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lunedì, 27 ottobre 2025
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The End? L'inferno fuori

di Daniele Misischia

Mi sono recuperato questo interessante horror zombesco italiano prodotto dai Manetti Bros. The End? L’inferno fuori (noto in fase di lavorazione come In un giorno la fine) è un film del 2017 diretto da Daniele Misischia e scritto insieme a Cristiano Ciccotti.

Ambientato a Roma, il fim si svolge prevalentemente all'interno di un ascensore durante una epidemia di zombie.
Il protagonista della storia è Claudio Verona (interpretato da Alessandro Roja, il Dandi di Romanzo Criminale), un cinico e rampante manager che si appresta a raggiungere l’ufficio per un importante appuntamento di lavoro. Salito sull’ascensore, improvvisamente questo si blocca e Claudio si ritrova intrappolato tra due piani. Quello che sembrava un fastidioso contrattempo si rivelerà invece la sua salvezza. All’esterno, infatti, un misterioso virus sta trasformando le persone in creature affamate di carne: gli infetti invadono le strade e nessuno è più al sicuro. Rinchiuso nella cabina, Claudio assiste al disastro attraverso lo schermo del suo smartphone, tra notizie frammentarie e messaggi disperati della moglie, mentre osserva con terrore, attraverso la fessura delle porte, l’aggressione dei suoi colleghi e la loro orribile trasformazione in zombi famelici che tentano di penetrare in quello che è ormai diventato il suo rifugio.

Prima ancora del tentativo di rinascita dell’horror italiano degli ultimi anni – il cui picco, a mio parere, resta ancora A Classic Horror Story – nel 2017 Daniele Misischia e i Manetti Bros. hanno avuto il coraggio (o la follia) di proporre un film di zombie tutto italiano, indipendente e realizzato con una sorprendente dose di intelligenza produttiva. La scelta di ambientare quasi tutto in un ascensore, oltre a risolvere in un colpo solo il problema del budget, è una trovata geniale per far salire la tensione e quel senso di claustrofobia, il vero motore emotivo del film. Certo, non è un’idea nuovissima – il primo titolo che viene in mente è Devil di John Erick Dowdle – ma funziona, e funziona pure bene.
La visione del mondo esterno filtrata dalla fessura delle porte – una sorta di Camera Caffè in salsa horror – poteva forse essere giocata meglio per farci saltare sulla sedia, ma tant’è. Qualche ingenuità qua e là, dialoghi che a volte arrancano e una recitazione un po’ sopra le righe non mancano, ma guardando il bicchiere mezzo pieno – e quando si tratta di un film di genere italiano, coraggioso e dichiaratamente low budget, tendo sempre a essere indulgente – The End? si fa apprezzare per la cura visiva, per la fotografia ben calibrata e soprattutto per l’idea di fondo: un uomo arrogante e antipatico costretto a guardarsi dentro mentre fuori esplode l’apocalisse.
Le scene splatter sono presenti il giusto, magari un po’ troppo educate per i miei gusti – un paio di budella in più non avrebbero guastato – ma è nel finale che arriva la vera chicca. Vedere Roma, la mia città, trasformata in una landa deserta infestata dai cadaveri di zombi (o infetti, scegliete voi) è un colpo d’occhio notevole. Un po’ come 28 giorni dopo, ma con il lungotevere, ponte Sisto e Castel Sant Angelo sullo sfondo.

Film
Horror
Zombi
Italia
2017
domenica, 26 ottobre 2025
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Dogman

di Matteo Garrone

Matteo Garrone è uno dei registi italiani più apprezzati degli ultimi anni. Nei suoi film racconta spesso persone ai margini e situazioni difficili, alternando storie molto realistiche a visioni più fiabesche. Dal successo di Gomorra fino a Il racconto dei racconti, il suo cinema si riconosce per lo stile potente e per l’attenzione ai dettagli visivi.
Dopo L’imbalsamatore e Primo amore, Garrone torna con Dogman a ispirarsi a un fatto di cronaca nera, quello del cosiddetto "Canaro della Magliana", che negli anni ottanta sconvolse l’Italia per la brutalità del delitto.

Ambientato in un quartiere periferico di una imprecisata città meridionale (il film è stato girato a Castel Volturno), Dogman racconta la storia di Marcello (Marcello Fonte), un uomo tranquillo, minuto e apparentemente mite, benvoluto dai suoi concittadini, che gestisce un piccolo negozio di toelettatura per cani. Marcello conduce una vita semplice, scandita dal lavoro e dall’affetto per la figlia e per gli animali che accudisce con dedizione. La sua quotidianità, fatta di piccoli gesti e silenzi, viene però turbata dalla presenza di Simone (Edoardo Pesce), un ex pugile dal carattere violento con la passione della cocacina e del furto che domina con la forza il quartiere. Tra i due nasce un rapporto ambiguo, fatto di soggezione e complicità forzata, che finisce per trascinare Marcello in una spirale di tensione e paura sempre più opprimente.

In Dogman, Matteo Garrone affronta una delle storie più cupe della cronaca italiana trasformandola in una parabola di solitudine e umiliazione. Non c’è compiacimento né spettacolarizzazione della violenza — decisamente attenuata rispetto al fatto di cronaca — ma la volontà di raccontare una desolazione sociale corrosa dalla povertà e dall’indifferenza. Le strade abbandonate, i palazzi consumati dal sale e dal vento, i volti segnati degli abitanti delineano una comunità di sconfitti che sopravvive a fatica ai margini di tutto. In questo luogo senza tempo dal cielo perennemente plumbeo, Marcello è una figura tragica e fragile, un uomo mite ma ambiguo, diviso tra il desiderio di piacere e la paura di opporsi. Solo la figlia, con la sua innocenza, rappresenta un piccolo spiraglio di luce, l’unico legame con una dimensione umana ancora intatta.
Tecnicamente impeccabile, Dogman è un’opera di rigore e misura. Garrone asciuga i dialoghi fino all’essenziale, lascia che siano i silenzi e i gesti a parlare, costruisce inquadrature che sembrano scolpite nel cemento. La fotografia, cupa e lattiginosa, amplifica la sensazione di abbandono, mentre la regia segue i personaggi con sguardo attento e implacabile, capace di coglierne ogni crepa, ogni esitazione, senza mai emettere giudizi.
Marcello Fonte, premiato a Cannes per la sua interpretazione, dà vita a un protagonista di rara intensità. La sua recitazione, spontanea e dolorosamente autentica, regge l’intero film e trasforma una storia di degrado in una tragedia universale. Dogman è una delle più potenti storie di vendetta mai raccontate dal cinema italiano, ma soprattutto è un western della solitudine, il ritratto di un’umanità dimenticata, dove la violenza diventa l’unico linguaggio possibile e la fragilità un lusso che non ci si può permettere.
Davvero notevole.

Film
Drammatico
Noir
Italia
2018
sabato, 18 ottobre 2025
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La grande guerra

di Mario Monicelli

Recentemente mi sono accorto che molti dei film italiani del passato a cui, in un modo o nell’altro, sono legato, portano la firma di Mario Monicelli. Mi riferisco a I soliti ignoti, L’armata Brancaleone, Amici miei, ma anche a Il marchese del Grillo. Film che ho visto e rivisto in passato quando passavano in televisione, senza però rendermi conto che dietro a quelle storie tanto diverse c’era lo stesso regista.
Spulciando la sua filmografia, mi sono reso conto di non aver mai visto uno dei suoi titoli più celebrati, La grande guerra. Probabilmente perché non ho mai amato il neorealismo italiano, tantomeno i film di guerra. Ma ogni tanto, per ampliare i propri orizzonti e riscoprire le radici del nostro cinema, vale la pena uscire dalla propria comfort zone cinematografica.

Il film racconta la storia di due uomini comuni, Giovanni Busacca e Oreste Jacovacci, interpretati rispettivamente da Vittorio Gassman e Alberto Sordi, catapultati nella tragedia della Prima guerra mondiale. Diversi per indole e provenienza — uno milanese sbruffone, l’altro romano opportunista e pavido — si ritrovano arruolati nello stesso battaglione, uniti più dal desiderio di sopravvivere che da un autentico spirito patriottico.

Attraverso le loro disavventure, Monicelli costruisce un racconto corale che mescola ironia e dramma, restituendo la quotidianità di una guerra assurda e spietata, fatta di fame, paura e disillusione. Leone d’Oro per il miglior film al Festival di Venezia, La grande guerra non ebbe vita facile fin dalla sua produzione, venendo osteggiato da critici, giornalisti e politici perché, per la prima volta, mostrava con realismo e cinismo le reali condizioni dei soldati italiani — spesso analfabeti, male armati e peggio equipaggiati — mandati a morire in un conflitto di cui non comprendevano fino in fondo le ragioni.
Rispetto ai corrispettivi film di guerra hollywoodiani del periodo, non c’è il clima epico e celebrativo, bensì un realismo amaro e disincantato, dove i protagonisti non sono eroi ma due uomini comuni, pavidi e opportunisti, che cercano in ogni modo di scansare il pericolo e tirare a campare. Eppure, proprio loro, nel finale, finiranno per affrontare la morte con un coraggio che non hanno mai mostrato in vita.
Una pellicola dissacrante su un tema fino ad allora intoccabile, che demolisce la retorica patriottica e mette a nudo i massacri della Grande Guerra e le miserie dell’esercito italiano, stemperando il tutto con un uso intelligente e calibrato della commedia.
Tra le tante sequenze, mi ha colpito un piano sequenza in cui una fucilazione avviene sullo sfondo mentre intorno la vita del campo continua come se nulla fosse, oppure la scena del soldato ucciso perchè costretto a consegnare una lettera dal comando agli ufficilali con gli auguri di Natale e l’ordine di distribuire grappa ai reparti.
Meno necessarie, secondo me, le parti più sentimentali, quelle che coinvolgono il personaggio di Silvana Mangano, che spezzano un po’ il ritmo e la coerenza del tono generale.
La grande guerra non rientra  tra i "miei" film — non è il tipo di cinema che soddisfa i miei gusti — ma ne risconosco il suo valore storico e culturale. È un film che cammina costantemente sul filo tra dramma e commedia, capace di trovare un equilibrio raro, sostenuto dall'interpretazioni straordinarie di Gassman e Sordi.
I due, insieme, restituiscono un ritratto autentico dell’Italia dell’epoca, fatto di dialetti che si intrecciano tra soldati di ogni regione, di piccoli espedienti per tirare avanti e di quella miscela di ingenuità e furbizia che, nel bene e nel male, ha sempre contraddistinto il nostro paese.
Un film che ricorda quanto la guerra, anche quando è raccontata con ironia, resti sempre una tragedia collettiva fatta di uomini qualunque. 

Film
Drammatico
Commedia
Italia
1959
martedì, 7 ottobre 2025
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Bones and All

di Luca Guadagnino

Primo film ambientato negli Stati Uniti per Luca Guadagnino, che dopo Suspiria torna all'horror con Bones and All, film del 2022 tratto del romanzo Fino all'osso di Camille DeAngelis. Specifichiamo, il genere horror in questo film è solo il pretesto per raccontare una storia d'amore tra due adolescenti – affetti da una particolare condizione – che viaggiano nelle strade polverose di un america di provincia alla ricerca della loro identità.

