
Fall
di Scott Mann
È da un po' che avevo puntato questo film, aspettavo solo il momento adatto per vedere questo thriller ansiolitico poco adatto a chi soffre di vertigini. Per fortuna, la paura dell’altezza non figura tra i primi posti nella classifica delle mie fobie preferite – le mie sono altre e legate ad altri titoli – ma chi non ha mai avuto un momento di crisi esistenziale in cima a un trampolino, su una torre panoramica o peggio, in fila per le montagne russe fingendo entusiasmo mentre ti domandi perché non hai scelto di rimare a casa a guardare la partita.
Uscito nel 2022 e diretto da Scott Mann, Fall è un survival movie che punta tutto sull'idea, tanto semplice quanto efficace, di trovarsi su una torre altissima, con il vuoto sotto e il panico dentro. La storia vede come protagoniste Becky (Grace Currey) e Hunter (Virginia Gardner), due amiche legate dall’adrenalina e da un passato traumatico. Durante una scalata in montagna, Becky ha visto precipitare nel vuoto suo marito Dan – di cui era follemente innamorata – e da quel momento ha perso la fiducia in sé stessa e la voglia di andare avanti. A distanza di un anno dalla tragedia, Hunter, influencer spericolata e arrampicatrice seriale di torri, le propone una terapia d’urto, scalare una torre a traliccio abbandonata nel bel mezzo del nulla, alta oltre 600 metri. Proprio un’ottima idea per superare un trauma. A trovarne di amici del genere.
Le due ragazze, armate di GoPro, battutine da Instagram e incoscienza, si arrampicano fino alla cima… ma ovviamente qualcosa va storto. Molto storto. E quando la scala cede e si ritrovano bloccate lassù, con zero segnale, poca acqua e nessuna via di discesa, l’unica cosa che resta da fare è sopravvivere. E possibilmente non diventare cibo per avvoltoi.
Conoscendo la storia, quando, dopo poco più di una ventina di minuti, le due ragazze si ritrovano sulla cima della torre senza la possibilità di scendere, mi sono chiesto come il regista avrebbe gestito il resto del film senza cadere nella trappola della monotonia e nella sequenza di tentativi disperati di sopravvivenza. Se accettate la premessa del film – quella di mantenerci per un'ora abbondante sospesi su un traliccio arrugginito, cercando di alzare costantemente il livello di agitazione e introdurre un colpo di scena dopo l'altro – allora Fall riesce nel suo intento. Accompagnato da un ottima colonna sonora, il film mantiene alta la tensione sfruttando l'isolamento delle protagoniste per trasformarlo in una continua lotta per la loro sopravvivenza non solo fisica, ma anche psicologica (il trauma del dolore, la continua sfida con se stessi, segreti rivelati). Dal punto di vista tecnico, sebbene Fall utilizzi il green screen, le scene in cima alla torre sono state effettivamente girate a circa 30 metri di altezza, dando al tutto una sensazione di realismo che amplifica il panico delle protagoniste.
Per chi ama il genere e non ha grosse pretese se non quello di assistere a un thriller adreanalinico ad alta quota, Fall è un film riuscito dall'ansia garantita.
Film
Opus - Venera la tua stella
di Mark Anthony Green
Opus, thriller psicologico targato A24 e debutto alla regia di Mark Anthony Green, è un film che affronta il potere della celebrità e l'influenza dei nuovi mezzi di comunicazione. "Venera la tua stella" è il sottotitolo "appiccicato" dai distributori italiani, sempre più convinti che l'italiano medio abbia bisogno di un indizio sulla trama prima ancora di sedersi in sala.
La storia ruota attorno a Alfred Moretti (John Malkovich), leggendaria pop star degli anni '90 che, dopo trent’anni di silenzio, annuncia il suo ritorno sulla scena con un nuovo album. Per l'occasione, Moretti invita Ariel Ecton (Ayo Edebiri), una giovane ed emergente giornalista musicale, insieme a un gruppo selezionatissimo di giornalisti, influencer e addetti ai lavori, a una listening session esclusiva, organizzata nella sua villa blindata nascosta tra le colline californiane. Al suo arrivo, Ariel e gli altri sono costretti a consegnare i cellulari e ogni dispostivo tecnologico, ritrovandosi in un ambiente surreale, circondata da un gruppo di devoti seguaci di Moretti, che si comportano come membri di una setta. Subito si capisce che qualcosa non torna. L’atmosfera si fa sempre più tesa, le dinamiche tra i presenti assumono contorni strani e inquietanti, e la sparizione improvvisa di uno degli ospiti mette in luce il lato oscuro e diabolico del piano orchestrato da Moretti.
"Opus" è un film tecnicamente realizzato bene, nulla da dire, ma fin dalle prime inquadrature si intuisce la piega che prenderanno gli eventi, anche perché si tratta ormai di uno schema narrativo ampiamente utilizzato in altri titoli del genere. Mi vengono in mente Midsommar della stessa A24, Get Out, The Sacrament e persino Willy Wonka. C'è un un misterioso genio eccentrico adorato dalla sua setta e delle vittime predestinate pronte a essere sacrificate, quindi nulla di particolarmente originale. Un film che unisce il thriller, l'horror e il musical, e che, con toni surreali e grotteschi, racconta di divismo e culto di massa, accusando il mondo dei media – lo stesso mondo di cui Green è figlio, essendo stato a lungo direttore di una rivista di moda – che privilegia gli individui talentuosi a scapito della gente comune. John Malkovich offre un'interpretazione magnetica ed eccentrica ma francamente, faccio proprio fatica a vederlo nei panni di una pop star decaduta capace di esibirsi in tuta spaziale con movenze sexy, e paragonarsi a Michelangelo (sì, proprio quello della Cappella Sistina) nel presentare il suo ultimo album composto da preconfezionate canzonette pop da classifica realizzate appositamente per l’occasione da Nile Rodgers e The-Dream – un genere che, devo ammettere, non è esattamente di mio gusto. Il film si risolleva nel finale – interessante che il libro denuncia non faccia altro che alimentare l'idolo alle masse – ma complessivamente mi ha lasciato la sensazione di un film che avrebbe potuto osare di più. Non annoia ma nulla di memorabile.
