicidio. Ma Eden non è un rifugio, bensì un luogo arcano e ostile, dove natura e femminile si fondono in una forza primordiale e distruttiva. Isolati nella baita, i due scivolano in una spirale di paranoia, ossessione e crudeltà, in un crescendo di follia e violenza, sia fisica che psicologica.
Un film decisamente difficile, pesante sia nei contenuti che nella forma. Antichrist è un’opera che mette in scena il dolore originato dall'atto sessuale. Il senso di colpa di lei, per essersi abbandonata al piacere mentre il figlio moriva, è troppo grande da sopportare. Il sesso, da atto di unione, si trasforma in strumento di dominio, punizione e sofferenza. Qualcosa di sporco, inquietante, che alla fine deve essere reciso, estirpato. Lui, psicanalista razionale e distaccato, affronta il lutto con freddezza — lo vediamo piangere solo al funerale — e decide di fare della moglie la propria paziente, convinto di poterla curare con la sola forza della mente. Lei invece è devastata, cerca le sue labbra, ha bisogno del suo corpo, perché la carne sembra l’unico mezzo per colmare il vuoto. Ma lui la respinge, si sottrae, e l’incomunicabilità sessuale diventa un abisso spalancato tra i due. Il sesso, da esperienza vitale, si trasforma in contaminazione, perdita di controllo, discesa nell’oscurità.
Von Trier racconta questa trasformazione con immagini esplicite, scioccanti, ma mai gratuite. Ogni gesto, ogni inquadratura sembra suggerire che nella carne si annidi anche la morte, che eros e thanatos siano due facce dello stesso impulso originario. Antichrist è una seduta psicanalitica travestita da horror, in cui la diversa elaborazione del lutto tra uomo e donna diventa una lotta tra mente e corpo, controllo e caos, logos e natura.
Il film è denso di simboli e suggestioni stratificate. Volendo semplificare, si potrebbe leggerlo come la discesa agli inferi di una donna tormentata dal senso di colpa, che per sopravvivere accetta di essere “strega” e di incarnare la propria malvagità. Ma la lettura è tutt’altro che univoca. Alcuni vi hanno visto un attacco al femminile, una visione misogina che associa la donna alla natura intesa come entità crudele, istintiva, incontrollabile. Eppure, Antichrist è anche una critica feroce al maschile, al suo desiderio di dominare e razionalizzare ciò che sfugge al controllo.
Il film è dedicato a Tarkovskij, e non è difficile coglierne l’influenza nel linguaggio visivo e nella struttura. Ma io ci ho rivisto anche Possession di Andrzej Zulawski, con la sua esplorazione del dolore attraverso la follia e il delirio.
Dal punto di vista tecnico, Antichrist è di una bellezza disarmante. La regia di Von Trier alterna una compostezza quasi liturgica a esplosioni improvvise di violenza e caos, accentuate dalla fotografia visionaria e profonda di Anthony Dod Mantle.
Straordinarie anche le interpretazioni dei due protagonisti. Willem Dafoe — l’ho già detto che è il mio attore preferito? — è perfetto nella sua maschera di controllo e razionalità, mentre Charlotte Gainsbourg offre una prova di rara intensità fisica ed emotiva. Si spoglia, letteralmente e metaforicamente, portando sullo schermo una sofferenza che si fa carne, urlo e follia.
Come spesso si dice, Antichrist non è un film per tutti. Non lo consiglierei a chi fatica a entrare in sintonia con l’autore e non ha una certa affinità. Ma per me è stata un’esperienza. Faticosa, sì, ma anche necessaria. Una discesa verso il caos da cui non si esce indenni.
Film
Opus - Venera la tua stella
di Mark Anthony Green
Opus, thriller psicologico targato A24 e debutto alla regia di Mark Anthony Green, è un film che affronta il potere della celebrità e l'influenza dei nuovi mezzi di comunicazione. "Venera la tua stella" è il sottotitolo "appiccicato" dai distributori italiani, sempre più convinti che l'italiano medio abbia bisogno di un indizio sulla trama prima ancora di sedersi in sala.
La storia ruota attorno a Alfred Moretti (John Malkovich), leggendaria pop star degli anni '90 che, dopo trent’anni di silenzio, annuncia il suo ritorno sulla scena con un nuovo album. Per l'occasione, Moretti invita Ariel Ecton (Ayo Edebiri), una giovane ed emergente giornalista musicale, insieme a un gruppo selezionatissimo di giornalisti, influencer e addetti ai lavori, a una listening session esclusiva, organizzata nella sua villa blindata nascosta tra le colline californiane. Al suo arrivo, Ariel e gli altri sono costretti a consegnare i cellulari e ogni dispostivo tecnologico, ritrovandosi in un ambiente surreale, circondata da un gruppo di devoti seguaci di Moretti, che si comportano come membri di una setta. Subito si capisce che qualcosa non torna. L’atmosfera si fa sempre più tesa, le dinamiche tra i presenti assumono contorni strani e inquietanti, e la sparizione improvvisa di uno degli ospiti mette in luce il lato oscuro e diabolico del piano orchestrato da Moretti.
