
Antichrist
di Lars Von Trier
Lars Von Trier è considerato uno dei più trasgressivi registi contemporanei. Un autore estremamente divisivo e allergico a ogni forma di compromesso. Per alcuni un genio provocatore, per altri un narcisista e un misogino compiaciuto. Personalmente, fin dai tempi di The Kingdom — la serie televisiva surreale degli anni novanta — il suo cinema esercita su di me un’attrazione magnetica. Idioti, Dogville e Dancer in the Dark restano, a mio avviso, tra le sue opere più significative. L’ultimo suo film che avevo visto era Il grande capo, poi l'ho perso di vista. Ora, con la giusta disposizione d'animo, ho deciso di recuperare la tanto discussa "trilogia della depressione", iniziando proprio da Antichrist, film controverso e urticante che ha diviso pubblico e critica fin dalla sua uscita.
Presentato al Festival di Cannes nel 2009, Antichrist scatenò fin da subito un acceso dibattito. La proiezione fu accolta da una pioggia di fischi e critiche feroci, soprattutto per alcune scene di sesso esplicito e per la brutale violenza che esplode nel finale del film. La conferenza stampa non contribuì certo a stemperare il clima. Von Trier, nel suo consueto stile provocatorio, si autoproclamò "il miglior regista del mondo" e dichiarò di non dover spiegazioni a nessuno, perché "Dio gli parlava personalmente". Tra sconcerto e imbarazzo, alcuni giornalisti lasciarono la sala. Il film venne escluso dal palmarès, tranne che per il premio alla Miglior Attrice assegnato a Charlotte Gainsbourg. Antichrist diventò immediatamente un caso mediatico e culturale, che ancora oggi continua a dividere.
Il film è suddiviso in un prologo, quattro capitoli — Dolore, Pietà, Disperazione e I tre mendicanti — e un epilogo, quasi fosse un dramma teatrale, ma costruito con l’estetica allucinata di un incubo visivo. La trama ruota attorno a due soli personaggi, una coppia (Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg) che, mentre si abbandonano a un intenso rapporto sessuale, non si accorgono che in un’altra stanza il loro figlioletto esce dalla culla, s’arrampica sulla sedia, sale sul tavolo accanto, si sporge dalla finestra e precipita nel vuoto. Una sequenza di straordinaria potenza visiva, girata in slow motion e in bianco e nero, che fonde eros e thanatos, bellezza e tragedia, con la musica struggente di Händel a rendere il tutto ancora più lacerante.
I due genitori, sconvolti dal lutto, cercano di affrontare il dolore in modo opposto. Lui, terapeuta, tenta di guidare la moglie in un percorso di elaborazione razionale del trauma. Lei, invece, si lascia risucchiare da un abisso di colpa e sofferenza che sfugge a ogni controllo. Per cercare di esorcizzare il dolore, la coppia si ritira nella loro baita nel bosco di Eden, dove lei aveva passato l'estate precedente con il figlio, lavorando alla sua tesi contro il femminicidio. Ma Eden non è un rifugio, bensì un luogo arcano e ostile, dove natura e femminile si fondono in una forza primordiale e distruttiva. Isolati nella baita, i due scivolano in una spirale di paranoia, ossessione e crudeltà, in un crescendo di follia e violenza, sia fisica che psicologica.
Un film decisamente difficile, pesante sia nei contenuti che nella forma. Antichrist è un’opera che mette in scena il dolore originato dall'atto sessuale. Il senso di colpa di lei, per essersi abbandonata al piacere mentre il figlio moriva, è troppo grande da sopportare. Il sesso, da atto di unione, si trasforma in strumento di dominio, punizione e sofferenza. Qualcosa di sporco, inquietante, che alla fine deve essere reciso, estirpato. Lui, psicanalista razionale e distaccato, affronta il lutto con freddezza — lo vediamo piangere solo al funerale — e decide di fare della moglie la propria paziente, convinto di poterla curare con la sola forza della mente. Lei invece è devastata, cerca le sue labbra, ha bisogno del suo corpo, perché la carne sembra l’unico mezzo per colmare il vuoto. Ma lui la respinge, si sottrae, e l’incomunicabilità sessuale diventa un abisso spalancato tra i due. Il sesso, da esperienza vitale, si trasforma in contaminazione, perdita di controllo, discesa nell’oscurità.
Von Trier racconta questa trasformazione con immagini esplicite, scioccanti, ma mai gratuite. Ogni gesto, ogni inquadratura sembra suggerire che nella carne si annidi anche la morte, che eros e thanatos siano due facce dello stesso impulso originario. Antichrist è una seduta psicanalitica travestita da horror, in cui la diversa elaborazione del lutto tra uomo e donna diventa una lotta tra mente e corpo, controllo e caos, logos e natura.
Il film è denso di simboli e suggestioni stratificate. Volendo semplificare, si potrebbe leggerlo come la discesa agli inferi di una donna tormentata dal senso di colpa, che per sopravvivere accetta di essere “strega” e di incarnare la propria malvagità. Ma la lettura è tutt’altro che univoca. Alcuni vi hanno visto un attacco al femminile, una visione misogina che associa la donna alla natura intesa come entità crudele, istintiva, incontrollabile. Eppure, Antichrist è anche una critica feroce al maschile, al suo desiderio di dominare e razionalizzare ciò che sfugge al controllo.
