
Il paradosso del tempo
di Bernardo Britto
I viaggi nel tempo sono uno dei temi più affascinanti e ricorrenti del cinema di fantascienza. Tra paradossi, salti e loop temporali, questi film hanno la caratteristica che non hanno bisogno di particolari effetti speciali o budget eccessivi, ma soltanto di una buona idea e una sceneggiatura solida.
Tra le tante pellicole di questo genere si inserisce Il paradosso del tempo (Omni Loop), film americano del regista brasiliano Bernardo Britto, che dopo una carriera nel cortometraggio approda alla regia di un lungometraggio mainstream con una storia che mescola sci-fi, dramma e malinconia.
La trama ruota attorno a Zoya Lowe (Mary-Louise Parker), una fisica di mezza età affetta da una misteriosa condizione. I medici gli hanno diagnosticato la presenza di un "buco nero" nel petto e le hanno dato una settimana di vita. Quello che né la sua famiglia né i dottori sanno, però, è che alla fine di quei sette giorni – quando il sangue inizia a colarle dal naso, segnale della sua imminente fine – Zoya si chiude in bagno, ingoia una delle misteriose pillole trovate per caso da bambina, e torna indietro nel tempo di esattamente una settimana. Ogni ciclo ricomincia con il suo risveglio in ospedale, quando il medico la dimette per permetterle di trascorrere gli ultimi giorni con i suoi cari. Costretta a rivivere la stessa settimana migliaia di volte, Zoya si ritrova intrappolata in un loop estenuante. Esausta dalla ripetitività e dal senso di impotenza, decide di allontanarsi dalla cinica subito dopo il suo risveglio. Il fortuito incontro con Paula Campos (Ayo Edebiri), una giovane studentessa di fisica, gli permette di trovare un alleata per provare a studiare i i misteri dei viaggi nel tempo e capire se c'è il modo per interrompre questo ciclo… e forse, riappropriarsi della propria vita.
Il paradosso del tempo prende in prestito suggestioni da classici del genere – da Ricomincio da capo a Predestination, passando per Looper – ma utilizza il meccanismo del loop temporale, più che sulle dinamiche del viaggio nel tempo, per riflettere su temi più intimi come l’inevitabilità della morte, il tempo che sprechiamo e gli affetti che trascuriamo. Il film, leggero e malinconico, trova il suo cuore nel percorso di una donna che non cerca tanto di sfuggire alla fine quanto di fare pace con la propria vita. Mary-Louise Parker è molto brava e sostiene una narrazione a tratti toccante, pur senza troppe ambizioni filosofiche. Se invece parliamo di fantascienza, ho trovato la sceneggiatura tutt'altro che convicente. Buchi logici, disordine narrativo, trovate poco riuscite e risibili – come il buco nero nel petto della protagonista e sopratutto l’uomo nanoscopico, un tizio che un esperimento quantistico sta facendo rimpicciolire all’interno di una scatola, la cui funziona a livello di trama rimane per me sconosciuta.
Un film che intrattiene, facendo leva sull'apetto romantico, ma che non rivedrei una seconda volta.

Mimì - Il principe delle tenebre
di Brando De Sica
Ammetto che quando ho visto il nome del regista ho storto un po' il naso. Brando De Sica. Figlio di Christian, nipote di Vittorio, Carlo Verdone come zio. Il pregiudizio che in Italia, se non sei un figlio d'arte, il cinema lo guardi e basta, è scattato immediatamente. E invece Mimì – Il principe delle tenebre mi ha fregato. Non solo perché è un film coraggiosamente fuori tempo, diverso, ma anche perché ha toccato corde familiari della mia indole gotica.
La storia racconta di Mimì (Domenico Cuomo), un adolescente orfano, nato con i piedi deformi, che lavora in una pizzeria a Napoli. Bullizzato dal figlio di un boss camorrista, un giorno incontra Carmilla (Sara Ciocca), una giovane ragazza "dark" convinta di essere una discendente del conte Dracula. Lei rimane affascinata dal goffo Mimì – forse proprio per la sua deformità – e lui trova in Carmilla quel calore umano che gli è sempre mancato.
In una Napoli insolita e decadente, tra bande camorristiche appassionate di neomelodica e gruppi gotici che frequentano cimiteri, cripte, e feste alternative, Mimì – Il principe delle tenebre si presenta come un film strano e affascinante, capace di spaziare dall'horror al fantasy, dal noir alla dark comedy. La commistione di generi è dosata con intelligenza e la virata horror arriva al momento giusto. Brando De Sica, da quanto si dice in giro, è un appassionato di questo genere, e si vede. Le citazioni cinefile sono ovunque, ma non risultano mai esibite. Piuttosto, sono tracce, omaggi ben inseriti in una narrazione personale e visivamente curata. La regia è solida e la fotografia mi ha particolarmente colpito, con quei colori irreali – blu e rosso, caldi e freddi spesso contrapposti – che rimandano al cinema di Mario Bava. L'uso del colore è particolarmente significativo nella scena finale, dove Mimì e Camilla – ehm, Carmilla con la erre (cit) – vengono illuminati dal lampeggiante della polizia, in un contrasto emotivo che trascende la realtà.
L’epilogo, drammatico e ambiguo – è tutto vero o una fantasia del protagonista? – ha un tocco poetico e surreale. Al centro della storia, c'è una relazione d'amore tra due "diversi": una ragazza borderline, fragile e imprevedibile, e un ragazzo in cerca di identità, ingenuo, segnato nel corpo e nell'anima. Due anime rotte che cercano di salvarsi a vicenda.
I due attori protagonisti sono molto bravi. La giovane e minuta Sara Ciocca è sorprendente. Affascinante nella sua versione goth, fragile e vulnerabile nella sua cameretta da bambina. Domenico Cuomo è altrettanto bravo, capace di passare dalla timidezza di Mimì alla trasformazione violenta del "vampiro", con i suoi denti aguzzi e lo sguardo distorto. Il film, inoltre, è recitato bene. Finalmente in un film italiano i dialoghi, anche quando sono sussurrati, sono sempre chiari. Il dialetto napoletano non infastidisce, e quando è troppo stretto, intervengono i sottotitoli.
Guardandolo, mi è venuto spontaneo accostarlo a Lo chiamavano Jeeg Robot, ma con i vampiri al posto dei supereroi. E in alcune scene, come quella nelle catacombe, ho sentito forti echi del cinema di Guillermo del Toro.
Alla fine, Brando De Sica sembra più un orfano adottato da Tim Burton e dalla malinconia di Fellini che un regista cresciuto sulle spalle della becera commedia natalizia. Pare che per realizzare questo film non abbia sfruttato le sue conoscenze familiari, anzi, ci ha messo dieci anni e ha incontrato numerosi ostacoli. E si vede. È un film ostinato, personale, fuori rotta. Farsi strada nel cinema di genere in Italia non è facile. Ma io, sinceramente, tifo per lui. A volte i pregiudizi sono proprio deleteri.

Antichrist
di Lars Von Trier
Lars Von Trier è considerato uno dei più trasgressivi registi contemporanei. Un autore estremamente divisivo e allergico a ogni forma di compromesso. Per alcuni un genio provocatore, per altri un narcisista e un misogino compiaciuto. Personalmente, fin dai tempi di The Kingdom — la serie televisiva surreale degli anni novanta — il suo cinema esercita su di me un’attrazione magnetica. Idioti, Dogville e Dancer in the Dark restano, a mio avviso, tra le sue opere più significative. L’ultimo suo film che avevo visto era Il grande capo, poi l'ho perso di vista. Ora, con la giusta disposizione d'animo, ho deciso di recuperare la tanto discussa "trilogia della depressione", iniziando proprio da Antichrist, film controverso e urticante che ha diviso pubblico e critica fin dalla sua uscita.
Presentato al Festival di Cannes nel 2009, Antichrist scatenò fin da subito un acceso dibattito. La proiezione fu accolta da una pioggia di fischi e critiche feroci, soprattutto per alcune scene di sesso esplicito e per la brutale violenza che esplode nel finale del film. La conferenza stampa non contribuì certo a stemperare il clima. Von Trier, nel suo consueto stile provocatorio, si autoproclamò "il miglior regista del mondo" e dichiarò di non dover spiegazioni a nessuno, perché "Dio gli parlava personalmente". Tra sconcerto e imbarazzo, alcuni giornalisti lasciarono la sala. Il film venne escluso dal palmarès, tranne che per il premio alla Miglior Attrice assegnato a Charlotte Gainsbourg. Antichrist diventò immediatamente un caso mediatico e culturale, che ancora oggi continua a dividere.
Il film è suddiviso in un prologo, quattro capitoli — Dolore, Pietà, Disperazione e I tre mendicanti — e un epilogo, quasi fosse un dramma teatrale, ma costruito con l’estetica allucinata di un incubo visivo. La trama ruota attorno a due soli personaggi, una coppia (Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg) che, mentre si abbandonano a un intenso rapporto sessuale, non si accorgono che in un’altra stanza il loro figlioletto esce dalla culla, s’arrampica sulla sedia, sale sul tavolo accanto, si sporge dalla finestra e precipita nel vuoto. Una sequenza di straordinaria potenza visiva, girata in slow motion e in bianco e nero, che fonde eros e thanatos, bellezza e tragedia, con la musica struggente di Händel a rendere il tutto ancora più lacerante.
I due genitori, sconvolti dal lutto, cercano di affrontare il dolore in modo opposto. Lui, terapeuta, tenta di guidare la moglie in un percorso di elaborazione razionale del trauma. Lei, invece, si lascia risucchiare da un abisso di colpa e sofferenza che sfugge a ogni controllo. Per cercare di esorcizzare il dolore, la coppia si ritira nella loro baita nel bosco di Eden, dove lei aveva passato l'estate precedente con il figlio, lavorando alla sua tesi contro il femminicidio. Ma Eden non è un rifugio, bensì un luogo arcano e ostile, dove natura e femminile si fondono in una forza primordiale e distruttiva. Isolati nella baita, i due scivolano in una spirale di paranoia, ossessione e crudeltà, in un crescendo di follia e violenza, sia fisica che psicologica.
Un film decisamente difficile, pesante sia nei contenuti che nella forma. Antichrist è un’opera che mette in scena il dolore originato dall'atto sessuale. Il senso di colpa di lei, per essersi abbandonata al piacere mentre il figlio moriva, è troppo grande da sopportare. Il sesso, da atto di unione, si trasforma in strumento di dominio, punizione e sofferenza. Qualcosa di sporco, inquietante, che alla fine deve essere reciso, estirpato. Lui, psicanalista razionale e distaccato, affronta il lutto con freddezza — lo vediamo piangere solo al funerale — e decide di fare della moglie la propria paziente, convinto di poterla curare con la sola forza della mente. Lei invece è devastata, cerca le sue labbra, ha bisogno del suo corpo, perché la carne sembra l’unico mezzo per colmare il vuoto. Ma lui la respinge, si sottrae, e l’incomunicabilità sessuale diventa un abisso spalancato tra i due. Il sesso, da esperienza vitale, si trasforma in contaminazione, perdita di controllo, discesa nell’oscurità.