"Opus" è un film tecnicamente realizzato bene, nulla da dire, ma fin dalle prime inquadrature si intuisce la piega che prenderanno gli eventi, anche perché si tratta ormai di uno schema narrativo ampiamente utilizzato in altri titoli del genere. Mi vengono in mente Midsommar della stessa A24, Get Out, The Sacrament e persino Willy Wonka. C'è un un misterioso genio eccentrico adorato dalla sua setta e delle vittime predestinate pronte a essere sacrificate, quindi nulla di particolarmente originale. Un film che unisce il thriller, l'horror e il musical, e che, con toni surreali e grotteschi, racconta di divismo e culto di massa, accusando il mondo dei media – lo stesso mondo di cui Green è figlio, essendo stato a lungo direttore di una rivista di moda – che privilegia gli individui talentuosi a scapito della gente comune. John Malkovich offre un'interpretazione magnetica ed eccentrica ma francamente, faccio proprio fatica a vederlo nei panni di una pop star decaduta capace di esibirsi in tuta spaziale con movenze sexy, e paragonarsi a Michelangelo (sì, proprio quello della Cappella Sistina) nel presentare il suo ultimo album composto da preconfezionate canzonette pop da classifica realizzate appositamente per l’occasione da Nile Rodgers e The-Dream – un genere che, devo ammettere, non è esattamente di mio gusto. Il film si risolleva nel finale – interessante che il libro denuncia non faccia altro che alimentare l'idolo alle masse – ma complessivamente mi ha lasciato la sensazione di un film che avrebbe potuto osare di più. Non annoia ma nulla di memorabile.
Film
Freaks
di Tod Browning
"Disturbante" è un aggettivo abusato, lo so. Ma, onestamente, faccio fatica a trovarne uno più calzante per descrivere Freaks, il cult maledetto del 1932 firmato da Tod Browning. Al giorno d'oggi, dove il politicamente corretto trasforma Biancaneve in una impavida e cazzuta principessa che vive con sette coinquilini dalle abilità differenti, un film del genere, interpretato da veri fenomeni da baraccone, sarebbe impensabile.
La genesi del film è abbastanza nota agli appassionati. Reduce dal grande successo di Dracula, Browning venne contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per dirigere un horror e mettersi al passo con un genere che stava sbancando al botteghino. Ma invece di vampiri eleganti o cadaveri rianimati, Browning – che conosceva bene il mondo del circo, avendoci lavorato da giovane – decise di adattare un racconto breve di Tod Robbins, Spurs, e trasformarlo in un incubo umano, grottesco e crudele, ancora oggi impossibile da dimenticare.
La storia è ambientata in un circo itinerante dove si esibiscono i cosiddetti freaks, uomini e donne affetti da nanismo, malformazioni congenite, e deformità fisiche che li rendono oggetto di curiosità e repulsione. Hans, un uomo affetto da nanismo, è perdutamente innamorato della bella trapezista Cleopatra, alta, sinuosa e letale. La donna, approfittando della sua ingenuità, lo seduce per mettere le mani sulla sua eredità, con l’aiuto del suo amante, l’aitante forzuto Hercules. Ma tra i “mostri” del circo vige un codice non scritto: chi tocca uno di loro, tocca tutti. E quando la verità viene a galla, la vendetta arriva rapida, spietata, inarrestabile.
Sia durante le riprese che all’arrivo nei cinema, Freaks incontrò non pochi ostacoli. La presenza di veri fenomeni da baraccone e l’audacia con cui Browning li mostrava – senza filtri, senza pietà, ma anche senza derisione – generarono sconcerto, polemiche e un’ondata di rifiuto da parte del pubblico e della critica. La produzione tagliò le scene ritenute più sconvolgenti (la versione originale finiva con una scena di castrazione e mutilazione) nel tentativo di renderlo più digeribile. Ciononostante, il film fu un flop disastroso. La visione venne vietata in numerosi paesi europei, la Metro-Goldwyn-Mayer lo ritirò dalle sale dopo poche settimane, e Tod Browning non si riprese mai del tutto facendo fatica a trovare lavoro negli anni successivi.
Freaks è un pugno nello stomaco travestito da film horror. Ma il vero orrore non è nei corpi deformi dei suoi protagonisti, bensì nello sguardo degli "altri", nei sorrisi falsi, nella cattiveria borghese che giudica e schiaccia ciò che non comprende. Browning ribalta la prospettiva: i freaks, gli emarginati, sono gli unici a possedere una morale, una coerenza, una forma di purezza. I veri mostri sono gli "apparentemente normali", con i loro sorrisi da pubblicità e i loro cuori di piombo. L’atmosfera del circo è inquietante, satura di un’umanità deformata ma reale, fragile, tenera e crudele. Quando arriva la vendetta finale – in una notte di pioggia e fango, con i freaks che strisciano sotto i tendoni come un’orda primordiale – il film cambia volto. Non è più un melodramma bizzarro ma diventa un incubo morale.
Oggi è un film di culto, amato da registi, critici, outsider. È un’opera che ha il coraggio di non rassicurare, di non abbellire, di non mentire. In un’epoca che finge inclusività ma censura il reale, Freaks resta uno film ruvido, spietato ma sincero.
Film
Qui, altrove
Matthieu Simard
Attirato dalla recensione del libro: "un romanzo dove il perturbante si incarna in un’atmosfera densa di enigmi e di mistero ...degna del miglior cinema di David Lynch", mi sono letto Qui, Altrove di Matthieu Simard, un romanzo breve pubblicato da Zona 42 nella sua nuova collana Caronte curata da Luigi Musolino, dedicata al lato più oscuro della narrativa fantastica.