Il film segue le vicende di Maren (Taylor Russell), una diciottenne che fin dall’infanzia manifesta istinti cannibali. Dopo l’ennesimo episodio, il padre decide di abbandonarla, lasciandola sola con una cassetta in cui gli racconta la sua storia e il suo certificato di nascita. Inizia così il viaggio di Maren attraverso gli Stati Uniti, alla ricerca della madre e di un’origine che possa spiegare la sua diversità. Durante questo viaggio scopre altri suoi simili tra i quali Sully (Mark Rylance) un anziano ma inquietante cannibale in cerca di compagna, Jake (Michael Stuhlbarg) un cannibale psicopatico ed efferrato e sopratutto Lee (Timothée Chalamet), un ragazzo tormentato dal passato, in fuga tanto dagli altri quanto da sé stesso. Insieme, Maren e Lee attraversano l’America profonda, affrontando le proprie paure, le pulsioni, e il rapporto con la diversità e l’emarginazione.

Tra horror cannibalesco, dramma on-the-road e racconto di formazione, Bones and All è una storia di solitudine, desiderio di appartenenza e disperata ricerca d’amore. Guadagnino costruisce un film che riflette sull’emarginazione e sulla diversità, scegliendo di raccontarle attraverso una sensibilità più emotiva che realmente horror.
Dal punto di vista visivo il film è curatissimo. La fotografia è calda e malinconica, le inquadrature ampie restituiscono l’immensità dell’America rurale, e la regia conferma la grande padronanza tecnica di Guadagnino, capace di trasformare ogni scena in un quadro sospeso. Tuttavia, dietro questa eleganza formale, ho trovato una certa debolezza narrativa. La sceneggiatura procede in modo lineare, senza veri slanci e particolari evoluzioni. Brava e convincente Taylor Russell, meno Chalamet mono espressivo. Anche la loro storia d’amore, pur attraversata da momenti di intensità, non riesce a coinvolgere del tutto, per colpa di una scrittura che tende a ripetersi e a scivolare verso un melò adolescenziale dai toni prevedibili.
Le scene horror, dosate con attenzione, non cercano mai la paura quanto piuttosto il disagio. I momenti di autentica tensione arrivano quasi esclusivamente grazie alla presenza magnetica di Mark Rylance, unico personaggio davvero inquietante del film. Tutto il resto si muove su un piano più sentimentale ed esistenziale, dove il cannibalismo diventa metafora della fame interiore, del bisogno d’amore, della difficoltà di accettare ciò che di noi stessi non vogliamo vedere.

La colonna sonora firmata da Trent Reznor e Atticus Ross accompagna con discrezione, ma non lascia il segno come in altri loro lavori.
Bones and All resta quindi un film interessante e ben realizzato, visivamente affascinante ma che alla fine non è riuscito a coinvolgermi veramente. 

Film
Drammatico
Horror
Italia
2022
lunedì, 29 settembre 2025
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Hai mai avuto paura?

di Ambra Principato

Hai mai avuto paura? segna l’esordio alla regia di Ambra Principato. È un horror gotico liberamente ispirato al romanzo di Michele Mari "Io venìa pien d’angoscia a rimirarti", che porta sullo schermo atmosfere oscure e suggestioni letterarie.

La vicenda si svolge in un piccolo borgo italiano nel 1813. Giacomo (Justin Korovkin), giovane studioso dalla salute fragile con una passione per la poesia, è il primogenito di una famiglia nobile composta da una madre fortemente religiosa e bigotta, un padre autoritario che governa il territorio e i fratellini Orazio (Lorenzo Ferrante) e la piccola Pilla. Quando nelle notti di luna piena il bestiame viene trovato sbranato da una misteriosa creatura, la paura inizia a diffondersi tra i contadini. In questo clima compare Scajaccia (Mirko Frezza), uno zingaro proveniente dalle montagne, che propone riti pagani come difesa contro la bestia, mettendo in crisi la ragione e la religione della comunità. Intanto Orazio comincia a sospettare che dietro queste storie di bestie e maledizioni ci sia qualcosa che riguarda la famiglia: segreti taciuti, antenati rimossi, ombre che si allungano dal passato.

Hai mai avuto paura? è un tentativo lodevole di riportare in vita il gotico nostrano, intrecciando religione, superstizioni, paure ancestrali e letteratura. Interessante il richiamo alla figura di Giacomo Leopardi, evocato attraverso il fratello maggiore Giacomo, con la malattia, l’inclinazione poetica e il peso della parola come fuga e condanna. Non manca nemmeno Silvia, l’amata idealizzata, né la festa del villaggio che rimanda a scenari letterari. L’idea di fondo, quella di reinventare in chiave fantastica personaggi storici, è interessante e coraggiosa, ma in questo film di autentica paura ce n’è ben poca. Hai mai avuto paura? non scuote, non suscita terrore, non coivolge fino in fondo. L’ambientazione ottocentesca, i costumi e le scenografie restituiscono un’atmosfera suggestiva, ma la resa visiva, così come il cast, soffre di una certa patina da fiction televisiva. Il coraggio di affrontare un horror con mezzi ridotti è evidente, così come la scelta di puntare sulle atmosfere più che sulla presenza scenica. Tuttavia, le suggestioni gotiche legate alla licantropia si riducono a qualche pozzanghera rossa e a una suspense che raramente diventa autentica inquietudine.

In definitiva, un’opera prima con spunti interessanti e coraggiose ambizioni, ma che nel complesso non lascia davvero il segno.

Film
Horror
Italia
2023
venerdì, 26 settembre 2025
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I soliti ignoti

di Mario Monicelli

Mi è capitato di rivedere per l'ennesima volta I soliti ignoti di Mario Monicelli. Considerato a ragione un capolavoro del genere, nonchè la prima commedia all’italiana, I soliti ignoti è un film seminale che raccoglie l’eredità di quel realismo, che ha raccontato l'Italia povera e disillusa del dopoguerra, trasformandola in una commedia dal sorriso amaro.

Ambientata a Roma, la storia segue le vicende di un gruppo di piccoli delinquenti e giovani di strada che dopo aver ricevuto una soffiata tentano il grande colpo provando a svuotare la cassaforte del Banco dei Pegni. A guidare la banda è il pugile fallito Peppe detto “er Pantera” (Vittorio Gassman) che raduna un gruppo di improvvisati delinquenti composto dal fotografo squattrinato Tiberio (Marcello Mastroianni) alle prese con un neonato perché la moglie è in prigione, il siciliano Ferribotte (Tiberio Murgia), il vecchio e sempre affamato Capannelle (Carlo Pisacane) e il giovane Mario (Renato Salvatori), che finirà per innamorarsi della sorella di Ferribotte (Claudia Cardinale). A dispensare consigli tecnici è l’esperto scassinatore Dante Cruciani (Totò). Quello che sembra un piano ingegnoso, però, si rivela presto un’impresa tragicomica, fatta di goffaggini e imprevisti, destinata a concludersi in modo tanto disastroso quanto esilarante.

Nato come una parodia del noir francese Rififi, I soliti ignoti è una commedia che ancora oggi sembra non avere età. Tutto funziona alla perfezione: i tempi comici, la scrittura, il ritmo della regia. Monicelli riesce a mescolare momenti di puro divertimento a spunti di riflessione amara, creando quella formula che diventerà la base della commedia all’italiana. 
Il cast è uno dei punti di forza. La scelta di affidare il ruolo principale a Vittorio Gassman, fino ad allora considerato solo attore drammatico, si rivela azzeccatissima. il suo personaggio è goffo, spavaldo e irresistibile. Accanto a lui troviamo un giovane Marcello Mastroianni, lontano dai ruoli sofisticati che interpreterà negli anni successivi, e un Totò in una parte breve ma fondamentale, simbolo di un passaggio dal vecchio modo di fare comicità a uno più moderno e strutturato. Senza dimenticare caratteri indimenticabili come il sempre affamato Capannelle, l’irascibile siciliano Ferribotte, il primo ruolo importante per la compianta Claudia Cardinale, nonchè la prima apparizione della Sora Lella.
Il merito va anche a una sceneggiatura impeccabile firmata da Monicelli insieme a Age, Scarpelli e Suso Cecchi D’Amico, capace di costruire personaggi che diventano veri e propri archetipi di un'Italia povera ma piena di vitalità. Non a caso il film ottenne riconoscimenti importanti, come il Nastro d’Argento e la candidatura all’Oscar nel 1959, oltre a generare due seguiti e ispirare negli anni successivi diversi remake americani.

I soliti ignoti non è solo una commedia divertente, ma il primo grande manifesto di un genere che farà scuola in tutto il mondo, quella di raccontare i nostri limiti con un sorriso, senza mai perdere l’umanità.

“Rubare è un mestiere impegnativo, ci vuole gente seria, mica come voi! Voi, al massimo, potete andare a lavorare!”

Film
Commedia
Italia
1958
Retrospettiva
giovedì, 25 settembre 2025
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La corta notte delle bambole di vetro

di Aldo Lado

Da bambino, forse intorno agli otto o nove anni, mi capitò di vedere in TV un film trasmesso da qualche emittente privata che mi rimase impresso in modo particolare. Affascinato dalla storia e colpito da certe immagini, non ne ho mai conosciuto né il titolo né l’autore, ma quel ricordo è rimasto lì, sopito eppure vivo, custodito in un angolo della memoria. Oggi, a distanza di decenni, so che quel film era La corta notte delle bambole di vetro, un cult del giallo all’italiana che segna l'esordio del regista Aldo Lado.

Il film è ambientato a Praga e si apre con il ritrovamento di un uomo apparentemente morto in un parco. Si tratta di Gregory Moore (Jean Sorel), un giornalista americano, che viene trasportato all’obitorio. In realtà l'uomo è ancora vivo, prigioniero di una paralisi che lo immobilizza e gli impedisce di comunicare. Disteso sul lettino, Gregory rivive come in un incubo gli eventi che lo hanno condotto fin lì, dalla scomparsa della fidanzata Mira (Barbara Bach), le indagini segrete in una città cupa e sorvegliata, l’incontro con personaggi ambigui che celano verità inconfessabili. Ogni ricordo lo avvicina alla scoperta di un potere oscuro, il Klub 99, un’organizzazione segreta capace di controllare le vite e decidere le morti. E mentre i medici si preparano a compiere una autopsia, la sua mente lotta disperatamente per riprendere il controllo del suo corpo, prima che il silenzio diventi definitivo.

La corta notte delle bambole di vetro è uno dei migliori thriller italiani del periodo. Un film che fonde paranoia alla Roman Polanski con atmosfere eleganti e inquietanti. Aldo Lado, al suo debutto, dimostra un talento registico straordinario riuscendo a creare un’atmosfera di mistero in una città, Praga — anche se gli esterni sono stato girati a Zagabria e Lubiana —all’epoca stretta dalla morsa del comunismo, che si trasforma in un labirinto freddo e sorvegliato. Il film affronta in maniera evidente il tema del potere e del controllo, dove una organizzazione segreta che decide vite e morti, diventa metafora di un’autorità occulta e opprimente.
L’idea di una persona cosciente all’interno di un corpo inerte, che richiama "La sepoltura prematura" di Edgar Allan Poe, evoca una delle paure più inquietanti, e la scena in cui il protagonista sta per essere sezionato davanti agli studenti di medicina, è rimasto tra i ricordi cinematografici più indelebili.
Il film probabilmente nella parte centrale ha un ritmo un po lento, ma questo contribuisce a costruire la tensione necessaria, fino a un finale cupo, disturbante e spietato, tra i più agghiaccianti del genere. Ottima anche la colonna sonora di Ennio Morricone, che contribuisce in modo determinante a costruire il clima angosciante del film.