Il film è dedicato a Tarkovskij, e non è difficile coglierne l’influenza nel linguaggio visivo e nella struttura. Ma io ci ho rivisto anche Possession di Andrzej Zulawski, con la sua esplorazione del dolore attraverso la follia e il delirio.
Dal punto di vista tecnico, Antichrist è di una bellezza disarmante. La regia di Von Trier alterna una compostezza quasi liturgica a esplosioni improvvise di violenza e caos, accentuate dalla fotografia visionaria e profonda di Anthony Dod Mantle.
Straordinarie anche le interpretazioni dei due protagonisti. Willem Dafoe — l’ho già detto che è il mio attore preferito? — è perfetto nella sua maschera di controllo e razionalità, mentre Charlotte Gainsbourg offre una prova di rara intensità fisica ed emotiva. Si spoglia, letteralmente e metaforicamente, portando sullo schermo una sofferenza che si fa carne, urlo e follia.
Come spesso si dice, Antichrist non è un film per tutti. Non lo consiglierei a chi fatica a entrare in sintonia con l’autore e non ha una certa affinità. Ma per me è stata un’esperienza. Faticosa, sì, ma anche necessaria. Una discesa verso il caos da cui non si esce indenni.
Film
L'ora del lupo
di Ingmar Bergman
L'ora del lupo è un film del 1968 scritto e diretto da Ingmar Bergman.
Girato in bianco e nero, L'ora del lupo è un film onirico e psicologico con delle sfumature di orrore e follia.
Ammetto di provare una sorta di timore reverenziale nei confronti di colui che viene considerato uno dei più grandi registi nella storia del cinema. Non conosco bene la filmografia di Bergman e le uniche pellicole che ho visto ("Il settimo sigillo" e "Il posto delle fragole") ormai risalgono ai tempi del paleolitico.
Proverò, con estrema umiltà, a scrivere le mie impressioni su questo film sperando presto di rivedermi e approfondire il cinema di questo grande cineasta svedese.
"L'ora del lupo" è l'ora tra la notte e l'alba. È l'ora in cui molte persone muoiono, quando il sonno è più profondo e quando gli incubi sono più reali
Il pittore Johan Borg (Max von Sydow) e sua moglie Alma (Liv Ullmann) incinta di qualche mese, si trasferiscono in un isola semidisabitata alla ricerca di tranquillità. Johan soffre di un disturbo del sonno e presto inizia a essere tormentato da alcuni dei personaggi ritratti nei suoi lavori che prendono vita nella sua mente e lo portano alla follia.
L'ora del lupo è un film molto criptico, complesso e visionario. Da amante del cinema di Lynch, questi sono gli elementi che mi affascinano e che spesso cerco in un film. Tuttavia, devo ammettere che la visione di questo film mi ha richiesto una notevole attenzione (consiglio di vederlo senza accusare stanchezza) e il giorno successivo me lo sono dovuto rivedere per poterlo apprezzare pienamente. È un film che, a causa di una estrema lentezza, sopratutto nella prima metà, richiede una forte pazienza da parte dello spettatore per potersi immergere nel mondo mentale e onirico che Bergman costruisce.
La narrazione non si sviluppa in modo tradizionale, ma segue un flusso che mescola sogno e realtà, sfidando costantemente i confini tra ciò che è tangibile e ciò che è puramente il prodotto della mente del protagonista.
Dal punto di vista visivo, Bergman è un maestro. La fotografia così come ogni inquadratura sembra una vera e propria opera d'arte, dei quadri in movimento. La parte finale, quando Jonah torna nel castello per essere accolto dalla donna del suo passato è uno dei momenti più memorabili del film, dove la regia di Bergman crea un’atmosfera di crescente disagio e follia. E poi ci sono i "mostri" - non nel senso fisico, ma psicologico - personaggi bizzarri e inquietanti che incarnano le paure e i traumi del protagonista. Il momento in cui una vecchia si sfila la pelle e si cava gli occhi è uno degli esempi più intensi di questa materializzazione dell'orrore interiore. Anche la scena in cui "i mangiatori d'uomini", i mostri che popolano la mente di Jonah, ridono mentre osservano l'amplesso - notare che una delle donne si trova nell'atto della masturbazione - è di una potenza visionaria davvero sconvolgente.
In definitiva, L'ora del lupo si presenta come un horror psicologico, un viaggio nel terrore sull'impossibilità di sfuggire alle proprie paure. È un film che rifiuta le facili risposte, lasciando lo spettatore con una sensazione di inquietudine persistente. Un capolavoro lento e silenzioso, dove la luce e l’ombra non sono presenti solo sullo schermo, ma anche nei recessi più profondi della nostra coscienza.
Film
I saw the TV glow
di Jane Schoenbrun
"I saw the TV glow" - in italiano è stato tradotto letteralmente "Ho visto la TV brillare" ma suona decisamente male - è il secondo film della giovane regista americana Jane Schoenbrun.
Il film, disponibile nelle piattafome streaming, è stato prodotto dalla A24 (casa di produzione indipendente che non finirò mai di ripetere quanto sia stata fondamentale per il rilancio del cinema di genere di qualità) diventando in breve tempo un instant cult in America.