Nel tentativo di fuggire da un passato doloroso, Marie e Simon decidono di trasferirsi in un paesino sperduto tra i boschi sperando di concepire un figlio e ritrovare la serenità perduta. Ma il paese non è il rifugio accogliente che speravano. Gli abitanti rimasti, segnati da un’esistenza ruvida e da segreti non detti, li accolgono con freddezza o con un’inquietante invadenza. Da quando la fabbrica locale ha chiuso e una misteriosa antenna è stata installata, il posto sembra aver assunto un’aura di sospensione irreale, come se qualcosa di indefinibile lo stesse corrodendo dall’interno.
Matthieu Simard, autore canadese, costruisce la tensione giocando tutto sulle atmosfere. La sua scrittura è scarna ma evocativa, capace di insinuare una sottile inquietudine nel lettore. Il romanzo si muove tra le voci di Marie e Simon, restituendoci un’immersione intima nei loro pensieri, nelle loro paure, nelle ferite ancora aperte che li accompagnano. Il villaggio in cui si stabiliscono è descritto come un luogo enigmatico e ostile, immerso in un silenzio irreale. L’assenza di suoni – il violoncello di Marie che non viene mai suonato, il canto degli uccelli che sembra essersi estinto – amplifica il senso di isolamento e perdita.
La prima parte procede con un ritmo lento, quasi ipnotico, scandito da giorni che si ripetono uguali e da interazioni cariche di ambiguità. Poi, nella seconda metà, le crepe si aprono e scopriamo i motivi della fuga di Marie e Simon, il loro dolore prende forma, e il loro comportamento inizialmente criptico assume un senso più nitido.
Qui, Altrove è un romanzo sospeso, costruito su un dolore mai dichiarato del tutto, su spazi vuoti che parlano più delle parole. Ci sono momenti di rara poesia, malinconici e struggenti, e l’atmosfera è senza dubbio riuscita. Eppure, alla fine, non mi ha convinto fino in fondo. Forse mi aspettavo qualcosa di meno etereo, più incisivo. È come se il romanzo sfiorasse continuamente il mistero senza mai afferrarlo del tutto. Rimane un’esperienza affascinante, ma anche elusiva, come un sogno che al risveglio ti lascia addosso solo un vago senso di inquietudine.
Libri
Dogtooth
di Yorgos Lanthimos
Yorgos Lanthimos, il regista greco conosciuto per il pluripremiato Povere Creature, ha attirato per la prima volta l'attenzione del pubblico internazionale nel 2009 con Dogtooth (Kynodontas), un bizzarro e disturbante dramma familiare che si è aggiudicato il premio Un Certain Regard a Cannes e ottenuto una candidatura come miglior film straniero agli Oscar 2011.
Trovare le parole per descrivere Dogtooth non è semplice. Dramma psicologico? Cinema dell’assurdo? Distopia domestica? Qualunque sia la definizione, il film di Lanthimos non passa inosservato. Può affascinare o respingere, ma di certo non lascia indifferenti.
La trama, in fondo, è abbastanza semplice. Una famiglia composta da padre, madre e tre figli – due ragazze e un ragazzo – vive isolata in una grande villa con giardino e piscina. Fin qui nulla di strano, se non fosse che i ragazzi non hanno mai messo piede fuori casa, non hanno mai visto il mondo esterno e sono cresciuti con una versione completamente distorta della realtà, creata e manipolata dai genitori. Non sanno cosa ci sia oltre il cancello, non hanno accesso alla televisione, ai giornali o alla cultura esterna, e vengono istruiti con un linguaggio alterato per impedirgli di sviluppare una consapevolezza autonoma. Per loro, un gatto è l’essere più pericoloso al mondo, gli aeroplani sono piccoli oggetti che cadono dal cielo e la parola "zombie" indica un innocuo fiorellino giallo. L’unico modo per poter lasciare la casa, dicono i genitori, è perdere un canino superiore. Solo allora si diventa adulti.
Tutto procede secondo questo schema assurdo finché Christina, una donna che il padre porta in casa per soddisfare i bisogni sessuali del figlio, introduce nella fragile bolla familiare piccoli elementi di ribellione. Basta poco per incrinare il sistema, e ciò che segue è una lenta, angosciante discesa verso l’inevitabile.
Dogtooth è un film claustrofobico e disturbante. La regia di Lanthimos è statica, le inquadrature fredde e impersonali, i dialoghi asettici e privi di empatia, come se i personaggi fossero cavie di un esperimento sociale. Il tutto amplifica il senso di disagio, lasciando lo spettatore spaesato e senza punti di riferimento.
Si può leggere Dogtooth come una metafora politica, un’allegoria dei regimi totalitari che mantengono il popolo nell’ignoranza per esercitare il controllo assoluto. Oppure come una critica alla famiglia come istituzione repressiva, un microcosmo che può trasformarsi in una prigione emotiva e culturale. Ma al di là delle interpretazioni, ciò che resta è la sensazione di aver assistito a qualcosa di profondamente perturbante.
Il film non offre facili risposte. Lascia una porta aperta, ma non garantisce alcuna via di fuga. Dogtooth non è un film per tutti, può disturbare e irritare, è un cinema radicale, estremo, più autoriale di ogni altra opera successiva di Lanthimos. Eppure, già qui, si intravede tutta la sua poetica, con quelle tematiche che torneranno nei suoi film più conosciuti dal grande pubblico.
Film
E non liberarci dal male
di Joël Séria
Censurato in Francia e in altri paesi per le sue tematiche provocatorie e dissacranti, E non liberarci dal male (Mais ne nous délivrez pas du mal, 1971) di Joël Séria è un film che inquieta e affascina al tempo stesso. Ispirato al caso Parker-Hulme – lo stesso che diede origine a Creature del cielo di Peter Jackson – racconta una discesa vertiginosa negli abissi della giovinezza corrotta, dove la trasgressione si confonde con la seduzione del male.