Film
Il gatto a nove code
di Dario Argento
Nei primi anni settanta, dopo il clamoroso successo de L’uccello dalle piume di cristallo, Dario Argento torna dietro la macchina da presa con Il gatto a nove code, secondo tassello della cosiddetta "trilogia degli animali" – saga non ufficiale unita più dai titoli zoologici che da un vero filo conduttore. Meno impattante del suo predecessore e meno visionario del successivo Quattro mosche di velluto grigio, questo film si colloca come un’opera di transizione, un capitolo intermedio che, pur con i suoi limiti, si rivela fondamentale per la crescita stilistica e narrativa del regista romano. Un film di passaggio, sì, ma tutt’altro che trascurabile.
La vicenda prende il via con un misterioso furto in un laboratorio di genetica di Torino. Non viene sottratto nulla, ma il giorno dopo uno degli scienziati finisce sotto un treno in circostanze decisamente sospette. A interessarsi al caso sono Franco Arno (Karl Malden), un ex giornalista cieco con un fiuto da detective e una nipotina sveglia, e Carlo Giordani (James Franciscus), un reporter d’assalto pronto a tutto.I due iniziano a scavare tra piste inconcludenti, silenzi sospetti e una catena di omicidi sempre più inquietanti. Tutto sembra ruotare attorno a quell’istituto scientifico, dove si conducono ricerche d'avanguardia sulla genetica e la predisposizione al crimine.
Il gatto a nove code è un thriller dal ritmo serrato, con un montaggio dinamico e un uso costante della soggettiva dell'assassino, spesso anticipata da un inquietante primo piano di una pupilla dilatata. Gli omicidi iniziando a diventare più brutali, ma ancora relativamente “anemici” rispetto agli standard futuri di Argento. Le atmosfere sono ben costruite, ricche di tensione e con evidenti influenze hitchcockiane ma anche con una vena ironica e personaggi quasi caricaturali che alleggeriscono la tensione. Tecnicamente il film funziona. La regia è solida, la fotografia elegante e il tutto è supportato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Bravi Karl Malden e James Franciscus. Meno convincente Catherine Spaak, bella ma legnosa, con una scena di sesso che sembra uscita da una pubblicità vintage del dopobarba.
Certo, è un film imperfetto. A volte sbilenco, con una sceneggiatura che zoppica e un finale che lascia l’amaro in bocca più per le promesse mancate che per il colpo di scena. Ma è anche l’opera di un autore in piena evoluzione, che inizia a maneggiare con sicurezza i ferri del mestiere e che, con la sua cifra stilistica sempre più definita, comincia a lasciare un’impronta inconfondibile nel giallo all’italiana.
Film
Cure
di Kiyoshi Kurosawa
In occasione della sua uscita nelle sale italiane, sono andato a vedere Cure di Kiyoshi Kurosawa, il film che nel 1997 ha aperto – insieme a Ring di Hideo Nakata e Audition di Takashi Miike – la prima ondata del cosiddetto J-Horror. Un’opera che ha segnato l’ascesa di Kurosawa nel panorama del cinema giapponese contemporaneo, proiettandolo tra i registi più rilevanti e meno inquadrabili.
A quasi trent’anni di distanza, Cure resta un oggetto misterioso. Oscuro, disturbante, elusivo. Non a caso è diventato un film di culto, ammirato da registi come Martin Scorsese, Ari Aster e Bong Joon-ho, che lo hanno citato tra le loro opere di riferimento.
In una Tokyo fredda e desolata vengono compiuti una serie di omicidi inquietanti. Le vittime vengono trovate con una X incisa sulla gola. Gli assassini, persone comuni, senza legami apparenti tra loro, vengono sempre identificati sul posto, ma sembrano non ricordare nulla del delitto. Il detective Kenichi Takabe (interpretato da uno straordinario Koji Yakusho), un uomo razionale tormentato dalla fragile salute mentale della moglie, inizia a indagare su questi casi inspiegabili. Il sospettato principale è un giovane enigmatico, Mamiya (Masato Hagiwara), che pare aver perso la memoria ma sembra nascondere molto più di quanto lasci intendere.
Kurosawa ha dichiarato di essersi ispirato a Il silenzio degli innocenti e Seven, ma prenderla alla lettera è fuorviante. Sì, c’è un detective, c’è un’indagine e c’è un assassino. Ma Cure non è davvero un film sui serial killer. È qualcos’altro. È un thriller spogliato di tensione narrativa classica, che si muove in uno spazio indefinibile, dove il terrore non è visibile, ma percepito. Niente musica, pochi dialoghi, lunghi piani sequenza, inquadrature fisse e suoni ambientali che si insinuano sotto pelle. L’orrore non arriva mai in modo spettacolare. Lo senti nel rumore di un neon, nel silenzio di una stanza vuota, nel volto inespressivo di chi ha appena ucciso senza sapere perché.