Il film è ambientato negli anni novanta ed è incentrata su due ragazzi, Owen (Justice Smith), un giovane timido e introverso, e Maddy (Brigette Lundy-Paine), una ragazza problematica di qualche anno più grande, ossessionata da una serie TV dal titolo The Pink Opaque. I due si incontrano a scuola dove Maddy, avvicinato da Owen, condivide con il giovane questa passione, un interesse che in breve tempo finisce per diventare una sorta di rifugio da una realtà che sembra troppo dolorosa da accettare.
Solitamente, quando mi preparo a vedere un film che cattura la mia attenzione, evito di leggere recensioni o commenti per non farmi influenzare. Approcciandomi a questo film, mi aspettavo il classico horror su una serie TV maledetta capace di far impazzire gli adolescenti, un po' sulla scia dei film giapponesi anni duemila, tanto per intenderci. Andando avanti, invece, mi sono reso conto di trovarmi di fronte a un film decisamente diverso e più complesso da come me lo ero immaginato. La serie televisiva - il cui titolo è uguale a un album antologico dei Cocteau Twins, scelta che non sembra casuale, considerata l'atmosfera dream-pop della colonna sonora - è in realtà un pretesto narrativo per esplorare i temi più profondi della crescita e della ricerca di identità dei due protagonisti. Finito la visione e documentandomi scopro che la regista Jane Schoenbrun si definisce una transgender - così come l'attrice che interpreta Mandy - e che il film attraverso una narrazione frammentata e un'estetica ipnotica, esplora in modo sottile ma potente il percorso di auto-scoperta e transizione di genere. La serie TV - un mix tra Buffy l'ammazzavampiri, i Teletubbies e Twin Peaks - funge da specchio distorto delle loro vite diventando così il riflesso della loro lotta interiore.
Definito da molti il Donnie Darko degli anni duemila, un paragone che, con tutte le differenze del caso, trovo calzante, il film non è un vero e proprio horror, anche se per come viene presentato può sembrarlo. Esteticamente I saw the TV glow è realizzato molto bene, con una palette cromatica dominata da tonalità rosa-viola che ricorda lo stile visivo di Nicolas Winding Refn. Tuttavia, a livello di sostanza l'ho trovato un po' pretenzioso spigendosi verso un autorialità che a tratti risulta stucchevole. Probabilmente, abbandonando qualche manierismo, e aggiungendo un maggiore dinamismo e dei dialoghi più incisivi, il film secondo me poteva rendere meglio.
Film
Loro
Roberto Cotroneo
Ho appena finito di leggermi "Loro", romanzo di Roberto Cotroneo pubblicato da Neri Pozza. Si tratta di una "ghost story" con derive psicologiche ambientato in una villa nei dintorni di Roma.
Il romanzo è stutturato come un memoriale scritto dalla protagonista. Nell’estate del 2018 Margherita, una giovane donna che ha da poco abbandonato gli studi di medicina, accetta un lavoro come istitutrice presso una famiglia aristocratica, gli Ordelaffi, in una villa immersa in un parco lussureggiante. La villa è stata progettata da un celebre architetto ed è composta da pareti di vetro che permette a coloro che stanno all'interno di guardare all'esterno ma anche di essere osservati da fuori. Il compito di Margherita è quello di occuparsi delle gemelle Lucrezia e Lavinia, due bambine di sei anni identiche, educate e vivaci. La prima ama suonare il pianoforte, la seconda invece adora l’equitazione. La padrona di casa, Alessandra Brandi, la accoglie in questa casa da sogno, spiegandogli che le gemelle hanno un carattere complesso, sono molto indipendenti e comunicano tra di loro attraverso dei codici tendendo a escludere gli altri. Margherita non si lascia intimorire e animata da entusiasmo, inizia a integrarsi facendo conoscenza con il resto del personale tra cui Gaetano, un burbero giardiniere dal passato misterioso, Giulia, un assistente tutto fare, e Angelina, l’anziana governante. Il padre delle bambine, Umberto, un affascinante uomo d'affari, si trova spesso fuori per lavoro ma nei fine settimana viene a stare con la famiglia. Inizialmente tutto sembra andare bene, ma quando Margherita, durante una passeggiata nel bosco, si ritrova nei pressi di un tempietto dedicato a Ecate, l'apparizione dei precedenti proprietari della villa, morti in circostanze violente, la fa precipitare nell'angoscia e nella disperazione. Improvvisamente tutti nella villa sembrano nascondere inquietanti segreti, in particolar modo le gemelle, che sembrano avere legami misteriosi con queste presenze terrificanti e portano Margherita a dubitare della sua stessa sanità mentale, spingendola sempre più a fondo in un incubo da cui sembra impossibile uscire.
In un crescendo di suspense, il romanzo conduce il lettore verso un finale inaspettato, lasciando Margherita e il lettore a interrogarsi su ciò che è veramente accaduto in quella misteriosa villa.