Anne (Jeanne Goupil) e Lore (Catherine Wagner), due adolescenti benestanti cresciute in un ambiente cattolico repressivo, stringono un legame di amicizia ossessivo e morboso. Tra le mura del collegio, insofferenti alle regole e annoiate da una realtà che non le soddisfa, scoprono nella trasgressione un nuovo gioco, un modo per sentirsi vive. Affascinate dall’idea del male come atto di ribellione assoluta, il loro viaggio nell'oscurità inizia con piccoli atti di disobbedienza e giochi maliziosi alla scoperta della loro sessualità, finendo – con il sopraggiungere delle vacanze – per degenerare in rituali satanici, seduzioni avventate di uomini fragili e crudeltà di ogni genere. Quando il loro universo di fantasie oscure si scontra con la realtà, l’unico epilogo possibile è una tragedia rituale che suggella il loro patto eterno.
Joël Séria costruisce un film diabolico, pervaso di erotismo e dissacrazione, che racconta il progressivo disfacimento morale di due adolescenti (in realtà le attrici erano appena maggiorenni, ma nel film dimostrano molti anni di meno), tra insofferenza religiosa, primi desideri sessuali e voglia di evasione. Anne e Lore non sono vittime di un mondo crudele, ma due ragazze che cercano di sfuggire alla monotonia della loro esistenza e alle loro famiglie borghesi, più attente alle apparenze che ai sentimenti, consegnandosi al male, a Satana e alla propria autodistruzione. Così, in una torrida estate francese, danno fuoco a una fattoria, celebrano messe nere con un giardiniere mentalmente instabile, torturano animali, si offrono agli uomini con malizia. E infine, compiono un omicidio.
Il contrasto tra la loro innocenza apparente e la brutalità delle loro azioni amplifica il senso di inquietudine. I loro sorrisi, la loro leggerezza, rendono tutto ancora più disturbante. Il film culmina in una scena finale che ha il sapore di un sacrificio blasfemo.
E non liberarci dal male ancora oggi conserva intatta la sua carica disturbante. Un film pruriginoso, provocatorio, spietato, che non offre risposte, ma affonda le mani nel torbido dell’adolescenza, portando all'estremo i suoi incubi più morbosi.
Film
Cecità
José Saramago
Non avevo mai letto nulla di José Saramago prima d’ora, e devo dire che l’approccio al suo stile non è stato immediato. Ma di questo parlerò più avanti. Cecità, pubblicato nel 1995, è probabilmente il suo romanzo più noto, un'opera che lo ha portato a vincere il Premio Nobel per la letteratura nel 1998. Il titolo originale, Ensaio sobre a Cegueira (Saggio sulla cecità), è stato modificato nella traduzione italiana per evitare che il libro venisse scambiato per un saggio filosofico.
Tutto ha inizio in un’anonima città quando un uomo, fermo al semaforo, diventa improvvisamente cieco. Ma non è un buio che lo avvolge, bensì un bianco lattiginoso, come se fosse immerso in una spessa nebbia. Poco dopo, chiunque entri in contatto con lui perde la vista allo stesso modo. Il medico che lo visita, i pazienti in sala d’attesa, la moglie del medico. Il contagio si propaga con una rapidità allarmante fino a costringere le autorità a intervenire. Per arginare l’epidemia, i primi ciechi vengono confinati in un ex manicomio sotto sorveglianza militare. Quello che dovrebbe essere un centro di contenimento si trasforma presto in un inferno: le regole del vivere civile crollano, emergono violenza, sopraffazione, fame e abbrutimento. L’umanità regredisce a uno stato primitivo, governata dalla legge del più forte. In questo scenario apocalittico, c’è una sola persona che ancora vede: la moglie del medico. Per ragioni inspiegabili, la cecità non l’ha colpita, e grazie alla sua vista cerca di guidare il piccolo gruppo con cui è rinchiusa, diventando una sorta di Virgilio in un girone infernale. Quando anche il mondo esterno soccombe all’epidemia, la città si trasforma in una landa desolata, popolata da ciechi che vagano alla ricerca di cibo, di riparo, di un senso in tutto questo caos.
Ammetto che inizialmente ho trovato difficoltà a entrare in sintonia con lo stile di Saramago. La sua prosa è assai particolare. Pochissimi a capo, periodi lunghissimi, nessun segno che indichi i dialoghi, solo virgole e punti per separare le frasi. Una scelta stilistica che può apparire ostica, ma che si rivela perfettamente coerente con la narrazione. I personaggi non hanno nomi, sono definiti solo dal loro ruolo (il medico, la moglie del medico, il primo cieco, la ragazza con gli occhiali scuri), quasi a suggerire che potrebbero essere chiunque. E anche il lettore, in un certo senso, diventa cieco, come se fosse costretto a "sentire" la storia più che a leggerla. La parte ambientata nel manicomio-lager è stata, per me, la più difficile da affrontare. Non perché non sia abituato a storie dure o a scenari estremi, ma perché Saramago non addolcisce nulla: la fame, la sporcizia, la violenza sessuale, la lotta per il potere emergono con una crudezza spietata, senza filtri. Ci sono momenti in cui il romanzo diventa soffocante, quasi insopportabile, ma proprio in questo sta la sua forza. È un libro che mette a disagio, che spinge a guardare in faccia il lato più oscuro dell’umanità. Nonostante tutto, in questo incubo collettivo, ci sono anche lampi di luce: gesti di solidarietà, attimi di umanità che resistono al degrado. La moglie del medico, con la sua vista, non è solo un testimone del crollo della civiltà, ma anche una guida, una speranza. E il finale, con quella frase potentissima – "secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo ciechi, ciechi che, pur vedendo, non vedono" – lascia il lettore con una domanda aperta: forse la cecità più spaventosa non è quella fisica, ma quella morale?