Curiosa la storia del titolo. Inizialmente il film doveva chiamarsi Malastrana, un antico quartiere di Praga, ma i produttori lo cambiarono in La corta notte delle farfalle. Rendendosi conto che le farfale erano giè state utilizzate nel titolo in un film di Tessari uscito in quel periodo, decisero infine per La corta notte delle bambole di vetro, un nome suggestivo ma che con la trama del film centra poco e nulla.

Film
Horror
Thriller
Italia
1971
Retrospettiva
venerdì, 19 settembre 2025
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La valle dei sorrisi

di Paolo Strippoli

Negli ultimi anni alcuni giovani cineasti stanno tentando di riportare l’horror e il cinema di genere al centro della scena italiana, riallacciandosi a una tradizione che dagli anni sessanta agli ottanta ci ha reso protagonisti, seppur spesso di nicchia, sulla scena mondiale. Tra i nuovi autori che si muovono in questa direzione – da De Feo a Zampaglione – spicca Paolo Strippoli, che proprio con De Feo ha firmato A Classic Horror Story, un film capace di riaccendere l’interesse verso un genere a lungo guardato con diffidenza e spesso relegato ai margini dalle case di produzione.

Presentato fuori concorso all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, La valle dei sorrisi è il nuovo film di Paolo Strippoli, uscito nei cinema a distanza di circa tre anni dal precedente Piove.

Sergio (Michele Riondino), insegnante di educazione fisica ed ex campione di judo dal passato tormentato, viene trasferito nel remoto paese di Remis, una comunità isolata tra le montagne delle Alpi. Solo un anno prima il paese è stato sconvolto da un terribile deragliamento ferroviario che ha causato numerose vittime, ma oggi Remis appare come un luogo sospeso nel tempo, dove gli abitanti sembrano condurre un’esistenza serena, quasi inquietantemente felice. Dietro questa facciata si nasconde però un segreto: Matteo (Giulio Feltri), un ragazzo introverso dotato della capacità di assorbire il dolore e l’angoscia degli altri, al centro di un misterioso rito a cui partecipa l’intera comunità. Inizialmente diffidente, Sergio viene convinto da Michela (Romana Maggiora Vergano), che lavora nel bar del paese, a liberarsi del segreto che lo tormenta affidandosi a Matteo. Nel tentativo di comprendere e forse salvare il ragazzo da un destino di sacrificio, Sergio scoprirà che il rito, la felicità apparente e l’armonia di Remis sono molto più ambigui e intrecciati di quanto avesse immaginato.

Il film affronta molti temi, forse anche troppi. Quello dominante è il dolore come elemento rimosso o negato dalla società, il mito della felicità obbligatoria e del sorriso che nasconde ferite. Ma oltre a questo, troviamo la dimensione del sacrificio e della responsabilità, l’empatia che diventa risorsa da sfruttare, la religione e la sacralità dei gesti come maschera di una dipendenza dal sentirsi felici, il bullismo scolastico, l’adolescenza queer e il rapporto padre-figlio.
La valle dei sorrisi è un horror atipico che non punta a spaventare con jumpscare né a intrattenere con soluzioni facili, ma a scavare nella profondità dell’animo umano. La prima parte, più lenta e introspettiva, serve a delineare i protagonisti e il microcosmo di Remis, un paese tra le montagne in cui ognuno cela un malessere interiore e un segreto inconfessabile. L’inquadratura con il cartello "Benvenuto a Remis" richiama inevitabilmente quello di Twin Peaks, e come nella serie di Lynch il paesaggio montano non è semplice sfondo, ma vero e proprio elemento narrativo che alimenta mistero, sospetto e straniamento.
Nella seconda parte il film cresce fino a evocare suggestioni da Villaggio dei dannati e rimandi alla Ari Aster – la palestra trasformata in una sorta di chiesa pagana mi ha ricordato molto Midsommar. Eppure Strippoli riesce a mantenere una propria identità, costruendo un crescendo misurato in cui l’atmosfera si fa via via più intensa. La regia dosa bene l’inquietudine, lavora sul suono e sul silenzio, sfrutta il mistero prima di svelarlo, trovando un equilibrio visivo e ritmico notevole.
Convincente Michele Riondino, che all’inizio mi ricordava un malinconico Tomas Milian/Monnezza, bravo soprattutto quando rivela il trauma che lo perseguita. Solida anche la prova di Giulio Feltri, capace di incarnare insieme l’innocenza e le pulsioni dell’adolescenza, mentre cerca di sottrarsi a un destino che lo vuole ricettacolo del dolore altrui.
La valle dei sorrisi non è un film perfetto, né il miglior horror italiano degli ultimi anni, ma segna una direzione importante. È un’opera che dimostra come questa sia la strada giusta da percorrere per riportare il nostro cinema di genere a nuova vita.

Film
Horror
Italia
2025
Cinema
giovedì, 11 settembre 2025
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Reazione a catena

di Mario Bava

Reazione a catena di Mario Bava è considerato il vero precursore del genere slasher, un cult che porta alle estreme conseguenze il giallo all’italiana. Lo stesso regista sanremese lo riteneva il suo film più riuscito, anche perché fu uno dei pochi in cui non dovette affrontare particolari ostacoli produttivi, potendo così dare libero sfogo alla sua creatività. Scritto da Bava insieme a Franco Barberi e Dardano Sacchetti, il film avrebbe dovuto intitolarsi inizialmente Così imparano a fare i cattivi – battuta pensata per chiudere la pellicola – ma poi uscì nei cinema con il titolo Ecologia del delitto. Nei paesi anglosassoni fu distribuito come A Bay of Blood, mentre da noi è ormai conosciuto come Reazione a catena, il titolo meno riuscito del mazzo.

Tutto ha inizio con la morte misteriosa della contessa Donati, proprietaria di una grande villa affacciata su una baia isolata. La sua eredità scatena una catena di delitti che coinvolge parenti, interessati all’acquisto del terreno, e giovani ignari che finiscono nel posto sbagliato al momento sbagliato. Tra tradimenti, inganni e violenza crescente, ogni personaggio sembra diventare vittima e carnefice in un continuo ribaltamento di ruoli, fino a un epilogo cinico e beffardo.

In un periodo in cui il thriller e il giallo italiano andavano per la maggiore, Reazione a catena si distingue per aver introdotto e codificato un nuovo linguaggio, in cui la suspense non nasce più dall’indagine investigativa, come nei gialli tradizionali, ma dal ritmo crudele con cui i personaggi vengono eliminati uno dopo l’altro. Le uccisioni, esplicite e sanguinarie, seguono una vena fortemente splatter, anticipando lo slasher americano, quel filone che da Halloween a Venerdì 13 avrebbe caratterizzato gran parte dell’horror degli anni ottanta.
Nonostante una sceneggiatura confusa e a tratti ingarbugliata, e alcune scene ingenue – come quella della ragazza che muore ma la si vede respirare dal movimento toracico – il film si fa apprezzare dalla forza dell’ambientazione: la villa isolata, la boscaglia e il lago che fa da cornice al massacro diventeranno luoghi ricorrenti e simbolici del genere. Ancora più determinante è però la regia di Bava, che con l’uso insistito di zoom, fuori fuoco e inquadrature spietate ritrae i personaggi con cinismo glaciale. Non sono eroi o vittime innocenti, ma figure grette e senza profondità, ridotte a insetti senz’anima destinati a trasformarsi in pura carne da macello. Memorabile, in questo senso, l’omicidio dei due amanti trafitti da una lancia nel letto, sequenza che sarà ripresa quasi identica nel secondo Venerdì 13.

Il finale sorprendente e beffardo, intriso di humour nero, ribalta ogni aspettativa e lascia lo spettatore con un sorriso amaro. Reazione a catena rimane così uno dei vertici del cinema di genere italiano, un’opera seminale che non solo anticipa tendenze future, ma restituisce con lucidità lo spirito di un’epoca, quella dei primi anni settanta, in cui il cinema non aveva paura di sperimentare ed esplorare i suoi lati più oscuri.

Film
Thriller
Giallo
Mario Bava
Italia
1971
mercoledì, 10 settembre 2025
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L'uomo in più

di Paolo Sorrentino

Ho sempre avuto un rapporto altalenante con il cinema di Paolo Sorrentino. Alcuni suoi film li ho apprezzati, altri invece li ho trovati pretenziosi e un po distanti.
Non avevo mai visto L’uomo in più, il suo esordio del 2001, il film che ha dato il via al lungo sodalizio con Toni Servillo. Un occasione per guardare, a distanza di oltre vent’anni, i primi germogli del suo cinema.

Ambientato a Napoli nei primi anni ottanta, il film racconta le vite parallele di due uomini che condividono lo stesso nome, Antonio Pisapia. Il primo, interpretato da Toni Servillo, è un cantante di successo in piena crisi personale e professionale. Il secondo, impersonato da Andrea Renzi, è un calciatore il cui promettente futuro viene spezzato da un grave infortunio. Entrambi si trovano costretti ad affrontare la caduta dall’olimpo della notorietà e a confrontarsi con la solitudine, l’ossessione per il proprio passato e la difficoltà di reinventarsi. I loro destini, simili e intrecciati solo da uno sguardo, diventano lo specchio di un’umanità fragile che si muove sul confine tra successo e disfatta.

L'opera prima di Sorrentino è la drammatica storia di due perdenti. Un calciatore e un cantante. Due uomini che condividono lo stesso nome e che hanno conosciuto il successo, salvo poi vederselo strappare via di colpo, precipitando nel fallimento.
Antonio Pisapia calciatore è un uomo chiuso, introverso, onesto, incapace di accettare compromessi. Gioca in una squadra di media classifica di Serie A ed è l’idolo dei tifosi. Quando rifiuta di partecipare a un giro di scommesse e partite truccate, subisce un grave infortunio in allenamento che stronca la sua carriera. Antonio non vuole però rinunciare al calcio e sogna di diventare allenatore. Si inventa perfino un nuovo modulo di gioco – da cui il titolo del film, l'uomo in più. Ma la sua ossessione, unita all’ingenuità e a una malinconia che allontana chiunque, gli chiude porte e possibilità, fino a fargli perdere anche se stesso.
Tony Pisapia, invece, è un cantante melodrammatico all’apice della carriera. Egocentrico, narcisista, vive sopra le righe tra alcol e droga, indifferente a tutto e a tutti, tranne che alla madre, con cui condivide il dolore e il senso di colpa per la morte del fratello. Quando viene arrestato per un rapporto con una minorenne, la sua fama crolla in un istante. Una volta uscito dal carcere nessuno vuole più avere a che fare con lui, e Tony vaga in bilico tra la ricerca dell’ultimo applauso e il desiderio di sentirsi finalmente libero.

Ispirandosi liberamente alla figura di Franco Califano e alla tragica vicenda di Agostino Di Bartolomei – che da romanista ho vissuto con particolare intensità – Sorrentino racconta l’amaro destino di due uomini segnati dalla stessa condanna, quella di conoscere la gloria e doverne poi affrontare la perdita. Due anime specchiate, fragili, destinate a consumarsi nel ricordo.
L'uomo in più è un film poetico e struggente, con personaggi ben delineati, una sceneggiatura solida e una regia elegante, ancora lontana dagli eccessi estetici che il regista adotterà in seguito. Memorabile il piano sequenza che segue Servillo in discoteca, così come l’uso della musica, già centrale nel suo cinema, capace di risaltare le sequenze più emotive.
Servillo è espressivo e convincente senza mai scivolare nella macchietta. Il suo monologo finale nello studio televisivo rimane impresso. Anche Andrea Renzi è molto convincente, anche se il suo personaggio triste e malinconico gli impone di essere più discreto e modesto.
Senza dubbio L’uomo in più rappresenta il Sorrentino che preferisco, quello più vicino a Le conseguenze dell’amore, che rimane per me il suo capolavoro. Un film sulla solitudine e sull'incapacità di reinventarsi dopo un crollo, che sia dovuto al destino o alle proprie colpe. Commovente e profondo. Mi è piaciuto molto.