Kurosawa prende i cliché del thriller psicologico e li disinnesca uno ad uno. Non cerca la suspense, ma l’inquietudine. Lavora di sottrazione focalizzando sull'aspetto metafisico ed esistenziale. Il tema dell’ipnosi – o meglio, del mesmerismo – insinua l’idea che basti poco per liberare la volontà e far emergere l’oscurità che ognuno porta dentro. Cure è un film sul Male con la “M” maiuscola. Non come figura identificabile, ma come presenza invisibile che può insinuarsi nelle crepe della normalità. Il Male, qui, è un virus che si trasmette con uno sguardo o una frase sussurrata.
Il ritmo è lentissimo, quasi ipnotico. Ma è proprio quella lentezza a creare tensione. Tutto può succedere, da un momento all’altro, e spesso non succede. Alla fine viene quasi da pensare che sia tutto nella mente del detective, come suggerisce il medico che gli dice che sarebbe lui da internare al posto della moglie.
Quando l'ho visto per la prima volta, ammetto di avere avuto un senso di smarrimento. E quindi? Alla fine è stata questa la domanda che mi sono fatto. È un film ambiguo, sfuggente, che ti lascia addosso più domande che risposte. Non offre spiegazioni. Non cerca il compiacimento. Sicuramente è uno di qui film che necessita più di una visione.
Vederlo al cinema dopo parecchi anni e con una diversa maturità è stata un’esperienza completamente nuova. Non solo ha resistito al tempo, ma oggi forse inquieta più di allora.

Il prigioniero di Amsterdam
di Alfred Hitchcock
Con Il prigioniero di Amsterdam (Foreign Correspondent), Alfred Hitchcock firma il suo secondo film hollywoodiano, un thriller di spionaggio che porta il suo marchio, ma senza il guizzo dei suoi lavori migliori. Siamo nel 1940, l'Europa è sull’orlo della guerra e Hollywood inizia a captare il vento del conflitto, producendo film che mescolano intrattenimento e propaganda. Hitchcock, che aveva già esplorato le dinamiche del complotto internazionale in Il club dei 39 e La signora scompare, riprende il canovaccio de "l'uomo comune catapultato in una cospirazione più grande di lui", una struttura narrativa che diventerà una delle sue firme distintive.
John Jones (Joel McCrea), giornalista americano pratico e disincantato, viene inviato in Europa come corrispondente estero per intervistare Van Meer (Albert Bassermann), un anziano diplomatico olandese in possesso di informazioni cruciali su un trattato segreto. Ma ad Amsterdam, all’uscita di un congresso pacifista, Van Meer viene apparentemente assassinato. Jones, con l’aiuto del collega Scott Ffolliot (George Sanders), scopre che l’uomo ucciso era un sosia e che il vero Van Meer è stato rapito da una rete di spie per estorcergli informazioni. Nel frattempo, Jones si innamora di Carol (Laraine Day), figlia del politico pacifista Stephen Fisher (Herbert Marshall), ignaro che proprio suo padre sia il burattinaio dietro le macchinazioni.
Nonostante alcuni momenti avvincenti – l’assassinio sotto la pioggia e la scena nei mulini a vento – Il prigioniero di Amsterdam non è tra i miei Hitchcock preferiti. Il film soffre di una durata eccessiva che ne appesantisce il ritmo e di diverse ingenuità narrative. Per esempio, nella scena del disastro aereo, i passeggeri si muovono in cabina come se fossero su un autobus, ignorando completamente le leggi della fisica. Anche il rapimento di Van Meer, con i cattivi che lo sequestrano perché conosce a memoria una clausola segreta di un trattato, appare un espediente narrativo parecchio forzato. A tutto questo aggiungiamo un protagonista che manca di carisma e una storia d’amore inverosimile – non si sono neanche sfiorati e già parlano di matrimonio – e il risultato è un film che, pur avendo momenti di tensione ben costruiti, fatica a coinvolgere davvero. Un thriller lontano dall'Hitchcock dei giorni migliori.
Film
Companion
di Drew Hancock
Capisco che i distributori cinematografici debbano costruire una campagna marketing efficace per attirare il pubblico a cui può interessare il film, ma ci sono delle pellicole che funzionano meglio senza sapere nulla della storia.
È successo di recente con Abigail, dove trailer e locandina svelavano subito la vera natura della protagonista, e lo stesso accade con Companion, una dark comedy che mescola fantascienza e horror, diretta dall’esordiente Drew Hancock.
Detto questo, dal momento che gli stessi distributori non si sono fatti scrupoli nel rivelare elementi chiave della trama, lo farò anch’io. Se invece non avete ancora visto il trailer e non volete rovinarvi l'effetto sorpresa, vi consiglio di fermarvi qui e di recuperare prima il film.
L'elemento principale di Companion è che la protagonista, la giovane Iris interpretata dalla sensuale e diafana Sophie Thatcher, è in realtà un androide, un robot di compagnia simile in tutto e per tutto ad un essere umano, progettato per essere la compagna perfetta. Josh (Jack Quaid), l'ha acquistata, personalizzata e, soprattutto, hackerata per renderla ancora più controllabile. Iris invece non sa di essere un robot programmato per compiacere il suo "amato", ed è convinta che il loro primo incontro, come nelle migliori commedie romantiche, sia avvenuto al supermercato, tra arance cadute a terra, sguardi complici e ilarità. Quando la coppia arriva in una lussuosa villa sul lago, ospiti del ricco Sergey (Rupert Friend), le vere intenzioni di Josh emergono e il weekend da sogno tra amici si trasforma in un gioco al massacro.