"Loro" è un chiaro omaggio alla tradizione gotica e alla grande letteratura del passato. Una storia di fantasmi che richiama alla mente il "Giro di vite" di Henry James, sia per l'ambientazione che per la narrazione in prima persona attraverso un diario postumo. Questa scelta narrativa consente a Cotroneo di giocare con la percezione della realtà, creando un costante senso di ambiguità che tiene il lettore in bilico tra il reale e l'irreale. La bravura dello scrittore è quella di mischiare le carte e portarci a credere a una verità che viene poi capovolta nel finale. Come nel film "The Others" di Alejandro Amenábar, anche in questo romanzo niente è come sembra e quello che si vuole vedere serve solo a nascondere una verità troppo dolorosa da accettare. Un libro scorrevole, armonico, scritto molto bene, forse un po' prevedibile per chi è abituato al genere ma che consiglio a chi ama le atmosfere gotiche e i romanzi che esplorano i meandri più oscuri della psiche umana.
Libri
Possum
di Matthew Holness
Possum è un horror psicologico del 2018 scritto e diretto da Matthew Holness, qui al suo esordio come regista e sceneggiatore. E' un film molto particolare, surreale, cupo e intimista che ha ricevuto numerosi nomination e premi nei vari festival di genere. In Italia non è mai uscito al cinema e attualmente è disponibile su Prime Video.
Protagonista è un uomo di mezza età chiamato Philip (Sean Harris), che torna nella fatiscente casa di infanzia, in cui è cresciuto con lo zio tutore Maurice (Alun Armstrong), dopo la tragica morte dei genitori. Philip è un uomo psicologicamente provato, silenzioso e inquietante che se ne va in giro nelle desolate e grigie campagne inglesi cercando di sbarazzarsi di un raccapricciante manichino - una testa attaccata a dei rami, quasi a formare le zampe di un ragno - che tiene chiuso dentro una borsa di pelle. Nonostante cerchi di liberarsi, Possum, il mostruoso pupazzo, in un modo o nell'altro torna sempre da lui. Inizialmente è Philip che disperatamente lo va a recuperare, quasi non potendone fare a meno, ma in seguito la marionetta aracniforme con la testa umana prende vita tornando dal suo proprietario in quello che sembrerebbe essere il delirio allucinato del protagonista.
Possum è una metafora che rappresenta il trauma subito da Philip quando era bambino, il senso di colpa per aver (forse) causato accidentalmente la morte dei suoi genitori, oppure il peso delle violenze subite da parte di un zio laido e sgradevole che ha abusato di lui approfittando della sua fragilità. Un peso che per quanto sia doloroso è talmente radicato in lui da non poterne fare a meno.
Possum non è adatto a coloro che cercano in un film horror i soliti jumpscare o l'effetto speciale, ha pochissimi dialoghi ed è in gran parte costituito da sequenze in cui il protagonista se ne va in giro a gettare e riprendersi il pupazzo. Ha una ottima fotografia e una colonna sonora dominante che sopperisce a una sceneggiatura minimale. E' un film decisamente lento, suggestivo e kafkiano - non solo per il ragno ma per il senso di angoscia vissuto del protagonista - che per l'atmosfera opprimente mi ha ricordato il David Lynch di Eraserhead e sopratutto lo Spider di David Cronenmber sia per le ambientazioni che le dinamiche del protagonista.
Probabilmente è dovuto al fatto di aver visto i due film a distanza di pochi giorni ma io ho trovato parecchie analogie pure con Beau ha paura. Certo, l'atmosfera e il ritmo sono diversi, ma in tutti e due il protagonista è un uomo emotivamente disturbato che combatte con il senso di colpa e vive in un mondo surreale e angosciante. Inoltre nel corto di Ari Aster, quello da cui è tratto il film, vediamo il protagonista scrivere ripetutamente su un cruciverba la parola "possum". Sara un caso?
Film
Beau ha paura
di Ari Aster
Terzo film di Ari Aster dopo Hereditary e Midsommar.
Considero Ari Aster uno dei registi più interessanti degli ultimi anni e solo ora sono riuscito a vedermi il suo ultimo film (me lo sono perso quando uscì in primavera al cinema).
Ispirato a un corto del 2011 dello stesso regista (ecco il link), Beau ha paura è un film complesso che trasmette un senso di angoscia e disagio. E' un film dagli svariati livelli di lettura ed interpretazione che richiede una soglia di attenzione molto alta per un tempo decisamente lungo (la pellicola dura intorno alle tre ore). Questi aspetti portano Beau ha paura ad essere un film parecchio impegnativo, almeno al grande pubblico, e potrebbero spiegare il motivo per cui, a fronte del budget ricevuto, è risultato essere un enorme flop ai botteghini tanto da diventare la più grande perdita in termini economici per la A24.
Beau ha paura è una sorta di odissea nella psiche malata di un uomo di mezza età che lotta contro le sue paure e il senso di colpa instillato da una madre castrante e fagocitante. Un dramma psicologico, surreale, e onirico, decisamente grottesco e fortemente allegorico, che mi ha ricordato alcuni film di Charlie Kaufman (ma in versione più tragica) e per certi versi il The Wall di Alan Parker.
Protagonista è Beau (interpretato dal bravissimo Joaquin Phoenix), un uomo che sta facendo un percorso psicologico con il suo terapista e che vive in un appartamento fatiscente in un quartiere degradato e malfamato. Beau si prepara ad andare a trovare la madre, Mona Wasserman (Zoe Lister-Jones/Patti LuPone) con la quale ha un rapporto conflittuale ma il susseguirsi di una serie di imprevisti e incidenti non gli permettono di partire. E' l'inizio di un odissea in cui il nostro protagonista, trascinato in una girandola di assurdi avvenimenti e situazioni paradossali (un pò alla "Fuori Orario" di Martin Scorsese), precipita in un viaggio folle e delirante.
