Storia di un matrimonio
di Noah Baumbach
In un impeto di autolesionismo o forse soltanto in cerca di qualcosa di diverso dai miei soliti horror ho deciso di vedermi Storia di un matrimonio (Marriage Story, 2019) di Noah Baumbach. Risultato? Una mazzata. Sarà che quell’inferno l’ho vissuto sulla mia pelle in tempi recenti, ma questo film mi ha fatto rimpiangere i miei amati mostri. Loro, almeno, se vogliono mangiarti il cuore non ti mandano prima una lettera dell’avvocato.
Charlie (Adam Driver) è un regista teatrale newyorkese di discreto successo. Nicole (Scarlett Johansson), sua moglie, è un’attrice californiana che per anni è stata il volto principale della compagnia da lui diretta. I due hanno un bambino di otto anni, Henry. Mentre Charlie prepara il suo debutto a Broadway, Nicole - che ha messo spesso in pausa la sua carriera per seguirlo - accetta di interpretare il pilot di una serie tv e decide di tornare a Los Angeles portando con sé il figlio. È l’inizio della loro separazione. Quello che nasce come un tentativo di lasciarsi in modo amichevole, civile, "senza avvocati", deraglia rovinosamente quando Nicole, spinta da un nuovo senso di indipendenza, si affida a una legale. Da quel momento la vita privata di due persone che si sono amate diventa un fascicolo, una strategia, una guerra di logoramento emotiva e straziante.
La grandezza di Baumbach sta nel rifiutare la facile retorica del colpevole. La sceneggiatura mantiene un equilibrio miracoloso tra i due punti di vista senza mai cadere nel giudizio. Non ci sono mostri né santi, solo due persone che a un certo punto non riescono più a comunicare. La frattura non nasce da un tradimento o da un gesto plateale, ma da un’usura lenta e quasi invisibile. È quel disamore silenzioso fatto di piccole rinunce che sembrano nulla finché un giorno non pesano come macigni.
Adam Driver e Scarlett Johansson sono semplicemente monumentali. Così credibili, così dolorosamente vulnerabili, che per ampi tratti sembra di osservare due esseri umani reali che si spezzano lentamente, pezzo dopo pezzo, davanti ai tuoi occhi. Charlie è egoista e controllante, ma sinceramente convinto di amare la sua famiglia. Nicole ha motivazioni legittime per andarsene, ma anche lei non esita a usare armi sleali quando serve. Sono terribilmente umani, con tutte le contraddizioni che questo comporta.
Il vero "orrore" arriva con l'entrata in scena degli avvocati. È qui che Storia di un matrimonio colpisce duro e dove ho sentito il colpo più forte, rivivendo dinamiche che conosco purtroppo molto bene. Il film mostra la cinica brutalità di un sistema legale che si nutre delle debolezze umane. Laura Dern (nei panni della spietata avvocata di lei) e Ray Liotta (lo squalo che difende lui) sono magnifici nel rappresentare il male necessario. Sono professionisti che fanno il loro lavoro. Ed è proprio questo che li rende terrificanti. Sono figure che riescono a manipolare la fragilità di due persone disperate. Arrivano quando sei vulnerabile, quando vorresti solo che tutto finisse in fretta, e ti parlano con una dolcezza materna o paterna che ti disarma. Ti dicono che "capisci la tua situazione", che "meriti giustizia", che "è ora di pensare a te stesso". E prima che tu te ne accorga, stai firmando per strategie aggressive che mai avresti immaginato di approvare. Ti convincono che l'altro è il nemico, che ogni gesto passato era un calcolo, costringendoti a difenderti con le stesse armi sporche. Ti ritrovi, come Charlie, debole e con le spalle al muro, spinto a compiere scelte scellerate non perché lo vuoi, ma perché un avvocato ti dice che è l'unico modo per non soccombere. È una catena di errori guidata da parcelle salate, dove l'umanità viene tritata in nome della "migliore strategia processuale".
Vedere Storia di un matrimonio è stato un pugno nello stomaco e non mi nascondo ad ammettere che nel finale ho versato qualche lacrima insieme ai due protagonisti.
Alla fine è un film sulla perdita di un’idea di futuro di coppia, della certezza, del “noi”, di un progetto condiviso. Ma nel vedere nel finale Nicole allacciare le scarpe di Charlie mi ha fatto pensare che la separazione non azzera ciò che è stato, non cancella il passato. Semplicemente lo riformula. In una nuova quotidianità. Con ferite che possono restare aperte per sempre.
Ora però torno volentieri ai miei horror.
Film
Closer
di Mike Nichols
Tratto dall’omonima opera teatrale di Patrick Marber, Mike Nichols — il regista de Il laureato — con Closer confeziona quello che, per molti, è diventato un piccolo cult sentimentale degli anni duemila. È un film che si presenta benissimo: attori carismatici, inquadrature eleganti e una Londra grigia che osserva silenziosa le vicende di due coppie intrecciate. Eppure, fin da subito si avverte qualcosa di artificioso, come una commedia sentimentale studiata al millimetro: recitata bene, piena di dialoghi taglienti e spregiudicati, ma incapace di sembrare davvero sincera. Se l’obiettivo era raccontare la crudeltà dei rapporti amorosi moderni, il risultato assomiglia più a un esercizio di stile che a una finestra sulla realtà.
La storia ruota attorno a un doppio triangolo amoroso che non trova mai pace. Dan (Jude Law), un aspirante scrittore che campa scrivendo necrologi, si imbatte in Alice (Natalie Portman), una spogliarellista americana misteriosa e magnetica. I due si mettono insieme, ma la stabilità annoia. Dan perde la testa per Anna (Julia Roberts), una fotografa malinconica che, per un crudele scherzo del destino (e di una chat erotica ante-litteram), finisce tra le braccia di Larry (Clive Owen), un dermatologo ossessionato dal sesso. Da qui parte un valzer di tradimenti, lasciate e riprese, in cui le coppie si scambiano, si feriscono e si analizzano a vicenda. Quattro estranei che diventano amanti, poi nemici, poi di nuovo amanti, in un loop di infelicità che attraversa una Londra grigia e impersonale.
Derivando da un’opera teatrale, il film si porta dietro un bagaglio di dialoghi scintillanti, taglienti, costruiti con una precisione chirurgica. Ed è proprio questo il punto: sono troppo perfetti. Nella vita vera, quando si parla d'amore o ci si lascia, si balbetta, si dicono cose banali, si è goffi. Qui, invece, ogni battuta è una sentenza, ogni replica è arguta. Non c'è mai una parola fuori posto, il che rende difficile sospendere l'incredulità e vedere nelle due coppie delle persone reali piuttosto che dei personaggi scritti benissimo.
Il film parla tantissimo di sesso e intimità. I protagonisti ne discutono, ne analizzano le dinamiche, usano un linguaggio esplicito per ferirsi, sopratutto i maschietti, ma paradossalmente in tutto il film non c’è una vera scena di sesso. È un film castigato, freddo, privo di vera sensualità. Vorrebbe scandalizzare parlando di "scopare", ma ha paura di mostrarlo. Perfino lo spogliarello della Portman, che avrà sicuramente attirato il pubblico maschile (me incluso), risulta casto. Pare che la produzione abbia tagliato le scene di nudo integrale. Peccato, occasione persa.
Gli attori sono bravi e forse il cast è l'unico motivo per cui si arriva ai titoli di coda. Ognuno fa il suo dovere con mestiere, ma sono convinto che senza questi quattro nomi in locandina, il film sarebbe finito nel dimenticatoio dei drammi indie pretenziosi.
Il tema centrale vorrebbe essere il cinismo, la brutalità dell'egoismo in amore. Ma il risultato finale è mediocre perché manca l'empatia. Non ci importa davvero di Dan, Anna, Larry o Alice, perché sembrano concetti astratti più che esseri umani. Alla fine, Closer ci lascia con l'idea che l'amore sia una guerra, sì, ma combattuta da manichini bellissimi in una vetrina di lusso. Tutto molto estetico, tutto molto falso e artefatto.
After the Hunt - Dopo la caccia
di Luca Guadagnino
Non sono un amante del cinema di Luca Guadagnino. Quel suo stile, elegante e a tratti persino algido, che con tanta ossessiva cura tende a ritrarre le classi agiate, quegli ambienti dove l’estetica prevale sempre sull’autenticità, dove si parla di filosofia tra bicchieri di vino pregiato e ogni gesto sembra calibrato per mantenere intatta una facciata impeccabile. Quel mondo patinato, splendide vetrine di drammi emotivi, mi risulta freddo, lontano, poco interessante, sopratutto se viene trattato senza ironia. Per questo mi sono avvicinato a After the Hunt - Dopo la caccia, film di produzione statunitense del 2025 presentato fuori concorso a Venezia 82, con una certa diffidenza. Alla fine, pur trovandolo parecchio verboso, devo ammettere che qualche tema interessante l’ho trovato.
La storia ruota attorno ad Alma Olsson, professoressa di filosofia all'università di Yale (interpretata da Julia Roberts), che si trova al centro di una tempesta quando la sua brillante allieva Maggie (Ayo Edebiri) accusa di molestie sessuali Hank (Andrew Garfield), collega e migliore amico di Alma. L'accusa arriva nel momento peggiore: Alma e Hank sono in competizione per ottenere la cattedra di professore ordinario, quella per cui ha lavorato una vita intera. Inizia così una vera e propria caccia alla verità in cui la presunta innocenza o colpevolezza di Hank si scontra con le ambizioni personali, le lealtà professionali e, soprattutto, i fantasmi di un oscuro segreto nel passato di Alma stessa.
Guadagnino mette in scena un thriller psicologico dove le certezze morali si sgretolano scena dopo scena, lasciando lo spettatore in uno stato di costante sospensione. After the Hunt rifiuta la facile presa di posizione. L'intera narrazione gioca sul fatto che la verità rimane ambigua. Nessuno dei personaggi è completamente vittima o carnefice. Ci vengono dati indizi, vengono sollevate domande cruciali – sul plagio, sulla sincerità di Maggie, sulla storia di Alma – ma il punto non è tanto sapere chi mente, quanto vedere come le persone reagiscono, si proteggono o si scontrano di fronte a un conflitto che non può più essere spazzato sotto il tappeto. Il film sembra essere un omaggio a Woody Allen. Non solo l'estetica, evidente fin dai titoli di testa, con quel font caratteristico e le sonorità jazz, ma nella volontà di scandagliare le ipocrisie e le contraddizioni della classe intellettuale americana.
Julia Roberts, lontana anni luce dai ruoli che l'hanno resa famosa, è brava. Accanto a lei, Andrew Garfield e Ayo Edebiri completano un triangolo attoriale di altissimo livello, mentre la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross aggiunge con quelle note di piano dilatate un tappeto sonoro che amplifica le tensioni narrative.
Il limite del film è che è decisamente troppo prolisso e verboso. La sceneggiatura di Nora Garrett si perde in dialoghi a volte ridondanti, discussioni teoriche, dispute accademiche che appesantiscono il ritmo. Eppure, dentro quell’eccesso verbale si nasconde la parte più riuscita dell’opera. La parola diventa arma, scudo, maschera. Tutti parlano e nessuno si espone davvero. È in questo scarto, nel non detto che pulsa tra una frase e l’altra, che After the Hunt trova la sua densità emotiva.
Interessante anche il modo in cui Guadagnino mette in scena la reputazione come oggetto fragile e manipolabile. Basta un’accusa, uno sguardo di troppo, un dettaglio lasciato a metà. E la protagonista scivola lentamente verso una perdita di controllo che non ha nulla di spettacolare ma molto di umano. È un dramma di corrosione, più che di esplosione.