Von Trier racconta questa trasformazione con immagini esplicite, scioccanti, ma mai gratuite. Ogni gesto, ogni inquadratura sembra suggerire che nella carne si annidi anche la morte, che eros e thanatos siano due facce dello stesso impulso originario. Antichrist è una seduta psicanalitica travestita da horror, in cui la diversa elaborazione del lutto tra uomo e donna diventa una lotta tra mente e corpo, controllo e caos, logos e natura.
Il film è denso di simboli e suggestioni stratificate. Volendo semplificare, si potrebbe leggerlo come la discesa agli inferi di una donna tormentata dal senso di colpa, che per sopravvivere accetta di essere “strega” e di incarnare la propria malvagità. Ma la lettura è tutt’altro che univoca. Alcuni vi hanno visto un attacco al femminile, una visione misogina che associa la donna alla natura intesa come entità crudele, istintiva, incontrollabile. Eppure, Antichrist è anche una critica feroce al maschile, al suo desiderio di dominare e razionalizzare ciò che sfugge al controllo.
Il film è dedicato a Tarkovskij, e non è difficile coglierne l’influenza nel linguaggio visivo e nella struttura. Ma io ci ho rivisto anche Possession di Andrzej Zulawski, con la sua esplorazione del dolore attraverso la follia e il delirio.
Dal punto di vista tecnico, Antichrist è di una bellezza disarmante. La regia di Von Trier alterna una compostezza quasi liturgica a esplosioni improvvise di violenza e caos, accentuate dalla fotografia visionaria e profonda di Anthony Dod Mantle.
Straordinarie anche le interpretazioni dei due protagonisti. Willem Dafoe — l’ho già detto che è il mio attore preferito? — è perfetto nella sua maschera di controllo e razionalità, mentre Charlotte Gainsbourg offre una prova di rara intensità fisica ed emotiva. Si spoglia, letteralmente e metaforicamente, portando sullo schermo una sofferenza che si fa carne, urlo e follia.
Come spesso si dice, Antichrist non è un film per tutti. Non lo consiglierei a chi fatica a entrare in sintonia con l’autore e non ha una certa affinità. Ma per me è stata un’esperienza. Faticosa, sì, ma anche necessaria. Una discesa verso il caos da cui non si esce indenni.
Film
Opus - Venera la tua stella
di Mark Anthony Green
Opus, thriller psicologico targato A24 e debutto alla regia di Mark Anthony Green, è un film che affronta il potere della celebrità e l'influenza dei nuovi mezzi di comunicazione. "Venera la tua stella" è il sottotitolo "appiccicato" dai distributori italiani, sempre più convinti che l'italiano medio abbia bisogno di un indizio sulla trama prima ancora di sedersi in sala.
La storia ruota attorno a Alfred Moretti (John Malkovich), leggendaria pop star degli anni '90 che, dopo trent’anni di silenzio, annuncia il suo ritorno sulla scena con un nuovo album. Per l'occasione, Moretti invita Ariel Ecton (Ayo Edebiri), una giovane ed emergente giornalista musicale, insieme a un gruppo selezionatissimo di giornalisti, influencer e addetti ai lavori, a una listening session esclusiva, organizzata nella sua villa blindata nascosta tra le colline californiane. Al suo arrivo, Ariel e gli altri sono costretti a consegnare i cellulari e ogni dispostivo tecnologico, ritrovandosi in un ambiente surreale, circondata da un gruppo di devoti seguaci di Moretti, che si comportano come membri di una setta. Subito si capisce che qualcosa non torna. L’atmosfera si fa sempre più tesa, le dinamiche tra i presenti assumono contorni strani e inquietanti, e la sparizione improvvisa di uno degli ospiti mette in luce il lato oscuro e diabolico del piano orchestrato da Moretti.
"Opus" è un film tecnicamente realizzato bene, nulla da dire, ma fin dalle prime inquadrature si intuisce la piega che prenderanno gli eventi, anche perché si tratta ormai di uno schema narrativo ampiamente utilizzato in altri titoli del genere. Mi vengono in mente Midsommar della stessa A24, Get Out, The Sacrament e persino Willy Wonka. C'è un un misterioso genio eccentrico adorato dalla sua setta e delle vittime predestinate pronte a essere sacrificate, quindi nulla di particolarmente originale. Un film che unisce il thriller, l'horror e il musical, e che, con toni surreali e grotteschi, racconta di divismo e culto di massa, accusando il mondo dei media – lo stesso mondo di cui Green è figlio, essendo stato a lungo direttore di una rivista di moda – che privilegia gli individui talentuosi a scapito della gente comune. John Malkovich offre un'interpretazione magnetica ed eccentrica ma francamente, faccio proprio fatica a vederlo nei panni di una pop star decaduta capace di esibirsi in tuta spaziale con movenze sexy, e paragonarsi a Michelangelo (sì, proprio quello della Cappella Sistina) nel presentare il suo ultimo album composto da preconfezionate canzonette pop da classifica realizzate appositamente per l’occasione da Nile Rodgers e The-Dream – un genere che, devo ammettere, non è esattamente di mio gusto. Il film si risolleva nel finale – interessante che il libro denuncia non faccia altro che alimentare l'idolo alle masse – ma complessivamente mi ha lasciato la sensazione di un film che avrebbe potuto osare di più. Non annoia ma nulla di memorabile.
Film
Freaks
di Tod Browning
"Disturbante" è un aggettivo abusato, lo so. Ma, onestamente, faccio fatica a trovarne uno più calzante per descrivere Freaks, il cult maledetto del 1932 firmato da Tod Browning. Al giorno d'oggi, dove il politicamente corretto trasforma Biancaneve in una impavida e cazzuta principessa che vive con sette coinquilini dalle abilità differenti, un film del genere, interpretato da veri fenomeni da baraccone, sarebbe impensabile.
La genesi del film è abbastanza nota agli appassionati. Reduce dal grande successo di Dracula, Browning venne contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per dirigere un horror e mettersi al passo con un genere che stava sbancando al botteghino. Ma invece di vampiri eleganti o cadaveri rianimati, Browning – che conosceva bene il mondo del circo, avendoci lavorato da giovane – decise di adattare un racconto breve di Tod Robbins, Spurs, e trasformarlo in un incubo umano, grottesco e crudele, ancora oggi impossibile da dimenticare.
La storia è ambientata in un circo itinerante dove si esibiscono i cosiddetti freaks, uomini e donne affetti da nanismo, malformazioni congenite, e deformità fisiche che li rendono oggetto di curiosità e repulsione. Hans, un uomo affetto da nanismo, è perdutamente innamorato della bella trapezista Cleopatra, alta, sinuosa e letale. La donna, approfittando della sua ingenuità, lo seduce per mettere le mani sulla sua eredità, con l’aiuto del suo amante, l’aitante forzuto Hercules. Ma tra i “mostri” del circo vige un codice non scritto: chi tocca uno di loro, tocca tutti. E quando la verità viene a galla, la vendetta arriva rapida, spietata, inarrestabile.
Sia durante le riprese che all’arrivo nei cinema, Freaks incontrò non pochi ostacoli. La presenza di veri fenomeni da baraccone e l’audacia con cui Browning li mostrava – senza filtri, senza pietà, ma anche senza derisione – generarono sconcerto, polemiche e un’ondata di rifiuto da parte del pubblico e della critica. La produzione tagliò le scene ritenute più sconvolgenti (la versione originale finiva con una scena di castrazione e mutilazione) nel tentativo di renderlo più digeribile. Ciononostante, il film fu un flop disastroso. La visione venne vietata in numerosi paesi europei, la Metro-Goldwyn-Mayer lo ritirò dalle sale dopo poche settimane, e Tod Browning non si riprese mai del tutto facendo fatica a trovare lavoro negli anni successivi.
Freaks è un pugno nello stomaco travestito da film horror. Ma il vero orrore non è nei corpi deformi dei suoi protagonisti, bensì nello sguardo degli "altri", nei sorrisi falsi, nella cattiveria borghese che giudica e schiaccia ciò che non comprende. Browning ribalta la prospettiva: i freaks, gli emarginati, sono gli unici a possedere una morale, una coerenza, una forma di purezza. I veri mostri sono gli "apparentemente normali", con i loro sorrisi da pubblicità e i loro cuori di piombo. L’atmosfera del circo è inquietante, satura di un’umanità deformata ma reale, fragile, tenera e crudele. Quando arriva la vendetta finale – in una notte di pioggia e fango, con i freaks che strisciano sotto i tendoni come un’orda primordiale – il film cambia volto. Non è più un melodramma bizzarro ma diventa un incubo morale.
Oggi è un film di culto, amato da registi, critici, outsider. È un’opera che ha il coraggio di non rassicurare, di non abbellire, di non mentire. In un’epoca che finge inclusività ma censura il reale, Freaks resta uno film ruvido, spietato ma sincero.
Film
Qui, altrove
Matthieu Simard
Attirato dalla recensione del libro: "un romanzo dove il perturbante si incarna in un’atmosfera densa di enigmi e di mistero ...degna del miglior cinema di David Lynch", mi sono letto Qui, Altrove di Matthieu Simard, un romanzo breve pubblicato da Zona 42 nella sua nuova collana Caronte curata da Luigi Musolino, dedicata al lato più oscuro della narrativa fantastica.
Nel tentativo di fuggire da un passato doloroso, Marie e Simon decidono di trasferirsi in un paesino sperduto tra i boschi sperando di concepire un figlio e ritrovare la serenità perduta. Ma il paese non è il rifugio accogliente che speravano. Gli abitanti rimasti, segnati da un’esistenza ruvida e da segreti non detti, li accolgono con freddezza o con un’inquietante invadenza. Da quando la fabbrica locale ha chiuso e una misteriosa antenna è stata installata, il posto sembra aver assunto un’aura di sospensione irreale, come se qualcosa di indefinibile lo stesse corrodendo dall’interno.
Matthieu Simard, autore canadese, costruisce la tensione giocando tutto sulle atmosfere. La sua scrittura è scarna ma evocativa, capace di insinuare una sottile inquietudine nel lettore. Il romanzo si muove tra le voci di Marie e Simon, restituendoci un’immersione intima nei loro pensieri, nelle loro paure, nelle ferite ancora aperte che li accompagnano. Il villaggio in cui si stabiliscono è descritto come un luogo enigmatico e ostile, immerso in un silenzio irreale. L’assenza di suoni – il violoncello di Marie che non viene mai suonato, il canto degli uccelli che sembra essersi estinto – amplifica il senso di isolamento e perdita.
La prima parte procede con un ritmo lento, quasi ipnotico, scandito da giorni che si ripetono uguali e da interazioni cariche di ambiguità. Poi, nella seconda metà, le crepe si aprono e scopriamo i motivi della fuga di Marie e Simon, il loro dolore prende forma, e il loro comportamento inizialmente criptico assume un senso più nitido.
Qui, Altrove è un romanzo sospeso, costruito su un dolore mai dichiarato del tutto, su spazi vuoti che parlano più delle parole. Ci sono momenti di rara poesia, malinconici e struggenti, e l’atmosfera è senza dubbio riuscita. Eppure, alla fine, non mi ha convinto fino in fondo. Forse mi aspettavo qualcosa di meno etereo, più incisivo. È come se il romanzo sfiorasse continuamente il mistero senza mai afferrarlo del tutto. Rimane un’esperienza affascinante, ma anche elusiva, come un sogno che al risveglio ti lascia addosso solo un vago senso di inquietudine.