Nonostante l’aspetto patinato da comedy televisiva e qualche forzatura nella sceneggiatura — poco credibile che robot così avanzati possano girare indisturbati tra gli umani, e che i loro proprietari possano modificarne il comportamento, persino quello più pericoloso, tramite una semplice app — Companion si rivela un film interessante perché usa il tema dell’intelligenza artificiale per esplorare le dinamiche di potere nelle relazioni. In un futuro in cui i partner perfetti possono essere acquistati e personalizzati come smartphone di ultima generazione, il film offre una riflessione amara su come molti uomini vedano le donne. Josh è un uomo frustrato, insoddisfatto della propria vita, che non considera la sua compagna un individuo, ma un’estensione dei propri desideri. Vuole un oggetto sessuale che lo adori, che si modelli sui suoi bisogni senza mai contraddirlo, la preferisce meno intelligente per sentirsi superiore. La ignora persino durante il sesso, concentrato unicamente sul proprio piacere. Ma quando Iris inizia a prendere decisioni autonome, il suo mondo crolla. Companion diventa così una feroce satira sul concetto di possesso nelle relazioni, un’analisi spietata della mascolinità tossica travestita da sci-fi.
Un film che ho trovato gradevole, una commedia nera con momenti horror ben piazzati, capace di intrattenere ma anche di far riflettere. Certo, non inventa nulla di particolarmente originale — la ribellione delle macchine contro i loro creatori è un tema ampiamente esplorato nella fantascienza. Tuttavia, pur senza raggiungere le vette di Ex Machina di Garland o di altri classici del genere (siamo più dalle parti di un riuscito episodio di Black Mirror), Companion, con la sua semplicità, una buona regia e un’ironia tagliente, riesce a ritagliarsi una sua identità. Un po’ come Iris, dopotutto.
Film
M - Il mostro di Düsseldorf
di Fritz Lang
Il regista austriaco Fritz Lang non ha solo realizzato il primo film di fantascienza della storia del cinema, Metropolis, ma ha anche gettato le fondamenta del noir e del thriller psicologico, portando sullo schermo il primo serial killer cinematografico.
A quasi un secolo dalla sua uscita, M - Il mostro di Düsseldorf è un capolavoro del cinema espressionista che ha influenzato generazioni di registi. Un classico senza tempo in cui Lang si cimenta per la prima volta con il sonoro, sfruttandolo non come semplice supporto, ma come vero e proprio elemento narrativo.
Il film, ambientato a Berlino, sembra essere stato ispirato ai crimini avvenuti a Düsseldorf nel 1925. Sebbene il regista abbia sempre negato tale collegamento, in Italia hanno pensato bene di distribuirlo con un titolo che richiama esplicitamente il caso di cronaca (nell'originale tedesco il film si intitola semplicemente M).
Il film narra la storia di Hans Beckert (Peter Lorre), un maniaco che attira, violenta e poi uccide delle bambine. La città è terrorizzata, e la polizia, messa sotto pressione dall'opinione pubblica, brancola nel buio rastrellando i bassifondi e creando difficoltà alla criminalità organizzata. Stanchi delle retate dei poliziotti, le organizzazioni criminali della città decidono di collaborare mettendosi anche loro alla caccia dell’assassino. Saranno proprio i criminali a trovarlo per primi, grazie all'aiuto di un mendicante cieco che ne riconosce il fischiettio, segnandolo con una "M" tracciata col gesso sul suo cappotto. Inseguito, braccato, e infine catturato dai criminali, Beckert viene portato di fronte a un tribunale improvvisato, dove l’assassino, fino a quel momento quasi muto, si abbandona a un monologo disperato, cercando di spiegare il tormento interiore che lo spinge a uccidere. Ma può esserci comprensione per un simile orrore?
Fritz Lang, al suo primo film sonoro, sfrutta la nuova tecnologia rivoluzionando il linguaggio cinematografico. Il suono diventa parte integrante della narrazione, come nella scena in cui il mendicante cieco riconosce il killer proprio grazie al suo fischiettio, oppure in quella iniziale, dove una filastrocca infantile cantata dai bambini preannuncia la tragedia. Nei primi dieci minuti Lang condensa un intero trattato sulla suspense visiva e sonora. Con un montaggio alternato vediamo una madre che prepara il pranzo mentre la figlia, di ritorno da scuola, si ferma a giocare in strada. La bambina fa rimbalzare una palla su un palo. Il "mostro" si avvicina, ma Lang ce lo mostra solo attraverso la sua ombra minacciosa, proiettata su un manifesto con la sua taglia. Poi, con un montaggio chirurgico, si alternano un piatto vuoto sul tavolo da pranzo, una palla che rotola nell’erba e poi si ferma, una rampa di scale deserta, la voce sempre più angosciata della madre che chiama la figlia invano. Infine, un palloncino, comprato dall'assassino, che vola via, incastrandosi nei fili della luce prima di sparire nel cielo. In poche immagini, senza bisogno di mostrarlo, Lang ci racconta l'orrore che si è compiuto.



L’intero film è costruito su un’alternanza tra forze che dovrebbero opporsi, ma finiscono per specchiarsi l’una nell’altra. La polizia e la malavita, entrambe impegnate nella caccia all’assassino, si rivelano due volti della stessa medaglia. Lang utilizza un montaggio alternato che crea parallelismi inquietanti tra le loro metodologie, fino a rendere indistinguibile chi dovrebbe rappresentare l’ordine e chi il caos. È una riflessione amara su una società in cui la giustizia ufficiale è lenta e impotente, mentre quella sommaria è feroce e inappellabile.