Film
Drammatico
Italia
2001
martedì, 9 settembre 2025
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Home Education - Le regole del male

di Andrea Niada

Home Education - Le regole del male è un film del 2023 diretto da Andrea Niada, regista milanese cresciuto a Londra. Si tratta di un folk horror di coproduzione italo-britannica, in cui Niada, qui al suo debutto, espande il suo omonimo cortometraggio del 2016.

La storia si svolge in una piccola casa isolata tra i boschi della calabria dove vive Rachel (Lydia Page), una ragazzina tenuta in isolamento dai genitori. Alla morte del padre Philip, la madre Carol (Julia Ormond), donna autoritaria e ossessiva, convince la figlia che attraverso riti esoterici potrà riportarlo in vita. Così, tra brevi escursioni nei boschi e l’uso di un antico corno cerimoniale, Rachel viene coinvolta in un rituale inquietante, mentre il corpo dell’uomo lentamente si decompone all’interno della casa. Nel frattempo, mentre l'improvvisa scomparsa dell'uomo inizia a destare sospetti tra gli abitanti del paese vicino, in questo clima di isolamento e tensione, il giovane Dan (Rocco Fasano) riesce a entrare in contatto con Rachel, insinuando dubbi che iniziano a incrinare le certezze imposte dalla madre.

Il film mi ha convinto. Ha una trama originale e un’ambientazione suggestiva. La storia ruota intorno a tre personaggi, una madre ossessiva incapace di accettare la morte del marito, una figlia divisa tra obbedienza e paura, e un ragazzo che finisce per incrinare una realtà fatta di credenze e rituali. Sul piano tematico il film affronta l’elaborazione del lutto trasformandolo in un incubo domestico, opprimente e asfissiante. È un mondo distorto e malato, dove l’ossessione per i batteri, il deterioramento della carne e la putrefazione restano sempre palpabili – non a caso il padre fa il macellaio. Il confine tra realtà e superstizione, sovrannaturale e follia, rimane costantemente sfocato, alimentando l’inquietudine e il dubbio e lasciando spazio di interpretazione agli spettatori, anche nel finale. Molto riuscita anche la scelta dell’ambientazione dove i boschi calabresi diventano uno spazio chiuso, quasi soffocante, che riflette l’isolamento dei personaggi. Anche il lavoro sul sound design, dove spicca il corno fatto di ossa, amplifica l’angoscia con il suo lamento disturbante. Molto brava Julia Ormond, ben affiancata dalla giovane Page, mentre il personaggio di Fasano, con il suo look da sfigato metallaro, l'ho trovato meno convincente e un po’ forzato.

Nonostante un ritmo che a tratti si dilata troppo e qualche passaggio rimasto in superficie, Home Education - Le regole del male è un horror interessante, curato, con suggestioni visive e sonore che lasciano il segno. Da tenere d'occhio questo Niada.

Film
Horror
Italia
2023
domenica, 7 settembre 2025
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Un film fatto per Bene

di Franco Maresco

Presentato all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, sono andato a vedere l’ultimo film di Franco Maresco, probabilmente il regista più corrosivo e dissacrante del nostro cinema contemporaneo. Con Daniele Ciprì ha dato vita a Cinico Tv, assurdo programma satirico degli anni novanta che quelli della mia generazione ricorderanno senz'altro – erano i tempi di Fuorio Orario, Avanzi, un periodo in cui il terzo canale della Rai aveva ancora il coraggio di rischiare, di lasciare spazio a linguaggi scomodi e sperimentali. Da lì arrivarono Lo zio di Brooklyn e il famigerato Totò che visse due volte, accolto da polemiche e censure per il suo sguardo blasfemo e senza compromessi. Negli anni duemila Maresco ha continuato a lavorare tra cinema e documentario, costruendo un percorso che non concede nulla allo spettatore se non la verità ruvida della sua visione. Conoscendo la sua fama, sapevo che non sarebbe stata una visione semplice, ma con la complicità di un paio di amici, ho deciso di vedermi Un film fatto per Bene.

Il film, girato come fosse un documentario, racconta la travagliata storia della realizzazione di un film su Carmelo Bene da parte di Franco Maresco. Prodotto dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti  tra incidenti, incomprensioni, ciak infiniti e ripetuti ritardi, le riprese vengono bruscamente interrotte in anticipo e il film rimane incompleto. Maresco accusa la produzione di “filmicidio” e sparisce dalla circolazione. A questo punto Umberto Cantone, suo amico e co-autore, si mette alla sua ricerca, contatta testimoni e collaboratori, ripercorrendo così la personalità di un regista ossessivo, nevrotico, nichilista e apocalitticamente pessimista.

Maresco firma un film metacinematografico, assolutamente autoreferenziale ma spietatamente critico con se stesso e con l’industria cinematografica. Un’opera consapevole di essere destinata a quattro gatti – o a pantegane intellettualoidi – ma che Maresco realizza perchè questo è l'unico modo per dare sfogo alla rabbia e all’orrore che prova per questo "mondo di merda". Un film fatto per Bene diventa così una sorta di (auto)analisi che prende avvio in una stanza d’albergo, prenotata ogni cinque o sei mesi per tagliarsi i capelli, per poi passare a un taxi guidato dal personaggio forse più esilarante, un autista che usa la preghiera come intercalare, fino agli spezzoni di un film incompiuto ambientati nella brulla Sicilia e in studi cinematografici. In mezzo, una partita a scacchi con la Morte di Bergman impersonata da un irresistibile Antonio Rezza – «ma lo sai come si gioca a scacchi, Peppino?» – e l’ascesa ai cieli di San Giuseppe da Copertino, con conseguente caduta. Il film finisce per spolverare ritagli della memoria in un percorso a ritroso che rievoca il sodalizio con Daniele Ciprì, Cinico Tv, Totò che visse due volte, tra materiali d’epoca e ricostruzioni girate per sembrare d’archivio.
Ne viene fuori un film autocelebrativo, sconclusionato, a tratti confuso, che non provoca, ma che riesce comunque a strappare risate – soprattutto nella prima parte – grazie ai suoi personaggi tragicomici. Qui non ci sono la disperazione e gli eccessi taglienti, ruvidi e blasfemi delle opere anni novanta, né l’impatto disturbante del miglior Maresco. In realtà non c’è neanche Carmelo Bene, ed è un peccato. Resta un film che diverte chi sa ridere delle tristezze altrui, ma che alla lunga sfianca. Consigliato solo a chi conosceun minimo l’autore. Per tutti gli altri, astenersi.

Film
Grottesco
Italia
2025
Cinema
martedì, 19 agosto 2025
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Primo Amore

di Matteo Garrone

Dopo il successo de L’imbalsamatore, che lo aveva imposto all’attenzione della critica come una delle voci più originali del nuovo cinema italiano, Matteo Garrone nel 2004 torna alla regia con Primo amore. Un titolo che potrebbe suggerire una storia sentimentale convenzionale ma che, al contrario, si ispira invece a un fatto di cronaca realmente accaduto alla fine degli anni novanta, narrato dal protagonista stesso nel libro "Il cacciatore di anoressiche".

La storia vede come protagonista Vittorio (Vitaliano Trevisan), un orafo vicentino, che incontra Sonia (Michela Cescon) ad un appuntamento al buio in una stazione degli autobus. La prima frase che pronuncia Vittorio è "ti immaginavo più magra". Nonostante il campanello di allarme e i dubbi sulla possibilità di riuscita del loro rapporto, i due iniziano a frequentarsi. Vittorio è attratto dalla dolcezza e l'intelligenza della ragazza ma è ossessionato dalla magrezza, il suo ideale di donna deve avere un corpo scheletrico. Sonia sembra essere attratta dal suo lato oscuro e sebbene percepisca qualcosa di dissonante in lui, accetta di dimagrire, quasi come un atto d’amore.
Quello che sembra un semplice sacrificio affettivo si trasforma gradualmente in una prigionia fisica. I due vanno a vivere insieme e Vittorio inizia a sorvegliare ossessivamente il peso di Sonia, imponendo regole di controllo estremo e nascondendole il cibo. Sonia smette di riconoscersi, vede il proprio corpo consumarsi e scivola in un incubo di deperimento e autodistruzione.

Primo Amore è la storia di due solitudini che si incontrano e si consumano dentro un’ossessione. Da un lato c’è un uomo malato, possessivo e violento, incapace di vivere un sentimento se non attraverso il controllo, dall’altro una donna fragile, che si lascia trascinare in una spirale di sottomissione psicologica fino a perdere se stessa. Dimagrendo, Sonia non perde soltanto il corpo ma anche la vitalità, l’identità e i luoghi affettivi che la definivano.
Il cuore del film sta proprio nel tentativo disperato di cambiare l’altro, di piegarlo a un ideale, di plasmarlo come fosse materia grezza. Non è un caso che Vittorio sia un orafo: la bilancia, la precisione maniacale e la ricerca della perfezione diventano simboli di un amore trasformato in ossessione. È così che il rapporto si fa lentamente perversione psicologica. Vittorio domina Sonia attraverso il controllo del corpo, mentre lei oscilla tra il desiderio di essere ammirata e quello di scomparire, divisa tra masochismo e bisogno di riconoscimento.

Molto brava la prova di Michela Cescon, che si è sottoposta pure ad un dimagrimento di quindici chili. Più debole la prova di Vitaliano Trevisan, che ha preso parte con Garrone alla sceneggiatura. Comprendo che il suo personaggio deve essere volutamente cupo e poco comunicativo, ma i suoi dialoghi sono spesso al limite del comprensibile, e non è tanto per il dialetto veneto. Sono biascicati, borbottii, confusi con i rumori di fondo. Magari sarà stata una scelta pure voluta ma io l'ho trovata penalizzante. Per la cronaca Trevisan pare avesse dei disturbi psichici e si è suicidato nel 2022.
Passando alla regia, Garrone dirige con uno stile sobrio e implacabile, fatto di inquadrature statiche e ambienti spogli che trasmettono claustrofobia. Molto belle alcune sequenze, come quella con i volti dei protagonisti sfocati, ridotti a fantasmi, mentre il resto che li circonda è perfettamente distinguibile, oppure la cena al ristorante dai toni grotteschi - ripresa da un episodio realmente accaduto, ma mache l’allucinazione delle cipolle scambiate per cosce di pollo, fino alla scena con Sonia, nuda e scheletrica, contro la parete della cantina. Una immagine che richiama drammaticamente il ricordo di un lager.

Primo Amore è un film cupo e disperato, girato con uno stile iperrealistico e personale, tratta un tema delicato senza essere troppo eccessivo.

Terminata la visione, ho voluto approfondire la vicenda reale di Marco Mariolini recuperando su YouTube la puntata di Storie maledette in cui Franca Leosini lo intervista in carcere.
Un documento agghiacciante che amplifica ancora di più la sensazione di disagio lasciata dal film.