Libri
Dogtooth
di Yorgos Lanthimos
Yorgos Lanthimos, il regista greco conosciuto per il pluripremiato Povere Creature, ha attirato per la prima volta l'attenzione del pubblico internazionale nel 2009 con Dogtooth (Kynodontas), un bizzarro e disturbante dramma familiare che si è aggiudicato il premio Un Certain Regard a Cannes e ottenuto una candidatura come miglior film straniero agli Oscar 2011.
Trovare le parole per descrivere Dogtooth non è semplice. Dramma psicologico? Cinema dell’assurdo? Distopia domestica? Qualunque sia la definizione, il film di Lanthimos non passa inosservato. Può affascinare o respingere, ma di certo non lascia indifferenti.
La trama, in fondo, è abbastanza semplice. Una famiglia composta da padre, madre e tre figli – due ragazze e un ragazzo – vive isolata in una grande villa con giardino e piscina. Fin qui nulla di strano, se non fosse che i ragazzi non hanno mai messo piede fuori casa, non hanno mai visto il mondo esterno e sono cresciuti con una versione completamente distorta della realtà, creata e manipolata dai genitori. Non sanno cosa ci sia oltre il cancello, non hanno accesso alla televisione, ai giornali o alla cultura esterna, e vengono istruiti con un linguaggio alterato per impedirgli di sviluppare una consapevolezza autonoma. Per loro, un gatto è l’essere più pericoloso al mondo, gli aeroplani sono piccoli oggetti che cadono dal cielo e la parola "zombie" indica un innocuo fiorellino giallo. L’unico modo per poter lasciare la casa, dicono i genitori, è perdere un canino superiore. Solo allora si diventa adulti.
Tutto procede secondo questo schema assurdo finché Christina, una donna che il padre porta in casa per soddisfare i bisogni sessuali del figlio, introduce nella fragile bolla familiare piccoli elementi di ribellione. Basta poco per incrinare il sistema, e ciò che segue è una lenta, angosciante discesa verso l’inevitabile.
Dogtooth è un film claustrofobico e disturbante. La regia di Lanthimos è statica, le inquadrature fredde e impersonali, i dialoghi asettici e privi di empatia, come se i personaggi fossero cavie di un esperimento sociale. Il tutto amplifica il senso di disagio, lasciando lo spettatore spaesato e senza punti di riferimento.
Si può leggere Dogtooth come una metafora politica, un’allegoria dei regimi totalitari che mantengono il popolo nell’ignoranza per esercitare il controllo assoluto. Oppure come una critica alla famiglia come istituzione repressiva, un microcosmo che può trasformarsi in una prigione emotiva e culturale. Ma al di là delle interpretazioni, ciò che resta è la sensazione di aver assistito a qualcosa di profondamente perturbante.
Il film non offre facili risposte. Lascia una porta aperta, ma non garantisce alcuna via di fuga. Dogtooth non è un film per tutti, può disturbare e irritare, è un cinema radicale, estremo, più autoriale di ogni altra opera successiva di Lanthimos. Eppure, già qui, si intravede tutta la sua poetica, con quelle tematiche che torneranno nei suoi film più conosciuti dal grande pubblico.
Film
E non liberarci dal male
di Joël Séria
Censurato in Francia e in altri paesi per le sue tematiche provocatorie e dissacranti, E non liberarci dal male (Mais ne nous délivrez pas du mal, 1971) di Joël Séria è un film che inquieta e affascina al tempo stesso. Ispirato al caso Parker-Hulme – lo stesso che diede origine a Creature del cielo di Peter Jackson – racconta una discesa vertiginosa negli abissi della giovinezza corrotta, dove la trasgressione si confonde con la seduzione del male.
Anne (Jeanne Goupil) e Lore (Catherine Wagner), due adolescenti benestanti cresciute in un ambiente cattolico repressivo, stringono un legame di amicizia ossessivo e morboso. Tra le mura del collegio, insofferenti alle regole e annoiate da una realtà che non le soddisfa, scoprono nella trasgressione un nuovo gioco, un modo per sentirsi vive. Affascinate dall’idea del male come atto di ribellione assoluta, il loro viaggio nell'oscurità inizia con piccoli atti di disobbedienza e giochi maliziosi alla scoperta della loro sessualità, finendo – con il sopraggiungere delle vacanze – per degenerare in rituali satanici, seduzioni avventate di uomini fragili e crudeltà di ogni genere. Quando il loro universo di fantasie oscure si scontra con la realtà, l’unico epilogo possibile è una tragedia rituale che suggella il loro patto eterno.
Joël Séria costruisce un film diabolico, pervaso di erotismo e dissacrazione, che racconta il progressivo disfacimento morale di due adolescenti (in realtà le attrici erano appena maggiorenni, ma nel film dimostrano molti anni di meno), tra insofferenza religiosa, primi desideri sessuali e voglia di evasione. Anne e Lore non sono vittime di un mondo crudele, ma due ragazze che cercano di sfuggire alla monotonia della loro esistenza e alle loro famiglie borghesi, più attente alle apparenze che ai sentimenti, consegnandosi al male, a Satana e alla propria autodistruzione. Così, in una torrida estate francese, danno fuoco a una fattoria, celebrano messe nere con un giardiniere mentalmente instabile, torturano animali, si offrono agli uomini con malizia. E infine, compiono un omicidio.
Il contrasto tra la loro innocenza apparente e la brutalità delle loro azioni amplifica il senso di inquietudine. I loro sorrisi, la loro leggerezza, rendono tutto ancora più disturbante. Il film culmina in una scena finale che ha il sapore di un sacrificio blasfemo.
E non liberarci dal male ancora oggi conserva intatta la sua carica disturbante. Un film pruriginoso, provocatorio, spietato, che non offre risposte, ma affonda le mani nel torbido dell’adolescenza, portando all'estremo i suoi incubi più morbosi.
Film
Cecità
José Saramago
Non avevo mai letto nulla di José Saramago prima d’ora, e devo dire che l’approccio al suo stile non è stato immediato. Ma di questo parlerò più avanti. Cecità, pubblicato nel 1995, è probabilmente il suo romanzo più noto, un'opera che lo ha portato a vincere il Premio Nobel per la letteratura nel 1998. Il titolo originale, Ensaio sobre a Cegueira (Saggio sulla cecità), è stato modificato nella traduzione italiana per evitare che il libro venisse scambiato per un saggio filosofico.
Tutto ha inizio in un’anonima città quando un uomo, fermo al semaforo, diventa improvvisamente cieco. Ma non è un buio che lo avvolge, bensì un bianco lattiginoso, come se fosse immerso in una spessa nebbia. Poco dopo, chiunque entri in contatto con lui perde la vista allo stesso modo. Il medico che lo visita, i pazienti in sala d’attesa, la moglie del medico. Il contagio si propaga con una rapidità allarmante fino a costringere le autorità a intervenire. Per arginare l’epidemia, i primi ciechi vengono confinati in un ex manicomio sotto sorveglianza militare. Quello che dovrebbe essere un centro di contenimento si trasforma presto in un inferno: le regole del vivere civile crollano, emergono violenza, sopraffazione, fame e abbrutimento. L’umanità regredisce a uno stato primitivo, governata dalla legge del più forte. In questo scenario apocalittico, c’è una sola persona che ancora vede: la moglie del medico. Per ragioni inspiegabili, la cecità non l’ha colpita, e grazie alla sua vista cerca di guidare il piccolo gruppo con cui è rinchiusa, diventando una sorta di Virgilio in un girone infernale. Quando anche il mondo esterno soccombe all’epidemia, la città si trasforma in una landa desolata, popolata da ciechi che vagano alla ricerca di cibo, di riparo, di un senso in tutto questo caos.
Ammetto che inizialmente ho trovato difficoltà a entrare in sintonia con lo stile di Saramago. La sua prosa è assai particolare. Pochissimi a capo, periodi lunghissimi, nessun segno che indichi i dialoghi, solo virgole e punti per separare le frasi. Una scelta stilistica che può apparire ostica, ma che si rivela perfettamente coerente con la narrazione. I personaggi non hanno nomi, sono definiti solo dal loro ruolo (il medico, la moglie del medico, il primo cieco, la ragazza con gli occhiali scuri), quasi a suggerire che potrebbero essere chiunque. E anche il lettore, in un certo senso, diventa cieco, come se fosse costretto a "sentire" la storia più che a leggerla. La parte ambientata nel manicomio-lager è stata, per me, la più difficile da affrontare. Non perché non sia abituato a storie dure o a scenari estremi, ma perché Saramago non addolcisce nulla: la fame, la sporcizia, la violenza sessuale, la lotta per il potere emergono con una crudezza spietata, senza filtri. Ci sono momenti in cui il romanzo diventa soffocante, quasi insopportabile, ma proprio in questo sta la sua forza. È un libro che mette a disagio, che spinge a guardare in faccia il lato più oscuro dell’umanità. Nonostante tutto, in questo incubo collettivo, ci sono anche lampi di luce: gesti di solidarietà, attimi di umanità che resistono al degrado. La moglie del medico, con la sua vista, non è solo un testimone del crollo della civiltà, ma anche una guida, una speranza. E il finale, con quella frase potentissima – "secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo ciechi, ciechi che, pur vedendo, non vedono" – lascia il lettore con una domanda aperta: forse la cecità più spaventosa non è quella fisica, ma quella morale?
Cecità non è un libro semplice né confortante. È disturbante, viscerale, in certi passaggi persino respingente. Ma è anche un libro capace di scuotere e di far riflettere. Sicuramente difficile da dimenticare.
Libri
Monica e il desiderio
di Ingmar Bergman
Monica e il desiderio (Sommaren med Monika, letteralmente L'estate con Monika) è un film del 1953 diretto da Ingmar Bergman, tratto da un racconto di Per Anders Fogelström, che collaborò anche all’adattamento insieme al regista. Girato con un budget ridotto quando Bergman aveva appena trentadue anni, venne inizialmente considerato un’opera minore, tanto che in Italia arrivò solo otto anni dopo, quando Jean-Luc Godard ne riconobbe il valore e contribuì a consacrarlo tra i grandi film del maestro svedese.
Alla sua uscita, il film fece scandalo e subì pesanti tagli da parte della censura, che ne eliminò le scene più audaci. A sconvolgere non era solo la carica erotica delle immagini, ma soprattutto la presenza magnetica e travolgente di Harriet Andersson, allora diciannovenne, che con la sua sensualità spontanea e ribelle portava sullo schermo una femminilità nuova e provocatoria per l’epoca.