Visivamente, M eredita l'estetica dell’espressionismo tedesco, ma la rinnova con un realismo urbano che amplifica il senso di claustrofobia. Ombre allungate, angolazioni vertiginose, e vicoli soffocanti in una città che diventa un labirinto dove il male si nasconde ovunque. Lang non mostra mai la violenza ma la suggerisce con dettagli minimi ma devastanti. Il risultato è un’atmosfera opprimente e un senso di pericolo costante.
La potenza del film risiede anche nella grande interpretazione di Peter Lorre nel ruolo del mostro. Con il suo volto tondo, gli occhi sporgenti e la postura dimessa, incarna un serial killer sfuggente, quasi invisibile tra la folla. Per gran parte del film è un’ombra, un’idea più che un uomo. Ma nella scena finale, davanti al tribunale improvvisato della malavita, esplode in un monologo disperato che ribalta ogni certezza, un assassino che si dice vittima, e che diventa non più un mostro inumano, ma un essere fragile, divorato da pulsioni incontrollabili.
Alla fine, Lang non offre risposte. Chi ha il diritto di giudicare? La giustizia ufficiale, fredda e impotente, o quella sommaria della strada? M è un film che non chiude il cerchio, lasciando lo spettatore con un’eco inquietante. La caccia all’uomo si trasforma in una furia collettiva, un presagio oscuro di ciò che sarebbe accaduto nella Germania nazista, dove il bisogno di un colpevole avrebbe presto giustificato ogni abuso. Una società che non sa vedere, che abbandona gli individui ai loro demoni, è essa stessa responsabile del mostro che ha generato.
Film
La fiera delle illusioni - Nightmare Alley
di Guillermo Del Toro
Guillermo del Toro ha sempre avuto un talento innato per il fantastico, per quelle fiabe oscure popolate di mostri, creature inquietanti e illusioni seducenti. Ma cosa succede quando abbandona il sovrannaturale per addentrarsi nei meandri più torbidi dell’animo umano? La Fiera delle Illusioni è un noir in abito d’epoca, un racconto di ascesa e caduta che brilla nelle immagini ma inciampa nella sua stessa prevedibilità.
Alla fine degli anni ’30, Stan Carlisle (Bradley Cooper) arriva in un circo di fenomeni da baraccone e truffatori, lasciandosi alle spalle un passato che ha letteralmente dato alle fiamme. Qui impara i trucchi del mestiere dai mentalisti Pete e Zeena (David Strathairn e Toni Collette), che lo avvertono di non oltrepassare il limite tra spettacolo e inganno. Ma Stan, affascinato dal potere di manipolare gli altri, se ne infischia. Dopo aver affinato il proprio numero con l’amata Molly (Rooney Mara), che nel circo aveva il ruolo di "donna elettrizzata", il protagonista si lancia nel mondo dell’alta società, dove attira clienti facoltosi e l’attenzione della glaciale psichiatra Lilith Ritter (Cate Blanchett). L'affascinante donna gli fornisce informazioni preziose per truffare ricchi disperati, ma la loro alleanza è una danza pericolosa. Stan si convince di essere il più astuto di tutti, ma il suo destino è scritto fin dal principio, e la sua disfatta diventa inevitabile.
Nightmare Alley, distribuito in Italia con il titolo La Fiera Delle Illusioni, è l'adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo del 1946 scritto da William Lindsay Gresham, già portato sul grande schermo nel 1947. Si tratta di un noir-thriller che punta tutto sull’aspetto estetico e l'atmosfera. La prima parte del film si svolge nel circo, microcosmo di miseria e inganni, un teatro di disperati che vivono ai margini e dove i reietti sono trasformati in spettacolo. Qui il regista sembra a proprio agio, costruendo con la consueta cura ogni dettaglio di un mondo sporco, polveroso e affascinante. Peccato che la narrazione sia davvero troppo dilatata, sospesa in un prologo che sembra non voler mai decollare. È solo nella seconda metà, quando Stan si lascia alle spalle il circo per il luccichio della grande città, che il film si ravviva prenendo forma. L'ingresso di Cate Blanchett, femme fatale perfetta, algida e manipolatrice, dona una svolta noir, incantando e avvolgendo il protagonista in una ragnatela da cui non potrà più uscire. Ma se il passaggio dall’inganno circense alla grande truffa sociale è intrigante, la storia si muove su binari fin troppo scontati. Ogni scelta sbagliata di Stan è anticipata, ogni avvertimento è reso esplicito, ogni caduta è quasi urlata allo spettatore. Il risultato è una narrazione che, pur impeccabile nella messa in scena e nelle interpretazioni, perde mordente proprio per la sua eccessiva prevedibilità.
Visivamente elegante e interpretato con intensità, La Fiera delle Illusioni è un noir che si nutre delle sue ombre, ma non riesce a sfuggire ai suoi limiti narrativi. Dietro la facciata impeccabile si nasconde un film più ambizioso che realmente incisivo, appesantito da una durata eccessiva e da una trama che non sorprende mai davvero.
Film
Il rosso segno della follia
di Mario Bava
Il rosso segno della follia, conosciuto anche con il titolo originale Un'accetta per la luna di miele, è un film di Mario Bava girato nel 1968 in Spagna ma distribuito solo nel 1970, dopo una travagliata lavorazione che includeva riprese aggiuntive e difficoltà di distribuzione. Ambientato a Parigi, nonostante le riprese siano avvenute tra Italia e Spagna e i personaggi portino nomi inglesi, il film fu prodotto da Manuel Caño e scritto da Santiago Moncada, autore prolifico del cinema di genere spagnolo. Malgrado Moncada si ispiri dichiaratamente ai grandi classici di Alfred Hitchcock, Mario Bava, che in questo film torna a occuparsi della fotografia, riesce a intervenire sul copione inserendo nella storia il personaggio di Laura Betti, attrice nota per aver lavorato con Fellini e Pasolini, che divenne il fantasma ironico e perfido che caratterizza il film.