Film
Drammatico
Noir
Italia
2004
sabato, 16 agosto 2025
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Chiamami col tuo nome

di Luca Guadagnino

Chiamami col tuo nome (nel mercato internazionale conosciuto come Call Me by Your Name) è un film del 2017 diretto da Luca Guadagnino. Tratto dall'omonimo romanzo di André Aciman e sceneggiato da James Ivory, il film ha vinto numerosi premi internazionali tra cui l'oscar per la migliore sceneggiatura non originale.

Ambientato nell’estate del 1983, tra le campagne di Brescia e Bergamo, il film racconta di Elio (Timothée Chalamet), diciassettenne sensibile e riflessivo che trascorre le vacanze nella villa di campagna della sua famiglia. L’arrivo di Oliver (Armie Hammer), affascinante e spigliato dottorando americano ospite di suo padre, professore di archeologia, rompe l’equilibrio di quell’estate tranquilla. Tra lunghe passeggiate in bici, bagni nel lago, conversazioni colte e tensioni erotiche, tra i due nasce un legame profondo e irripetibile.

Chiamami col tuo nome racconta un amore estivo tra un diciassettenne e un ventiquattrenne — anche se Chalamet sembra uscito dalle medie e Hammer un trentenne — e parla di desiderio e memoria, di quell’attimo in cui l’amore ti piomba addosso e, proprio perché dura poco, resta scolpito nei ricordi. Il film mi ha ricordato molto Ballo da sola di Bertolucci, con l’unica differenza che qui si narra di un rapporto omosessuale. Certo, non è un dettaglio da poco, ma tolto questo rimane una storia d’amore semplice, quasi ingenua, e la solita difficoltà di viverla alla luce del sole, destinata a chiudersi con la fine dell’estate. Insomma, niente lieto fine e tanta malinconia.
Dal punto di vista tecnico il film è impeccabile, con grande cura del dettaglio, belle sequenze dei paesaggi bergamaschi, e tutti gli ingredienti di quel cinema "costruito" per piacere, soprattutto all’estero. Peccato che io, dopo venti minuti, stessi già guardando l’orologio. Lento, lunghissimo, con una rappresentazione della famiglia borghese da Mulino Bianco — tutti sorridenti, comprensivi, carini ed educati — e un finale che dovrebbe commuovere, ma che ho trovato buonista e un po’ furbo. In questo film nessuno litiga, nessuno sbaglia, nessun’ombra. Anche la tipa che viene scaricata da Elio alla fine si rifà viva per diventare sua amica. Le scene erotiche sono molto edulcorate e persino la “famosa” scena della pesca — che Guadagnino voleva pure tagliare — alla fine è appena accennata e non si conclude.
Chiariamoci, il film è confezionato benissimo. I premi e gli applausi della critica non arrivano per caso. La colonna sonora funziona (e non solo per il brano di Sufjan Stevens), Chalamet è davvero bravo, l’ambientazione è affascinante, con i borghi antichi e la ricostruzione curata degli anni ottanta, e l’atmosfera estiva italiana, con cicale e tempi dilatati, è resa benissimo. Solo che, a me,  non mi ha lasciato nulla. Probabilmente è un tipo di cinema distante dai miei gusti ma ho come il sospetto che, se la storia d’amore non fosse stata tra due ragazzi, questo film non avrebbe avuto la stessa risonanza. 
Ho trovato questo film buonista, retorico, forzatamente inclusivo e profondamente noioso. Ma sono molti che lo reputano un capolavoro.

Film
Drammatico
sentimentale
Italia
2017
venerdì, 11 luglio 2025
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Giornata nera per l'ariete

di Luigi Bazzoni

Nei primi anni settanta, sulla scia del Dario Argento di quegli anni e del giallo all’italiana, Luigi Bazzoni, regista poco conosciuto al publico ma dotato di un’impronta stilistica unica, quasi autoriale, firma Giornata nera per l’ariete, un film che mescola l’eleganza visiva a un'atmosfera morbosa e carica di suspense.

Andrea Bild (Franco Nero) è un giornalista alcolizzato e tormentato, coinvolto suo malgrado in una serie di inquietanti omicidi che scuotono un gruppo di colleghi di una scuola internazionale. Mentre cerca di fare luce su questi crimini, sempre più persone legate al suo passato e al suo presente vengono aggredite o uccise, e Andrea si trova a lottare contro i suoi demoni personali e contro il sospetto che lo circonda. Tra rapporti ambigui e verità nascoste, l’indagine si trasforma in un percorso oscuro e destabilizzante che lo conduce davanti all'assassino, in procinto di compiere il suo quinto delitto.

Giornata nera per l’ariete non brilla certo per la solidità della trama. La vicenda è piuttosto prevedibile, a tratti confusa, e qua e là presenta evidenti buchi di sceneggiatura. Tuttavia, il film riesce comunque a distinguersi grazie a una regia sorprendentemente raffinata. Luigi Bazzoni mostra una cura estetica rara per il genere, facendo largo uso di grandangoli distorcenti, composizioni geometriche e movimenti di macchina eleganti. Superlativa la fotografia di Vittorio Storaro, che regala inquadrature capaci di imprimere al film un’identità visiva forte e riconoscibile. Anche la colonna sonora firmata da Ennio Morricone – discreta ma insinuante – accompagna con efficacia l’evolversi della tensione, mentre le location suburbane romane (alcune parecchio familiari) restituiscono la sensazione di un paesaggio urbano sospeso tra modernità alienante e memoria decadente. Il cast è variegato e funziona nel complesso bene. Franco Nero regge il film nonostante la sua monoespressività, affiancato da Silvia Monti, Agostina Belli, Ira von Fürstenberg, Pamela Tiffin, Edmund Purdom e Rossella Falk, ognuno con un ruolo che contribuisce a costruire quella rete di relazioni ambigue che alimenta il mistero. Il ritmo non è forsennato – anzi, a tratti risulta lento – ma l’atmosfera è sempre densa, carica di sospetto e angoscia.
Giornata nera per l’ariete è un giallo atipico, più interessato alla forma che all’intreccio, e proprio per questo capace di affascinare chi cerca nel cinema di genere una certa eleganza stilistica. Un film imperfetto, ma visivamente parecchio interessante, che trasuda anni settanta in ogni fotogramma e che saprà farsi apprezzare dagli estimatori più curiosi del giallo all’italiana.

Film
Thriller
Giallo
Italia
1971
giovedì, 10 luglio 2025
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Il signor Diavolo

di Pupi Avati

Nel 2019, Pupi Avati – maestro del cinema italiano da sempre attratto dai territori ambigui dell’occulto e della memoria, come dimostrano La casa dalle finestre che ridono e L’arcano incantatore – torna al genere che meglio gli appartiene con Il signor Diavolo, un horror rurale che affonda le radici nella tradizione del gotico padano. Con la sua consueta sensibilità per l’inquietudine quotidiana, Avati ci porta in una provincia veneta cattolicissima, sospesa tra fede cieca e superstizione popolare.

La storia è ambientata nell’autunno del 1952, in una frazione lagunare del Veneto. Un giovane funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia (Gabriele Lo Giudice) viene inviato da Roma per indagare su un caso delicatissimo: un ragazzo di quattordici anni, Carlo Mongiorgi, ha ucciso un coetaneo, Emilio Vestri Musy, sostenendo che fosse “il Diavolo in persona”. Il caso rischia di mettere in imbarazzo la Democrazia Cristiana, il partito politico che all’epoca era alla guida del paese e molto legato alla chiesa cattolica. Attraverso una serie di flashback e testimonianze, si ricostruisce un mondo dominato da fanatismo, pregiudizio e paure ataviche. Emilio, figlio di una famiglia influente, viene descritto come una creatura disturbante, con denti animaleschi e un comportamento inquietante, al punto da essere temuto dai suoi stessi compagni di catechismo. La figura del “bambino-demonio” nasce dall’immaginario collettivo, alimentata da una religiosità più vicina al terrore che alla speranza. L’indagine, presto, si trasforma in un viaggio sempre più incerto, in cui razionalità e superstizione si confondono, e il male sembra potersi manifestare in forme del tutto ordinarie.

Il signor Diavolo è un film che lascia sensazioni ambivalenti. Girato con mezzi limitati, presenta una fotografia desaturata, dominata da toni marroni, che restituisce un certo sapore d’epoca ma finisce per appiattire l’immagine. Il sonoro è debole, con dialoghi spesso sussurrati e difficili da seguire, mentre la messa in scena richiama per ritmo e impostazione quella degli sceneggiati della RAI. A questo si aggiungono un protagonista poco carismatico, una sceneggiatura discontinua e un finale un pò troppo sbrigativo.
Eppure, nonostante i limiti, il film ha quel sapore nostalgico apprezzato dagli amanti del cinema del passato. I riferimenti storici sono ben calibrati e restituiscono un’Italia del dopoguerra ancora profondamente immersa nella religione, dove politica e fede si intrecciano fino a diventare indistinguibili. Le location agresti – campi brulli, chiese isolate, canoniche polverose – sono perfettamente in linea con l’estetica avatiana e contribuiscono a creare un’atmosfera autentica, carica di inquietudine.
Il cast, almeno quello composto da volti noti del cinema di Avati come Gianni Cavina, Lino Capolicchio e Alessandro Haber, offre interpretazioni capaci di compensare le prove anonime e fastidiosamente sussurrate dei giovani attori. Da segnalare anche la buona prova di Chiara Caselli nel ruolo della madre di Emilio, figura ambigua e carica di tensione.

Più che spaventare, Il signor Diavolo lavora sulla suggestione, sul non detto, sull’idea che il male possa annidarsi nelle pieghe più banali della realtà. È un film nostalgico, forse anche un po’ autocelebrativo, ma elegante e coerente con il percorso autoriale di Avati. Un'opera che guarda a un’Italia scomparsa, ma ancora capace di farci tremare, se solo sappiamo ascoltarne i fantasmi.

Film
Horror
Italia
2019
venerdì, 20 giugno 2025
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Le notti di Cabiria

di Federico Fellini

Le notti di Cabiria di Federico Fellini è probabilmente il film che ha consacrato Giulietta Masina come una delle attrici più straordinarie del nostro cinema. Un piccolo clown malinconico, fragile ma testardo, che cammina in equilibrio sul bordo di una Roma notturna e disperata. Tra neorealismo e poesia malinconica, il film, girato nel 1957, ha vinto l’Oscar come miglior film straniero, il secondo consecutivo per Fellini dopo La strada, ed è stato scritto a sei mani da Fellini insieme a Ennio Flaiano e Pier Paolo Pasolini.

La storia ha per protagonista una prostituta romana di periferia che si fa chiamare Cabiria (Giulietta Masina), piccola donna fiera e ostinata, abituata a cavarsela da sola tra bordi di strada e sogni a metà. Ingenua ma non stupida, Cabiria attraversa la notte romana in cerca di qualcosa che assomigli all’amore, o almeno a una tregua dalla solitudine. Rischia di essere uccisa da un amico che la deruba, viene umiliata, derisa, illusa, ma ogni volta si rialza, come se il mondo non fosse riuscito a spegnerle del tutto la speranza. Il film segue le sue peregrinazioni tra clienti volgari, attori vanitosi, santoni improbabili e uomini che promettono una vita nuova. Finché, nel finale, anche l’ultima illusione si spezza. Ma Cabiria, ancora una volta, resta in piedi.