Harry (Lars Ekborg) e Monica (Harriet Andersson) sono due giovani commessi intrappolati in un’esistenza grigia e insoddisfacente. Lui, timido e introverso, vive con un padre malato e affronta giornate monotone in un lavoro senza prospettive. Lei, sfrontata e ribelle, cresce in un ambiente proletario soffocante, tra fratelli chiassosi e un padre violento. Monica sogna di fuggire, di lasciarsi alle spalle la miseria e la monotonia della sua vita. Quando si incontrano in uno squallido bar di Stoccolma, tra i due scatta subito qualcosa. Si cercano, si innamorano, si illudono di poter trovare insieme una via di fuga dalla realtà. Dopo l’ennesima lite in famiglia, Monica scappa di casa e si rifugia da Harry. Il giorno dopo, lui si fa licenziare e ruba il motoscafo del padre. Insieme prendono il largo, abbandonando la città per perdersi nell’arcipelago svedese. L’estate diventa un sogno di libertà assoluta, un idillio vissuto all’insegna dell’amore, della natura selvaggia e dell’incoscienza. Ma l’estate finisce. Sempre. Il denaro si esaurisce, la fame inizia a farsi sentire e Monica scopre di essere incinta. Il ritorno a Stoccolma segna il brusco risveglio. Harry, determinato a costruire un futuro stabile per la loro famiglia, la sposa e cerca di affrontare le nuove responsabilità. Ma Monica rifiuta l’idea di una vita fatta di sacrifici e doveri. La sua voglia di evadere non si è mai davvero spenta. Presto si stanca della routine domestica e si abbandona a nuove avventure. Quando Harry scopre il tradimento, l’illusione si frantuma definitivamente. Monica se ne va, inseguendo il suo desiderio di libertà. Harry resta con la loro bambina, consapevole che ciò che rimane di quell’estate non è altro che un ricordo destinato a sbiadire nel tempo.
Il cuore pulsante del film è Harriet Andersson con la sua prorompente carica erotica e il suo spirito fragile e ribelle allo stesso tempo. Bergman scrive il personaggio di Monica su misura per lei, e la sua interpretazione è un’esplosione di sensualità, vitalità e disperazione. È una figura complessa, che incarna la libertà e l’insofferenza, l’attrazione e la fuga. Monica è capace di trasformare ogni scena con un gesto, un sorriso, uno sguardo di sfida. La sua sessualità è libera, istintiva, lontana dai cliché dell’epoca. Harriet Andersson divenne la musa di Bergman, ma anche la sua compagna nella vita per un intero decennio, lavorando con lui in ben nove film.
L’iconico sguardo in macchina della Andersson – quel lungo, silenzioso primo piano che Godard definirà "il più triste della storia del cinema" – ci lascia immobili. Non è solo uno sguardo, è un abisso. In quegli occhi c’è la consapevolezza di una vita che non sarà mai come la si era immaginata. È il punto in cui il desiderio incontra la realtà e si sgretola.
Girato in un bianco e nero di struggente bellezza, Monica e il desiderio è il ritratto di una passione che si accende come un fuoco estivo, brucia intensamente e si spegne lasciando dietro di sé solo il profumo acre della nostalgia. Bergman cattura l’illusione dell’amore assoluto, la ribellione giovanile e l’ebbrezza della libertà con una sincerità disarmante. E poi c’è lei, Monica, indomabile e sfuggente, seducente come il sole di un pomeriggio che non vorresti finisse mai. Difficile non innamorarsi di lei. Impossibile dimenticarla.
Film
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto
di Elio Petri
Un pugno nello stomaco. Dev'essere stato questo l'effetto di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto quando uscì nelle sale italiane nel 1970, in un periodo di forte tensione politica e sociale. Un opera scomoda, corrosiva, che rischiò la censura e il sequestro per la sua critica feroce alle istituzioni, in particolare alla polizia e al potere autoritario in Italia. Alla fine, il film di Elio Petri riuscì ad arrivare nelle sale, vincendo il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes e, l'anno successivo, l'Oscar come miglior film straniero.
Roma. Il capo della sezione omicidi (Gian Maria Volonté), proprio nel giorno della sua promozione all'ufficio politico, uccide l'amante Augusta Terzi (Florinda Bolkan). Invece di coprire le sue tracce, l'alto funzionario della polizia, che rimarrà senza nome, fa di tutto per seminare indizi che lo collegano al crimine, sfidando il sistema e mettendo alla prova fino a che punto il suo potere possa proteggerlo. Per quanto si sforzi di dare prove della sua colpevolezza, il sistema rifiuta di prenderle in considerazione. I suoi sottoposti, invece di sospettarlo, lo giustificano, lo proteggono, cercano spiegazioni alternative. Anche quando un testimone chiave, un idraulico, si trova davanti a lui e potrebbe incastrarlo, il timore reverenziale e il clima di omertà lo spingono al silenzio. Fino a che punto può spingersi un uomo investito di autorità? Quanto è disposto il sistema a proteggere se stesso, anche di fronte all'evidenza di un delitto?
Il racconto si dipana tra presente e flashback, dove emerge il rapporto morboso con Augusta, un gioco di potere e seduzione in cui lei lo sfida a dimostrare di essere un vero uomo, un'autorità assoluta. Una sfida che lo porterà a compiere l'omicidio e a usarlo come esperimento politico e socale.
Elio Petri costruisce un thriller psicoanalitico sull'abuso del potere che critica e analizza in chiave grottesca l'autoritarismo e l'impunità degli apparati polizieschi. Scritto dal regista insieme a Ugo Pirro, il film fece scalpore sopratutto nel nostro paese perchè uscì appena due mesi dopo la strage di piazza Fontana e la morte dell'anarchico Pinelli in un momento delicatissimo della storia italiana. Il film sembra anticipare il clima che avrebbe caratterizzato gli anni di piombo, con uno stato che si regge sulla repressione e su un potere che non sbaglia mai. È un film politico, profondamente legato al suo periodo storico, che unisce il tormento psicologico dostoevskiano alla visione grottesca e claustrofobica del potere tipica di Kafka.
Gian Maria Volonté è monumentale. Il suo personaggio è un uomo arrogante, sprezzante, con un accento marcato e un piglio tronfio che nasconde un'insicurezza profonda. La sua interpretazione è un continuo gioco tra delirio e lucidità, tra volontà di controllo e bisogno di autoumiliazione. E poi c'è la colonna sonora di Ennio Morricone, uno dei temi più famosi della sua carriera, un tango ambiguo con il mandolino iniziale che evoca l'origine siciliana del protagonista.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è un film che non invecchia, anzi, con il tempo diventa ancora più inquietante. Il suo messaggio è chiaro: la giustizia non è uguale per tutti, e il potere può permettersi tutto, anche di uccidere alla luce del sole. E se nessuno osa fermarlo, forse il problema non è solo chi comanda, ma chi obbedisce senza farsi domande.
Film
Audition
di Takashi Miike
La prima volta che ho visto Audition di Takashi Miike, in una videocassetta a casa di un amico, non avevo idea di cosa mi aspettasse. Mi affascinavano gli horror giapponesi, che in quel periodo stavano proliferando, e avevo già visto film estremi e disturbanti. Tuttavia con Audition, di cui ignoravo la svolta nella trama, avevo un aspettativa diversa. Forse il titolo, forse la premessa da dramma sentimentale. Fatto sta che mi ha colto completamente alla sprovvista.
Quando il film viene presentato in anteprima al Festival di Rotterdam nel gennaio del 2000, Miike ha già diretto una decina di film. È noto per il suo stile prolifico e anticonvenzionale — in trent'anni di carriera girerà più di un centinaio di film spaziando tra i generi più disparati — ma è proprio con Audition, tratto dall’omonimo romanzo di Ryu Murakami, che il suo nome esplode a livello internazionale, consacrandolo come uno dei cineasti più estremi e provocatori del panorama giapponese.
Shigeharu Aoyama (Ryo Ishibashi) è un uomo di mezza età rimasto vedovo, che vive solo con il figlio adolescente. Su insistenza di quest’ultimo, decide di rimettersi in gioco e cercare una nuova moglie. L’amico Yoshikawa (Jun Kunimura), produttore cinematografico, gli propone una idea bizzarra, quella di organizzare un’audizione per un film inesistente, in modo da poter selezionare, tra tante giovani aspiranti attrici, la donna perfetta per Aoyama. È così che l’uomo incontra Asami Yamazaki (Eihi Shiina), una giovane di ventiquattro anni, eterea, timida e misteriosa. Aoyama ne è subito rapito. Asami sembra delicata, quasi irreale, con una storia di sofferenza che la rende ancora più affascinante. Ma dietro quel volto angelico si nasconde qualcosa di oscuro. Un passato di dolore, abusi e violenza repressa, che trascinerà Aoyama in un incubo a occhi aperti.
La forza di Audition sta proprio nella sua costruzione e nella sua messa in scena. Inizialmente il film sembra una semplice storia d’amore, quasi una commedia grottesca, in cui un uomo di mezza età si affida a una finta audizione organizzata dall’amico per trovare moglie, sfogliando i profili delle candidate con la stessa leggerezza con cui oggi si "swippa" su un’app di incontri. La donna perfetta deve essere giovane, bella, gentile, devota, pronta a soddisfare ogni necessità dell’uomo. Ma Asami non è un oggetto. È il riflesso distorto di una società patriarcale che impone alle donne di essere compiacenti, di curare il dolore degli uomini dimenticandosi del proprio. E quando la sua maschera cade, quando Aoyama si dimostra incapace di darle quell’amore assoluto che lei chiede, l’uomo diventa la vittima perfetta su cui riversare tutta la sofferenza accumulata da anni di solitudine, abusi e molestie.
Miike costruisce un film che inizia come un dramma sentimentale, che si trasforma in un noir lynchano sospeso tra realtà e incubo — l'uomo nel sacco ha la stessa potenza inquietante del barbone di Mulholland Drive — per poi virare nel finale in un horror estremo ai limiti della sopportazione visiva. Audition è un film che gioca sull’ambiguità, lasciandoci costantemente nel dubbio su cosa sia reale e cosa sia frutto della mente dei protagonisti.
Un cult movie, un classico moderno sulla violenza inflitta e ricevuta, sulla fragilità che si trasforma in disperazione. Un’illusione d’amore che si sgretola rivelando il volto della follia. Forse non è un horror nel senso più tradizionale del termine, ma una volta visto, è impossibile dimenticarlo. Sicuramente il capolavoro di Miike.
Film
Titane
di Julia Ducournau
Quando il cinema francese decide di osare, sa essere disturbante come pochi. E per disturbante intendo qualcosa che ti si insinua sotto la pelle, lacera e lascia il segno. Titane, diretto da Julia Ducournau e vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2021, è un film estremo, provocatore e spiazzante.
Alexia (Agathe Rousselle) porta nel cranio una placca di titanio, souvenir di un incidente d’auto avuto da bambina. Forse è per questo che, da adulta, sembra più macchina che umana. Lavora come ballerina di lap dance alle fiere automobilistiche, strusciandosi su auto fiammanti, ipersessualizzata e inaccessibile. Un sogno proibito per chi la osserva, ma non per le automobili, verso cui prova un’attrazione così viscerale da arrivare ad avere un rapporto sessuale con una Cadillac (probabilmente con la leva del cambio, ma meglio non farsi troppe domande). Il rapporto con gli esseri umani invece è un pò più problematico e chiunque osi avvicinarsi troppo, uomo o donna che sia, finisce con un fermaglio da capelli piantato nel cranio. La situazione precipita quando la nostra protagonista compie una strage in una festa privata e si ritrova braccata dalla polizia. In cerca di una via di fuga, Alexia decide di compiere la metamorfosi più estrema, si sfigura il volto e assume l’identità di Adrien, il figlio scomparso di un comandante dei pompieri (Vincent Lindon), un uomo che si aggrappa disperatamente all’illusione di aver ritrovato il figlio perduto. Nel frattempo, piccolo dettaglio da non trascurare, Alexia scopre di essere incinta. Dell'auto.