Negli stessi giorni in cui in Italia il Senato discute la nuova legge sul consenso in materia sessuale, After the Hunt ci ricorda quanto sia facile muoversi in zone grigie, dove potere, desiderio e vulnerabilità si intrecciano senza offrire risposte semplici. Non significa sminuire la tutela delle vittime, che resta fondamentale, ma riconoscere che la realtà è più complessa delle nostre narrazioni binarie. Come mostra il film di Guadagnino, la realtà non è bianco e nera ma fatta di sfumature, fraintendimenti e rapporti di potere sottili. Più che cercare colpevoli immediati, e creare ancora più distanza e sfiducia tra uomini e donne, a mio parere dovremmo imparare a muoverci dentro questa complessità.
Film
La dolce vita
di Federico Fellini
Acclamato capolavoro del cinema italiano e non solo, ho rivisto La dolce vita di Federico Fellini. La prima volta avevo poco più di vent’anni e, a essere sincero, l’unico ricordo rimasto era l’iconica sequenza della Fontana di Trevi mescolata a una sensazione generale di noia e delusione. Non mi stupirei nemmeno se non l’avessi finito di vedere.
Oggi, a distanza di anni, rivedere questo film è stata un'esperienza completamente diversa. È come se avessi guardato un'opera nuova, che non avevo mai visto prima. E forse è proprio così... alcuni film hanno bisogno del momento giusto, di un po’ più di esperienza e di un bagaglio culturale più ampio per riuscire davvero a coglierne il sottotesto.
La dolce vita non è un film facile da affrontare. Dura tre ore ed è costruito come una serie di episodi apparentemente slegati tra loro, senza una vera e propria trama lineare. Seguiamo Marcello Rubini, un giornalista interpretato da un straordinario e magnetico Marcello Mastroianni, mentre si muove tra le notti romane di Via Veneto, tra feste sfavillanti, intellettuali annoiati, dive hollywoodiane, aristocratici decadenti e paparazzi famelici. Marcello è un uomo in bilico: vorrebbe essere uno scrittore serio ma si ritrova a fare il cronista mondano, inseguendo lo scandalo e lo scoop facile. Vive una relazione tormentata con Emma, ma non riesce a trattenersi dalle avventure occasionali che gli capitano. È attratto dal fascino della dolce vita ma ne è anche nauseato, come se sapesse che tutto quel luccichio nasconde solo vuoto e disperazione.
Fellini costruisce un affresco spietato di una società che vive di apparenze, dove la religione è diventata spettacolo, l'amore è sostituito dal sesso facile, e la felicità è solo una maschera per coprire un'esistenza senza senso. Ogni episodio è come un quadro, un frammento di realtà che il regista ci mostra con uno sguardo lucido e cinico. C'è la scena del Cristo trasportato in elicottero sopra Roma, mescolando sacro e profano in un'immagine potente e disturbante. C'è la falsa apparizione della Madonna, dove la fede viene divorata dalla frenesia mediatica e dalla sete di miracolo a buon mercato. C'è Steiner (Alain Cuny), l'intellettuale colto e sensibile che sembra aver trovato un equilibrio perfetto, ma che alla fine si rivela tanto fragile da commettere un gesto estremo e imperdonabile.
E poi c'è lei, Anita Ekberg, la diva svedese Sylvia. Immensa, meravigliosa, irraggiungibile. La scena della Fontana di Trevi è davvero una delle più belle e iconiche della storia del cinema: Marcello che la segue come un cagnolino, Anita che entra nell'acqua con quell'abito nero stretto, sensuale, mentre la notte romana si ferma intorno a loro. È un momento di pura magia cinematografica, ma anche un simbolo perfetto di tutto il film: Marcello cerca disperatamente di afferrare qualcosa, ma tutto gli sfugge tra le dita.
Quello che mi ha colpito di più, rivedendolo oggi, è proprio questo senso di incomunicabilità e di vuoto esistenziale che permea ogni scena. Fellini descrive un mondo dove nessuno riesce davvero a connettersi con gli altri, dove le relazioni sono superficiali, dove si parla tanto ma non ci si capisce. Il finale, con quella creatura marina spiaggiata sulla riva e quella ragazzina che saluta Marcello da lontano mentre il vento copre ogni possibile dialogo, è di una potenza devastante. È come se Fellini ci dicesse che non c'è più speranza, che il vuoto ha vinto, che la dolce vita è solo un'illusione amara.
Tecnicamente il film è straordinario. La fotografia in bianco e nero cattura ogni dettaglio, ogni volto, ogni ombra con una precisione impeccabile. Le ricostruzioni scenografiche sono sontuose, a partire dalla celebre Via Veneto ricostruita interamente negli studi di Cinecittà. E poi c'è la musica di Nino Rota, che accompagna tutto con quel suo tono tra il circense e il malinconico, perfetto per un film che è insieme una danza e una discesa agli inferi.
Nonostante venga considerato una vera pietra miliare del cinema, La dolce vita non è privo di qualche criticità. Come spesso accade con i film costruiti a episodi, alcuni risultano meno incisivi e finiscono per appesantire un racconto già molto esteso. Inoltre per apprezzarlo davvero bisogna collocarlo nel suo tempo: l’Italia del boom economico, in piena trasformazione sociale e morale.
Quando uscì nel 1960, La dolce vita fece scandalo. Alla prima di Milano, Fellini fu fischiato e insultato. L'Osservatore Romano lo definì un film disgustoso, la stampa cattolica lo attaccò ferocemente, ci furono persino interrogazioni parlamentari. Alcuni sindaci lo vietarono nelle loro città. Eppure, nonostante le polemiche, il film fu un successo clamoroso. Vinse la Palma d'Oro a Cannes e divenne un fenomeno culturale, creando addirittura un nuovo modo di parlare: l'aggettivo "felliniano" e la parola "paparazzo" nascono proprio da qui.
Oggi, a distanza di oltre sessant'anni, questo film ci racconta di una Roma che non esiste più, quei personaggi appartengono a un'altra epoca, eppure il senso di smarrimento, la ricerca disperata di un significato, il vuoto dell'apparenza sono temi universali e sempre attuali. Fellini ci mostra un'umanità persa, incapace di trovare una via d'uscita, intrappolata in una spirale di eccessi e noia.
Non so se La dolce vita rappresenti il vertice assoluto del cinema di Fellini — personalmente continuo a preferire 8 e mezzo e Amarcord — ma resta senza dubbio la sua opera più influente, quella che ha cambiato per sempre il panorama cinematografico italiano e la percezione stessa del suo autore. È un film che richiede tempo, pazienza e attenzione: non intrattiene in modo immediato, non offre risposte, non consola. Eppure, se lo si affronta con la giusta predisposizione, restituisce un'esperienza che rimane addosso, scena dopo scena. Per come è costruito, anzi, funziona quasi come una serie di frammenti autonomi: vederlo in più momenti potrebbe persino aiutare a lasciare sedimentare ogni episodio.
E quella sensazione di noia e delusione che provai a vent'anni? Di certo La dolce vita non rientra tra i miei film preferiti, ma questo non toglie nulla al suo valore. Come spesso accade con le opere davvero importanti, serve il momento giusto per riuscire a comprenderle davvero.
Film
The Invitation
di Karyn Kusama
C'è qualcosa di profondamente disturbante nelle cene tra vecchi amici. Quelle rimpatriate dove tutti sorridono un po' troppo, nessuno dice davvero quello che pensa, e tu finisci per chiederti perché diavolo hai accettato l'invito. The Invitation di Karyn Kusama - regista statunitense nota, in negativo a dir la verità, per Aeon Flux e Jennifer’s Body - prende esattamente quella sensazione e la trasforma in un thriller psicologico da camera ambientato quasi interamente in un’unica location.
Will (Logan Marshall-Green), accompagnato dalla fidanzata Kira, accetta di partecipare a una cena in una lussuosa casa sulle colline di Los Angeles organizzata dalla sua ex moglie Eden (Tammy Blanchard) e dal suo nuovo compagno David. Segnato da una tragedia — la perdita del figlio avuto con Eden — Will si ritrova circondato da vecchi amici e alcuni sconosciuti, avvertendo fin da subito che qualcosa nell’aria non quadra. Eden e David dicono di aver trovato la pace grazie a un misterioso gruppo di sostegno in Messico, una sorta di setta mistica, e propongono ai presenti un’esperienza di “liberazione”. Man mano che la serata procede, tra volti familiari, ambienti intimi e silenzi inquietanti, Will percepisce che quell’invito nasconde più di una semplice ospitalità. Forse è solo la sua ferita a renderlo sospettoso, oppure qualcosa di più sinistro è in agguato.
The Invitation è un thriller "teatrale" alla Polanski, che si svolge quasi interamente all’interno di una casa, lento, claustrofobico e paranoico, costruito più sui dialoghi, sull’attesa e sulle tensioni che sui colpi di scena. Il tema centrale è il lutto e le strategie di sopravvivenza che adottiamo per convivere con il dolore. Will fatica ad accettare come Eden sia riuscita a lasciarsi alle spalle la sofferenza per la perdita del loro figlio, trovandosi spaesato in un posto dove tutti cercano felicità e leggerezza, ma dove ogni gesto e ogni parola sembrano fuori posto. Kusama gioca tutto sull’incertezza. Ti tiene sospeso, senza mai farti capire se la diffidenza di Will sia giustificata o solo il frutto della sua mente provata dal dolore. Ti ritrovi a dubitare insieme a lui, a chiederti se dietro quei sorrisi e quella calma innaturale ci sia davvero qualcosa di oscuro, o se sia solo la sua ferita a deformare la realtà.
La scena iniziale, unica girata all’esterno, in cui Will investe accidentalmente un coyote e lo uccide per porre fine alle sue sofferenze, anticipa in maniera evidente — e forse anche prevedibile — la tensione morale e la violenza improvvisa che sfoceranno nel finale. Una metafora tra la scelta di annullare il dolore attraverso la morte, oppure continuare a vivere con una sofferenza che probabilmente non ti abbandonerà mai.
Il finale apocalittico, con quelle lanterne rosse che si accendono nelle case circostanti, mi ha ricordato per certi versi il finale di Fight Club. Un’idea interessante che chiude il film con un brivido lungo la schiena.
Passato un po’ in sordina, The Invitation resta un thriller psicologico da scoprire, elegante, teso e capace di farvi guardare con sospetto anche le cene tra amici più innocue.
The Shrouds - Segreti sepolti
di David Cronenberg
Dopo il figlio, il padre.
Ho sempre amato il cinema di David Cronenberg, ma davanti al suo ultimo film, sia per il tema trattato che per il suo peso emotivo, ho sentito il bisogno di aspettare il momento giusto prima di vederlo.
A ottant’anni, il regista canadese firma The Shrouds (Segreti sepolti è il solito sottotitolo italiano), un’opera che lui stesso definisce profondamente personale e in parte autobiografica. Cronenberg ha perso la moglie dopo una vita insieme, e questo film sembra essere il suo modo di attraversare – e forse comprendere – il lutto. La scelta di Vincent Cassel come protagonista non è casuale: l’attore è stato selezionato proprio per la sua somiglianza con il regista, chiamato a incarnarne il doppio, il riflesso, l’alter ego cinematografico.
Il ricco uomo d’affari Karsh (Vincent Cassel), a quattro anni dalla morte della moglie Becca (Diane Kruger), uccisa da un cancro, vive prigioniero del suo ricordo senza riuscire ad andare avanti. Attraverso la sua società, la GraveTech, ha progettato un sudario tecnologico capace di monitorare in tempo reale la decomposizione del corpo dell’amata all'interno della tomba. Ma non è tutto, trovando quest'idea rivoluzionaria ha pensato di trasformarla in un business, costruendo un cimitero dove le lapidi sono dotate di display connessi a un’app che consente ai parenti di osservare lo stato delle salme. Un cimitero ipertecnologico con tanto di ristorante annesso e piani d’espansione internazionale.