Nonostante Fellini fosse già un regista affermato e riconosciuto a livello internazionale, Le notti di Cabiria ebbe diversi problemi di produzione e distribuzione. Il motivo? La protagonista è una prostituta, figura che nel cinema italiano degli anni ’50 era ancora un tabù. Eppure, sarà proprio questa figura marginale e scomoda a regalare al cinema uno dei suoi personaggi femminili più profondi e indimenticabili. Cabiria è interpretata da Giulietta Masina, attrice feticcio e compagna di vita di Fellini, che con la sua mimica candida e quegli occhi sempre sull’orlo delle lacrime, disegna il ritratto di una donna che vive sospesa tra illusione e disincanto. È sola, ingenua, spesso derisa, ma in lei brucia una vitalità indomita. Si rialza sempre, anche quando la vita la schiaccia. Con un sorriso fragile, forse illuso, ma pieno di speranza. Il personaggio di Cabiria era già apparso brevemente ne I vitelloni, ma è qui che prende forma piena, immersa in una Roma notturna e sottoproletaria, resa viva anche grazie ai dialoghi scritti da Pier Paolo Pasolini, che dona al film un realismo crudo e poetico. Cabiria batte il marciapiede insieme ad altre colleghe, ma sotto la corazza ruvida nasconde un animo gentile, il desiderio di essere amata, la voglia di riscatto.
Il film si apre con la scena in cui Cabiria viene buttata nel fiume dal suo fidanzato, che le ruba la borsetta con i risparmi. È l’inizio di un percorso a tappe, una serie di episodi apparentemente slegati, ma uniti dal filo rosso della disillusione. L’incontro con un famoso attore (interpretato da Amedeo Nazzari), l’episodio al santuario del Divino Amore dove, spinta dalla fede popolare, chiede alla Madonna di cambiare vita, e la struggente scena del teatro, dove viene ipnotizzata da un illusionista e si lascia andare davanti al pubblico, rivelando, tra le risate generali, la sua solitudine e il desiderio disperato di amore.

Le notti di Cabiria è un film ancora legato al neorealismo e lontano dal Fellini surreale e onirico, ma capace di fornire un sincero affresco di una donna sbandata, sola, fuori dal tempo e dal centro, eppure tenacemente viva. Un ritratto femminile che commuove senza mai diventare patetico, che graffia senza retorica. Cabiria è l’emblema di chi, nonostante tutto continua a cercare, a credere, a camminare. E quel sorriso finale, tra le lacrime, è una delle immagini più struggenti e luminose della storia del cinema.

Film
Drammatico
Italia
1957
mercoledì, 21 maggio 2025
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La strada

di Federico Fellini

Federico Fellini ottiene il primo successo internazionale con La strada, nel 1954. Presentato in anteprima alla 15ª Mostra del Cinema di Venezia, inizialmente il film non fu accolto con troppo entusiasmo. Anzi, la reazione fu piuttosto fredda, se non apertamente ostile. Pubblico e critica, ancora legati al neorealismo italiano, lo giudicarono troppo sentimentale e onirico, distante dal rigore sociale e realistico dominante all’epoca, mentre numerose critiche colpirono anche l’interpretazione di Anthony Quinn e Giulietta Masina, tanto che Dino De Laurentiis, il produttore, fu tentato di interrompere la distribuzione.
Il tempo però diede ragione a Fellini e La strada vinse l’Oscar per il miglior film straniero nel 1957 (il primo film italiano a ottenere questo riconoscimento), venendo apprezzato da autori come Kurosawa, che lo considerava uno dei film più commoventi mai realizzati. Nel giro di pochi anni, il film passò da essere "incompreso" a "fondamentale", aprendo la strada a una nuova stagione del cinema italiano, più personale, metaforico, spirituale.

La trama segue le vicende di Gelsomina (Giulietta Masina), una giovane donna semplice e dallo sguardo smarrito, venduta dalla madre povera a Zampanò (Anthony Quinn), un rozzo saltimbanco girovago, affinché diventi sua moglie e lo assista durante i suoi spettacoli. Inizia così, in sella a uno sgangherato motocarro, un viaggio attraverso l’Italia più povera e desolata, fatto di strade polverose, paesaggi malinconici e cittadine di provincia, vivendo alla giornata nella speranza di racimolare qualche soldo per campare. Gelsomina, ingenua e sensibile, nonostante la brutalità dell’uomo — che la costringe a cucinare, pulire e assolvere varie incombenze coniugali — rimane devota a Zampanò. L’incontro con il Matto (Richard Basehart), un funambolo gentile e misterioso che si diverte a prendere in giro il burbero Zampanò, le apre uno spiraglio su un altro modo di esistere, dove anche le creature più fragili hanno un senso e un posto nel mondo. Ma la realtà è crudele, e il destino di questi personaggi erranti si consuma nel rimpianto e nella solitudine.

La strada è una favola sull’incomprensione, sull’impossibilità di comunicare davvero, ma anche sull’umanità irriducibile che resiste sotto la crosta della miseria e dell’abbandono. Un viaggio nell’Italia dimenticata, quella delle campagne spoglie, dei paesi di provincia, delle strade fangose, delle baracche traballanti e delle osterie fumose. Gelsomina — con il volto tondo, gli occhi spalancati e i capelli a carciofo — è un personaggio chapliniano sospeso tra la tenerezza e il dolore. Triste, ma con una grazia sghemba, mai compiaciuta. I suoi gesti timidi, i sorrisi sbilenchi, i silenzi pieni di attesa: tutto in lei incarna la purezza dell’ingenuità. È una specie di Pinocchio che non mente, ma che resta prigioniera di un Mangiafuoco muscoloso e ignorante, incapace di vedere il valore delle cose fragili.
Zampanò è un animale ferito che non sa amare e non sa chiedere scusa. Un uomo che distrugge ciò che non capisce, semplicemente perché non sa farne altro.
Il film è costruito come un racconto di formazione senza redenzione, un circo senza tende, dove ogni incontro è una possibilità sprecata. Il Matto, l'acrobata dall'animo gentile — un grillo parlante consapevole del proprio destino — è l’unico a cogliere la bellezza di Gelsomina, a dirle che tutto ha un senso, persino lei. E in quella frase («anche il sasso serve a qualcosa») c’è già tutto il Fellini che verrà. Quello sfumato e trasognato, che non si spiega ma si intuisce.
La musica di Nino Rota accompagna tutto il film con un tema diventato immortale, suonato dalla tromba stonata di Gelsomina, dal violino del Matto o fischiettato da una donna che stende i panni.
La strada è una favola amara e malinconica, un viaggio nel mondo del circo e degli artisti di strada, fatto di attese, crudeltà e piccole epifanie. E quando, alla fine, Zampanò si accascia sulla spiaggia e piange — goffo, solo, disarmato — Fellini ci ricorda che anche i più duri, i più chiusi, forse, hanno amato. Solo troppo tardi.

 

Film
Drammatico
Italia
1954
martedì, 29 aprile 2025
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Una lucertola con la pelle di donna

di Lucio Fulci

Fin dalle prime scene, guardando Una lucertola con la pelle di donna, ti rendi conto di essere precipitato in un vortice psichedelico in cui il sogno e la realtà si confondono in un delirio psicanalitico. Il secondo giallo scritto e diretto da Lucio Fulci è un thriller psicologico che prende la Londra borghese dei primi anni settanta, e la infila in un frullatore di pellicce, visioni erotiche, e desideri repressi.

La storia ha per protagonista Carol Hammond (Florinda Bolkan), figlia di un influente politico inglese, la quale racconta al suo psichiatra di un ricorrente sogno erotico e violento in cui uccide la sua vicina di casa, Julia Durer (Anita Strindberg), una donna affascinante e alquanto disinibita che conduce una vita dissoluta. Quando Julia viene ritrovata brutalmente assassinata proprio secondo le modalità dell'incubo di Carol, un tenace investigatore cerca di ricostruire la verità, domandandosi se sia possibile che Carol abbia commesso il delitto nel sonno o se qualcuno stia cercando di incastrarla. Mentre l'indagine si dipana, Carol sprofonda in un vortice di incubi, allucinazioni e depistaggi, dove nulla è come sembra e la mente si trasforma in un labirinto senza uscita.

Nonostante il titolo argentiano imposto dalla produzione, il film si concentra non tanto sulla scoperta dell'identità dell’assassino, quanto sulla messa in scena di Fulci che, alternando sequenze oniriche di grande impatto visivo, si diverte ad attaccare l'odiata psicanalisi, ritraendo l'ipocrisia della borghesia inglese, nei suoi salotti ovattati e dai dialoghi educatamente vuoti, attratta — e al tempo stesso terrorizzata — dal mondo "sporco" e sfacciato di chi vive senza freni tra sesso, droga e libertà. 
Florinda Bolkan, sensuale ma mai volgare, inquieta ma sempre elegante, regge l’intera narrazione. Anita Strindberg incarna invece il desiderio in forma pura, quasi mitologica. Intorno a loro, uomini che non capiscono, psicologi con fare rassicurante e un paio di hippie del periodo.
Accompagnato dalle dissonanti musiche di Ennio Morricone, Fulci inserisce in Una lucertola con la pelle di donna la sua vena più disturbante e personale, mescolando i generi e ritraendo una Londra visionaria, abitata da killer in impermeabile, scale vertiginose, pipistrelli isterici e cani vivisezionati. Proprio questa scena portarono Fulci in tribunale con l'accusa di crudeltà verso gli animali. Carlo Rambaldi, l'autore degli effetti speciali, dovette presentare in aula i modelli animatronici per dimostrare che nessun animale era stato realmente maltrattato, salvando così il regista da una possibile condanna. Ovviamente all'epoca il film subì numerosi tagli di censura che andarono a eliminare le sequenze più violente e le scene di sesso delle due protagoniste. Fortunamente oggi possiamo facilmente recuperare il film nella sua versione originale.

Pur con una sceneggiatura parecchio confusionaria a e qualche pausa eccessivamente dilatata che spezza il ritmo della tensione, Una lucertola con la pelle di donna colpisce per la potenza visiva delle sue sequenze oniriche, costruite con una cura e un senso dell’estetica davvero notevoli. Nel pieno fermento del thriller all’italiana, il film si distingue come una delle vette del genere, non solo per lo stile elegante e ricercato, ma anche per la capacità di muoversi fuori dai binari argentiani, scegliendo una strada più psicologica e allucinata.
Conoscevo Fulci soprattutto per i suoi film horror, ma questo lato "giallo" del suo cinema si sta rivelando una scoperta interessante. 