Titane è un body horror senza freni, disturbante, ed estremo. Il suono delle ossa che si spezzano, il metallo che stride sulla pelle, lo strazio del corpo che si lacera diventa così irritante e fastidioso, che a tratti bisogna distogliere lo sguardo dallo schermo. Le influenze di Crash di Cronenberg e di Tetsuo di Tsukamoto sono evidenti, ma Ducournau ci mette del suo, mescolando il disgusto con un’ironia sottile e irriverente. Basta vedere la scena dell’omicidio compiuto con uno sgabello sulle note di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli, o il momento surreale in cui Alexia canta la Macarena durante una respirazione bocca a bocca. È un horror del corpo, ma anche dell’identità. In un mondo ossessionato dalle etichette, Alexia diventa un’entità fluida, senza un nome, senza un genere, senza più un’origine chiara. Un corpo in costante trasformazione, né uomo né donna, né carne né metallo.
Dall’altro lato, Vincent, il comandante dei pompieri, è il contrappeso umano, ma non meno devastato. La sua mascolinità ipertrofica è solo un guscio fragile, alimentato da steroidi e disperazione. Il suo bisogno d’amore è così cieco da non voler vedere la realtà, abbracciando l’inganno con una dolcezza straziante. Il loro rapporto è un paradosso che funziona. Un gioco di specchi tra corpi spezzati che cercano di ripararsi a vicenda, senza mai riuscirci davvero.
Probabilmente Titane verrà ricordato come "il film in cui una ragazza resta incinta dopo aver fatto sesso con un’automobile", senza ombra di dubbio, ma è anche una storia d’amore. Malata, deviata, dolorosa e impossibile, ma pur sempre amore. Il bisogno disperato di essere accettati, di essere visti, di essere amati nonostante tutto. Anche se stai secernendo olio motore dalla vagina.
Un film che lascia il segno, come una cicatrice sul metallo.

The Place
di Paolo Genovese
Dopo il successo di Perfetti Sconosciuti, il regista romano Paolo Genovese realizza nel 2017 un film insolito e per certi versi coraggioso. Adattamento della serie americana The Booth at the End, The Place è una sorta di thriller esistenziale, decisamente teatrale, basato prevalentemente su dialoghi e tensione psicologica.
Il film è ambientato tutto all’interno di un bar dove un enigmatico personaggio senza nome (Valerio Mastandrea), seduto sempre allo stesso tavolo, prende appunti su una vissuta agenda, mentre una sfilata di personaggi, si alternano, sedendosi di fronte a lui, con richieste che vanno dal disperato al delirante. Un poliziotto che cerca suo figlio (Marco Giallini), una suora che ha perso la fede (Alba Rohrwacher), un padre disperato che vuole salvare la vita del proprio bambino (Vinicio Marchioni), un meccanico che sogna una notte di sesso con una pinup da calendario (Rocco Papapaleo), una donna anziana che desidera che il marito guarisca (Giulia Lazzarini), un delinquente che vuole liberarsi del padre oppressivo (Silvio Muccino), un cieco che vorrebbe riacquistare la vista (Alessandro Borghi), una ragazza ossessionata dalla bellezza (Silvia D'Amico) e un altra che vuole riconquistare suo marito (Vittoria Puccini). Lui ascolta, prende appunti e poi propone una soluzione. Ma niente è gratis, ogni desiderio ha un prezzo e la moneta di scambio è un’azione – spesso immorale, talvolta orribile – che i personaggi dovranno compiere. Il punto non è tanto cosa vogliono, ma fino a che punto sono disposti a spingersi per ottenerlo.
A osservare il tutto c’è la cameriera del bar (Sabrina Ferilli), incuriosita da quell’uomo che passa le giornate a parlare con chi gli siede di fronte, che a fine serata si siede al suo tavolo cercando di svelare il mistero dietro quel volto impassibile. Chi è davvero? Un emissario divino? Il diavolo in incognito? O semplicemente uno specchio della natura umana, capace solo di mostrare il peggio che si cela dentro ognuno di noi?
Il film punta tutto su un’impostazione teatrale, un cast corale, un unico spazio, pochi movimenti, tanti primi piani e dialoghi a raffica. Scelta affascinante, ma alla lunga un po’ ripetitiva. Il cinema di solito si muove, qui invece resta fermo, lasciando allo spettatore il compito di immaginare cosa accada fuori. Più che un film, sembra di leggere un romanzo.
Mastandrea è perfetto nel ruolo dell’enigmatico burattinaio, cupo, imperscrutabile, con un velo di malinconia che lo rende ancora più inquietante. Gli altri? Più che personaggi, sembrano archetipi con poco spessore. E poi alcuni proprio non li reggo, ma questo è un problema mio.
Genovese ha il merito di non essersi adagiato sul successo di Perfetti Sconosciuti, provando una strada più rischiosa e anticommerciale. Peccato che The Place non inciampi tanto sull’idea – che non è neanche originalissima – quanto sulla sua realizzazione. Tante domande, poche risposte, e nella seconda metà il film si sfilaccia con personaggi che spariscono, trame che si annodano senza sciogliersi, e un finale che non incide quanto dovrebbe.
Un’occasione mancata? Forse. Ma almeno è un tentativo di portare qualcosa di diverso nel cinema italiano.
Film
Memorie di un assassino
di Bong Joon-ho
Memorie di un assassino (Memories of Murder) è il secondo lungometraggio di Bong Joon-ho, regista sudcoreano che ha conquistato il pubblico internazionale con film come The Host, il distopico Snowpiercer e soprattutto Parasite, vincitore dell’Oscar per il miglior film.
Ispirato ai crimini del primo serial killer conosciuto nella storia della Corea del Sud, il film è stato distribuito in patria nel 2003, ottenendo un ampio consenso di critica e pubblico. In Italia, invece, è arrivato solo quattro anni più tardi, direttamente in home video, per poi essere riproposto al cinema nel 2020 grazie al successo di Parasite.
Al di là dell'ennesima storpiatura italiana del titolo originale — Memorie di un assassino è ben diverso da Memorie di un omicidio — il film è ambientato negli anni ottanta, in un piccolo paese di provincia della Corea del Sud, dove si indaga su una serie di omicidi di donne, ritrovate legate e strangolate con la loro stessa biancheria, uccise probabilmente dalla stessa mano. Il detective locale Park Doo-man (Song Kang-ho) e il collega Cho Yong-gu, sono più abituati a pestaggi e confessioni estorte che a vere indagini, e presto si rendono conto di trovarsi di fronte a qualcosa di più grande di loro. Da Seoul arriva il più metodico e razionale Seo Tae-yoon (Kim Sang-kyung), pronto a dare una mano nell'indagine, ma ben presto anche lui viene travolto dall’incapacità della polizia e dalla frustrazione dell’impotenza, finendo per adottare la stessa violenza dei colleghi pur di far confessare l'uomo che sospetta essere il serial killer.
Bong Joon-ho costruisce un thriller cupo e stratificato, in cui la tensione non deriva solo dalla caccia all'assassino, ma anche dall’incapacità delle istituzioni di far fronte all’orrore. La polizia di provincia, incapace di risolvere il caso, appare inadeguata, arruffona e, soprattutto, violenta. L’investigatore che arriva da Seoul, con l’aspettativa di mettere ordine, si rivela ugualmente impotente. Il regista coreano, piuttosto che concentrarsi sul serial killer e sulle ipotesi relative alla sua identità, preferisce compiere una profonda critica sociale — nel periodo storico in cui è ambientato il film la Corea del Sud si trovava sotto dittatura — esplorando le fragilità, ma anche la tenacia, dei suoi personaggi, sullo sfondo di una Corea deprimente e desolata, fatta di campi fangosi, baracche e locande fumose.
Il finale irrisolto di Memorie di un assassino probabilmente scontenterà il giallista più incallito, ma, dato che non siamo a Hollywood bensì in Corea, alla fine risulta non solo credibile, ma anche spiazzante.
Ottimo.

I due mondi di Charly
di Ralph Nelson
Avendo finito da poco di leggere il libro Fiori di Algernon, con gli occhi ancora lucidi, non potevo fare a meno di recuperare la sua trasposizione cinematografica, I due mondi di Charly, film del 1968 diretto da Ralph Nelson e vincitore dell'Oscar per Cliff Robertson come miglior attore protagonista.
Il film racconta la storia di Charly Gordon (Cliff Robertson), un uomo con ritardo mentale che lavora in un forno e frequenta un corso serale per migliorarsi, sotto lo sguardo benevolo della psicologa Alice (Claire Bloom). Un giorno Charly viene scelto come volontario per un esperimento, già tentato con successo su di un topo, che gli permette di acquisire un'intelligenza fuori dal comune. Da uomo semplice e genuino, Charly si trasforma in un vero genio, entrando a far parte del gruppo di ricerca della clinica e innamorandosi di Alice. Tutto sembra andare per il meglio, finché non scopre che l'effetto dell’operazione è solo temporaneo. E così, dopo un inevitabile crollo emotivo, Charly lascia ai dottori i suoi appunti, si allontana da Alice e torna ad essere quello di prima, in una chiusura che più amara non si può.
Buona l'interpretazione di Robertson, capace di gestire l'evoluzione del suo personaggio, dal candore infantile alla sicurezza spavalda, fino alla disperata consapevolezza della perdita. La regia di Nelson, invece, cerca di tradurre il tumulto interiore di Charly con split screen, colori psichedelici e montaggi frenetici, il che sarà anche stato innovativo all’epoca, ma oggi appare parecchio datato.
Era prevedibile che il film non potesse reggere il confronto con il libro, ma I due mondi di Charly semplifica drasticamente la storia, riducendola (quasi) a una love story tra un uomo "speciale" e la sua psicologa. Certo, il tema dell’emarginazione è presente, e alcune scene – come quella del ristorante, in cui Charly ormai intelligente osserva un cameriere con difficoltà cognitive venire deriso, o quella del congresso, dove annuncia la sua imminente regressione – colpiscono nel segno. Tuttavia, manca completamente la parte più dolorosa e fondamentale del romanzo, ovvero il rapporto con la madre, che lo ha rifiutato perché "difettoso", relegandolo in un istituto quando è nata la sorella. Manca il senso di tragedia dietro la sua presa di coscienza, il tema esistenziale, la complessità del rapporto con Alice, i problemi sessuali.
Nel film tutto questo è appena accennato, quasi banalizzato, ed è un peccato, perché era proprio la componente emotiva e psicologica a rendere il romanzo un'esperienza così potente. I due mondi di Charly resta un film interessante, ma se devo darvi un consiglio lasciate stare il film e leggete il libro.