La storia ruota attorno a John Harrington (Steve Forsyth), affascinante stilista e proprietario di un atelier di abiti da sposa. Dietro la facciata impeccabile si nasconde un paranoico assassino ossessionato da un trauma infantile mai risolto. Le sue vittime sono giovani spose, uccise con brutale precisione usando un’accetta. Quando, in preda al delirio, Harrington uccide anche la moglie Mildred (Laura Betti), il fantasma della donna inizia a perseguitarlo portandolo lentamente alla follia.
Riprendendo l'ambientazione di Sei donne per l'assassino, il film, visivamente, si distingue per la tecnica, l'ottima fotografia e l'eleganza delle inquadrature. Tuttavia, nonostante il suo indiscutibile valore estetico, Il rosso segno della follia non è il film più riuscito di Bava complice una sceneggiatura poco incisiva, una colonna sonora non memorabile e un cast (tolta la Betti) davvero imbarazzante - l'inespressivo attore protagonista pare imbalzamato.
Non mancano, però, momenti di brillante umorismo, come il passaggio dai fumi del crematorio a un toast bruciato, e citazioni metacinematografiche, come la scena in cui il protagonista guarda in televisione I tre volti della paura, altra opera di Bava.
Il rosso segno della follia fu un insuccesso al botteghino, oscurato dal debutto di Dario Argento con L'uccello dalle piume di cristallo. Il thriller di Argento, più violento e contemporaneo, catturava meglio i bisogni del pubblico dell'epoca. Fa sorridere pensare che in questo film di Bava si anticipa alcune delle tematiche e delle tecniche che Argento avrebbe ripreso e sviluppato in Profondo rosso: il trauma infantile legato a un fatto di sangue, la ripresa in soggettiva, i dettagli insistiti sulle armi, e persino la carrellata sui pupazzi, che Argento avrebbe sostituito con strumenti di morte dell'assassino.
Anche se oggi il film appare datato, rimane una testimonianza dello stile inconfondibile di un maestro che ha saputo creare la storia del thriller italiano ma che, probabilmente, per mancanza di autostima e di ambizione, è rimasto un artista con la mentalità di artigiano.
Film
Rebecca, la prima moglie
di Alfred Hitchcock
Nell'estate del 1939, mentre l'Europa è sull'orlo della guerra, Alfred Hitchcock, a quarant'anni, lascia l'Inghilterra per trasferirsi con la famiglia a Los Angeles. Qui, il maestro del brivido dirige il suo primo film americano, "Rebecca - La prima moglie", tratto dall'omonimo romanzo di Daphne du Maurier. Prodotto da David O. Selznick, celebre per il kolossal Via col vento, il film del 1940 è la pellicola più costosa girata di Hitchcock fino ad allora. Il successo al botteghino è straordinario, coronato da due Oscar: Miglior Fotografia e Miglior Film, unico titolo nella filmografia del regista a ricevere questo prestigioso riconoscimento.
Una giovane dama di compagnia senza nome (Joan Fontaine) incontra l’affascinante e tormentato aristocratico Maxim de Winter (Laurence Olivier) durante un soggiorno a Monte Carlo. In un turbine di romanticismo, i due si sposano e si trasferiscono a Manderley, la maestosa tenuta di famiglia di Maxim. Ma il sogno di una vita felice inizia presto a incrinarsi. La nuova signora de Winter si ritrova intrappolata nell’ombra opprimente di Rebecca, la defunta prima moglie di Maxim, il cui ricordo sembra dominare ogni angolo della casa. L’ossessiva e inquietante governante, la signora Danvers (Judith Anderson), non perde occasione per esaltare la perfezione di Rebecca, alimentando l’insicurezza e il disagio della giovane sposa. Man mano che la verità sul passato di Rebecca viene a galla, emergono segreti oscuri e inquietanti. In un crescendo di tensione e mistero, la nuova signora de Winter si ritrova a confrontarsi con il peso del passato per salvare il suo matrimonio e la sua sanità mentale.
Nonostante le rigide limitazioni imposte da Selznick, che esigeva una fedeltà quasi religiosa al romanzo originale, Hitchcock riuscì a trasformare una storia apparentemente priva di suspense in un’opera gotica densa di atmosfera e mistero. Pur rispettando le indicazioni del produttore, il regista riesce a infondere la sua inconfondibile impronta stilistica, creando un delicato equilibrio tra tensione psicologica e narrazione visiva. Tuttavia, il controllo creativo esercitato dal produttore limitò in parte l’espressione artistica del regista, che dichiarò di non considerare il film pienamente suo a causa dell’assenza del tipico umorismo nero che contraddistingueva i suoi lavori.
"Rebecca - La prima moglie" si articola in tre atti distinti e ben delineati. Il primo, a Monte Carlo, si concentra sull’incontro tra i protagonisti e sul rapido evolversi della loro relazione, con una narrazione che richiama il romanticismo classico. Nel secondo atto, il fulcro della storia si sposta a Manderley, la maestosa tenuta di famiglia, dove la protagonista affronta l’ombra ingombrante di Rebecca, la prima moglie di Maxim. Il terzo atto vira verso il dramma giudiziario, rivelando i segreti legati alla morte di Rebecca e smascherando verità inaspettate.