Film
Thriller
Giallo
Italia
1971
domenica, 27 aprile 2025
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Il computer impossibile

Giuliano Benenti, Giulio Casati e Simone Montangero

Era da parecchio tempo che non leggevo un saggio, solitamente preferisco romanzi e narrativa. Ma ultimamente sono andato in fissa con il mondo del computer quantistico, quindi, dopo aver sfogliato diversi libri in libreria, ho scelto Il computer impossibile, un libro di recente uscita edito da Raffaello Cortina Editore e scritto a sei mani da Giuliano Benenti, Giulio Casati e Simone Montangero, tre fisici di fama internazionale.
Premetto che non ho conoscenze scientifiche, i miei studi sono stati artistici, ma la tecnologia mi ha sempre affascinato. Quindi con la consapevolezza dei miei limiti devo dire che il libro, almeno all'inizio, è abbastanza chiaro, in quanto adotta un approccio divulgativo senza mai risultare banale.
In poche parole, per spiegare come siamo arrivati ai computer quantistici, gli autori raccontano che tutto nasce dalla miniaturizzazione dei circuiti elettronici. Negli anni sessanta, la cosiddetta Legge di Moore prevedeva che la potenza dei computer raddoppiasse ogni 18 mesi grazie a transistor sempre più piccoli. Oggi, se il nostro smartphone è più potente di un intero edificio di computer anni '70, è proprio grazie a questo processo. Il problema è che abbiamo praticamente raggiunto il limite fisico della materia. Continuare a miniaturizzare porta a strani fenomeni quantistici che rendono i chip instabili, come bambini iperzuccherati a una festa di compleanno. Soluzione? Invece di andare contro le leggi della fisica, gli scienziati hanno deciso di cavalcarla. Ed è così che nasce l’idea del computer quantistico.
Per avvicinarsi al suo funzionamento, gli autori spiegano le basi di un computer tradizionale. In un computer l'unità d'informazione è il bit, che può assumere solo due stati, 0 o 1, come una monetina che cade su testa o croce. Tutte le operazioni (scrivere un'email, guardare un video, calcolare qualcosa) sono una lunga sequenza di 0 e 1 elaborati uno dopo l'altro, in modo sequenziale. Al centro di questo processo c’è il transistor, un minuscolo interruttore che controlla il flusso di corrente elettrica. Miliardi di transistor accendono e spengono correnti in una danza perfettamente coordinata che permette di eseguire calcoli estremamente complessi. Ogni numero, parola, o immagine vengono tradotti in questa lingua fatta di 0 e 1, il codice binario.
Il computer quantistico invece usa i qubit, bit quantistici che possono essere 0, 1 o entrambi contemporaneamente, in proporzioni variabili. È come una monetina che gira sospesa a mezz'aria. Una particella quantistica può trovarsi, ad esempio, al 70% nello stato 1 e al 30% nello stato 0. A questo punto sorge spontanea una domanda: se i qubit possono essere 0, 1 o una sovrapposizione dei due, come si fa a determinarne il valore? Qui entra in gioco il famoso esperimento del gatto di Schrödinger, in cui il gatto è contemporaneamente vivo e morto finché non si apre la scatola. I qubit funzionano uguale, finché non li misuri, sono in sovrapposizione. Nel momento in cui li osservi, “collassano” in uno stato definito. Un po’ come quando controlli la pizza nel forno: prima è perfetta nella tua immaginazione, poi la realtà ti sbatte in faccia che si è bruciata. Questa capacità di "essere tante cose insieme" permette ai computer quantistici di esplorare simultaneamente moltissime soluzioni.
Un esempio pratico? Immaginiamo di dover attraversare un labirinto. Un computer tradizionale prova una strada alla volta, tornando indietro a ogni muro per ricominciare da capo. Un computer quantistico invece esplora tutte le strade contemporaneamente, come se si sdoppiasse in infinite copie di sé stesso, ognuna impegnata a tentare un percorso diverso. E non è finita. I qubit hanno un'altra superpotenza: l’entanglement, o intreccio quantistico. Due qubit, una volta "intrecciati", restano collegati a distanza. Se ne misuri uno, automaticamente sai anche lo stato dell’altro, pure se sono separati da chilometri, anni luce o da un muraglione di firewall. È come se fossero uniti da un filo invisibile attraverso lo spazio. A questo punto della lettura, ammetto di aver iniziato a faticare a seguire. Senza una solida base di fisica, l’argomento diventa davvero ostico e richiede una notevole capacità di astrazione. Il libro poi affronta il problema della decoerenza: i qubit sono delicatissimi, basta una vibrazione, una variazione di temperatura, persino una misera particella di polvere per farli "collassare" e perdere il loro comportamento quantistico. Per questo i computer quantistici devono funzionare in condizioni estreme. Temperature prossime allo zero assoluto (-273 °C) e ambienti ultra-isolati. Quindi no, non sostituiranno i nostri PC, smartphone o tablet. Il computer quantistico non serve per guardare Netflix o stalkerare ex su Instagram, ma per risolvere problemi davvero complessi: crittografia, simulazioni molecolari, ricerca medica, e, ovviamente, intelligenza artificiale.

È recente la notizia che un computer quantistico è riuscito, in meno di 5 minuti, a eseguire un calcolo di riferimento che avrebbe richiesto 700 milioni di anni ai più potenti supercomputer classici. Sembra fantascienza, eppure è già realtà.

Dove tutto sembrava diviso tra 0 e 1, acceso o spento, giusto o sbagliato, improvvisamente esiste un'infinità di possibilità, tutte contemporaneamente vere. È un invito a ripensare come funzionano le cose, e forse anche come funzioniamo noi. Perché se l’universo, nelle sue regole più profonde, è fatto di sovrapposizioni, intrecci invisibili e infinite strade aperte, allora forse anche noi possiamo essere qualcosa di più complesso, imprevedibile, straordinario di quello che pensavamo.

Libri
Italia
2025
lunedì, 21 aprile 2025
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Mimì - Il principe delle tenebre

di Brando De Sica

Ammetto che quando ho visto il nome del regista ho storto un po' il naso. Brando De Sica. Figlio di Christian, nipote di Vittorio, Carlo Verdone come zio. Il pregiudizio che in Italia, se non sei un figlio d'arte, il cinema lo guardi e basta, è scattato immediatamente. E invece Mimì – Il principe delle tenebre mi ha fregato. Non solo perché è un film coraggiosamente fuori tempo, diverso, ma anche perché ha toccato corde familiari della mia indole gotica.

La storia racconta di Mimì (Domenico Cuomo), un adolescente orfano, nato con i piedi deformi, che lavora in una pizzeria a Napoli. Bullizzato dal figlio di un boss camorrista, un giorno incontra Carmilla (Sara Ciocca), una giovane ragazza "dark" convinta di essere una discendente del conte Dracula. Lei rimane affascinata dal goffo Mimì – forse proprio per la sua deformità – e lui trova in Carmilla quel calore umano che gli è sempre mancato.

In una Napoli insolita e decadente, tra bande camorristiche appassionate di neomelodica e gruppi gotici che frequentano cimiteri, cripte, e feste alternative, Mimì – Il principe delle tenebre si presenta come un film strano e affascinante, capace di spaziare dall'horror al fantasy, dal noir alla dark comedy. La commistione di generi è dosata con intelligenza e la virata horror arriva al momento giusto. Brando De Sica, da quanto si dice in giro, è un appassionato di questo genere, e si vede. Le citazioni cinefile sono ovunque, ma non risultano mai esibite. Piuttosto, sono tracce, omaggi ben inseriti in una narrazione personale e visivamente curata. La regia è solida e la fotografia mi ha particolarmente colpito, con quei colori irreali – blu e rosso, caldi e freddi spesso contrapposti – che rimandano al cinema di Mario Bava. L'uso del colore è particolarmente significativo nella scena finale, dove Mimì e Camilla – ehm, Carmilla con la erre (cit) – vengono illuminati dal lampeggiante della polizia, in un contrasto emotivo che trascende la realtà.
L’epilogo, drammatico e ambiguo – è tutto vero o una fantasia del protagonista? – ha un tocco poetico e surreale. Al centro della storia, c'è una relazione d'amore tra due "diversi": una ragazza borderline, fragile e imprevedibile, e un ragazzo in cerca di identità, ingenuo, segnato nel corpo e nell'anima. Due anime rotte che cercano di salvarsi a vicenda.
I due attori protagonisti sono molto bravi. La giovane e minuta Sara Ciocca è sorprendente. Affascinante nella sua versione goth, fragile e vulnerabile nella sua cameretta da bambina. Domenico Cuomo è altrettanto bravo, capace di passare dalla timidezza di Mimì alla trasformazione violenta del "vampiro", con i suoi denti aguzzi e lo sguardo distorto. Il film, inoltre, è recitato bene. Finalmente in un film italiano i dialoghi, anche quando sono sussurrati, sono sempre chiari. Il dialetto napoletano non infastidisce, e quando è troppo stretto, intervengono i sottotitoli.
Guardandolo, mi è venuto spontaneo accostarlo a Lo chiamavano Jeeg Robot, ma con i vampiri al posto dei supereroi. E in alcune scene, come quella nelle catacombe, ho sentito forti echi del cinema di Guillermo del Toro.
Alla fine, Brando De Sica sembra più un orfano adottato da Tim Burton e dalla malinconia di Fellini che un regista cresciuto sulle spalle della becera commedia natalizia. Pare che per realizzare questo film non abbia sfruttato le sue conoscenze familiari, anzi, ci ha messo dieci anni e ha incontrato numerosi ostacoli. E si vede. È un film ostinato, personale, fuori rotta. Farsi strada nel cinema di genere in Italia non è facile. Ma io, sinceramente, tifo per lui. A volte i pregiudizi sono proprio deleteri.

Film
Drammatico
Fantastico
Horror
Vampiri
Italia
2023
giovedì, 17 aprile 2025
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I vitelloni

di Federico Fellini

Secondo film di Federico Fellini e Leone d'argento alla Mostra del Cinema di Venezia del 1953, I Vitelloni è un dichiarato omaggio alla Rimini della giovinezza del regista – anche se, per esigenze cinematografiche, la città fu interamente ricostruita nei dintorni di Roma.

I Vitelloni è un racconto semi-autobiografico che segue un gruppo di amici in una sonnacchiosa città di provincia affacciata sul mare, sospesi in un eterno limbo tra adolescenza e maturità. Troppo grandi per giocare, troppo pigri per lavorare. Moraldo (Franco Interlenghi), l’osservatore silenzioso, guarda tutto con distacco malinconico. Fausto (Franco Fabrizi), il donnaiolo incallito, continua a inseguire gonne anche dopo aver messo incinta Sandra, sorella di Moraldo. Alberto (Alberto Sordi), immaturo e teatrale, vive con una madre invadente e una sorella che sogna di scappare. Leopoldo (Leopoldo Trieste) scrive drammi teatrali che nessuno legge. Riccardo (Riccardo Fellini, fratello di Federico) canta alle feste sperando di strappare almeno un applauso.
Le loro giornate passano tra passeggiate senza meta, scherzi da caserma, sbornie, sogni di gloria e realtà da cui scappare. Fausto si sposa controvoglia, lavora per finta e tradisce per abitudine. Alberto fa il buffone ma ha dentro un groviglio di inquietudini. Leopoldo sogna il palcoscenico, ma resta in panchina. Solo Moraldo, alla fine, sembra davvero voler cambiare, e parte, forse per salvarsi.

Li chiamavano "vitelloni", oggi li chiameremmo "bamboccioni". Trent’anni suonati, ancora a casa con mamma, niente voglia di crescere, nessuna intenzione di assumersi responsabilità. Ma I Vitelloni non è un’accusa. È un ritratto affettuoso e amarognolo, che mescola ironia e malinconia per raccontare una generazione immobile, cresciuta all’ombra del dovere e incapace di affacciarsi al futuro. Fellini – che in Moraldo mette un po’ di sé stesso – costruisce una commedia amarissima, punteggiata da momenti irresistibili (la sbornia di Sordi, la scena iconica dell'"ombrello" agli operai) e venature neorealiste che già tendono verso qualcos’altro. Nella sequenza del carnevale si intravede già chiaramente il tratto onirico del Fellini che verrà. 
I cinque protagonisti sono sbruffoni, inconcludenti, talvolta irritanti – ma a loro modo restano teneri e riconoscibili. Mi hanno ricordato, per certi versi, i protagonisti di Amici miei. Stessi scherzi da osteria, stesso senso di vuoto sotto la superficie goliardica. Solo che lì sono uomini di mezza età, qui sono ragazzi che faticano ad abbandonare l'adolescenza.
Curiosamente, all’epoca, il film fu accolto con freddezza. Alberto Sordi veniva da due flop ed era inviso a pubblico e critica. Fellini dovette persino rinunciare a metterlo nei titoli di testa, pur di averlo nel cast. Fa sorridere, col senno di poi, se si pensa che proprio lui regala una delle scene più iconiche della storia del nostro cinema.