Di seguito spoilero perchè altrimenti mi diventa complicato l'analisi del film.
Probabilmente, per gran parte della durata del film, ci troviano all'interno dell'inconscio del protagonista. Il viaggio in cui si trova a fare Beau non è altro che il suo percorso psicologico. Beau è un uomo passivo, subisce ed è vittima degli eventi. Non riesce a prendere una decisione perchè fin da bambino, senza la figura paterna, è stato succube di una madre egocentrica e fagocitante che gli ha impedito la sua crescita.
Il film è stutturato come un opera epica ed è diviso in un prologo (il trauma della sua nascita), quattro atti e un epilogo (processo e morte). Ogni atto è associato a una casa o a un luogo.
Primo atto. Beau vive in un appartamento trascurato in un quartiere degradato e violento popolato da derelitti di ogni tipo, maniaci e cadaveri abbandonati in strada. Credo che siano la rappresentazione delle sue emozioni, quelle che non riesce a controllare e di cui ha più paura. L'appartamento invece potrebbe rappresentare la sua psiche frammentata, il suo rifugio interiore. Beau è in procinto di partire per andare a trovare la madre che non vede da tempo. E' parecchio agitato, come lascia intendere la seduta avuta con il suo psichiatra. Ha comprato una statuina rappresentante una madre con il figlio - la madre amorevole che avrebbe sempre voluto - come regalo da portargli. Il giorno della partenza, dopo aver passato la notte in bianco per il rumore dei vicini e per i numerosi messaggi lasciati sotto la porta in cui gli si chiede di abbassare il volume della musica (nonostante non provenga nessuna musica dal suo appartamento), proprio nel momento in cui sta uscendo per andare all'aereoporto, gli rubano la valigia e le chiavi di casa e Beau è così costretto a telefonare alla madre dicendogli che deve rinunciare al viaggio. Dopo una successione di situazioni al limite del grottesco che evidenziano la sua fragilità psicologica, il nostro protagonista viene a sapere che un lampadario ha dilaniato la testa di sua madre uccidendola. La tragedia, unita al senso di colpa per averla nuovamente delusa, gli provoca un crollo, con Beau che si ritrova a correre nudo per strada, dove, completamente indifeso, viene investito da una macchina. Non riuscendo a gestire il trauma la sua psiche ha bisogno di spegnersi, resettarsi.
Secondo atto. Ripreso conoscenza Beau si ritrova in una casa confortevole dove viene accudito da una coppia che lo accolgono come se fosse loro figlio. L’uomo è un dottore e lo cura con dei medicinali. La casa, bella e profumata, probabilmente rappresenta la terapia e gli psicofarmaci. La coppia ha una figlia, Toni che si rivela subito ostile. Beau vorrebbe recarsi al funerale della madre ma nonostante l'uomo si offra di accompagnarlo per una serie di motivi il viaggio viene sempre rimandato. Il clima apparentemente sereno e tranquillo (sedato) è incrinato dell'amico del figlio morto della coppia che questi hanno accolto, un veterano di guerra completamente fuori di testa (metaforicamente potrebbe rappresentare la sua parte di sè ribelle e autodistruttiva).
In questa parte abbiamo un flasback in cui la madre racconta a un giovanissimo Beau che suo padre è morto durante il suo concepimento. In pratica tutti gli uomini della sua famiglia sono vittima di una sorta di maledizione che provoca un infarto durante l'orgasmo (per questo Beau non ha mai avuto un rapporto sessuale in vita sua). In un altro flashback, ambientato in una nave da crociera, Beau conosce Elaine, una ragazzina indipendente ed emancipata. Quando questo desiderio di staccarsi dal grembo materno diventa dominante, Elaine gli viene strappata via, diventando una specie di evoluzione repressa.
In fuga dalla seconda casa, dopo che la figlia della coppia si è uccisa ingerendo un secchio di vernice e la madre incolpa Beau di essere responsabile, il nostro protagonista resetta nuovamente la sue mente e andando a sbattere contro un albero durante la fuga in un bosco perde conoscenza.
Terzo atto. Questa volta Beau non si ritrova in una casa, ovvero in una gabbia che lo opprime, ma in un villaggio all’aperto in mezzo a un bosco dove una compagnia teatrale lo accoglie invitandolo ad assistere a uno spettacolo. La messa in scena è la rappresentazione di ciò che sarebbe potuto accadere a Beau. È il mondo del possibile, in cui Beau spezza la catena che lo tiene alla madre e prendendo la sua strada, diventa indipendente e si fa una famiglia. Quando si risveglia da questo sogno ad occhi aperti viene avvicinato da un uomo che gli dice di essere suo padre. Beau si avvicina alla verità, al trauma subito, ma il folle reduce di guerra che sta sulle sue tracce e che forse rappresenta la sua follia (ma anche una sorta di guardiano che appare quando le emozioni sono troppo forti per essere affrontate) uccide tutti i presenti compreso il suo presunto padre. Durante la fuga avviene un altra perdita di conoscenza e Beau al suo risveglio esce dal bosco, raggiunge una strada e venendo raccolto da un automobilista può finalmente arrivare a casa della madre.