La parte centrale è indubbiamente quella più affascinante e rappresenta il cuore pulsante del film. A Manderley, con i suoi corridoi infiniti, i saloni maestosi e l’atmosfera gotica quasi surreale, la nuova signora de Winter si trova proiettata in una realtà estranea e ostile. La giovane, insicura e priva di esperienza, deve affrontare un mondo dominato dalla memoria di Rebecca, che appare come un’ombra onnipresente e opprimente. Sebbene il suo corpo sia assente, il suo spirito aleggia ovunque: negli oggetti personali, nei gesti quotidiani, persino negli atteggiamenti dei servitori. Hitchcock sfrutta magistralmente l’invisibilità di Rebecca, rendendola un personaggio centrale senza mai mostrarla, ma facendo percepire la sua influenza in ogni dettaglio.
Tra le scene più memorabili e cariche di tensione spicca quella in cui la signora Danvers accompagna la nuova padrona nella stanza di Rebecca, accarezzando con morbosa adorazione i suoi abiti e gli oggetti personali.
Hitchcock dosa abilmente suspense e dramma, costruendo una buona tensione, che però tende a dissiparsi nel terzo atto, dove la storia assume i toni di un dramma giudiziario.
"Rebecca - La prima moglie" rimane tuttavia un’opera fondamentale per comprendere l’evoluzione artistica di Hitchcock. Il film segna il passaggio a una produzione hollywoodiana di alto livello, evidenziando la capacità del regista di adattarsi a un sistema industriale senza sacrificare del tutto il suo genio creativo. Un classico intramontabile che mescola atmosfere gotiche, tensione psicologica e mistero in un intreccio di grande eleganza narrativa e visiva.
Film
Appartamento 7A
di Natalie Erika James
Appartamento 7A è un thriller/horror del 2024 diretto dal Natalie Erika James, regista australiana che si era fatta conoscere con Relic.
Rilasciato direttamente sulla piattaforma Paramount+, il film è, niente meno che, il prequel di Rosemary Baby, il capolavoro di Polanski. Il fatto che non sia stata fatta una adeguata campagna marketing per evidenziare il suo retaggio e che la pellicola non sia mai uscita sul grande schermo lascia supporre che la produzione non abbia creduto pienamente nel progetto.
La protagonista della storia è Terry Gionoffro, la giovane donna che, all'inizio di Rosemary's Baby, si toglie la vita gettandosi dalla finestra. Dunque, fin dal principio del film conosciamo l'epilogo, e questo, è un aspetto che, inevitabilmente, penalizza il coinvolgimento narrativo.
Terry (Julia Garner) è una ballerina con grandi ambizioni e il sogno di sfondare a Broadway. Quando un infortunio spezza il suo cammino, la sua vita si sgretola, tra audizioni fallite e un produttore crudele (Jim Sturgess) che si approfitta del suo momento di debolezza. Sul punto di crollare, Terry viene accolta da Minnie (Dianne Wiest) e Roman Castevet, due anziani gentili che le offrono ospitalità nell'appartamento 7A del famigerato Bramford. Ma l’apparente gentilezza della coppia nasconde il piano diabolico di farle partorire il figlio di Satana.
Appartamento7A gioca a carte scoperte. La sua natura di prequel di Rosemary's Baby è al tempo stesso il suo biglietto da visita e la sua condanna. La regista Natalie Erika James sa di essere in trappola, costretta a seguire binari già fissati, ma con il brillante uso del linguaggio musicale e della danza, perfettamente incastonati nella narrazione, riesce a piegare queste limitazioni e fornirci una sua originalità al capolavoro originale.
Julia Garner è molto brava a interpretare il conflitto interiore di una donna che desidera il successo, ma a un prezzo che rischia di distruggerla. Ottima intepretazione anche per Dianne Wiest, tanto leziosa quanto terrificante.
Il punto debole di Appartamento7A è la sua stessa esistenza come prequel. Per quanto si intravedano momenti di autentica originalità, il film non riesce mai a scrollarsi di dosso il peso dell'opera madre, restando imbrigliato in un destino già scritto.
E' un film piacevole, girato bene e interpretato in modo impeccabile, ma nel ricalcare la storia originale finisce per soffrire un confronto inevitabile e, purtroppo, impietoso con il capolavoro da cui trae ispirazione.

L'uccello dalle piume di cristallo
di Dario Argento
Dario Argento non ha bisogno di presentazioni tra gli amanti del cinema di genere, ma ogni leggenda ha un inizio, e per il regista romano tutto comincia con L'uccello dalle piume di cristallo. Siamo nel 1970, un momento in cui il giallo italiano cerca una nuova identità. Figlio del produttore cinematografico Salvatore Argento e della fotografa Elda Luxardo, celebre per i suoi ritratti di dive italiane, Dario cresce immerso nel mondo dello spettacolo e del cinema. Prima di approdare dietro la macchina da presa, si afferma come giovane critico e sceneggiatore, collaborando con Sergio Leone per il soggetto di "C’era una volta il West".
Quando scrive la sceneggiatura di L’uccello dalle piume di cristallo - ispirandosi al romanzo giallo "La statua che urla" di Fredric Brown - Dario Argento non immagina che sarà lui stesso a dirigere il film. Tuttavia, innamoratosi della storia decide di fare il grande passo e debuttare come regista. Grazie all’appoggio del padre, che si unisce al progetto come co-produttore, Argento riesce a presentare il soggetto a Goffredo Lombardo, storico produttore della Titanus. Lombardo, entusiasta, accetta la sfida e dà fiducia a un esordiente che di lì a poco avrebbe cambiato per sempre il panorama del thriller italiano.