Quando il cimitero viene misteriosamente violato — tombe vandalizzate, sistemi hackerati — Karsh scopre che anche la tomba di Becca è stata profanata. Le ipotesi si moltiplicano — gruppi ambientalisti contrari alla "thanato-sorveglianza", hacker cinesi interessati a sfruttare la rete di GraveTech per fini di controllo, o forse qualcuno molto più vicino a lui.
Deciso a scoprire la verità, Karsh si allea con Maury (Guy Pearce), suo ex cognato esperto di tecnologia, e con Terry (sempre Diane Kruger), sorella della defunta. Durante le analisi digitali dei resti di Becca, l’esplorazione 3D dello scheletro rivela strane escrescenze sulle ossa, forse effetti collaterali dei sudari ipertecnologici o il segno di qualcosa di ancora più inquietante.
Fedele al suo modo di fare cinema e alle sue ossessioni, David Cronenberg torna a mischiare body horror, tecnologia, morte e fantascienza sociale, consegnandoci un requiem tecnologico che ha il sapore di una confessione privata, al limite della necrofilia emotiva. Non mancano mutilazioni, corpi sezionati, sesso e immagini disturbanti, dove la decomposizione diventa spettacolo e la materia organica è trattata con la freddezza clinica che ha reso unico il suo cinema. Allo stesso tempo, The Shrouds si allontana dal gore fine a sé stesso per toccare il tema della perdita e dell’elaborazione del lutto, racchiuso in un paradosso etico: guardare per continuare ad amare. Dentro c’è di tutto, avatar digitali, intelligenza artificiale, complotti hi-tech, ma il centro resta il dolore umano, osservato con l’occhio chirurgico di chi non sa più distinguere tra memoria e immagine.
Non è un film lineare, e non vuole esserlo. Si muove per ellissi, digressioni teoriche e incursioni oniriche, talvolta disorientando lo spettatore. Manca di ritmo e scorrevolezza, sì, ma guadagna in densità e malinconia. È un film che chiede tempo, pazienza e una certa predisposizione per un cinema che provoca invece di consolare.
Una pellicola che consiglio solo a chi ama Cronenberg, perché chi cerca semplicità narrativa o rassicurante compostezza emotiva rischia di trovarsi davanti a un macigno. Ma un macigno, va detto, dal fascino magnetico.
Dogman
di Matteo Garrone
Matteo Garrone è uno dei registi italiani più apprezzati degli ultimi anni. Nei suoi film racconta spesso persone ai margini e situazioni difficili, alternando storie molto realistiche a visioni più fiabesche. Dal successo di Gomorra fino a Il racconto dei racconti, il suo cinema si riconosce per lo stile potente e per l’attenzione ai dettagli visivi.
Dopo L’imbalsamatore e Primo amore, Garrone torna con Dogman a ispirarsi a un fatto di cronaca nera, quello del cosiddetto "Canaro della Magliana", che negli anni ottanta sconvolse l’Italia per la brutalità del delitto.
Ambientato in un quartiere periferico di una imprecisata città meridionale (il film è stato girato a Castel Volturno), Dogman racconta la storia di Marcello (Marcello Fonte), un uomo tranquillo, minuto e apparentemente mite, benvoluto dai suoi concittadini, che gestisce un piccolo negozio di toelettatura per cani. Marcello conduce una vita semplice, scandita dal lavoro e dall’affetto per la figlia e per gli animali che accudisce con dedizione. La sua quotidianità, fatta di piccoli gesti e silenzi, viene però turbata dalla presenza di Simone (Edoardo Pesce), un ex pugile dal carattere violento con la passione della cocacina e del furto che domina con la forza il quartiere. Tra i due nasce un rapporto ambiguo, fatto di soggezione e complicità forzata, che finisce per trascinare Marcello in una spirale di tensione e paura sempre più opprimente.
In Dogman, Matteo Garrone affronta una delle storie più cupe della cronaca italiana trasformandola in una parabola di solitudine e umiliazione. Non c’è compiacimento né spettacolarizzazione della violenza — decisamente attenuata rispetto al fatto di cronaca — ma la volontà di raccontare una desolazione sociale corrosa dalla povertà e dall’indifferenza. Le strade abbandonate, i palazzi consumati dal sale e dal vento, i volti segnati degli abitanti delineano una comunità di sconfitti che sopravvive a fatica ai margini di tutto. In questo luogo senza tempo dal cielo perennemente plumbeo, Marcello è una figura tragica e fragile, un uomo mite ma ambiguo, diviso tra il desiderio di piacere e la paura di opporsi. Solo la figlia, con la sua innocenza, rappresenta un piccolo spiraglio di luce, l’unico legame con una dimensione umana ancora intatta.
Tecnicamente impeccabile, Dogman è un’opera di rigore e misura. Garrone asciuga i dialoghi fino all’essenziale, lascia che siano i silenzi e i gesti a parlare, costruisce inquadrature che sembrano scolpite nel cemento. La fotografia, cupa e lattiginosa, amplifica la sensazione di abbandono, mentre la regia segue i personaggi con sguardo attento e implacabile, capace di coglierne ogni crepa, ogni esitazione, senza mai emettere giudizi.
Marcello Fonte, premiato a Cannes per la sua interpretazione, dà vita a un protagonista di rara intensità. La sua recitazione, spontanea e dolorosamente autentica, regge l’intero film e trasforma una storia di degrado in una tragedia universale. Dogman è una delle più potenti storie di vendetta mai raccontate dal cinema italiano, ma soprattutto è un western della solitudine, il ritratto di un’umanità dimenticata, dove la violenza diventa l’unico linguaggio possibile e la fragilità un lusso che non ci si può permettere.
Davvero notevole.
La grande guerra
di Mario Monicelli
Recentemente mi sono accorto che molti dei film italiani del passato a cui, in un modo o nell’altro, sono legato, portano la firma di Mario Monicelli. Mi riferisco a I soliti ignoti, L’armata Brancaleone, Amici miei, ma anche a Il marchese del Grillo. Film che ho visto e rivisto in passato quando passavano in televisione, senza però rendermi conto che dietro a quelle storie tanto diverse c’era lo stesso regista.
Spulciando la sua filmografia, mi sono reso conto di non aver mai visto uno dei suoi titoli più celebrati, La grande guerra. Probabilmente perché non ho mai amato il neorealismo italiano, tantomeno i film di guerra. Ma ogni tanto, per ampliare i propri orizzonti e riscoprire le radici del nostro cinema, vale la pena uscire dalla propria comfort zone cinematografica.
Il film racconta la storia di due uomini comuni, Giovanni Busacca e Oreste Jacovacci, interpretati rispettivamente da Vittorio Gassman e Alberto Sordi, catapultati nella tragedia della Prima guerra mondiale. Diversi per indole e provenienza — uno milanese sbruffone, l’altro romano opportunista e pavido — si ritrovano arruolati nello stesso battaglione, uniti più dal desiderio di sopravvivere che da un autentico spirito patriottico.
Attraverso le loro disavventure, Monicelli costruisce un racconto corale che mescola ironia e dramma, restituendo la quotidianità di una guerra assurda e spietata, fatta di fame, paura e disillusione. Leone d’Oro per il miglior film al Festival di Venezia, La grande guerra non ebbe vita facile fin dalla sua produzione, venendo osteggiato da critici, giornalisti e politici perché, per la prima volta, mostrava con realismo e cinismo le reali condizioni dei soldati italiani — spesso analfabeti, male armati e peggio equipaggiati — mandati a morire in un conflitto di cui non comprendevano fino in fondo le ragioni.
Rispetto ai corrispettivi film di guerra hollywoodiani del periodo, non c’è il clima epico e celebrativo, bensì un realismo amaro e disincantato, dove i protagonisti non sono eroi ma due uomini comuni, pavidi e opportunisti, che cercano in ogni modo di scansare il pericolo e tirare a campare. Eppure, proprio loro, nel finale, finiranno per affrontare la morte con un coraggio che non hanno mai mostrato in vita.
Una pellicola dissacrante su un tema fino ad allora intoccabile, che demolisce la retorica patriottica e mette a nudo i massacri della Grande Guerra e le miserie dell’esercito italiano, stemperando il tutto con un uso intelligente e calibrato della commedia.
Tra le tante sequenze, mi ha colpito un piano sequenza in cui una fucilazione avviene sullo sfondo mentre intorno la vita del campo continua come se nulla fosse, oppure la scena del soldato ucciso perchè costretto a consegnare una lettera dal comando agli ufficilali con gli auguri di Natale e l’ordine di distribuire grappa ai reparti.
Meno necessarie, secondo me, le parti più sentimentali, quelle che coinvolgono il personaggio di Silvana Mangano, che spezzano un po’ il ritmo e la coerenza del tono generale.
La grande guerra non rientra tra i "miei" film — non è il tipo di cinema che soddisfa i miei gusti — ma ne risconosco il suo valore storico e culturale. È un film che cammina costantemente sul filo tra dramma e commedia, capace di trovare un equilibrio raro, sostenuto dall'interpretazioni straordinarie di Gassman e Sordi.
I due, insieme, restituiscono un ritratto autentico dell’Italia dell’epoca, fatto di dialetti che si intrecciano tra soldati di ogni regione, di piccoli espedienti per tirare avanti e di quella miscela di ingenuità e furbizia che, nel bene e nel male, ha sempre contraddistinto il nostro paese.
Un film che ricorda quanto la guerra, anche quando è raccontata con ironia, resti sempre una tragedia collettiva fatta di uomini qualunque.
La mesita del comedor - The Coffe Table
di Caye Casas
Ogni tanto mi piace spulciare tra quei film poco conosciuti, quelli di nicchia, passati magari in qualche rassegna di cinema di genere e mai arrivati nelle sale. E' il caso di La mesita del comedor, un film spagnolo del 2022 diretto da Caye Casas, conosciuto a livello internazionale come The Coffe Table, disponibile in Italia su MyMovies One, la piattaforma streaming di MyMovies. Il film ha guadagnato un certa notorietà quando Stephen King l’ha consigliata sui social, definendola uno dei film più macabri che avesse mai visto.
E che faccio, me lo perdo? Non sia mai.
La storia è semplice, ma non per questo meno sconvolgente. Si svolge quasi interamente all’interno di un appartamento.
Jesus (David Pareja) e María (Estefanía de los Santos) sono una coppia che da poche settimane ha avuto un figlio. Si sono appena trasferiti nella loro nuova casa e Jesus, per celebrare l’arrivo del bambino, decide di comprare un tavolino di vetro — un oggetto di dubbio gusto, che il commerciante descrive come “pregiato e indistruttibile” — nonostante l’esplicito disappunto della moglie.
Il tavolino, un oggetto apparentemente banale e insignificante, sarà l'inizio della loro tragedia.
Il regista Caye Casas ha descritto il suo film come "un’opera scomoda e politicamente scorretta, con un umorismo estremamente nero, una tragedia basata sulla crudeltà casuale della vita reale e su un destino avverso".
Da qui in avanti mi è impossibile parlarne senza entrare nel territorio degli spoiler. Posso dire soltanto che, da padre, questo film ha toccato corde particolarmente sensibili e che per tutta la visione ho provato un disagio crescente, aspettando la sua conclusione per potermi finalmente liberare della tensione accumulata.
Arrivati a questo punto, è chiaro che il bambino muore. Mentre Jesus inizia a montare il tavolino, María esce per fare la spesa, lasciandolo solo col neonato per la prima volta. Poi accade la tragedia: un banalissimo incidente domestico che, nel giro di pochi secondi, trasforma la quotidianità di questa coppia in un incubo irreversibile. Jesus inciampa e cade sul tavolino di vetro, decapitando il bambino che aveva in braccio. Una scena che rimane fuori campo e che mi ha ricordato quella di Love Life di Koji Fukada.