Quarto atto. Il funerale è finito. Beau ha ancora una volta deluso sua madre. Aggirandosi per la grande e bellissima casa della madre, una donna di successo che ostenta con quadri e fotografie tutti i successi della sua azienda farmaceutica (la MW), Beau ascolta la voce del prete che ha celebrato il funerale attraverso il video della registrazione avvicinandosi alla bara aperta in cui giace il corpo senza testa. Poco dopo arriva Elaine, ormai adulta, venuta a porgere gli omaggi alla donna per cui lavorava. Beau gli dice di non averla mai dimenticata ed Elaine lo porta in camera da letto, nel letto della madre, facendo l’amore con lui. Beau è terrorizzato da quello che gli può accadere ma al tempo stesso, senza l'opprimente madre, si sente libero di prendersi quel piacere che per tutta la sua vita gli è stato negato. Alla fine, quando raggiunge l'orgasmo, sopravvive, scoprendo che la temuta morte di carattere ereditario, l'amatema predetto dalla madre, era una balla. Il piacere dura però pochi istanti in quanto ad essere morta è Elaine, rimasta letteralmente pietrificata con gli occhi iniettati di sangue al raggiungimento dell'orgasmo. Sconvolto, Beau si nasconde venendo raggiunto dalla madre ancora in vita. La donna ha inscenato tutto (il corpo senza testa nella bara è quello della loro governante) e inizia ad umiliare suo figlio dicendogli di non averla amata abbastanza. Arrabbiato, Beau chiede alla madre la verità su suo padre. A questo punto Mona lo porta in soffitta, dove si nasconde il più grande trauma infantile del nostro protagonista, e qui (nella sequenza più grottesca di tutto il film) Beau scopre che suo padre non è altro che un orrendo fallo gigante. Il padre di Beau non è mai morto, è stato solo un uomo come tanti, una scopata, un pene che ha iaculato dentro sua madre, e poi più nulla. Il ricatto emotivo che ha castrato Beau per tutta la sua vita era una menzogna. Sconvolto e resosi conto di essere stato sempre controllato dalla madre (lo stesso psichiatra è al servizio di Mona), Beau stringe il collo della madre e la uccide.
Epilogo. Beau fugge su una barca a motore inoltrandosi in un mare avvolto da un cielo stellato, poi si addentra in una caverna (un ritorno all'utero materno con il mare a rappresentare il liquido amniotico - notare come l'acqua sia sempre ricorrente sopratutto nella prima parte) ritrovandosi in una sorta di anfiteatro/tribunale, dove un avvocato, con affianco la stessa Mona, accusa Beau di tutte le sue mancanze affettive nei confronti della madre, condannandolo a morte. La barca a motore esplode e Beau, non riuscendo ad accettare il giudizio di una madre ossessivamente amorevole e controllante, giudizio che negli anni è diventato il giudizio che ha nei suoi confronti, affoga e infine soccombe (o rinasce?).
Un macigno.
Beau ha paura è un film che ti piace o non ti piace, non ci sono mezze misure. Io faccio parte della prima categoria (altrimenti avrei speso meno parole) e lo considero il miglior film del 2023. Ovviamente non è esente da difetti, la parte ambientata nel bosco, per esempio, pur con belissime animazioni di Cristóbal León e Joaquín Cociña, l'ho trovata un pò ridondante. Nonostante tutto è un film coraggioso e ambizioso che a mio parere necessita di un ulteriore visione per essere apprezzato meglio. Film che verrà rivalutato negli anni a venire.

Il sacrificio del cervo sacro
di Yorgos Lanthimos
Il regista greco Yorgos Lanthimos ha recentemente vinto il Leone d'Oro a Venezia con il film "Povere Creature". Parecchio incuriosito da questo film (dovrebbe uscire nelle sale italiane nel gennaio 2024), per non farmi trovare impreparato al suo "cinema" decido di guardarmi su Prime "Il Sacrificio del Cervo Sacro" del 2017 dopo aver visto alcuni anni fa il suo "Lobster".
Il film è un thriller psicologico molto particolare ed estremamente surreale, un film pieno di metafore e simbolismi il cui soggetto, scritto dallo stesso Lanthimos, è ispirato a una tragedia greca, L'Ifigenia in Aulide di Euripide.
La trama è incentrata su una famiglia borghese composta da Steven (Colin Farrel), un brillante chirurgo, sua moglie Anna (Nicole Kidman), una nota oftalmologa, e i loro due figli adolescenti, Kim e Bob. La loro vita sembra perfetta, agiata, e fredda come un tavolo di obitorio. Un giorno Steven decide di prendere sotto la sua ala protettiva Martin (Barry Keoghan), un ragazzo di sedici anni rimasto orfano di padre. Quando il ragazzo viene presentato a tutta la famiglia cominciano a verificarsi eventi sconvolgenti e Steven si trova costretto a compiere un terribile sacrificio per non perdere tutta la famiglia.