Cecità non è un libro semplice né confortante. È disturbante, viscerale, in certi passaggi persino respingente. Ma è anche un libro capace di scuotere e di far riflettere. Sicuramente difficile da dimenticare.
Libri
Monica e il desiderio
di Ingmar Bergman
Monica e il desiderio (Sommaren med Monika, letteralmente L'estate con Monika) è un film del 1953 diretto da Ingmar Bergman, tratto da un racconto di Per Anders Fogelström, che collaborò anche all’adattamento insieme al regista. Girato con un budget ridotto quando Bergman aveva appena trentadue anni, venne inizialmente considerato un’opera minore, tanto che in Italia arrivò solo otto anni dopo, quando Jean-Luc Godard ne riconobbe il valore e contribuì a consacrarlo tra i grandi film del maestro svedese.
Alla sua uscita, il film fece scandalo e subì pesanti tagli da parte della censura, che ne eliminò le scene più audaci. A sconvolgere non era solo la carica erotica delle immagini, ma soprattutto la presenza magnetica e travolgente di Harriet Andersson, allora diciannovenne, che con la sua sensualità spontanea e ribelle portava sullo schermo una femminilità nuova e provocatoria per l’epoca.
Harry (Lars Ekborg) e Monica (Harriet Andersson) sono due giovani commessi intrappolati in un’esistenza grigia e insoddisfacente. Lui, timido e introverso, vive con un padre malato e affronta giornate monotone in un lavoro senza prospettive. Lei, sfrontata e ribelle, cresce in un ambiente proletario soffocante, tra fratelli chiassosi e un padre violento. Monica sogna di fuggire, di lasciarsi alle spalle la miseria e la monotonia della sua vita. Quando si incontrano in uno squallido bar di Stoccolma, tra i due scatta subito qualcosa. Si cercano, si innamorano, si illudono di poter trovare insieme una via di fuga dalla realtà. Dopo l’ennesima lite in famiglia, Monica scappa di casa e si rifugia da Harry. Il giorno dopo, lui si fa licenziare e ruba il motoscafo del padre. Insieme prendono il largo, abbandonando la città per perdersi nell’arcipelago svedese. L’estate diventa un sogno di libertà assoluta, un idillio vissuto all’insegna dell’amore, della natura selvaggia e dell’incoscienza. Ma l’estate finisce. Sempre. Il denaro si esaurisce, la fame inizia a farsi sentire e Monica scopre di essere incinta. Il ritorno a Stoccolma segna il brusco risveglio. Harry, determinato a costruire un futuro stabile per la loro famiglia, la sposa e cerca di affrontare le nuove responsabilità. Ma Monica rifiuta l’idea di una vita fatta di sacrifici e doveri. La sua voglia di evadere non si è mai davvero spenta. Presto si stanca della routine domestica e si abbandona a nuove avventure. Quando Harry scopre il tradimento, l’illusione si frantuma definitivamente. Monica se ne va, inseguendo il suo desiderio di libertà. Harry resta con la loro bambina, consapevole che ciò che rimane di quell’estate non è altro che un ricordo destinato a sbiadire nel tempo.
Il cuore pulsante del film è Harriet Andersson con la sua prorompente carica erotica e il suo spirito fragile e ribelle allo stesso tempo. Bergman scrive il personaggio di Monica su misura per lei, e la sua interpretazione è un’esplosione di sensualità, vitalità e disperazione. È una figura complessa, che incarna la libertà e l’insofferenza, l’attrazione e la fuga. Monica è capace di trasformare ogni scena con un gesto, un sorriso, uno sguardo di sfida. La sua sessualità è libera, istintiva, lontana dai cliché dell’epoca. Harriet Andersson divenne la musa di Bergman, ma anche la sua compagna nella vita per un intero decennio, lavorando con lui in ben nove film.
L’iconico sguardo in macchina della Andersson – quel lungo, silenzioso primo piano che Godard definirà "il più triste della storia del cinema" – ci lascia immobili. Non è solo uno sguardo, è un abisso. In quegli occhi c’è la consapevolezza di una vita che non sarà mai come la si era immaginata. È il punto in cui il desiderio incontra la realtà e si sgretola.
Girato in un bianco e nero di struggente bellezza, Monica e il desiderio è il ritratto di una passione che si accende come un fuoco estivo, brucia intensamente e si spegne lasciando dietro di sé solo il profumo acre della nostalgia. Bergman cattura l’illusione dell’amore assoluto, la ribellione giovanile e l’ebbrezza della libertà con una sincerità disarmante. E poi c’è lei, Monica, indomabile e sfuggente, seducente come il sole di un pomeriggio che non vorresti finisse mai. Difficile non innamorarsi di lei. Impossibile dimenticarla.
Film
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto
di Elio Petri
Un pugno nello stomaco. Dev'essere stato questo l'effetto di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto quando uscì nelle sale italiane nel 1970, in un periodo di forte tensione politica e sociale. Un opera scomoda, corrosiva, che rischiò la censura e il sequestro per la sua critica feroce alle istituzioni, in particolare alla polizia e al potere autoritario in Italia. Alla fine, il film di Elio Petri riuscì ad arrivare nelle sale, vincendo il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes e, l'anno successivo, l'Oscar come miglior film straniero.