La perdita di un figlio, violenta e provocata, è un dolore troppo grande per essere accettato. Si prova a negarlo, a rimuoverlo, a fingere che non sia mai accaduto. Ed è ciò che fa Jesus, che sotto shock ripone il corpo del neonato nella culla, pulisce il sangue dal tappeto, raccoglie i vetri ma non ha il coraggio di toccare la testa del piccolo, finita sotto la poltrona. Quando María rientra, le racconta di essersi ferito durante il montaggio del tavolo, di aver messo a dormire il piccolo, aiutandola a preparare il pranzo per il fratello e la nuova compagna, arrivati proprio per conoscere il bambino.
È una strada senza via d’uscita, che non fa che rimandare l’inevitabile. Casas costruisce una tensione insostenibile, che cresce scena dopo scena fino a un finale che ha il sapore amaro della liberazione. La mesita del comedor è un film di una potenza emotiva devastante, sorretto da due interpretazioni straordinarie. Pur muovendosi sul confine del grottesco, mantiene una ferocia realistica, come una satira crudele sull’assurdità della vita, sulla fragilità del caso e sulla violenza del dolore umano.
Uno di quei film che ti rimane addosso.
Revenge
di Coralie Fargeat
Prima ancora del grande successo di The Substance, la regista francese Coralie Fargeat aveva già catturato l’attenzione con Revenge, il suo folgorante esordio del 2017. Un film che reinventa un genere con un linguaggio visivo potente e un approccio sorprendentemente contemporaneo, trasformando una storia di violenza in un’esplosione di rivendicazione fisica e simbolica.
Jen (Matilda Lutz), giovane americana, ha una relazione con Richard (Kevin Janssens), un uomo ricco e sposato. Richard la porta in una lussuosa villa nel deserto per un weekend bollente, ma l’intimità viene interrotta dall’arrivo anticipato dei suoi amici, Stan (Vincent Colombe) e Dimitri (Guillaume Bouchède), intenzionati a una battuta di caccia. Quando Richard si allontana, uno dei due amici aggredisce Jen e la stupra. Al ritorno dell’uomo, Jen minaccia di denunciare l’accaduto e chiede di tornare a casa. Richard si rifiuta, le offre denaro per farle dimenticare tutto, ma lei rifiuta e tenta di fuggire. Inseguita, viene spinta in un dirupo, ma sopravvive e, incazzata nera, decide di intraprendere una vendetta spietata contro i suoi aggressori.
A partire da I Spit on Your Grave, in Italia noto come Non violentate Jennifer, sono stati diversi i film che raccontano donne vittime di violenza sessuale che trasformano il loro trauma in una feroce e sanguinosa vendetta. Si tratta di un vero e proprio genere, il rape & revenge, nato negli anni settanta in stile shock exploitation, spesso a basso budget, caratterizzato da violenza esplicita, sangue e scene estreme, pensato per impressionare lo spettatore.
Revenge di Coralie Fargeat segue le stesse coordinate narrative, ma con la particolarità di essere il primo film del genere diretto da una donna. Fargeat trasforma una ragazza provocante, frivola e ingenua in una sorta di Rambo al femminile. Se vi aspettate realismo su come una giovane possa sopravvivere a ferite devastanti e diventare esperta di sopravvivenza e armi letali, probabilmente rimarrete delusi: come in molti film degli anni ottanta, qui si chiede allo spettatore la sospensione dell’incredulità.
Accettato questo patto, gli amanti dell’action più estremo troveranno tutto ciò che cercano: scene di sangue a profusione, tensione costante senza un attimo di tregua e uno scenario suggestivo che diventa teatro della violenza. Tecnicamente e visivamente, il film è girato con eleganza estrema, quasi patinata. L’iperrealismo cromatico rende la violenza al contempo estetica e catartica, rileggendo il genere in chiave contemporanea.
Personalmente avrei spinto di più sull’aspetto allucinogeno, deformando il punto di vista della protagonista per accentuare il suo stato di alterazione, ma evidentemente il budget ha imposto dei limiti.
Una menzione particolare va a Matilda Lutz, già apprezzata in A Classic Horror Story, capace di fornire un’interpretazione intensa, soprattutto fisica, passando da vittima a spietata macchina da guerra. È lei che regge il film sulle proprie spalle.
Interessante anche la figura dello stupratore, un Tuco contemporaneo uscito da un western di Leone, simbolo di una mascolinità tossica e animalesca che la Fargeat non esita a ridicolizzare.
Per gli appassionati del genere, Revenge resta un film imprescindibile, capace di unire estetica, violenza e empowerment femminile in una chiave moderna e spettacolare.
Film
Under the Skin
di Jonathan Glazer
Diciamolo chiaramente: la prima volta che ho visto Under the Skin mi aspettavo un film di fantascienza come tanti di quel periodo, con protagonista la bella Scarlett Johansson. Ovviamente sono rimasto spiazzato, come credo sia capitato a molti. Ma mentre altri ne sono usciti confusi o infastiditi, io sono rimasto affascinato da quell'estetica ipnotica, seducente e inquietante al tempo stesso, che per certi aspetti mi ha ricordato molto Lynch.
Ispirato al romanzo Sotto la pelle di Michel Faber, Under the Skin è un film inglese del 2013 diretto da Jonathan Glazer - prima del suo acclamato La zona d’interesse - che ha diviso pubblico e critica. Accolto inizialmente con perplessità, ha col tempo conquistato un seguito di culto e numerosi riconoscimenti, entrando di diritto tra i film più discussi e significativi della fantascienza contemporanea.
Un'entità aliena assume le sembianze di una donna misteriosa (interpretata da Scarlett Johansson) che vaga per le strade e le campagne della Scozia. Vestita da donna umana ma aliena nel corpo e nell’anima, la protagonista si aggira alla guida di un furgone bianco di notte, attirando uomini isolati e vulnerabili. Questi vengono sedotti, invitati a seguirla in un luogo remoto e poi condotti in una sorta di camera oscura, un ambiente straniante, dove la luce e il suono si deformano, e dove le sue vittime sono spellate dalla loro identità, immersi in un liquido nero primordiale, consumate e soppresse.
Under the Skin è un film di fantascienza dal ritmo lento, quasi privo di dialoghi, che potrebbe risultare noioso o schiacciato dalla pretenziosità di "autorialità". È un’opera che mette a dura prova la pazienza dello spettatore, che può sembrare criptica, ma che in realtà è abbastanza lineare, quasi ripetitiva. Al posto di David Bowie a cadere sulla Terra, qui abbiamo un alieno che assume le fattezze di una donna bellissima — per me Scarlett Johansson con i capelli neri raggiunge in questo film l’apice della sua bellezza — che, come una vedova nera — ehm, scusate il riferimento alla sua interpretazione "vendicativa" — vaga per attirare giovani uomini, poi fatti scomparire in un lago di pece amniotica.
In sostanza, la storia è questa: l’osservazione della vita reale degli esseri umani dal punto di vista di un alieno freddo e privo di emozioni. Tra i giovanotti incontrati dalla nostra bella aliena, oltre agli ignari scozzesi, ripresi da una telecamera nascosta mentre la Johansson si aggira per le strade, troviamo un ragazzo dal viso completamente deforme, interpretato da Adam Pearson, affetto realmente da neurofibromatosi.
L’estetica del film è così perturbante e pervasiva da costituire, di fatto, l’intera pellicola. Under the Skin gioca sul confine tra desiderio e pericolo, bellezza e disgusto. Anche la colonna sonora di Mica Levi fa la sua parte, creando un’atmosfera di straniamento e incastrandosi con gli scenari urbani e naturali, dalle strade deserte alle spiagge nebbiose, dalle foreste silenziose ai locali notturni.
Conosciuto anche per il nudo integrale di Scarlett Johansson, Under the Skin è più di un film di fantascienza, è un’esperienza visiva, quasi corporea. Un’opera ermetica, fredda e silenziosa, priva di spiegazioni chiare e con una struttura ellittica che vive di tensioni, fragilità e domande che restano aperte.
Bones and All
di Luca Guadagnino
Primo film ambientato negli Stati Uniti per Luca Guadagnino, che dopo Suspiria torna all'horror con Bones and All, film del 2022 tratto del romanzo Fino all'osso di Camille DeAngelis. Specifichiamo, il genere horror in questo film è solo il pretesto per raccontare una storia d'amore tra due adolescenti – affetti da una particolare condizione – che viaggiano nelle strade polverose di un america di provincia alla ricerca della loro identità.
Il film segue le vicende di Maren (Taylor Russell), una diciottenne che fin dall’infanzia manifesta istinti cannibali. Dopo l’ennesimo episodio, il padre decide di abbandonarla, lasciandola sola con una cassetta in cui gli racconta la sua storia e il suo certificato di nascita. Inizia così il viaggio di Maren attraverso gli Stati Uniti, alla ricerca della madre e di un’origine che possa spiegare la sua diversità. Durante questo viaggio scopre altri suoi simili tra i quali Sully (Mark Rylance) un anziano ma inquietante cannibale in cerca di compagna, Jake (Michael Stuhlbarg) un cannibale psicopatico ed efferrato e sopratutto Lee (Timothée Chalamet), un ragazzo tormentato dal passato, in fuga tanto dagli altri quanto da sé stesso. Insieme, Maren e Lee attraversano l’America profonda, affrontando le proprie paure, le pulsioni, e il rapporto con la diversità e l’emarginazione.
Tra horror cannibalesco, dramma on-the-road e racconto di formazione, Bones and All è una storia di solitudine, desiderio di appartenenza e disperata ricerca d’amore. Guadagnino costruisce un film che riflette sull’emarginazione e sulla diversità, scegliendo di raccontarle attraverso una sensibilità più emotiva che realmente horror.
Dal punto di vista visivo il film è curatissimo. La fotografia è calda e malinconica, le inquadrature ampie restituiscono l’immensità dell’America rurale, e la regia conferma la grande padronanza tecnica di Guadagnino, capace di trasformare ogni scena in un quadro sospeso. Tuttavia, dietro questa eleganza formale, ho trovato una certa debolezza narrativa. La sceneggiatura procede in modo lineare, senza veri slanci e particolari evoluzioni. Brava e convincente Taylor Russell, meno Chalamet mono espressivo. Anche la loro storia d’amore, pur attraversata da momenti di intensità, non riesce a coinvolgere del tutto, per colpa di una scrittura che tende a ripetersi e a scivolare verso un melò adolescenziale dai toni prevedibili.
Le scene horror, dosate con attenzione, non cercano mai la paura quanto piuttosto il disagio. I momenti di autentica tensione arrivano quasi esclusivamente grazie alla presenza magnetica di Mark Rylance, unico personaggio davvero inquietante del film. Tutto il resto si muove su un piano più sentimentale ed esistenziale, dove il cannibalismo diventa metafora della fame interiore, del bisogno d’amore, della difficoltà di accettare ciò che di noi stessi non vogliamo vedere.
La colonna sonora firmata da Trent Reznor e Atticus Ross accompagna con discrezione, ma non lascia il segno come in altri loro lavori.
Bones and All resta quindi un film interessante e ben realizzato, visivamente affascinante ma che alla fine non è riuscito a coinvolgermi veramente.
I 400 colpi
di François Truffaut
Quando si parla di Nouvelle Vague si pensa subito a un momento di rottura, a un cinema che, alla fine degli anni cinquanta, iniziò a ribellarsi alle regole del racconto classico e alle convenzioni tradizionali per cercare di rappresentare la realtà sociale in modo più autentico, attraverso forme e tecniche espressive nuove. François Truffaut, con I 400 colpi – il suo film d’esordio, uscito nel 1959 – ne divenne uno dei volti simbolo, raccontando la giovinezza con uno sguardo inedito, personale e insieme universale.