Nella prima parte del film è l’attesa a caratterizzare la pellicola. Non si capisce ciò che sta accadendo e quale sia il rapporto del ragazzo con il personaggio interpretato da Collin Farrel. L’atmosfera è gelida e distante, i dialoghi sono asettici, e la perfetta famigliola sembra in realtà celare un vuoto emotivo disturbante. Quando scopriamo le vere intenzioni di Martin e la “maledizione” che ha inflitto a Steven e alla sua famiglia, cadono le maschere e i protagonisti rivelano tutto il loro egoismo e la loro inaffettività nei confronti dell’altro. Anna: "sacrifichiamo uno dei due bambini che tanto siamo ancora giovani e ne rifacciamo un altro"
Il gelo di questa tragedia familiare dove gli affetti e i sentimenti sono repressi e disfunzionali (si pensi al rito sessuale privo di passione in cui Anna per eccitare il marito finge di essere sotto anestesia) viene descritto anche da un algida fotografia e sopratutto da una regia severa e rigorosa con delle rigide geometrie e delle inquadrature parecchio angolate. Le carellate lungo i corridoi dell'ospedale mi ha ricordato non poco lo Shining di Stanley Kubrick mentre la presenza di Nicole Kidman e il rapporto represso con il marito mi ha riportato alla mente il rapporto contrastato dei protagonisti di Eyes Wide Shut. Se in questo contesto aggiungiamo che parte della colonna sonora è affidata György Ligeti (le cui musiche Kubrick aveva usato in molti dei suoi film) mi pare evidente che Lanthimos con questo film abbia voluto omaggiare quello che da molti viene considerato come il più grande cineasta di tutti i tempi.
Nonostante un velato autocompiacimento, Lanthimos, con Il sacrificio del cervo sacro realizza un ottimo film che ci racconta l'amara parabola di una società borghese apatica e anestetizzata ai sentimenti, incapace di reagire e rassegnata al succedersi degli eventi.
Film
Pearl
di Ti West
Pearl di Ti West del 2022 è il sequel di X: A Sexy Horror Story e fa parte di una trilogia che si conclude con Maxxxine, film del 2024.
Uscito da poco in Italia in streaming e home video, quindi senza passare per le sale, il film prodotto come il precedente dalla A24 (sempre loro) è ambientato durante gli anni della Prima Guerra mondiale e racconta la storia di Pearl - che in X: A Sexy Horror Story era una donna anziana - sempre interpretata dalla brava Mia Goth che qui è accreditata anche come co-sceneggiatrice.
Texas, 1918. Pearl è una giovane ragazza che vive in una fattoria dove si occupa del padre paraplegico insieme a sua madre, una donna di origini tedesche severa e autoritaria. La ragazza sogna di diventare una ballerina famosa e vivere una vita affascinante come quella dei film. I suoi sogni però si scontrano con la realtà, la madre, infelice e depressa, invece di incoraggiarla la riporta alle sue manzioni quotidiane e ai suoi doveri. Mentre attende con poca pazienza il ritorno del giovane marito andato in guerra, Pearl, sentendosi in gabbia, sviluppa un profondo odio per quella vita uccidendo una papera che poi da in pasto a un alligatore. Quando una compagnia di ballo organizza un’audizione che si terrà in città, Pearl decide di partecipare, con la speranza di iniziare una nuova vita nel mondo dello spettacolo. Nessuno può ostacolarla, né la madre, né il padre né il marito che l'ha abbandonata. E' disposta a tutto pur di inseguire il suo sogno, anche a uccidere e a rivelare il suo folle lato diabolico.
Pearl a livello di sceneggiatura dice poco, nel senso che avendo visto X sappiamo già dove va a finire. I punti di forza del film sono altri, la messa in scena e l'interpretazione della protagonista. Sulla regia, l'allestimento scenografico e la fotografia, West e i suoi collaboratori hanno fatto un ottimo lavoro ricostruendo un film in technicolor dai colori saturi e il sapore vintage. Visivamente il film si ispira ai vecchi film della Disney e ai musical degli anni cinquanta citando apertamente la Dorothy del Mago di Oz (vedi l'incontro con lo spaventapasseri ma anche la madre/strega). Sono toni quasi fiabeschi che si contrappongono nettamente con la follia della protagonista e la sua furia omicida. L'altra aspetto positivo di Pearl è la grande prova di Mia Goth che regge l'intero film fino al lungo e graffiante monologo che sfocia in una prolungata e forzata risata sotto i titoli di coda, prima che si spengano la luce dei riflettori.
Aspettando Maxxxine, Pearl l'ho preferito a X.
Film
Hereditary
di Ari Aster
Hereditary - Le radici del male (mannaggia ai titoli italiani) è il primo lungometraggio di Ari Aster. Uscito nel 2018 e prodotto dalla A24 (tanto per cambiare) Hereditary è un film horror che gioca sulla tensione per poi sfociare nell'orrore puro.
Annie Graham (una bravissima Toni Collette) e la sua famiglia, dopo la morte dell'anziana madre, si ritrova a dover affrontare la sinistra eredità della sua stirpe. Annie è un artista che lavora nel campo del modellismo, soffre di sonnambulismo e nonostante il supporto del premuroso marito (Gabriel Byrne) ha dei difficili rapporti con i suoi due figli: l'inquietante e disturbata Charlie, e il giovane liceale Peter. Quando la famiglia subisce un terribile trauma, la situazione degenera portando alla luce la verità sulla maledizione che incombe sui Graham.