Roma. Il capo della sezione omicidi (Gian Maria Volonté), proprio nel giorno della sua promozione all'ufficio politico, uccide l'amante Augusta Terzi (Florinda Bolkan). Invece di coprire le sue tracce, l'alto funzionario della polizia, che rimarrà senza nome, fa di tutto per seminare indizi che lo collegano al crimine, sfidando il sistema e mettendo alla prova fino a che punto il suo potere possa proteggerlo. Per quanto si sforzi di dare prove della sua colpevolezza, il sistema rifiuta di prenderle in considerazione. I suoi sottoposti, invece di sospettarlo, lo giustificano, lo proteggono, cercano spiegazioni alternative. Anche quando un testimone chiave, un idraulico, si trova davanti a lui e potrebbe incastrarlo, il timore reverenziale e il clima di omertà lo spingono al silenzio. Fino a che punto può spingersi un uomo investito di autorità? Quanto è disposto il sistema a proteggere se stesso, anche di fronte all'evidenza di un delitto?
Il racconto si dipana tra presente e flashback, dove emerge il rapporto morboso con Augusta, un gioco di potere e seduzione in cui lei lo sfida a dimostrare di essere un vero uomo, un'autorità assoluta. Una sfida che lo porterà a compiere l'omicidio e a usarlo come esperimento politico e socale.
Elio Petri costruisce un thriller psicoanalitico sull'abuso del potere che critica e analizza in chiave grottesca l'autoritarismo e l'impunità degli apparati polizieschi. Scritto dal regista insieme a Ugo Pirro, il film fece scalpore sopratutto nel nostro paese perchè uscì appena due mesi dopo la strage di piazza Fontana e la morte dell'anarchico Pinelli in un momento delicatissimo della storia italiana. Il film sembra anticipare il clima che avrebbe caratterizzato gli anni di piombo, con uno stato che si regge sulla repressione e su un potere che non sbaglia mai. È un film politico, profondamente legato al suo periodo storico, che unisce il tormento psicologico dostoevskiano alla visione grottesca e claustrofobica del potere tipica di Kafka.
Gian Maria Volonté è monumentale. Il suo personaggio è un uomo arrogante, sprezzante, con un accento marcato e un piglio tronfio che nasconde un'insicurezza profonda. La sua interpretazione è un continuo gioco tra delirio e lucidità, tra volontà di controllo e bisogno di autoumiliazione. E poi c'è la colonna sonora di Ennio Morricone, uno dei temi più famosi della sua carriera, un tango ambiguo con il mandolino iniziale che evoca l'origine siciliana del protagonista.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è un film che non invecchia, anzi, con il tempo diventa ancora più inquietante. Il suo messaggio è chiaro: la giustizia non è uguale per tutti, e il potere può permettersi tutto, anche di uccidere alla luce del sole. E se nessuno osa fermarlo, forse il problema non è solo chi comanda, ma chi obbedisce senza farsi domande.
Film
Audition
di Takashi Miike
La prima volta che ho visto Audition di Takashi Miike, in una videocassetta a casa di un amico, non avevo idea di cosa mi aspettasse. Mi affascinavano gli horror giapponesi, che in quel periodo stavano proliferando, e avevo già visto film estremi e disturbanti. Tuttavia con Audition, di cui ignoravo la svolta nella trama, avevo un aspettativa diversa. Forse il titolo, forse la premessa da dramma sentimentale. Fatto sta che mi ha colto completamente alla sprovvista.
Quando il film viene presentato in anteprima al Festival di Rotterdam nel gennaio del 2000, Miike ha già diretto una decina di film. È noto per il suo stile prolifico e anticonvenzionale — in trent'anni di carriera girerà più di un centinaio di film spaziando tra i generi più disparati — ma è proprio con Audition, tratto dall’omonimo romanzo di Ryu Murakami, che il suo nome esplode a livello internazionale, consacrandolo come uno dei cineasti più estremi e provocatori del panorama giapponese.
Shigeharu Aoyama (Ryo Ishibashi) è un uomo di mezza età rimasto vedovo, che vive solo con il figlio adolescente. Su insistenza di quest’ultimo, decide di rimettersi in gioco e cercare una nuova moglie. L’amico Yoshikawa (Jun Kunimura), produttore cinematografico, gli propone una idea bizzarra, quella di organizzare un’audizione per un film inesistente, in modo da poter selezionare, tra tante giovani aspiranti attrici, la donna perfetta per Aoyama. È così che l’uomo incontra Asami Yamazaki (Eihi Shiina), una giovane di ventiquattro anni, eterea, timida e misteriosa. Aoyama ne è subito rapito. Asami sembra delicata, quasi irreale, con una storia di sofferenza che la rende ancora più affascinante. Ma dietro quel volto angelico si nasconde qualcosa di oscuro. Un passato di dolore, abusi e violenza repressa, che trascinerà Aoyama in un incubo a occhi aperti.