Ricordo di averlo visto per la prima volta molti anni fa, ma allora non mi aveva colpito. Mi era parso quasi estraneo al mio modo di intendere il cinema. Non mi lapidate, so che sto parlando di uno dei cento film più importanti della storia del cinema, ma da ragazzino ero più attratto dall’immaginifico, dal surreale, che dalla rappresentazione cruda e talvolta impietosa della realtà. Rivedendolo oggi, con uno sguardo più maturo e consapevole del contesto storico, I 400 colpi mi è apparso un film sorprendentemente vitale, di una freschezza registica ancora intatta, capace di raccontare con amarezza e sincerità la fragilità di un’età sospesa tra innocenza e disillusione.
Vincitore del premio per la Migliore regia al Festival di Cannes, il titolo del film, tradotto alla lettera in italiano, ne fa perdere il senso originale, dal momento che in francese Les Quatre Cents Coups è un modo di dire che significa più o meno "fare il diavolo a quattro", in riferimento alle avventure turbolente del suo giovane e ribelle protagonista.
Il film racconta la storia di Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud), un ragazzino parigino che vive un’adolescenza inquieta tra scuola, casa e strada. Trascurato dai genitori, più preoccupati di impartirgli regole che di offrirgli affetto, e frainteso da ottusi insegnanti, Antoine cerca di ritagliarsi un suo spazio di libertà, ma ogni suo tentativo di ribellione lo porta sempre più ai margini. L’unico vero legame affettivo è quello con René, l’amico con cui condivide le giornate fatte di assenze da scuola e scorribande per le strade di Parigi. Tra piccole fughe, bugie e punizioni, la sua vita diventa un lento percorso di esclusione che culmina qunado viene sorpreso a rubare una macchina da scrivere, e viene mandato in un riformatorio. Qui subisce umiliazioni e punizioni, fino a quando riesce a scappare, correndo verso il mare, simbolo di una libertà tanto desiderata quanto irraggiungibile.
Primo capitolo di un ciclo di cinque film con Jean-Pierre Léaud nei panni di Antoine Doinel – attore destinato a diventare uno dei volti simbolo del cinema di Truffaut – I 400 colpi è un racconto di formazione che mette in scena il malessere inquieto di un ragazzino che si ribella a ogni forma di autorità. Chiaramente autobiografico, e pilastro del cinema futuro del regista francese, il film racconta con sincerità disarmante l’ipocrisia della famiglia, del mondo adulto e delle istituzioni educative. Truffaut osserva tutto con uno sguardo lucido, privo di moralismi e pietismi, restituendo il netto distacco tra il mondo dei grandi e quello degli adolescenti. Ne nasce il ritratto di un disagio esistenziale profondo, vissuto con dignità da un ragazzo che nessuno sembra davvero comprendere.
Le sue piccole trasgressioni – almeno quelle iniziali – vengono amplificate dalle figure autoritarie che lo circondano, riflesso di una famiglia frammentata: una madre frustrata, segnata da una maternità non voluta, un patrigno assente e mediocre, e una scuola governata da insegnanti bigotti e conservatori. L’unico luogo in cui Antoine trova un po’ di pace è il cinema, che gli offre l’illusione di una fuga possibile, un rifugio dove tutto può ancora essere reinventato.
Straordinaria la prova del giovane Jean-Pierre Léaud, che con spontaneità e istinto riesce a rendere la fragilità e la rabbia di un adolescente in cerca d’amore. Truffaut cattura con sensibilità rara l’incomprensione e la solitudine, ma anche quelle piccole crudeltà quotidiane che segnano l’infanzia. Indimenticabile la scena del colloquio con la psicologa, girata con lei fuori campo, e ancor di più il celebre finale: la corsa verso il mare, simbolo di libertà, che si chiude con quello sguardo in macchina – fermato nel fotogramma finale – in cui si concentra tutta la tensione tra desiderio e impossibilità di essere davvero liberi.
Curioso che la foto che Antoine ruba all’uscita del cinema sia quella di Harriet Andersson, protagonista di Monica e il desiderio di Bergman, altro film rimasto nella storia per un intenso sguardo in macchina, quasi un dialogo ideale tra due adolescenti del cinema europeo.
Dal punto di vista tecnico, I 400 colpi sorprende per la sua naturalezza. Truffaut filma con libertà e spontaneità, spesso con camera a mano, alternando primi piani ravvicinati a splendidi campi lunghi, come un testimone silenzioso delle inquietudini di Antoine. L’uso della luce naturale e delle strade di Parigi restituisce un realismo vibrante, mentre la fotografia in bianco e nero di Henri Decaë e la colonna sonora malinconica di Jean Constantin creano un’atmosfera sospesa tra dolcezza e disincanto, cifra inconfondibile del film.
Un grande esempio di cinema capace, attraverso la storia di un ragazzino incompreso, di raccontare una generazione che cambia e non viene capita. Un classico senza tempo che a più di sessant’anni dalla sua uscita continua a interrogarci sul significato della libertà e sul bisogno di essere visti, compresi, e amati.
Film
The Truman Show
di Peter Weir
Peter Weir, regista che ho amato più per l'onirico Picnic ad Hanging Rock che per il celebrato L’Attimo fuggente, alla fine degli anni novanta porta sullo schermo The Truman Show, una brillante satira sul potere dei media e sulla spettacolarizzazione della vita. Un film che anticipa di qualche anno l’esplosione dei reality e segna per Jim Carrey la svolta verso il suo primo ruolo drammatico di rilievo.
Truman Burbank vive a Seahaven convinto che la sua quotidianità sia naturale. In realtà la sua vita è il set di un programma televisivo in onda ventiquattro ore su ventiquattro, e ogni persona intorno a lui è attore o comparsa. Quando piccoli indizi cominciano a incrinare la sua percezione della realtà, Truman inizia a sospettare che il mondo che conosce sia costruito e decide di cercare una via d'uscita. La progressiva presa di coscienza mette in crisi l'intero sistema che ha fondato lo spettacolo, fino allo scontro finale tra il bisogno di verità dell'individuo e la macchina mediatica che lo ha creato.
The Truman Show è un classico degli anni novanta, un vero e proprio cult di una generazione. Rivederlo oggi, a distanza di decenni, forse attenua l’effetto sorpresa, ma resta una pellicola folgorante, capace di anticipare il fenomeno dei reality show — esploso poco dopo anche in Italia con il Grande Fratello, i talent e tutto quel mare di programmi spazzatura — mescolando fantascienza e commedia, spot pubblicitario e sit-com di altri tempi. In superficie appare come un film leggero e divertente, ma sotto la patina c'è una critca tagliente verso media e società. Il confine tra libertà e illusione viene mostrato come una prigione dorata, un acquario perfetto dove tutto è costruito, un surrogato di realtà da osservare per vivere le emozioni degli altri piuttosto che affrontare le proprie.
Jim Carrey offre una prova sorprendente, liberandosi dai ruoli comici che lo avevano reso celebre per incarnare un moderno Adamo intrappolato in una sorta di Eden orwelliano, manipolato da un dio distopico interpretato da un bravissimo Ed Harris. La sua ricerca della verità passa anche attraverso il ricordo di un'Eva perduta, unica traccia autentica in un mondo di menzogne.
Oggi, immersi in reel, tiktok e video generati dall’intelligenza artificiale, il film non colpisce più con la stessa forza profetica, ma rimane uno specchio scomodo in cui guardarsi, un monito sulla fragilità della nostra libertà di spettatori e individui.
Film
The Life of Chuck
di Mike Flanagan
Mike Flanagan torna a confrontarsi con Stephen King, dopo Il gioco di Gerald e Doctor Sleep, portando sullo schermo The Life of Chuck, racconto incluso nella raccolta Se scorre il sangue del 2020. Nonostante il nome dei due autori, coloro che si aspettano un horror classico potrebbero rimanere delusi. Il film più che un incubo è un sogno, un viaggio intimo e malinconico sul senso della vita e sul tempo che scivola via.
Nello scrivere questa recensione mi è difficile evitare qualche spoiler. Avvertiti.
La storia è divisa in tre atti e racconta la vita, a ritroso, di Charles "Chuck" Krantz (Tom Hiddleston). Nel primo atto ci troviamo in un mondo sull’orlo della fine, tra improvvisi blackout, scomparsa di internet, città svuotate. Un’apocalisse senza spiegazioni. Eppure, in mezzo al collasso, iniziano a comparire cartelloni pubblicitari con il volto sorridente e rassicurante di Chuck. Nel secondo conosciamo l’uomo dietro quel sorriso, un contabile di banca in trasferta per un congresso che, mentre passeggia per strada, incontra una ragazza che suona la batteria mettendosi a ballare come un professionista. Infine nel terzo, troviamo il nostro protagonista, prima bambino (interpretato dal figlio di Flanagan) poi adolescente. Rimasto orfano da piccolo, Chuck è stato adottato dai nonni paterni (il nonno è intepretato da Mark Hamill) che gli trasmettono l’amore per la danza e la passione per la matematica. La sua infanzia appare serena, se non fosse per una presenza inquietante: nella vecchia casa coloniale in cui vivono c’è una stanza sotto il tetto sempre chiusa a chiave, un luogo proibito che alimenta mistero e curiosità.
The Life of Chuck è un romanzo di formazione raccontato a ritroso. L’apocalisse iniziale è la metafora della malattia che divora Chuck dall’interno, mentre i cartelloni che lo ringraziano "per questi fantastici 39 anni" diventano l’ultimo segnale di memoria prima che il suo universo si spenga. Proprio come le stelle che il professore – riunitosi all’ex moglie – vede sparire nel cielo, con paura ma anche con un'insospettata serenità.
Il momento più riuscito arriva nel secondo atto, con la danza improvvisata in strada di Hiddleston, un gesto semplice, quasi liberatorio che racchiude l’essenza di un'intera vita. Più debole il terzo atto, che nel tentativo di fare da collante con i precedenti finisce per accentuare il sentimentalismo retorico che pervade tutto il film.
The Life of Chuck sembra un Truman Show che si svolge all’interno della propria testa, nel proprio universo interiore, unito alla malinconia esistenziale a ritroso de Il curioso caso di Benjamin Button. Un film che nel momento della morte vuole ricordarci come nei dettagli quotidiani, nei gesti minimi e negli incontri imprevisti si nasconda la vera grandezza, ma che a mio avviso indulge troppo in frasi a effetto, dialoghi carichi di perle di saggezza e un narratore onnipresente che spiega ciò che lo spettatore vede già chiaramente sullo schermo.
Personalmente, continuo a preferire il Flanagan delle sue serie televisive.
La vita di Adele
di Abdellatif Kechiche
La vita di Adele è un film che ho sempre visto in maniera distratta, mai per intero, quando passava in televisione o su qualche piattaforma. Deciso a scrollarmi di dosso un po’ del malessere lasciato dall’ultimo film che ho visto, ho scelto di cambiare genere gettandomi a capofitto in una storia sentimentale di tre ore. Vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2013, il film, diretto dal regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, è tratto dalla graphic novel Il blu è un colore caldo di Jul’ Maroh e racconta il percorso di formazione emotiva e affettiva della sua protagonista.
La storia ruota intorno ad Adele (Adèle Exarchopoulos), una liceale che vive la propria quotidianità tra scuola, amicizie e primi amori. Un incontro casuale con Emma (Léa Seydoux), giovane artista dai capelli blu, le apre un mondo nuovo fatto di desiderio, scoperta e libertà. Tra le due nasce una relazione intensa, totalizzante, che accompagna Adèle nella ricerca della sua identità e nel confronto con i pregiudizi sociali. Il film segue il loro legame dalla nascita della passione fino alle inevitabili fratture, raccontando il passaggio dall’adolescenza all’età adulta e il prezzo che a volte l’amore chiede di pagare.