Detto ciò, confesso che I Vitelloni non mi ha particolarmente entusiasmato. Non sono mai stato un grande fan del neorealismo all'italiana, e oggi certe lentezze, alcune ovvietà narrative, si fanno sentire. Il personaggio di Fausto, poi, con quel suo modo da mascalzone piagnucoloso, mi ha messo a dura prova. Ma questo è un problema mio. Le qualità del film sono evidenti – regia elegante, scrittura solida, personaggi scolpiti con precisione – solo che non sempre si incastrano con la mia personale sensibilità. Resta comunque un film fondamentale per comprendere l’universo felliniano, e per intuire dove stava andando il nostro cinema.

Film
Commedia
Italia
1953
martedì, 8 aprile 2025
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Il gatto a nove code

di Dario Argento

Nei primi anni settanta, dopo il clamoroso successo de L’uccello dalle piume di cristallo, Dario Argento torna dietro la macchina da presa con Il gatto a nove code, secondo tassello della cosiddetta "trilogia degli animali" – saga non ufficiale unita più dai titoli zoologici che da un vero filo conduttore. Meno impattante del suo predecessore e meno visionario del successivo Quattro mosche di velluto grigio, questo film si colloca come un’opera di transizione, un capitolo intermedio che, pur con i suoi limiti, si rivela fondamentale per la crescita stilistica e narrativa del regista romano. Un film di passaggio, sì, ma tutt’altro che trascurabile.

La vicenda prende il via con un misterioso furto in un laboratorio di genetica di Torino. Non viene sottratto nulla, ma il giorno dopo uno degli scienziati finisce sotto un treno in circostanze decisamente sospette. A interessarsi al caso sono Franco Arno (Karl Malden), un ex giornalista cieco con un fiuto da detective e una nipotina sveglia, e Carlo Giordani (James Franciscus), un reporter d’assalto pronto a tutto.I due iniziano a scavare tra piste inconcludenti, silenzi sospetti e una catena di omicidi sempre più inquietanti. Tutto sembra ruotare attorno a quell’istituto scientifico, dove si conducono ricerche d'avanguardia sulla genetica e la predisposizione al crimine.

Il gatto a nove code è un thriller dal ritmo serrato, con un montaggio dinamico e un uso costante della soggettiva dell'assassino, spesso anticipata da un inquietante primo piano di una pupilla dilatata. Gli omicidi iniziando a diventare più brutali, ma ancora relativamente “anemici” rispetto agli standard futuri di Argento. Le atmosfere sono ben costruite, ricche di tensione e con evidenti influenze hitchcockiane ma anche con una vena ironica e personaggi quasi caricaturali che alleggeriscono la tensione. Tecnicamente il film funziona. La regia è solida, la fotografia elegante e il tutto è supportato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Bravi Karl Malden e James Franciscus. Meno convincente Catherine Spaak, bella ma legnosa, con una scena di sesso che sembra uscita da una pubblicità vintage del dopobarba.

Certo, è un film imperfetto. A volte sbilenco, con una sceneggiatura che zoppica e un finale che lascia l’amaro in bocca più per le promesse mancate che per il colpo di scena. Ma è anche l’opera di un autore in piena evoluzione, che inizia a maneggiare con sicurezza i ferri del mestiere e che, con la sua cifra stilistica sempre più definita, comincia a lasciare un’impronta inconfondibile nel giallo all’italiana.

Film
Thriller
Giallo
Italia
1971
Retrospettiva
sabato, 15 marzo 2025
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Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

di Elio Petri

Un pugno nello stomaco. Dev'essere stato questo l'effetto di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto quando uscì nelle sale italiane nel 1970, in un periodo di forte tensione politica e sociale. Un opera scomoda, corrosiva, che rischiò la censura e il sequestro per la sua critica feroce alle istituzioni, in particolare alla polizia e al potere autoritario in Italia. Alla fine, il film di Elio Petri riuscì ad arrivare nelle sale, vincendo il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes e, l'anno successivo, l'Oscar come miglior film straniero.

Roma. Il capo della sezione omicidi (Gian Maria Volonté), proprio nel giorno della sua promozione all'ufficio politico, uccide l'amante Augusta Terzi (Florinda Bolkan). Invece di coprire le sue tracce, l'alto funzionario della polizia, che rimarrà senza nome, fa di tutto per seminare indizi che lo collegano al crimine, sfidando il sistema e mettendo alla prova fino a che punto il suo potere possa proteggerlo.  Per quanto si sforzi di dare prove della sua colpevolezza, il sistema rifiuta di prenderle in considerazione. I suoi sottoposti, invece di sospettarlo, lo giustificano, lo proteggono, cercano spiegazioni alternative. Anche quando un testimone chiave, un idraulico, si trova davanti a lui e potrebbe incastrarlo, il timore reverenziale e il clima di omertà lo spingono al silenzio. Fino a che punto può spingersi un uomo investito di autorità? Quanto è disposto il sistema a proteggere se stesso, anche di fronte all'evidenza di un delitto?
Il racconto si dipana tra presente e flashback, dove emerge il rapporto morboso con Augusta, un gioco di potere e seduzione in cui lei lo sfida a dimostrare di essere un vero uomo, un'autorità assoluta. Una sfida che lo porterà a compiere l'omicidio e a usarlo come esperimento politico e socale.

Elio Petri costruisce un thriller psicoanalitico sull'abuso del potere che critica e analizza in chiave grottesca l'autoritarismo e l'impunità degli apparati polizieschi. Scritto dal regista insieme a Ugo Pirro, il film fece scalpore sopratutto nel nostro paese perchè uscì appena due mesi dopo la strage di piazza Fontana e la morte dell'anarchico Pinelli in un momento delicatissimo della storia italiana. Il film sembra anticipare il clima che avrebbe caratterizzato gli anni di piombo, con uno stato che si regge sulla repressione e su un potere che non sbaglia mai. È un film politico, profondamente legato al suo periodo storico, che unisce il tormento psicologico dostoevskiano alla visione grottesca e claustrofobica del potere tipica di Kafka.

Gian Maria Volonté è monumentale. Il suo personaggio è un uomo arrogante, sprezzante, con un accento marcato e un piglio tronfio che nasconde un'insicurezza profonda. La sua interpretazione è un continuo gioco tra delirio e lucidità, tra volontà di controllo e bisogno di autoumiliazione. E poi c'è la colonna sonora di Ennio Morricone, uno dei temi più famosi della sua carriera, un tango ambiguo con il mandolino iniziale che evoca l'origine siciliana del protagonista.

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è un film che non invecchia, anzi, con il tempo diventa ancora più inquietante. Il suo messaggio è chiaro: la giustizia non è uguale per tutti, e il potere può permettersi tutto, anche di uccidere alla luce del sole. E se nessuno osa fermarlo, forse il problema non è solo chi comanda, ma chi obbedisce senza farsi domande.

Film
Giallo
Drammatico
Grottesco
Italia
1970
lunedì, 10 marzo 2025
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Lo sceicco bianco

di Federico Fellini

Premessa doverosa. Non ho mai amato il neorealismo italiano. Quel cinema dell'immediato dopoguerra, con registi come Rossellini, Visconti e Antonioni, mi è sempre sembrato lontano dalla mia idea di cinema. Amo il perturbante, il caos, il sogno. Amo il cinema che scava nell’inconscio, che trasforma la realtà in visione, che ci porta al limite dell'immaginifico. Il mio regista preferito, senza ombra di dubbio, è David Lynch.  E Lynch, ha sempre nutrito una profonda ammirazione per Fellini, tanto da considerare Otto e mezzo non solo un capolavoro assoluto, ma il film che più di tutti ha influenzato il suo cinema.
Federico Fellini è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi cineasti della storia. Pur avendo inizialmente abbracciato l’estetica neorealista, se n’è progressivamente allontanato per intraprendere un percorso sempre più visionario, introspettivo e onirico, fino a sviluppare un linguaggio unico, libero e inconfondibile.
Conosco solo i suoi film più celebri, visti però in un periodo in cui la mia conoscenza del cinema era ancora superficiale. Ora, con uno sguardo più maturo, da appassionato che ha imparato ad amare non solo i film, ma anche la loro storia, ho deciso di riscoprirlo dall’inizio. E il punto di partenza non può che essere Lo sceicco bianco (1951), il suo esordio alla regia.

Il primo film di Federico Fellini, dopo la co-regia con Alberto Lattuada in Luci del varietà, viene presentato alla tredicesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Scritto da Michelangelo Antonioni il film in origine sarebbe dovuto essere diretto da Alberto Lattuada, ma tra abbandoni e ripensamenti, alla fine la produzione scelse di affidare la regia a Fellini.

La storia segue due sposini meridionali in viaggio di nozze a Roma. Ivan (Leopoldo Trieste) è un giovanotto rigido e conformista, determinato a fare carriera e a impressionare lo zio, un pezzo grosso del Vaticano. Wanda (Brunella Bovo) è una ragazza dolce e ingenua appassionata lettrice di fotoromanzi. Appena arrivati in albergo, Wanda, approfittando di un momento di distrazione del marito, si allontana per incontrare l'idolo dei suoi sogni, Fernando Rivoli (Alberto Sordi), il protagonista del suo fotoromanzo preferito che interpreta il leggendario Sceicco Bianco. Mentre Wanda si ritrova catapultata in un mondo tanto affascinante quanto illusorio, tra set improvvisati e attori esuberanti, Ivan, cerca disperatamente di salvare le apparenze e nascondere la scomparsa della moglie ai parenti.

Lo sceicco bianco è una divertente commedia dolceamara che smaschera le illusioni dei miti di carta e la finzione del perbenismo. All’epoca, il film venne stroncato sia dal pubblico che dalla critica, considerandolo una parodia grottesca ed eccessiva. L’interpretazione di un giovane Alberto Sordi, ancora poco noto al pubblico, venne giudicata troppo caricaturale e irritante. Eppure, il suo personaggio è la perfetta incarnazione della finzione spacciata per sogno. Rivoli è solo un pavido attore fallito, un millantatore che dietro il fascino del suo alter ego nasconde un’esistenza misera e priva di gloria. Buona anche l’interpretazione di Brunella Bovo, capace di far trasparire la fragile ingenuità di una donna, così come quella spiritata, sudata e comicamente tragica di Leopoldo Trieste. Ci sta pure un apparizione di Giulietta Masina, nel ruolo di Cabiria, che ritroveremo nei successivi film di Fellini.

Pur essendo una commedia leggera, Lo sceicco bianco lascia già intravedere il gusto per il surreale che il regista svilupperà con sempre maggiore audacia nelle sue opere future. Emblematiche, in questo senso, l’incontro sospeso tra Wanda e lo Sceicco Bianco sull’altalena o le riprese sulla spiaggia con il cast del fotoromanzo. Sono i primi germogli di quel mondo visionario e onirico che contrassegnerà gran parte della filmografia di Fellini.

Film
Commedia
Italia
1952

© , the is my oyster