La forza di Audition sta proprio nella sua costruzione e nella sua messa in scena. Inizialmente il film sembra una semplice storia d’amore, quasi una commedia grottesca, in cui un uomo di mezza età si affida a una finta audizione organizzata dall’amico per trovare moglie, sfogliando i profili delle candidate con la stessa leggerezza con cui oggi si "swippa" su un’app di incontri. La donna perfetta deve essere giovane, bella, gentile, devota, pronta a soddisfare ogni necessità dell’uomo. Ma Asami non è un oggetto. È il riflesso distorto di una società patriarcale che impone alle donne di essere compiacenti, di curare il dolore degli uomini dimenticandosi del proprio. E quando la sua maschera cade, quando Aoyama si dimostra incapace di darle quell’amore assoluto che lei chiede, l’uomo diventa la vittima perfetta su cui riversare tutta la sofferenza accumulata da anni di solitudine, abusi e molestie.
Miike costruisce un film che inizia come un dramma sentimentale, che si trasforma in un noir lynchano sospeso tra realtà e incubo — l'uomo nel sacco ha la stessa potenza inquietante del barbone di Mulholland Drive — per poi virare nel finale in un horror estremo ai limiti della sopportazione visiva. Audition è un film che gioca sull’ambiguità, lasciandoci costantemente nel dubbio su cosa sia reale e cosa sia frutto della mente dei protagonisti.
Un cult movie, un classico moderno sulla violenza inflitta e ricevuta, sulla fragilità che si trasforma in disperazione. Un’illusione d’amore che si sgretola rivelando il volto della follia. Forse non è un horror nel senso più tradizionale del termine, ma una volta visto, è impossibile dimenticarlo. Sicuramente il capolavoro di Miike.
Film
Titane
di Julia Ducournau
Quando il cinema francese decide di osare, sa essere disturbante come pochi. E per disturbante intendo qualcosa che ti si insinua sotto la pelle, lacera e lascia il segno. Titane, diretto da Julia Ducournau e vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2021, è un film estremo, provocatore e spiazzante.
Alexia (Agathe Rousselle) porta nel cranio una placca di titanio, souvenir di un incidente d’auto avuto da bambina. Forse è per questo che, da adulta, sembra più macchina che umana. Lavora come ballerina di lap dance alle fiere automobilistiche, strusciandosi su auto fiammanti, ipersessualizzata e inaccessibile. Un sogno proibito per chi la osserva, ma non per le automobili, verso cui prova un’attrazione così viscerale da arrivare ad avere un rapporto sessuale con una Cadillac (probabilmente con la leva del cambio, ma meglio non farsi troppe domande). Il rapporto con gli esseri umani invece è un pò più problematico e chiunque osi avvicinarsi troppo, uomo o donna che sia, finisce con un fermaglio da capelli piantato nel cranio. La situazione precipita quando la nostra protagonista compie una strage in una festa privata e si ritrova braccata dalla polizia. In cerca di una via di fuga, Alexia decide di compiere la metamorfosi più estrema, si sfigura il volto e assume l’identità di Adrien, il figlio scomparso di un comandante dei pompieri (Vincent Lindon), un uomo che si aggrappa disperatamente all’illusione di aver ritrovato il figlio perduto. Nel frattempo, piccolo dettaglio da non trascurare, Alexia scopre di essere incinta. Dell'auto.
Titane è un body horror senza freni, disturbante, ed estremo. Il suono delle ossa che si spezzano, il metallo che stride sulla pelle, lo strazio del corpo che si lacera diventa così irritante e fastidioso, che a tratti bisogna distogliere lo sguardo dallo schermo. Le influenze di Crash di Cronenberg e di Tetsuo di Tsukamoto sono evidenti, ma Ducournau ci mette del suo, mescolando il disgusto con un’ironia sottile e irriverente. Basta vedere la scena dell’omicidio compiuto con uno sgabello sulle note di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli, o il momento surreale in cui Alexia canta la Macarena durante una respirazione bocca a bocca. È un horror del corpo, ma anche dell’identità. In un mondo ossessionato dalle etichette, Alexia diventa un’entità fluida, senza un nome, senza un genere, senza più un’origine chiara. Un corpo in costante trasformazione, né uomo né donna, né carne né metallo.
Dall’altro lato, Vincent, il comandante dei pompieri, è il contrappeso umano, ma non meno devastato. La sua mascolinità ipertrofica è solo un guscio fragile, alimentato da steroidi e disperazione. Il suo bisogno d’amore è così cieco da non voler vedere la realtà, abbracciando l’inganno con una dolcezza straziante. Il loro rapporto è un paradosso che funziona. Un gioco di specchi tra corpi spezzati che cercano di ripararsi a vicenda, senza mai riuscirci davvero.
Probabilmente Titane verrà ricordato come "il film in cui una ragazza resta incinta dopo aver fatto sesso con un’automobile", senza ombra di dubbio, ma è anche una storia d’amore. Malata, deviata, dolorosa e impossibile, ma pur sempre amore. Il bisogno disperato di essere accettati, di essere visti, di essere amati nonostante tutto. Anche se stai secernendo olio motore dalla vagina.
Un film che lascia il segno, come una cicatrice sul metallo.

The Place
di Paolo Genovese
Dopo il successo di Perfetti Sconosciuti, il regista romano Paolo Genovese realizza nel 2017 un film insolito e per certi versi coraggioso. Adattamento della serie americana The Booth at the End, The Place è una sorta di thriller esistenziale, decisamente teatrale, basato prevalentemente su dialoghi e tensione psicologica.