La vera forza di La vita di Adele è la protagonista, Adele Exarchopoulos, e l’empatia quasi voyeuristica che si crea tra lei e il regista. Kechiche rimane letteralmente "incollato" ad Adele, seguendola con primi piani prolungati senza arretrare davanti all’esibizione di carne, lacrime, carezze, cibo masticato, umori e secrezioni. È la vita di Adele raccontata nei dettagli, dall’imbarazzo dei primi approcci con i ragazzi, alla fulminante comparsa di Emma, fino alla confusione iniziale rispetto alla propria sessualità, all’attesa del primo bacio, all’estasi del sesso, alla convivenza, alla gelosia e infine alla sofferenza della separazione. Emozioni comuni e ordinarie, forse, ma che diventano universali grazie all’espressività della Exarchopoulos e dei suoi occhi che raccontano la fragilità e la passionalità di una giovane donna. Una performance di straordinaria naturalezza. Davvero brava.
Il film è un vero e proprio percorso di formazione. La regia di Kechiche è ineccepibile, con una narrazione impregnata di realismo che lascia spazio ai dettagli quotidiani e alle dinamiche sociali: memorabili, ad esempio, le cene dai rispettivi genitori, che raccontano attraverso il cibo – molto presente nella pellicola – l’estrazione culturale e sociale delle protagoniste. Anche le tanto criticate, prolungate ed esplicite scene di sesso, io le ho trovate sensuali e appassionate senza mai scadere nel volgare. Dal mio punto di vista, quindi filtrato da una lente maschile ed etero, sono tra le più intense mai viste sul grande schermo. Ammetto che probabilmente la mia percezione cambierebbe se si considerassero altre prospettive, ma ciò non toglie la loro forza emotiva.
Il film esplora con autenticità la scoperta dell’amore e del sesso, la convivenza, il logoramento dei sentimenti e le inevitabili fratture nelle relazioni. Tre ore che volano, leggere nonostante la durata, con una prima parte più scorrevole e una seconda che a tratti tende a dilungarsi – le scene di feste, ad esempio, risultano più ordinarie e ridondanti – ma sempre coerente con il ritmo della vita reale, fatta di dubbi, attese, aspirazioni, gioie e abbandoni.
In definitiva, La vita di Adele è un film intenso, emozionante e profondamente realistico, che racconta con sincerità e passione la complessità dei sentimenti e il percorso di crescita di una giovane donna.
Film
La ragazza della porta accanto
di Gregory Wilson
Vedere questo film è stato devastante.
Quando penso all’horror, non sono le case infestate, gli zombi o i mostri nascosti in soffitta a turbarmi davvero. Tutto ciò che appartiene al soprannaturale resta confinato nella fantasia, e finisce per diventare quasi un esercizio di evasione. Diverso è quando l’orrore prende forma attraverso persone comuni, uomini e donne capaci di compiere atrocità inimmaginabili. Quando la crudeltà è radicata nell’animo umano, non c’è filtro, non c’è distanza di sicurezza. Se poi ciò che vediamo è ispirato a una vicenda realmente accaduta, il disagio diventa ancora più insopportabile.
È proprio questo il caso di La ragazza della porta accanto, film del 2007 diretto da Gregory Wilson, tratto dall’omonimo romanzo di Jack Ketchum ispirato al terribile omicidio di Sylvia Likens.
Negli anni cinquanta, in una tranquilla cittadina americana, due ragazzine rimaste orfane – Meg (Blythe Auffarth) e sua sorella Susan, rimasta disabile nell’incidente che ha causato la morte dei loro genitori – vengono affidate alle cure della zia Ruth Chandler (Blanche Baker), madre di tre ragazzi. All’apparenza rispettabile, Ruth si rivela presto autoritaria e disturbata, trascinando i figli e i giovani del quartiere in un perverso gioco di crudeltà e soprusi. Meg, la maggiore, diventa il bersaglio di una spirale di violenze sempre più disumane, mentre l’amico David, segretamente innamorato di lei, assiste impotente alla sua segregazione in cantina, dove subisce un calvario sadico e crudele.
Sebbene la violenza e gli atti sadici siano perlopiù tenuti fuori campo, La ragazza della porta accanto è un film estremamente disturbante, destinato a stomaci forti. Nulla a che vedere con i vari torture-porn che imperversavano negli anni in cui uscì la pellicola di Wilson. Nonostante le sevizie e le atroci umiliazioni restino fuori campo, il film non ha bisogno di scene esplicite per colpire duro. Lo fa attraverso dialoghi, tensione psicologica e suggestioni, riuscendo a creare nello spettatore una forte empatia per la povera protagonista e il suo lungo percorso di degradazione morale e fisica, atrocemente travestito da innocente gioco infantile.
A orchestrare tutto c’è la zia, donna disturbata che coinvolge i figli e altri giovani del quartiere, offrendo loro birre e sigarette e trasformandoli in complici delle sue crudeltà. Ciò che fa più male è la perversione dei ragazzi, ormai plagiati in maniera incredibile dalla donna, che finiscono per compiere ogni tipo di nefandezza contro Meg. L’unico che si sottrae a queste atrocità è il giovane David, che inizialmente assiste in silenzio, impotente, incapace di intervenire. La sua frustrazione e il senso di colpa si trasformano in una voragine di dolore quando Meg gli confessa il suo amore, poco prima di espiare per le violenze subite.
Tecnicamente ineccepibile e interpretato da un cast eccellente – molto brava la Baker, il film lascia un’impronta indelebile, soprattutto perché si ispira a fatti realmente accaduti a Indianapolis nel 1965, quando la sedicenne Sylvia Likens fu torturata e uccisa dalla donna a cui era stata affidata. Il film non è una ricostruzione fedele degli eventi – anche i nomi dei protagonisti sono diversi, ma alcune delle sevizie documentate sono state riportate in questa pellicola. Nello stesso anno uscì anche An American Crime, ispirato allo stesso caso, ma tra i due, da quello che leggo in giro, questo risulterebbe più crudo e spietato.
La ragazza della porta accanto è un horror viscerale e diretto, che si insinua sotto la pelle e lascia scosso per ore dopo la visione. Un film da vedere, pur sapendo che può fare molto male.
Film
84m²
di Kim Tae-joon, Sharon S. Park
Distribuito su Netflix, 84m² di Kim Tae-joon (anche sceneggiatore) e Sharon S. Park è un thiller domestico che mescola inquietudine quotidiana, stress finanziario e paranoia.
No Woo-sung (interpretato da Kang Ha-neul) è un giovane impiegato di Seul che, dopo anni di sacrifici, riesce finalmente a comprarsi un appartamento di 84 m², un traguardo quasi irraggiungibile in un mercato immobiliare esclusivo e implacabile. All’inizio la vita sembra migliorata, ma ben presto il valore dell’appartamento crolla, i debiti si accumulano, e Woo-sung si ritrova costretto a lavorare anche la notte per far quadrare i conti. La situazione prende una piega inquietante quando il nostro protagonista inizia a sentire strani rumori provenienti dagli appartamenti adiacenti e i vicini lo accusano di essere lui il responsabile del baccano notturno.
84m² è un thriller claustrofobico e alienante, una metafora lucidissima sul sogno – o meglio sull’incubo – di avere una casa di proprietà a Seul. Tra speculazione edilizia e crisi economica, quello che dovrebbe essere il traguardo della felicità e la prova di essere dei vincenti si rivela una trappola, un paradiso che presto si trasforma in prigione economica. Gli inquilini, più che abitanti, sono condannati a una vita da sfruttati, schiacciati dai debiti e intrappolati in un sistema che divora molto più di quanto restituisca. A questa dimensione collettiva se ne aggiunge una più intima, in cui l’appartamento si trasforma in un luogo ostile, dove ogni rumore diventa minaccia e ogni sguardo dei vicini si trasforma in sospetto.
Il film di Kim Tae-joon è interessante, ha una regia elegante, tempi perfetti, e parte da una buona idea. Peccato che, dopo un avvio solido e intrigante, tutto concentrato sul protagonista il film inizi a inciampare su se stesso. L’insistenza nel sorprendere lo spettatore ad ogni costo produce un intreccio narrattivo un po' pasticciato, che sacrifica la chiarezza e smorza l’impatto della critica sociale, pur restando ben riconoscibile.
Film godibile e accattivante ma confuso nel finale.
L'uomo in più
di Paolo Sorrentino
Ho sempre avuto un rapporto altalenante con il cinema di Paolo Sorrentino. Alcuni suoi film li ho apprezzati, altri invece li ho trovati pretenziosi e un po distanti.
Non avevo mai visto L’uomo in più, il suo esordio del 2001, il film che ha dato il via al lungo sodalizio con Toni Servillo. Un occasione per guardare, a distanza di oltre vent’anni, i primi germogli del suo cinema.
Ambientato a Napoli nei primi anni ottanta, il film racconta le vite parallele di due uomini che condividono lo stesso nome, Antonio Pisapia. Il primo, interpretato da Toni Servillo, è un cantante di successo in piena crisi personale e professionale. Il secondo, impersonato da Andrea Renzi, è un calciatore il cui promettente futuro viene spezzato da un grave infortunio. Entrambi si trovano costretti ad affrontare la caduta dall’olimpo della notorietà e a confrontarsi con la solitudine, l’ossessione per il proprio passato e la difficoltà di reinventarsi. I loro destini, simili e intrecciati solo da uno sguardo, diventano lo specchio di un’umanità fragile che si muove sul confine tra successo e disfatta.
L'opera prima di Sorrentino è la drammatica storia di due perdenti. Un calciatore e un cantante. Due uomini che condividono lo stesso nome e che hanno conosciuto il successo, salvo poi vederselo strappare via di colpo, precipitando nel fallimento.
Antonio Pisapia calciatore è un uomo chiuso, introverso, onesto, incapace di accettare compromessi. Gioca in una squadra di media classifica di Serie A ed è l’idolo dei tifosi. Quando rifiuta di partecipare a un giro di scommesse e partite truccate, subisce un grave infortunio in allenamento che stronca la sua carriera. Antonio non vuole però rinunciare al calcio e sogna di diventare allenatore. Si inventa perfino un nuovo modulo di gioco – da cui il titolo del film, l'uomo in più. Ma la sua ossessione, unita all’ingenuità e a una malinconia che allontana chiunque, gli chiude porte e possibilità, fino a fargli perdere anche se stesso.
Tony Pisapia, invece, è un cantante melodrammatico all’apice della carriera. Egocentrico, narcisista, vive sopra le righe tra alcol e droga, indifferente a tutto e a tutti, tranne che alla madre, con cui condivide il dolore e il senso di colpa per la morte del fratello. Quando viene arrestato per un rapporto con una minorenne, la sua fama crolla in un istante. Una volta uscito dal carcere nessuno vuole più avere a che fare con lui, e Tony vaga in bilico tra la ricerca dell’ultimo applauso e il desiderio di sentirsi finalmente libero.
Ispirandosi liberamente alla figura di Franco Califano e alla tragica vicenda di Agostino Di Bartolomei – che da romanista ho vissuto con particolare intensità – Sorrentino racconta l’amaro destino di due uomini segnati dalla stessa condanna, quella di conoscere la gloria e doverne poi affrontare la perdita. Due anime specchiate, fragili, destinate a consumarsi nel ricordo.
L'uomo in più è un film poetico e struggente, con personaggi ben delineati, una sceneggiatura solida e una regia elegante, ancora lontana dagli eccessi estetici che il regista adotterà in seguito. Memorabile il piano sequenza che segue Servillo in discoteca, così come l’uso della musica, già centrale nel suo cinema, capace di risaltare le sequenze più emotive.