Film
Anora
di Sean Baker
Sean Baker è un giovane regista americano attivo da una ventina di anni nel cinema indipendente. Non conosco il suo cinema e probabilmente se Anora non avesse vinto la palma d'oro al 77° Festival di Cannes ottenendo diverse candidature agli oscar*, sarebbe continuato a rimanere, almeno per me, uno sconosciuto.
La storia vede come protagonista Ani (Mikey Madison) una spogliarellista di origini russe che si guadagna da vivere nei nightclub di New York. Quando incontra Vanya (Mark Ejdelštejn), figlio viziato di un oligarca russo, perso tra droghe, soldi facili e un'eterna adolescenza dorata, scatta la scintilla. Lui la paga per fingere di essere la sua ragazza per una settimana, poi, in un delirio di euforia e incoscienza, le chiede di sposarlo. Una fuga a Las Vegas, un matrimonio lampo, l’illusione di un futuro diverso. Ma come in tutte le favole sbagliate, il sogno si spezza brutalmente. I genitori di Vanya, potenti e senza scrupoli, non possono tollerare che il loro figlio si sia legato a una "prostituta". Mandano i loro uomini a risolvere la questione, e Vanya, che fino a un momento prima sembrava pronto a sfidare il mondo per Ani, scappa come un coniglio, lasciando sua "moglie" nelle mani degli scagnozzi. Ani, però, non è una tipa che si lascia spazzare via senza combattere. Si dimena, protesta, si aggrappa a quell’illusione con le unghie e con i denti. Ma il suo destino è già scritto, e quello che sembrava un biglietto di sola andata per un futuro dorato si rivela un’illusione, dissolvendosi nell’aria con la stessa rapidità con cui era nato.
Scritto dallo stesso Baker, Anora è una rilettura moderna e crudele di Cenerentola, divisa in tre atti ben distinti. La prima parte sembra una versione cinica e spinta di Pretty Woman. Ma Ani non è una principessa da salvare, ma una ragazza ammaliata dalla ricchezza di un giovane e irresponsabile rampollo di un magnate moscovita, che usa il proprio corpo e la sua sensualità per sfruttare l'occasione della vita.
La seconda parte, con l’arrivo degli scagnozzi dell’oligarca russo, la favola si incrina e il film si trasforma in una commedia noir dai toni grotteschi, con echi tarantiniani e rimandi a Tutto in una notte e Una notte da leoni per ritmo e dinamiche.
Infine, l’ultima parte, il film si fa malinconico. Strappata da quel mondo di lusso che aveva solo sfiorato, Ani trova nell’unica figura umana del film, Igor (Yura Borisov), la guardia del corpo mandata a sorvegliarla, un’inaspettata spalla su cui appoggiarsi. Non c’è romanticismo, solo la consapevolezza di un vuoto che nessuna illusione può colmare. Il finale è amaro, disilluso, privo di retorica. La favola del sogno americano si sgretola sotto il peso della realtà.
Anora è un film brillante e frizzante, una storia d’amore senza amore, un’illusione che si dissolve sotto i riflettori di un'america che mastica e sputa senza guardarsi indietro. Non è un film rivoluzionario, né forse tra i più memorabili, ma ha un’energia pulsante e un ritmo che cattura. A tenere tutto in piedi c’è Mikey Madison, straordinaria nel dare anima e corpo a un personaggio che oscilla tra cinismo e disperazione, tra forza e fragilità.
(*) Nota a margine. Anora ha trionfato agli Oscar, portando a casa cinque statuette, tra cui quelle per il Miglior Film e la Migliore Attrice Protagonista. Un successo che ha acceso il dibattito sui social, con molti a mettere in discussione il reale valore del film. Come se un Oscar fosse automaticamente sinonimo di capolavoro. Del resto, il fatto che registi come Kubrick, Hitchcock o Lynch non abbiano mai vinto un oscar dovrebbe già far riflettere sul peso effettivo di questi riconoscimenti.
Film
Fiori per Algernon
Daniel Keyes
Non conoscevo Fiori per Algernon. Eppure è in circolazione da più di mezzo secolo, ha vinto numerosi premi, ispirato adattamenti cinematografici e viene spesso definito un romanzo di fantascienza – anche se trovo questa etichetta riduttiva, quasi fuorviante. Mi è stato regalato e, una volta terminata la lettura, ho sentito il bisogno di ringraziare chi mi ha fatto scoprire questo gioiello.
Il libro è stato scritto da Daniel Keyes, psicologo e docente statunitense impegnato nel sostegno a ragazzi con difficoltà di apprendimento. Pubblicato nel 1966, nato inizialmente come racconto breve, il libro è una sorta di moderno Frankenstein che ti porta a una profonda riflessione e ti lascia addosso una malinconia difficile da scrollarti di dosso.
La storia è quella di Charlie Gordon, un uomo di circa trent'anni con disabilità intellettiva che lavora in una panetteria e sogna di essere "normale". I suoi desideri sono semplici: essere accettato, avere amici, capire il mondo come gli altri. Quando gli viene offerta la possibilità di sottoporsi a un intervento sperimentale che promette di aumentare il suo quoziente intellettivo – un'operazione già testata con successo su Algernon, un topo da laboratorio – Charlie accetta senza esitazione. Dopo l'operazione, le sue capacità mentali crescono rapidamente, trasformandolo in un genio. Tuttavia neanche il nuovo, sempre più elevato quoziente intellettivo aiuta il protagonista ad ottenere l’amicizia che desiderava. Al contrario, la consapevolezza di ciò che è stato non fanno altro che esaperare il suo isolamento, accentuato dal fatto che ora l’uomo capisce e ricorda episodi del passato, prima da lui incompresi.
Il romanzo è narrato attraverso i rapporti di progresso scritti dal protagonista, una sorta di diario che riflette la sua trasformazione. All'inizio i resoconti sono pieni di errori grammaticali e ingenuità, ma dopo l'esperimento la scrittura si fa più precisa, complessa ed emotiva. Charlie non solo comprende il mondo con occhi nuovi, ma lo analizza, lo scompone, lo giudica. Il problema è che la sua intelligenza, che lo porta a superare i suoi stessi creatori, non va di pari passo alla sua emotività. La consapevolezza che le persone che considerava amici ridevano di lui, lo sfruttavano, lo compativano, gli stessi genitori che non l'hanno mai accettato, ora si rivela con una lucidità dolorosa. E, anziché sentirsi più vicino agli altri, Charlie si ritrova più solo che mai.
Quando Algernon inizia a mostrare i primi segni di regressione, Charlie capisce che il suo destino è segnato. La presa di coscienza della propria inevitabile discesa, la consapevolezza che l’intelligenza sta sfumando, fino a regredire ad un livello ancora inferiore rispetto a quello originaria, è il momento più straziante e commovente del romanzo.
Fiori per Algernon è un libro che illumina e ferisce con la stessa intensità. Una storia che lascia il segno e che consiglio vivamente. Peccato per la copertina di questa edizione. Davvero brutta.
Il libro di Keyes ha avuto un adattamento cinematografico intitolato I due mondi di Charlie, film del 1968 diretto da Ralph Nelson.
Libri
The Brutalist
di Brady Corbet
Devo ammettere che, quando mi hanno proposto di vedere The Brutalist al cinema, ho avuto qualche esitazione. Tre ore e mezza di film non sono uno scherzo. Per fortuna, il regista ha pensato bene di inserire un intervallo di quindici minuti a metà film, dando agli spettatori la possibilità di sgranchirsi le gambe.
Ma veniamo al film.
Definito "monumentale", sia per la sua ambizione epica sia per il riferimento all’architettura brutalista, The Brutalist è il nuovo film di Brady Corbet, vincitore del Leone d’Argento per la miglior regia al Festival di Venezia 2024 e candidato a dieci premi Oscar nel 2025.
Il protagonista è un architetto ebreo di origine ungherese, László Tóth (interpretato da Adrien Brody) scampato all’Olocausto e ai campi di sterminio nazisti, che dopo un lungo viaggio in nave, arriva a New York. Siamo nel 1947, nella Terra della Libertà e delle opportunità. Come tanti altri immigrati fuggiti dall’Europa, László è in cerca di un mondo nuovo e di qualcosa a cui aggrapparsi per il futuro. A Budapest ha lasciato la moglie (Felicity Jones) e la nipote (Raffey Cassidy), con la speranza che possano presto raggiungerlo. In America ritrova il cugino Attila, che gestisce un negozio di arredamento in Pennsylvania, provando a ricostruire la sua carriera di architetto, interrotta dall’ascesa dei nazisti. Il suo primo incarico è progettare una libreria in legno per un ricco e facoltoso costruttore, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un regalo commissionato dai figli. Tuttavia, a causa di una serie di contrasti e fraintendimenti, il lavoro, almeno in un primo momento, non viene apprezzato e László viene allontanato e poi cacciato di casa dal cugino. Senza prospettive, accetta lavori umili, soffre la fame e cade vittima delle droghe, perseguitato dai fantasmi della guerra. Quando tutto sembra perduto, Van Beuren, rivaluta la sua opera, e lo ingaggia per progettare un colossale centro culturale multifunzionale. È l’opportunità di una vita.
The Brutalist potrebbe sembrare un biopic, un film biografico, ma in realtà il protagonista non si basa su un personaggio realmente esistito. László Tóth è la rappresentazione di tante vite, di tanti migranti geniali che hanno plasmato l’immaginario americano rimanendone sempre ai margini.
Brady Corbet ha impiegato sette anni alla preparazione di The Brutalist, investendo un'enorme quantità di tempo e risorse per portare avanti un progetto in cui solo lui sembrava credere. Con un budget di soli 10 milioni di euro, raccolti tra mille difficoltà, ha sfidato le logiche produttive di Hollywood, rifiutando compromessi per mantenere intatta la sua visione autoriale pura e ambiziosa. La scelta di girare in VistaVision, un formato cinematografico panoramico che garantisce un’eccezionale profondità di campo e una definizione straordinaria, molto popolare tra gli anni ’50 e ’60, amplifica l’imponenza del film, trasportando lo spettatore in un’epoca passata con una forza visiva che dialoga perfettamente con il tema del brutalismo.
Di questa corrente architettonica, Corbet coglie soprattutto la solennità e il senso di oppressione. Eppure, paradossalmente, non è la scenografia a dominare – anche se la parte girata alle cave di Carrara è molto affascinante – né tantomeno l’architettura brutalista – che compare solo nella parte finale, in un segmento documentaristico che prova a spiegare tutto ciò che il film non ha spiegato prima. Il vero pilastro è l’interpretazione di Adrien Brody, una prova intensa, struggente, e carica di dolore. Accanto a lui, Guy Pearce incarna con gelida eleganza il mecenate-predatore, in un contrasto che rende ancora più evidente la disperata vulnerabilità del protagonista.
Ho apprezzato molto anche la colonna sonora firmata dal compositore britannico Daniel Blumberg, a tratti invadente ma che accompagna con carattere la messa in scena, amplificando il peso esistenziale della storia.
Eppure, The Brutalist resta un film riuscito solo a metà. Nonostante la durata proibitiva non pesi eccessivamente, la narrazione si inceppa nella seconda parte. Se l’inizio è solido e plausibile, la svolta, questa sì brutale, nel rapporto tra Tóth e Van Buren appare forzata, magari simbolica ma poco credibile. Corbet mette in gioco troppi temi – arte e potere, compromesso e purezza, capitalismo e ingiustizie sociali, il sogno americano e la sua illusione – ma tutto sembra essere appena accennato non riuscendo a dar loro il giusto respiro.