Il film è ambientato tutto all’interno di un bar dove un enigmatico personaggio senza nome (Valerio Mastandrea), seduto sempre allo stesso tavolo, prende appunti su una vissuta agenda, mentre una sfilata di personaggi, si alternano, sedendosi di fronte a lui, con richieste che vanno dal disperato al delirante. Un poliziotto che cerca suo figlio (Marco Giallini), una suora che ha perso la fede (Alba Rohrwacher), un padre disperato che vuole salvare la vita del proprio bambino (Vinicio Marchioni), un meccanico che sogna una notte di sesso con una pinup da calendario (Rocco Papapaleo), una donna anziana che desidera che il marito guarisca (Giulia Lazzarini), un delinquente che vuole liberarsi del padre oppressivo (Silvio Muccino), un cieco che vorrebbe riacquistare la vista (Alessandro Borghi), una ragazza ossessionata dalla bellezza (Silvia D'Amico) e un altra che vuole riconquistare suo marito (Vittoria Puccini). Lui ascolta, prende appunti e poi propone una soluzione. Ma niente è gratis, ogni desiderio ha un prezzo e la moneta di scambio è un’azione – spesso immorale, talvolta orribile – che i personaggi dovranno compiere. Il punto non è tanto cosa vogliono, ma fino a che punto sono disposti a spingersi per ottenerlo.
A osservare il tutto c’è la cameriera del bar (Sabrina Ferilli), incuriosita da quell’uomo che passa le giornate a parlare con chi gli siede di fronte, che a fine serata si siede al suo tavolo cercando di svelare il mistero dietro quel volto impassibile. Chi è davvero? Un emissario divino? Il diavolo in incognito? O semplicemente uno specchio della natura umana, capace solo di mostrare il peggio che si cela dentro ognuno di noi?
Il film punta tutto su un’impostazione teatrale, un cast corale, un unico spazio, pochi movimenti, tanti primi piani e dialoghi a raffica. Scelta affascinante, ma alla lunga un po’ ripetitiva. Il cinema di solito si muove, qui invece resta fermo, lasciando allo spettatore il compito di immaginare cosa accada fuori. Più che un film, sembra di leggere un romanzo.
Mastandrea è perfetto nel ruolo dell’enigmatico burattinaio, cupo, imperscrutabile, con un velo di malinconia che lo rende ancora più inquietante. Gli altri? Più che personaggi, sembrano archetipi con poco spessore. E poi alcuni proprio non li reggo, ma questo è un problema mio.
Genovese ha il merito di non essersi adagiato sul successo di Perfetti Sconosciuti, provando una strada più rischiosa e anticommerciale. Peccato che The Place non inciampi tanto sull’idea – che non è neanche originalissima – quanto sulla sua realizzazione. Tante domande, poche risposte, e nella seconda metà il film si sfilaccia con personaggi che spariscono, trame che si annodano senza sciogliersi, e un finale che non incide quanto dovrebbe.
Un’occasione mancata? Forse. Ma almeno è un tentativo di portare qualcosa di diverso nel cinema italiano.
Film
Memorie di un assassino
di Bong Joon-ho
Memorie di un assassino (Memories of Murder) è il secondo lungometraggio di Bong Joon-ho, regista sudcoreano che ha conquistato il pubblico internazionale con film come The Host, il distopico Snowpiercer e soprattutto Parasite, vincitore dell’Oscar per il miglior film.
Ispirato ai crimini del primo serial killer conosciuto nella storia della Corea del Sud, il film è stato distribuito in patria nel 2003, ottenendo un ampio consenso di critica e pubblico. In Italia, invece, è arrivato solo quattro anni più tardi, direttamente in home video, per poi essere riproposto al cinema nel 2020 grazie al successo di Parasite.
Al di là dell'ennesima storpiatura italiana del titolo originale — Memorie di un assassino è ben diverso da Memorie di un omicidio — il film è ambientato negli anni ottanta, in un piccolo paese di provincia della Corea del Sud, dove si indaga su una serie di omicidi di donne, ritrovate legate e strangolate con la loro stessa biancheria, uccise probabilmente dalla stessa mano. Il detective locale Park Doo-man (Song Kang-ho) e il collega Cho Yong-gu, sono più abituati a pestaggi e confessioni estorte che a vere indagini, e presto si rendono conto di trovarsi di fronte a qualcosa di più grande di loro. Da Seoul arriva il più metodico e razionale Seo Tae-yoon (Kim Sang-kyung), pronto a dare una mano nell'indagine, ma ben presto anche lui viene travolto dall’incapacità della polizia e dalla frustrazione dell’impotenza, finendo per adottare la stessa violenza dei colleghi pur di far confessare l'uomo che sospetta essere il serial killer.
Bong Joon-ho costruisce un thriller cupo e stratificato, in cui la tensione non deriva solo dalla caccia all'assassino, ma anche dall’incapacità delle istituzioni di far fronte all’orrore. La polizia di provincia, incapace di risolvere il caso, appare inadeguata, arruffona e, soprattutto, violenta. L’investigatore che arriva da Seoul, con l’aspettativa di mettere ordine, si rivela ugualmente impotente. Il regista coreano, piuttosto che concentrarsi sul serial killer e sulle ipotesi relative alla sua identità, preferisce compiere una profonda critica sociale — nel periodo storico in cui è ambientato il film la Corea del Sud si trovava sotto dittatura — esplorando le fragilità, ma anche la tenacia, dei suoi personaggi, sullo sfondo di una Corea deprimente e desolata, fatta di campi fangosi, baracche e locande fumose.
Il finale irrisolto di Memorie di un assassino probabilmente scontenterà il giallista più incallito, ma, dato che non siamo a Hollywood bensì in Corea, alla fine risulta non solo credibile, ma anche spiazzante.
Ottimo.