Fin dalla scena iniziale di Hereditary ci rendiamo conto della qualità e dell'ottima tecnica con cui è stato girato l'opera prima di Aster. Inizialmente assistiamo a quello che sembra essere un thriller psicologico. Non si sa se alcune situazioni siano frutto dell’immaginazione causata dall’instabilita psicologica di Annie oppure abbiano a che fare con delle vere e proprie presenze sovrannaturali. Il finale non lascia alcun dubbio anche se personalmente avrei preferito prendesse un altra direzione.
A livello di regia ci sono delle sequenze davvero ben riuscite. Una su tutte, il lungo primo piano di Peter in macchina dopo la tragedia della sorella che prosegue quando si trova sul letto e la famiglia apprende quanto accaduto. Ci sono poi delle scene in cui nel buio avvertiamo delle presenze e la tensione si fa davvero palpabile, per esempio quella in cui abbiamo un primissimo piano sempre di Peter (questa volta dall'alto verso il basso), e sull’angolo sinistro vediamo immobile (la sorella?) mentre nell’angolo opposto intravediamo nel buio il ghigno della madre. Davvero spaventoso.
Poi per carità, ci sono pure delle cose che non tornano e alcune che sembrate forzate, ma in linea di massima il film ti lascia un bel senso di angoscia e questo lo rende di conseguenza un buon horror.

The Lighthouse
di Robert Eggers
The Lighthouse del 2019 è il secondo film di Robert Eggers dopo The Witch (che non ho visto e che intendo recuperare quanto prima).
Un horror, un thriller, un dramma sulla follia? È difficile trovargli una collocazione. Quel che è certo, almeno per quanto mi riguarda, è che siamo di fronte a un capolavoro.
Fine dell’ottocento. Thomas Wake (un grande Willem Dafoe) e il nuovo assistente, Ephraim Winslow (un altrettanto bravo Robert Pattinson) giungono in un remoto isolotto del New England per occuparsi della manutenzione di un faro. I due dovranno rimanere isolati per quattro settimane in attesa del traghetto che li riporterà a casa. Ephraim si ritrova a sottostare agli ordini del vecchio e irascibile Thomas che lo costringe alla maggior parte dei lavori manuali, mentre Thomas finisce per occuparsi solo del faro, proibendo a Ephraim di salirci sopra. La tensione, la solitudine e la stanchezza aumenta fin quando, arrivati alla fine della quarta settimana, una fortissima tempesta si abbatte sull’isolotto impedendo alla nave di venirli a prendere. Ormai senza più provviste, i due trovano una scorta di alcolici e finiscono per ubriacarsi di continuo generando ostilità, euforia e delirio. Quando l’isolamento diventa insostenibile, il tempo si dilata perdendo di significato, e la realtà diventa indistinguibile dalle allucinazioni, i due protagonisti finiscono per precipitare nella follia.
Ci sarebbe da dire tantissime cose su questo film. La storia è piena di metafore, simbolismi e riferimenti alla mitologia e alle leggende marine. Ho ritrovato l’abisso di Lovecraft, la follia dello Shining di Kubrick/King, il terrore degli Uccelli di Hitchcock. È un film estremamente psicologico dove il senso di colpa e il tema della sessualità è molto presente, l’elemento fallico del faro, la sirena ammaliatrice, le masturbazioni allucinogene di Ephraim.
La luce del faro potrebbe rappresentare la purezza della verità che porta alla pazzia. Il desiderio di Prometeo di rubare il fuoco degli dei e le conseguenze del suo gesto.
Stilisticamente il film è di una potenza visiva sconcertante, ogni inquadratura sarebbe da incorniciare. Girato in bianco e nero, in formato 4:3 in 35mm - e questa scelta contribuisce a fornire al film un’atmosfera claustrofica - fin dalle prime scene troviamo una forte matrice espressionista che omaggia in maniera esplicita i film degli anni trenta di Murnau e Fritz Lang. La colonna sonora affidata a Mark Korven è ossessiva e angosciante.
The Lighthouse è senza ombra di dubbio uno dei migliori film degli ultimi anni. Per me è un capolavoro ed è una vergogna che questo film non sia mai stato proiettato nelle sale per essere distribuito direttamente su Netflix.

Men
di Alex Garland
Men è un film del 2022 scritto e diretto da Alex Garland.
Protagonista è una donna, Harper (Jessie Buckley), che ha vissuto il trauma del presunto sucidio del marito dopo una litigata in cui gli aveva detto che voleva lasciarlo. Per superare il trauma decide di andare in una casa in campagna nei pressi di un isolato paesino per ritrovare se stessa. Harper viene accolta da Geoffrey, il proprietario della casa, non accorgendosi che tutti gli abitanti del paese (che sia un bambino, un viscido parroco o un poliziotto) hanno il volto di Geoffrey. Nel momento in cui trova un uomo nudo nel suo giardino che la fissa immobile e che lei fa in seguito arrestare, inizia a salire la tensione che da vita a un vortice allucinogeno di visioni inquietanti e surreali.
Men è un film horror psicologico, atipico, forse difficile da comprendere, dichiaratamente femminista (detto dallo stesso Garland), una metafora contro la figura maschile, la misoginia e la cultura patriarcale.
La sequenza dell'uomo che si autorigenera più e più volte è memorabile, molto Cronenberg e Brian Yuzna.
Ottima fotografia e colonna sonora.