Alla fine, The Brutalist assomiglia all’edificio che il protagonista cerca disperatamente di costruire: imponente, esagerato, coraggioso, ma ancora imprigionato nella sua stessa materia. È un film che aspira alla grandezza, che vuole imporsi come opera monumentale, ma che rischia di restare schiacciato dal peso della sua stessa ambizione.

The Girl with the Needle
di Magnus von Horn
Ci sono film che raccontano una storia e altri che ti entrano sotto la pelle, scavano in profondità e lasciano il segno. The Girl with the Needle (Pigen med nålen) è uno di questi.
Diretto e sceneggiato da Magnus Von Horn, e presentato alla 77ª edizione del Festival di Cannes, il film è stato candidato agli Oscar 2025 come miglior film internazionale, ed è attualmente disponibile su Mubi, la piattaforma dedicata al cinema d'autore.
Prendendo spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto in Danimarca all'inizio del novecento, Von Horn racconta la vicenda – evito di parlarne per non rovinarvi il colpo di scena – attraverso gli occhi di una giovane donna, spezzata dalla miseria e dalla disperazione.
Copenhagen, primi del novecento. Koraline (Vic Carmen Sonne) è una giovane operaia che lotta per sopravvivere in una società crudele e impietosa. Sedotta e abbandonata dal suo capo dopo essere rimasta incinta, la donna, disperata e senza lavoro, cerca di sbarazzarsi del bambino. Nel fratempo torna dalla guerra il marito che nasconde il suo volto sfigurato con una maschera. Karoline non ne vuole sapere di lui, e dopo aver tentato un aborto improvvisato in un bagno pubblico, decide di portare a termine la gravidanza per poi affidare la bambina a Dagmar (Trine Dyrholm), una donna di mezza età che gestisce un'agenzia di adozioni clandestina e aiuta le madri povere a trovare case ai loro figli. La donna le offre aiuto, un rifugio, forse anche una nuova possibilità di vita. Ma dietro quella gentilezza si cela un orrore che Koraline scoprirà troppo tardi, ritrovandosi intrappolata in un incubo senza via di fuga.
The Girl with the Needle è un film che parla di miseria, di disperazione, di donne isolate da una società dura e respingente. Koraline non è un'eroina, e non lo è tantomeno Dagmar. Sono due figure tragiche, due facce della stessa medaglia, vittime e carnefici di un mondo che le ha condannate in partenza. Alla fine, ciò che resta impresso non è solo l'orrore dei crimini di Dagmar, ma il modo in cui il film riesce a farti provare empatia per questi personaggi, senza mai scadere nel sentimentalismo. Il regista danese, con il suo bianco e nero gelido, buio e oscuro e una regia che sembra attingere tanto dal cinema espressionista tedesco quanto al realismo del cinema di Bergman e le atmosfere cupe di David Lynch (in particolare The Elephant Man), costruisce un'esperienza visiva che scuote e ti trascina in una spirale di disperazione senza fondo.
Straordinarie le interpretazioni delle due attrici protagoniste capaci di raccontare la disperazione e la fragilità delle donne dell'epoca, così come ottima la colonna sonora elettronica di Frederikke Hoffmeier in arte Puce Mary che contribuisce a creare un'atmosfera di costante oppressione e alienzione.
Un film duro e senza compromessi, che forse si addolcisce un pò nel finale ma che alla fine difficilmente si dimentica.

Vivarium
di Lorcan Finnegan
Quando ho letto la trama di questo film, mi sono detto ecco un altra storia in cui i protagonisti finiscono in una cittadina, in questo caso un quartiere di periferia, da cui non riescono a uscire perchè ogni strada li riporta al punto di partenza. Da Wayward Pines a From, da Dark City a The Truman Show, il tema della "città-trappola" è stato esplorato numerose volte e in molteplici varianti.
Vivarium, però, non è solo un film di fantascienza claustrofobico, ma una metafora feroce sulla routine, la famiglia e l’incubo del conformismo. Diretto dall’irlandese Lorcan Finnegan, questo thriller esistenziale e surreale prende il concetto della casa perfetta e lo trasforma in un incubo senza uscita. Un'opera che sembra rubata a una puntata de I confini della realtà, – episodio 30 della quinta stagione – ma che scava più a fondo, affontando temi come la disumanizzazione della quotidianità, il peso delle aspettative sociali e la famiglia come trappola evolutiva.
Gemma (Imogen Poots) e Tom (Jesse Eisenberg), una giovane coppia alla ricerca di una casa in cui andare a vivere, si rivolgono a uno strambo e inquietante agente immobiliare (Jonathan Aris) che li conduce nel quartiere residenziale di Yonder, un complesso di recente costruzione, ancora disabitato, composto da una schiera di villette tutte uguali. Il quartiere è avvolto da un silenzio innaturale, il cielo è irreale, e tutto sembra artificioso. Accompagnati dall'agente immobiliare, la coppia entra nella villetta numero nove ma appena visitano il giardino sul retro, l'uomo inspiegabilmente sparisce. I due ragazzi risalgono in macchina per andare via, ma per quanto girino e rigirino, tutte le strade finiscono sempre per ricondurli allo stesso punto, davanti alla villetta numero 9. Trascorrono i giorni e i tentativi disperati di lasciare il posto si trasformano presto in rassegnazione, finché una mattina trovano davanti alla porta una scatola con dentro un neonato e un messaggio che invita i due poveri ragazzi ad accudire il bambino se vogliono riconquistare la libertà.
Vivarium è un film che si presta a una duplice lettura.
Da una parte abbiamo quella prettamente fantascientifica che ci fa intendere [spoiler on] che i due protagonisti siano stati rapiti da una civiltà aliena, o comunque da delle creature parassitarie, che li tengono in un vivarium - termine usato dagli antichi romani per indicare un allevamento - affinchè possano crescere la propria progenie, destinata a rimpiazzare gli esseri umani [spoiler off]. Naturalmente, è solo una mia interpretazione, perché il film non da molte spiegazioni e risposte chiare.
Dall'altra, il film ha un significato allegorico, Il quartiere-labirinto diventa il simbolo della vita moderna, del sogno borghese preconfezionato che si trasforma in una prigione. La coppia di protagonisti è vittima di un sistema che li ha incasellati nel ruolo di genitori senza via di fuga. Il bambino non è solo un figlio indesiderato, ma l’incarnazione della pressione sociale: crescere una creatura che non si comprende, che non restituisce amore, che si nutre della tua energia e che ti scarica, gettandoti in una fossa, quando non sei più necessario.
A livello estetico, il film è un gioiello. Le scenografie riportano ai quadri di Magritte e Hopper, mentre la fotografia dai colori pastello trasforma la perfezione di Yonder in un inferno sterile. Vivarium è un horror esistenziale che parla di routine, di alienazione, dell’orrore della prevedibilità. Ed è proprio questa assenza di una via d’uscita a renderlo così disturbante.
Certo, il film non è perfetto. Nella seconda metà la ripetitività rischia di smorzare l’impatto, e chi cerca una narrazione più dinamica potrebbe trovarlo frustrante. Tuttavia è un film che non si dimentica, che scava dentro di noi, come Tom con la sua buca infinita. E, una volta finito, lascia solo una certezza che non c’è via di fuga dal sistema.
Disturbante, claustrofobico, essenziale. Un Black Mirror ancora più crudele.

La fiera delle illusioni - Nightmare Alley
di Guillermo Del Toro
Guillermo del Toro ha sempre avuto un talento innato per il fantastico, per quelle fiabe oscure popolate di mostri, creature inquietanti e illusioni seducenti. Ma cosa succede quando abbandona il sovrannaturale per addentrarsi nei meandri più torbidi dell’animo umano? La Fiera delle Illusioni è un noir in abito d’epoca, un racconto di ascesa e caduta che brilla nelle immagini ma inciampa nella sua stessa prevedibilità.
Alla fine degli anni ’30, Stan Carlisle (Bradley Cooper) arriva in un circo di fenomeni da baraccone e truffatori, lasciandosi alle spalle un passato che ha letteralmente dato alle fiamme. Qui impara i trucchi del mestiere dai mentalisti Pete e Zeena (David Strathairn e Toni Collette), che lo avvertono di non oltrepassare il limite tra spettacolo e inganno. Ma Stan, affascinato dal potere di manipolare gli altri, se ne infischia. Dopo aver affinato il proprio numero con l’amata Molly (Rooney Mara), che nel circo aveva il ruolo di "donna elettrizzata", il protagonista si lancia nel mondo dell’alta società, dove attira clienti facoltosi e l’attenzione della glaciale psichiatra Lilith Ritter (Cate Blanchett). L'affascinante donna gli fornisce informazioni preziose per truffare ricchi disperati, ma la loro alleanza è una danza pericolosa. Stan si convince di essere il più astuto di tutti, ma il suo destino è scritto fin dal principio, e la sua disfatta diventa inevitabile.
Nightmare Alley, distribuito in Italia con il titolo La Fiera Delle Illusioni, è l'adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo del 1946 scritto da William Lindsay Gresham, già portato sul grande schermo nel 1947. Si tratta di un noir-thriller che punta tutto sull’aspetto estetico e l'atmosfera. La prima parte del film si svolge nel circo, microcosmo di miseria e inganni, un teatro di disperati che vivono ai margini e dove i reietti sono trasformati in spettacolo. Qui il regista sembra a proprio agio, costruendo con la consueta cura ogni dettaglio di un mondo sporco, polveroso e affascinante. Peccato che la narrazione sia davvero troppo dilatata, sospesa in un prologo che sembra non voler mai decollare. È solo nella seconda metà, quando Stan si lascia alle spalle il circo per il luccichio della grande città, che il film si ravviva prenendo forma. L'ingresso di Cate Blanchett, femme fatale perfetta, algida e manipolatrice, dona una svolta noir, incantando e avvolgendo il protagonista in una ragnatela da cui non potrà più uscire. Ma se il passaggio dall’inganno circense alla grande truffa sociale è intrigante, la storia si muove su binari fin troppo scontati. Ogni scelta sbagliata di Stan è anticipata, ogni avvertimento è reso esplicito, ogni caduta è quasi urlata allo spettatore. Il risultato è una narrazione che, pur impeccabile nella messa in scena e nelle interpretazioni, perde mordente proprio per la sua eccessiva prevedibilità.
Visivamente elegante e interpretato con intensità, La Fiera delle Illusioni è un noir che si nutre delle sue ombre, ma non riesce a sfuggire ai suoi limiti narrativi. Dietro la facciata impeccabile si nasconde un film più ambizioso che realmente incisivo, appesantito da una durata eccessiva e da una trama che non sorprende mai davvero.
Film
Possession
di Andrzej Zulawski
Possession è un film di culto di cui ho sempre sentito parlare, ma che, per un motivo o per un altro, non ero mai riuscito a vedere. Ora che finalmente l'ho recuperato, mi trovo in difficoltà nel cercare di fare un analisi ragionata di una pellicola così complessa, stratificata e carica di simbolismi, aperta a innumerevoli interpretazioni. Ma andiamo con ordine.