Servillo è espressivo e convincente senza mai scivolare nella macchietta. Il suo monologo finale nello studio televisivo rimane impresso. Anche Andrea Renzi è molto convincente, anche se il suo personaggio triste e malinconico gli impone di essere più discreto e modesto.
Senza dubbio L’uomo in più rappresenta il Sorrentino che preferisco, quello più vicino a Le conseguenze dell’amore, che rimane per me il suo capolavoro. Un film sulla solitudine e sull'incapacità di reinventarsi dopo un crollo, che sia dovuto al destino o alle proprie colpe. Commovente e profondo. Mi è piaciuto molto.
Bolero
di Anna Fontaine
I biopic non sono tra i miei generi preferiti, figuriamoci francese e in lingua originale, ma a volte ci si lascia guidare da altri stimoli e si va al cinema con il piacere di condividere l’esperienza.
Bolero è un film diretto da Anne Fontaine che racconta la storia di Maurice Ravel, il famoso compositore francese noto per l'opera che da il titolo al film.
Ambientato nel vibrante contesto parigino degli anni venti, il film segue Ravel (Raphaël Personnaz) nel momento cruciale della sua carriera, quando riceve l’incarico di comporre la musica per un balletto commissionato dalla carismatica Ida Rubinstein (Jeanne Balibar). Compositore geniale ma schivo, segnato da fragilità interiori e da un percorso artistico mai lineare, Ravel nutre un amore tormentato e platonico per Misia (Dora Tillier), donna sposata e musa affascinante.
In un periodo di insicurezza e crisi creativa, Ravel si lascia guidare dalle suggestioni della vita quotidiana, dai suoni e dai ritmi che si ripetono in maniera ossessiva. Dopo molte notti insonni — e un centinaio di sigarette di troppo — nasce una delle opere più iconiche del Novecento: il Bolero, una partitura ipnotica di diciassette minuti, costruita su un tema replicato senza sosta fino a un vorticoso crescendo finale.
Il successo sarà straordinario, ma con il passare degli anni l’ispirazione si affievolirà e una misteriosa malattia cerebrale lo condurrà a un lento declino, chiudendo la parabola di un artista che aveva saputo trasformare l’ossessione in arte immortale.
Terminato il film, prima dei titoli di coda compare un cartello che ricorda come, ogni quindici minuti, da qualche parte nel mondo, qualcuno stia ascoltando o suonando il Bolero. Già nei titoli di testa, attraverso una serie di spezzoni, assistiamo alla sua esecuzione nei modi più disparati. È la conferma di quanto questa composizione, nata un secolo fa, sia entrata a far parte della memoria collettiva, capace di conquistare sia gli appassionati di musica che i non intenditori. Io, per dire, ho ascoltato il Bolero per la prima volta che avevo dieci, undici anni, rovistando tra vecchi vinili di musica classica che conservo ancora oggi. Quel ritmo ipnotico quella melodia che cresce in maniera ripetitiva, mi si è piantato in testa e non ne è più uscita. Una composizione che per i tempi era assai audace.
Tornando al film di Anne Fontaine, si apprezzano l’eleganza della fotografia e la cura scenografica, così come la prova convincente di Raphaël Personnaz. Alcuni dettagli, come gli scorci industriali che evocano le suggestioni sonore da cui Ravel trae ispirazione, funzionano molto bene. I limiti emergono però nei personaggi femminili, poco sviluppati, e in un ritmo che si fa spesso lento e monotono, con lungaggini che appesantiscono la narrazione. La struttura resta quella classica del biopic, ovvero senza particolari guizzi, sussulti o colpi di scena. Anche l’accenno a un Ravel asessuato, forse vicino a un disturbo dello spettro autistico, resta appena suggerito e mai approfondito.
In definitiva, un film elegante ma convenzionale e prevedibile che si guarda e si dimentica in fretta. Ne più nè meno di quello che mi aspettavo.
Film
Primo Amore
di Matteo Garrone
Dopo il successo de L’imbalsamatore, che lo aveva imposto all’attenzione della critica come una delle voci più originali del nuovo cinema italiano, Matteo Garrone nel 2004 torna alla regia con Primo amore. Un titolo che potrebbe suggerire una storia sentimentale convenzionale ma che, al contrario, si ispira invece a un fatto di cronaca realmente accaduto alla fine degli anni novanta, narrato dal protagonista stesso nel libro "Il cacciatore di anoressiche".
La storia vede come protagonista Vittorio (Vitaliano Trevisan), un orafo vicentino, che incontra Sonia (Michela Cescon) ad un appuntamento al buio in una stazione degli autobus. La prima frase che pronuncia Vittorio è "ti immaginavo più magra". Nonostante il campanello di allarme e i dubbi sulla possibilità di riuscita del loro rapporto, i due iniziano a frequentarsi. Vittorio è attratto dalla dolcezza e l'intelligenza della ragazza ma è ossessionato dalla magrezza, il suo ideale di donna deve avere un corpo scheletrico. Sonia sembra essere attratta dal suo lato oscuro e sebbene percepisca qualcosa di dissonante in lui, accetta di dimagrire, quasi come un atto d’amore.
Quello che sembra un semplice sacrificio affettivo si trasforma gradualmente in una prigionia fisica. I due vanno a vivere insieme e Vittorio inizia a sorvegliare ossessivamente il peso di Sonia, imponendo regole di controllo estremo e nascondendole il cibo. Sonia smette di riconoscersi, vede il proprio corpo consumarsi e scivola in un incubo di deperimento e autodistruzione.
Primo Amore è la storia di due solitudini che si incontrano e si consumano dentro un’ossessione. Da un lato c’è un uomo malato, possessivo e violento, incapace di vivere un sentimento se non attraverso il controllo, dall’altro una donna fragile, che si lascia trascinare in una spirale di sottomissione psicologica fino a perdere se stessa. Dimagrendo, Sonia non perde soltanto il corpo ma anche la vitalità, l’identità e i luoghi affettivi che la definivano.
Il cuore del film sta proprio nel tentativo disperato di cambiare l’altro, di piegarlo a un ideale, di plasmarlo come fosse materia grezza. Non è un caso che Vittorio sia un orafo: la bilancia, la precisione maniacale e la ricerca della perfezione diventano simboli di un amore trasformato in ossessione. È così che il rapporto si fa lentamente perversione psicologica. Vittorio domina Sonia attraverso il controllo del corpo, mentre lei oscilla tra il desiderio di essere ammirata e quello di scomparire, divisa tra masochismo e bisogno di riconoscimento.
Molto brava la prova di Michela Cescon, che si è sottoposta pure ad un dimagrimento di quindici chili. Più debole la prova di Vitaliano Trevisan, che ha preso parte con Garrone alla sceneggiatura. Comprendo che il suo personaggio deve essere volutamente cupo e poco comunicativo, ma i suoi dialoghi sono spesso al limite del comprensibile, e non è tanto per il dialetto veneto. Sono biascicati, borbottii, confusi con i rumori di fondo. Magari sarà stata una scelta pure voluta ma io l'ho trovata penalizzante. Per la cronaca Trevisan pare avesse dei disturbi psichici e si è suicidato nel 2022.
Passando alla regia, Garrone dirige con uno stile sobrio e implacabile, fatto di inquadrature statiche e ambienti spogli che trasmettono claustrofobia. Molto belle alcune sequenze, come quella con i volti dei protagonisti sfocati, ridotti a fantasmi, mentre il resto che li circonda è perfettamente distinguibile, oppure la cena al ristorante dai toni grotteschi - ripresa da un episodio realmente accaduto, ma mache l’allucinazione delle cipolle scambiate per cosce di pollo, fino alla scena con Sonia, nuda e scheletrica, contro la parete della cantina. Una immagine che richiama drammaticamente il ricordo di un lager.
Primo Amore è un film cupo e disperato, girato con uno stile iperrealistico e personale, tratta un tema delicato senza essere troppo eccessivo.
Terminata la visione, ho voluto approfondire la vicenda reale di Marco Mariolini recuperando su YouTube la puntata di Storie maledette in cui Franca Leosini lo intervista in carcere.
Un documento agghiacciante che amplifica ancora di più la sensazione di disagio lasciata dal film.
Nymphomaniac
di Lars von Trier
Nymphomaniac, il film scritto e diretto da Lars von Trier nel 2013, che insieme ad Antichrist e Melancholia conclude la cosidetta "trilogia della depressione", è un film decisamente impegnativo. Sia per la durata, il tema e la messa in scena.
Presentato al Festival di Berlino 2014 e poi alla Mostra di Venezia, il film, a causa della sua lunghezza (all'incirca quattro ore) è stato diviso in due pellicole distinte e proiettato nelle sale con diversi tagli. Successivamente è stato distribuito, in DVD e BlueRay, la director's cut, la versione definitiva voluta dal regista danese, sempre divisa in due film, ma della durata complessiva di circa cinque ore e mezza.
Io, ovviamente, mi sono visto la versione definitiva. La versione dove, oltre ai dialoghi nella loro interezza, ci sono le scene di sesso, che tanto hanno fatto scalpore e scandalo, mostrate in modo esplicito.
Diviso in otto capitoli più un epilogo, Nymphomaniac è la storia di Joe (interpretata da Charlotte Gainsbourg), una donna che si definisce "ninfomane". Ritrovata in un vicolo, sanguinante e piena di contusioni dal vecchio Seligman (Stellan Skarsgård), accetta di essere portata a casa dell'uomo per farsi curare. Tra una tazza di tè e un letto in cui riposare, Joe decide di confidargli la sua vita, iniziando dal periodo giovanile (interpretata da Stacy Martin). Nel lungo racconto emergono le prime esperienze sessuali, i rapporti compulsivi e le relazioni emotivamente distaccate, in un percorso che ripercorre la sua evoluzione erotica fin dall’infanzia.
Dopo l’horror di Antichrist e la fantascienza apocalittica di Melancholia, con Nymphomaniac Lars von Trier affronta il tema della pornografia. Ma attenzione, non si tratta di un film pensato per suscitare eccitazione. Le scene di sesso, pur esplicite e con i genitali in primo piano, non hanno nulla di seducente o invitante. Sono atti compulsivi, freddi, quasi meccanici, più vicini a una fame bulemica che a un piacere condiviso. Von Trier utilizza il sesso come strumento narrativo e provocatorio, un’esca per attirare lo spettatore, così come il pescatore fa con i pesci. E lo fa con una consapevolezza calcolata, basti pensare alla campagna promozionale del film, con i poster degli attori ritratti nel momento dell’orgasmo, che generò scandalo e curiosità in parti uguali.
Le scene più spinte – amplessi con doppia penetrazione, fellatio, sadomasochismo – non sono state girate dagli attori principali. Come ha spiegato al tempo la produttrice Louise Vesth, questi simulavano i rapporti, mentre le controfigure (probabilmente degli attori porno) li eseguivano realmente. In fase di montaggio, grazie alla post-produzione digitale, i due materiali venivano fusi in un’unica immagine.
Tolte le scene di sesso, che rientrano nella narrazione e che dopo un pò passano in secondo piano, la scena che mette davvero alla prova lo spettatore è probabilmente quella dell’aborto autoindotto da Joe, girata senza filtri né anestesia. Una sequenza cruda e disturbante, reso ancora più insostenibile dagli inserti radiografici. È uno dei tanti esempi di come Von Trier porti il corpo femminile al limite, privandolo di qualsiasi grazia per mostrarne la sofferenza e la disperazione.
Al di là delle provocazioni, il film è un’esplorazione cupa e spietata della sessualità femminile, decisamente al negativo. Joe si racconta senza filtri, svelando un percorso segnato da alienazione, dolore e incomprensioni. È anaffettiva, egoista, crudele. Rifiuta l’amore considerandolo una debolezza, un ostacolo al desiderio. Non a caso, con Jerome – l’uomo più importante della sua vita, da cui avrà una gravidanza indesiderata – non riesce a provare orgasmo. Ciò che sperava fosse una cura alla depressione si rivela invece la malattia stessa: il sesso come dipendenza, come voragine che alimenta frustrazione e insoddisfazione. Da qui la deriva verso esperienze sempre più estreme, fino al coinvolgimento nella criminalità.