Realizzato nel 1981 dal visionario regista polacco Andrzej Zulawski, Possession venne presentato in concorso al 34º Festival di Cannes, dove Isabelle Adjani fu premiata come miglior attrice per la sua straordinaria performance. Fin dalla sua uscita, il film subì pesanti censure, ottenendo il divieto ai minori di 18 anni in quasi tutti i paesi in cui venne distribuito. In Italia venne tagliato e rimontato, negli Stati Uniti fu mutilato di ben 45 minuti, mentre in Germania, dove peraltro è ambientato, venne ufficialmente proiettato solo nel 2009.
Ci troviamo nella Berlino divisa degli anni '80, con il Muro che incombe sulla città come un simbolo di separazione e alienazione. Mark (un giovane Sam Neill) torna a casa dopo un viaggio di lavoro e scopre che sua moglie Anna (la splendida Isabelle Adjani) lo tradisce e vuole lasciarlo. Il loro matrimonio, già in crisi da tempo, ruota attorno al figlio piccolo, Bob. Incapace di accettare l'abbandono, Mark, dopo essersi ripreso da una forte crisi depressiva, stringe un legame con Helen, la maestra di Bob identica ad Anna nell'aspetto ma dolce e rassicurante, ingaggiando successivamente un investigatore privato per pedinare Anna e scoprire il suo amante. Quello che emerge è inquietante: la donna non si limita a frequentare Heinrich, personaggio eccentrico e sopra le righe, ma, all'insaputa di tutti, si reca segretamente in un appartamento abbandonato, dove nasconde una creatura mostruosa e tentacolare, dall'aspetto indefinito.
Possession è un film visionario e grottesco, quasi esasperato nella sua forma e nell'interpretazione dei suoi protagonisti. La performance della Adjani è leggendaria, una prova attoriale che travalica i confini dell'umano. La celebre scena della metropolitana, in cui il suo corpo si contorce in una danza selvaggia di dolore e follia, è una delle sequenze più sconvolgenti mai girate.
Zulawski fonde realtà e delirio per raccontare il fallimento dei rapporti umani, il conflitto tra caos e ordine, e la perdita dei valori di una società moderna destinata a sgretolarsi. Il Male si insinua nella coppia in crisi, assume la forma di una creatura lovecraftiana – peraltro realizzata da Rambaldi – e si manifesta in un finale apocalittico. Il tema del doppio è onnipresente: Berlino è divisa dal Muro così come i personaggi sono scissi tra la loro natura razionale e il loro lato oscuro. Anna ha il suo doppio in Helen, versione angelica di sé stessa, mentre Mark trova il suo riflesso distorto nella creatura mostruosa partorita dalla moglie, che diventerà la sua inquietante controparte.
E poi c'è Bob, il figlio innocente e fragile, simbolo di purezza e normalità, che viene tragicamente schiacciato dai conflitti degli adulti e dalle loro ambizioni autodistruttive. La sua scelta finale – quella di annegarsi – è una disperata fuga da un mondo ormai dominato dal caos.
Possession è un film unico, profondamente inquietante, che travolge con il suo nichilismo e le sue immagini disturbanti. Difficile da catalogare, in quanto combina più generi e sottogeneri insieme, dall'orrore al dramma psicologico, dal grottesco al surreale. Non è un film perfetto né per tutti, ma per chi ama il genere, è un'opera imperdibile e impossibile da dimenticare. Il grande e compianto David Lynch lo definì "il film più completo degli ultimi 30 anni".
Film
Rebecca, la prima moglie
di Alfred Hitchcock
Nell'estate del 1939, mentre l'Europa è sull'orlo della guerra, Alfred Hitchcock, a quarant'anni, lascia l'Inghilterra per trasferirsi con la famiglia a Los Angeles. Qui, il maestro del brivido dirige il suo primo film americano, "Rebecca - La prima moglie", tratto dall'omonimo romanzo di Daphne du Maurier. Prodotto da David O. Selznick, celebre per il kolossal Via col vento, il film del 1940 è la pellicola più costosa girata di Hitchcock fino ad allora. Il successo al botteghino è straordinario, coronato da due Oscar: Miglior Fotografia e Miglior Film, unico titolo nella filmografia del regista a ricevere questo prestigioso riconoscimento.
Una giovane dama di compagnia senza nome (Joan Fontaine) incontra l’affascinante e tormentato aristocratico Maxim de Winter (Laurence Olivier) durante un soggiorno a Monte Carlo. In un turbine di romanticismo, i due si sposano e si trasferiscono a Manderley, la maestosa tenuta di famiglia di Maxim. Ma il sogno di una vita felice inizia presto a incrinarsi. La nuova signora de Winter si ritrova intrappolata nell’ombra opprimente di Rebecca, la defunta prima moglie di Maxim, il cui ricordo sembra dominare ogni angolo della casa. L’ossessiva e inquietante governante, la signora Danvers (Judith Anderson), non perde occasione per esaltare la perfezione di Rebecca, alimentando l’insicurezza e il disagio della giovane sposa. Man mano che la verità sul passato di Rebecca viene a galla, emergono segreti oscuri e inquietanti. In un crescendo di tensione e mistero, la nuova signora de Winter si ritrova a confrontarsi con il peso del passato per salvare il suo matrimonio e la sua sanità mentale.
Nonostante le rigide limitazioni imposte da Selznick, che esigeva una fedeltà quasi religiosa al romanzo originale, Hitchcock riuscì a trasformare una storia apparentemente priva di suspense in un’opera gotica densa di atmosfera e mistero. Pur rispettando le indicazioni del produttore, il regista riesce a infondere la sua inconfondibile impronta stilistica, creando un delicato equilibrio tra tensione psicologica e narrazione visiva. Tuttavia, il controllo creativo esercitato dal produttore limitò in parte l’espressione artistica del regista, che dichiarò di non considerare il film pienamente suo a causa dell’assenza del tipico umorismo nero che contraddistingueva i suoi lavori.
"Rebecca - La prima moglie" si articola in tre atti distinti e ben delineati. Il primo, a Monte Carlo, si concentra sull’incontro tra i protagonisti e sul rapido evolversi della loro relazione, con una narrazione che richiama il romanticismo classico. Nel secondo atto, il fulcro della storia si sposta a Manderley, la maestosa tenuta di famiglia, dove la protagonista affronta l’ombra ingombrante di Rebecca, la prima moglie di Maxim. Il terzo atto vira verso il dramma giudiziario, rivelando i segreti legati alla morte di Rebecca e smascherando verità inaspettate.
La parte centrale è indubbiamente quella più affascinante e rappresenta il cuore pulsante del film. A Manderley, con i suoi corridoi infiniti, i saloni maestosi e l’atmosfera gotica quasi surreale, la nuova signora de Winter si trova proiettata in una realtà estranea e ostile. La giovane, insicura e priva di esperienza, deve affrontare un mondo dominato dalla memoria di Rebecca, che appare come un’ombra onnipresente e opprimente. Sebbene il suo corpo sia assente, il suo spirito aleggia ovunque: negli oggetti personali, nei gesti quotidiani, persino negli atteggiamenti dei servitori. Hitchcock sfrutta magistralmente l’invisibilità di Rebecca, rendendola un personaggio centrale senza mai mostrarla, ma facendo percepire la sua influenza in ogni dettaglio.
Tra le scene più memorabili e cariche di tensione spicca quella in cui la signora Danvers accompagna la nuova padrona nella stanza di Rebecca, accarezzando con morbosa adorazione i suoi abiti e gli oggetti personali.
Hitchcock dosa abilmente suspense e dramma, costruendo una buona tensione, che però tende a dissiparsi nel terzo atto, dove la storia assume i toni di un dramma giudiziario.
"Rebecca - La prima moglie" rimane tuttavia un’opera fondamentale per comprendere l’evoluzione artistica di Hitchcock. Il film segna il passaggio a una produzione hollywoodiana di alto livello, evidenziando la capacità del regista di adattarsi a un sistema industriale senza sacrificare del tutto il suo genio creativo. Un classico intramontabile che mescola atmosfere gotiche, tensione psicologica e mistero in un intreccio di grande eleganza narrativa e visiva.
Film
L'angelo azzurro
di Josef von Sternberg
L'Angelo Azzurro di Josef von Sternberg, oltre a essere il primo film sonoro del cinema tedesco, è anche la pellicola che ha consacrato Marlene Dietrich come una leggenda del grande schermo. Nel ruolo di Lola-Lola, l'affascinante e spietata cantante di cabaret, Dietrich non solo ha definito la sua carriera, ma ha anche incarnato l'archetipo della femme fatale, la mangiatrice di uomini, seducente, peccaminosa e pericolosamente irresistibile.
Tratto dal romanzo "Professor Unrat" di Heinrich Mann (fratello del più celebre Thomas), la storia vede come protagonista Immanuel Rath (Emil Jannings), un severo e rispettabile professore di ginnasio, che mosso da un senso di dovere morale, cerca di reprimere i comportamenti dissoluti dei suoi studenti, attratti dalla figura di Lola-Lola (Marlene Dietrich), cantante e ballerina dai costumi disinvolti che si esibisce all'Angelo Azzurro, un cabaret malfamato. Tuttavia è proprio lo stimato professore a innamorarsi perdutamente di Lola Lola, al punto da compromettere la sua carriera e la sua reputazione. Dopo aver chiesto di sposarlo, Rath accetta di seguirla nelle sue tournée ma, esaurite le disponibilità economiche si ritrova a condurre una vita sempre più umiliante e degradata, che lo porta a vendere ai clienti dei locali, in cui Lola si esibisce, le foto della cantante seminuda. Tornato nella sua città natale, Rath è costretto a esibirsi come pagliaccio in uno spettacolo proprio all'Angelo Azzurro, davanti ai suoi ex concittadini, che lo deridono e lo disprezzano, uscendo di senno quando scopre che la donna che lo ha portato alla sua rovina, lo tradisce con un altro uomo.
L’Angelo Azzurro è la storia di un uomo che distrugge sé stesso inseguendo un sogno illusorio, un desiderio che si trasforma in ossessione. La scena finale è straziante e l'urlo disperato del professore, è quello di un uomo ormai privo di dignità, schiacciato dalla consapevolezza della sua sconfitta. In quella maschera da clown e in quel grido finale si concentra tutto il crepuscolo di un’esistenza consumata dall’illusione della bellezza e del desiderio che, per un attimo, si erano fatti carne.
Josef von Sternberg dirige con grande maestria, impreziosendo il film con richiami all’espressionismo tedesco, visibili soprattutto nelle ombre e nelle geometrie che dominano le inquadrature della cittadina. Straordinaria l’interpretazione di Emil Jannings, che riesce a incarnare con dolorosa intensità il degrado emotivo del vecchio e ingenuo professor Rath. Allo stesso modo, Marlene Dietrich si impone come una presenza magnetica, un concentrato di desiderio, sensualità e spietata indifferenza. Indimenticabile quando canta (a cavalcioni di una sedia) Ich bin die fesche Lola.
Un film amaro e drammatico, che racconta una storia d'amore impossibile, destinata a sfociare in tragedia.
Film