Seligman, il suo interlocutore, rappresenta l’altra faccia, quella più razionale e logica. Ascolta con calma, interviene con divagazioni filosofiche, religiose, matematiche. Paragona la vita di Joe a Bach, ai numeri di Fibonacci, al fly fishing, cercando sempre un appiglio razionale che gli permetta di assolverla, di ricondurre il caos a un ordine che in realtà non esiste.
Sul piano tecnico, Von Trier alterna cinepresa a mano, split screen, bianco e nero, sovrimpressioni, costruendo un linguaggio visivo frammentato ma coerente. A risaltare è soprattutto la direzione degli attori. Charlotte Gainsbourg offre una prova intensa, mentre Stacy Martin porta sullo schermo la fase giovanile di Joe con sorprendente naturalezza. Tra i comprimari spiccano Uma Thurman in una scena memorabile, otto minuti di pura disperazione nei panni di una moglie tradita, e Christian Slater nel ruolo del padre di Joe. Accanto a loro Shia LaBeouf che interpreta Jerome, Jamie Bell, Connie Nielsen, una giovanissima Mia Goth alla sua prima esperienza cinematografica, e l’immancabile Willem Dafoe. Un cast internazionale, eterogeneo e sorprendentemente compatto.
Arrivati alla fine di questa maratona, resta la sensazione di aver assistito a un film ambizioso, imperfetto, sfrontato. Nymphomaniac è politicamente scorretto, la protagonista viene descritta come una donna moralmente riprovevole, e il sesso non è mai liberazione ma malattia. Non stupisce che Von Trier sia stato accusato di misoginia, ma al tempo stesso bisogna riconoscergli il coraggio di spingersi oltre i confini del cinema, sfidando lo spettatore. In fondo, più che sul sesso, Nymphomaniac è un film sull’isolamento e la solitudine. Il finale, che capovolge il ruolo di Seligman, non offre alcuna redenzione. Un pugno nello stomaco che ti lascia senza fiato.
È un’opera che non lascia indifferenti. Disturbante, spietato, a tratti respingente, ma capace di imprimersi con forza. Nel bene e nel male.
Chiamami col tuo nome
di Luca Guadagnino
Chiamami col tuo nome (nel mercato internazionale conosciuto come Call Me by Your Name) è un film del 2017 diretto da Luca Guadagnino. Tratto dall'omonimo romanzo di André Aciman e sceneggiato da James Ivory, il film ha vinto numerosi premi internazionali tra cui l'oscar per la migliore sceneggiatura non originale.
Ambientato nell’estate del 1983, tra le campagne di Brescia e Bergamo, il film racconta di Elio (Timothée Chalamet), diciassettenne sensibile e riflessivo che trascorre le vacanze nella villa di campagna della sua famiglia. L’arrivo di Oliver (Armie Hammer), affascinante e spigliato dottorando americano ospite di suo padre, professore di archeologia, rompe l’equilibrio di quell’estate tranquilla. Tra lunghe passeggiate in bici, bagni nel lago, conversazioni colte e tensioni erotiche, tra i due nasce un legame profondo e irripetibile.
Chiamami col tuo nome racconta un amore estivo tra un diciassettenne e un ventiquattrenne — anche se Chalamet sembra uscito dalle medie e Hammer un trentenne — e parla di desiderio e memoria, di quell’attimo in cui l’amore ti piomba addosso e, proprio perché dura poco, resta scolpito nei ricordi. Il film mi ha ricordato molto Ballo da sola di Bertolucci, con l’unica differenza che qui si narra di un rapporto omosessuale. Certo, non è un dettaglio da poco, ma tolto questo rimane una storia d’amore semplice, quasi ingenua, e la solita difficoltà di viverla alla luce del sole, destinata a chiudersi con la fine dell’estate. Insomma, niente lieto fine e tanta malinconia.
Dal punto di vista tecnico il film è impeccabile, con grande cura del dettaglio, belle sequenze dei paesaggi bergamaschi, e tutti gli ingredienti di quel cinema "costruito" per piacere, soprattutto all’estero. Peccato che io, dopo venti minuti, stessi già guardando l’orologio. Lento, lunghissimo, con una rappresentazione della famiglia borghese da Mulino Bianco — tutti sorridenti, comprensivi, carini ed educati — e un finale che dovrebbe commuovere, ma che ho trovato buonista e un po’ furbo. In questo film nessuno litiga, nessuno sbaglia, nessun’ombra. Anche la tipa che viene scaricata da Elio alla fine si rifà viva per diventare sua amica. Le scene erotiche sono molto edulcorate e persino la “famosa” scena della pesca — che Guadagnino voleva pure tagliare — alla fine è appena accennata e non si conclude.
Chiariamoci, il film è confezionato benissimo. I premi e gli applausi della critica non arrivano per caso. La colonna sonora funziona (e non solo per il brano di Sufjan Stevens), Chalamet è davvero bravo, l’ambientazione è affascinante, con i borghi antichi e la ricostruzione curata degli anni ottanta, e l’atmosfera estiva italiana, con cicale e tempi dilatati, è resa benissimo. Solo che, a me, non mi ha lasciato nulla. Probabilmente è un tipo di cinema distante dai miei gusti ma ho come il sospetto che, se la storia d’amore non fosse stata tra due ragazzi, questo film non avrebbe avuto la stessa risonanza.
Ho trovato questo film buonista, retorico, forzatamente inclusivo e profondamente noioso. Ma sono molti che lo reputano un capolavoro.
Mr. Vendetta
di Park Chan-wook
Mr. Vendetta, uscito nel 2002 e diretto dal regista sudcoreano Park Chan-wook, è il primo film della cosidetta Trilogia della vendetta. Un percorso narrativo e tematico che proseguirà con il pluripremiato Old Boy e troverà la sua conclusione con Lady Vendetta, esplorando in tre atti distinti le molteplici sfumature di un sentimento tanto umano quanto distruttivo.
Protagonista della storia è Ryu (Shin Ha-kyun), un ragazzo sordomuto che vive con la sorella gravemente malata, bisognosa di un trapianto di rene. Licenziato dalla fabbrica dove lavorava e senza i mezzi per affrontare le costose cure, decide di rivolgersi al mercato nero degli organi. Qui, però, viene ingannato da alcuni trafficanti che, dopo avergli asportato un rene in cambio della promessa di fornirne uno compatibile con la sorella, gli sottraggono anche il denaro, lasciandolo senza soldi e senza organo.
Disperato, Ryu cede al piano della sua fidanzata, una giovane attivista radicale, e rapisce la figlia di Park Dong-jin (Song Kang-ho), l’ex datore di lavoro responsabile del suo licenziamento, con l’intenzione di chiedere un riscatto da destinare all’operazione della sorella. Inizialmente la bambina viene affidata alla sorella di Ryu, ignara della reale situazione e convinta di fare solo da babysitter. Quando però scopre la verità, la donna si toglie la vita. La tragedia si aggrava quando la bambina, proprio mentre Ryu sta seppellendo il corpo della sorella, muore accidentalmente annegando in un fiume.
Sconvolto dalla perdita della figlia, Park Dong-jin si mette sulle tracce di Ryu per vendicarsi, mentre quest’ultimo riversa la propria rabbia sui trafficanti d’organi che lo hanno truffato.
Mr. Vendetta, se messo a confronto con i successivi capitoli della trilogia, è indubbiamente il più crudo e disperato. Un film ancora grezzo sul piano stilistico, ma carico di violenza, disperazione e morte, praticamente per tutti. Park Chan-wook ci va giù pesante con il suicidio della sorella, la morte della bambina ripresa in campo lungo, le torture, le autopsie disturbanti, l’assassinio di Ryu. Ogni colpo è secco, senza attenuanti, come se il regista volesse toglierci qualsiasi possibilità di distacco emotivo.
Qui la vendetta non è pianificata, ma nasce dall’impulso e dalla disperazione, come reazione a errori e fallimenti. Tutti sono insieme innocenti e colpevoli, in un mondo dove non esistono buoni né giusti, ma solo una sete di vendetta miope, che si avvita su sé stessa lasciando una lunga scia di sangue.
Il protagonista sordomuto incarna l’incomunicabilità e l’isolamento da cui si innesca il vortice di violenza. Park lo racconta con immagini potenti, inquadrature prolungate e silenzi carichi di tensione, dove l’assenza di musica mette in risalto suoni esterni – gocce, grida – che diventano eco della sua solitudine. Alla fine i protagonisti del film non sono né eroi né mostri, ma esseri umani fragili, incapaci di fermarsi una volta spinti sull’orlo del baratro.
Sicuramente meno ispirato a livello stilistico rispetto ai successivi ma da vedere, per chi piace il genere, ovviamente.
Improvvisamente, un uomo nella notte
di Michael Winner
Improvvisamente, un uomo nella notte, titolo italiano per The Nightcomers, è il prequel di Suspense, film diretto da Jack Clayton tratto dal celebre romanzo "Giro di vite" dello scrittore Henry James. Stiamo parlando di una delle storie di fantasmi più eleganti e suggestive mai portate sulle schermo, che mi piacerebbe rivedere presto.
Tornando a The Nightcomers, il film è diretto da Michael Winner è vede la partecipazione di Marlon Brando.
La storia si ispira ai personaggi del romanzo di Henry James e immagina cosa sia accaduto prima dell’arrivo di Miss Giddens. In una grande dimora di campagna, i due giovani orfani, Flora e Miles, vengono abbandonati dall’unico tutore e affidati alla governante Mrs. Grose (Thora Hird), alla giovane istitutrice Miss Jessel (Stephanie Beacham) e al giardiniere Peter Quinte (Marlon Brando), l’unico vero punto di riferimento per i due fratelli. L'uomo, ambiguo e carismatico, ha stretto una relazione sadica e manipolatoria con Miss Jessel, cui i bambini assistono con crescente curiosità. Sedotti dal suo fascino oscuro, Miles e Flora iniziano a emulare i suoi comportamenti, trasformandosi lentamente in creature disturbate. Quando Mrs. Grose tenta di separare i due amanti intuendone l’influenza negativa, i bambini reagiscono in modo estremo, uccidendo prima Miss Jessel, poi Quint, convinti che solo così potranno tenerli con sé per sempre.
Mettendo da parte il confronto con il capolavoro di Clayton, il film di Michael Winner non è affatto da buttare. All’epoca della sua uscita fu bersagliato dalle critiche, forse anche per via dello scandalo legato a Marlon Brando, reduce dal chiacchieratissimo film di Bertolucci. Ma visto oggi, senza pregiudizi, The Nightcomers (tralasciando il titolo italiano, davvero infelice) è una fiaba nera affascinante, attraversata da un morboso fascino perverso dall’inizio alla fine.
Winner accantona mistero e ambiguità, puntando tutto sul rapporto sadomasochista tra Quint e Miss Jessel e sull’influenza che esercitano su Miles e Flora. Ed è proprio attraverso lo sguardo dei bambini, catturati dalla violenza mascherata da amore, che la storia prende la piega più inquietante.
Brando, nonostante appaia già un po’ appesantito, riesce a imporsi con il suo carisma. Le scene tra lui e la Beacham sono intense. Buone anche le prove del resto del cast, in particolare i due piccoli protagonisti.
Certo, messo a confronto con il romanzo di Henry James o con la raffinatezza di Suspense, non regge il confronto, ma se lo si guarda come un semplice dramma gotico, il film funziona, ha la giusta atmosfera e qualche scena potente.