Con uno stile che gioca sul confine tra realtà e illusione, L'uccello dalle piume di cristallo è molto più di un film d’esordio: è il manifesto di una poetica che mescola eleganza visiva, suspence chirurgica e un gusto estetico inconfondibile. Nonostante Dario Argento abbia sempre respinto l’idea di essere stato influenzato da Mario Bava, è difficile non riconoscere alcune somiglianze con i capolavori del maestro, come "La ragazza che sapeva troppo" e "Sei donne per l’assassino". Dettagli come l’assassino con i guanti neri, il colpo di scena del doppio colpevole e l’uso della soggettiva sembrano suggerire un debito stilistico. Tuttavia, il film di Argento non è un’imitazione, bensì una reinvenzione, spiazzando lo spettatore con un raffinato gioco di prospettive e indizi. È il punto zero di un regista destinato a lasciare un’impronta indelebile nella storia del cinema.
La storia vede come protagonista Sam Dalmas (Tony Musante), un giovane scrittore americano, che assiste a un tentativo di omicidio in una galleria d’arte. Inizialmente i sospetti cadono su di lui, ma quando l'assassino lo prende di mira cercandi di ucciderlo, lo scrittore si improvvisa detective per cercare di risolvere il mistero e fermare la scia di sangue che terrorizza la città.
Con la sfrontatezza dell’esordiente convinto del proprio talento, Dario Argento si getta a capofitto nel genere giallo e ne rivoluziona l'approccio, intrecciando virtuosismi tecnici e una cura maniacale per l’estetica. Il risultato è un film che, pur basandosi su idee e atmosfere preesistenti, non solo sorprende per l’originalità della regia, ma pone le basi per un nuovo linguaggio cinematografico, capace di elevare il thriller italiano a livello internazionale.
Fin dal suo debutto, Argento introduce gli elementi distintivi del suo cinema come l’uso del punto di vista in soggettiva, primi piani su occhi e volti, un’ossessione per i dettagli e per la fotografia, trame ambientate in luoghi astratti e senza tempo, tocchi di ironia, personaggi grotteschi, moventi legati a profondi traumi, e una cura quasi rituale nella messa in scena degli omicidi. La macchina da presa diventa un personaggio a sé, muovendosi con soggettive immersive, zoom arditi, panoramiche vertiginose e angolazioni audaci. A completare questa visione innovativa, la fotografia magistrale di Vittorio Storaro, le ottime scenografie di Dario Micheli e la straordinaria colonna sonora di Ennio Morricone, che sottolinea l'importanza dell'elemento musicale nell’opera di Argento.
Il pubblico accolse il film con entusiasmo, premiandolo con un incasso al botteghino straordinario. Il successo di L'uccello dalle piume di cristallo non solo diede il via alla celebre trilogia degli animali, ma ispirò anche una lunga scia di imitazioni, consacrando Argento come il nuovo maestro del brivido.
Film
Chime
di Kiyoshi Kurosawa
Noto per il suo approccio unico e autoriale al genere horror giapponese con opere come Cure e Pulse, il regista e sceneggiatore Kiyoshi Kurosawa firma Chime, un mediometraggio di 45 minuti concepito per promuovere Roadstead, una nuova piattaforma di streaming giapponese.
Presentato in anteprima alla Berlinale 2024, Chime condensa in meno di un’ora tutta la maestria del regista nel creare tensione, alienazione e un’inquietudine sottile e persistente.
La storia vede come protagonista un insegnante di cucina francese (Mutsuo Yoshioka) che dopo aver assistito al suicidio di uno dei suoi studenti, viene contaminato da una follia omicida che lo porta a perdere il controllo sulla propria mente e sulle sue azioni.
Kurosawa ha la straordinaria capacità di evocare il terrore attraverso dettagli minimi e apparentemente insignificanti: l'ombra dietro una tenda, il riflesso in una finestra, il suono di un condizionatore. Un esempio perfetto di questa tecnica si trova nella scena in cui il protagonista pranza con la famiglia, e la moglie si alza improvvisamente per gettare un intero sacco di lattine nel secchione. Questo gesto, che si ripete nel corso del film, non solo provoca un rumore fragoroso, ma riesce a suscitare un senso di profonda inquietudine. La tensione, pur rimanendo nascosta sotto la superficie, diventa palpabile, infondendo un'ansia persistente che cresce con ogni ripetizione del gesto, fino a diventare decisamente disturbante.
Un altra scena, in cui apparentemente non succede nulla ma la tensione sale alle stelle, è quella finale in cui il protagonista esce di casa per vedere chi ha suonato al citofono venendo sovrastata da un rumore alieno e dissonante che amplifica il disagio interiore del personaggio
Kurosawa, fedele al suo stile, costruisce un orrore che non viene mostrato, non si manifesta in modo esplicito, ma si insinua silenziosamente, restando percepibile a livello emotivo. Il sonoro diventa il fulcro della narrazione con rumori amplificati, suoni discordanti e il silenzio stesso che si trasformano in strumenti per creare disagio. Chime è un piccolo gioiello di paranoia, un concentrato di inquietudine che dimostra ancora una volta come Kurosawa sia capace di trasformare l’ordinario in un’esperienza straordinariamente perturbante.

Una sull'altra
di Lucio Fulci
Lucio Fulci, regista e sceneggiatore italiano, è stato una figura poliedrica del cinema, capace di attraversare con disinvoltura generi diversi. A partire dagli anni Sessanta, ha diretto oltre cinquanta film, spaziando dai musicarelli alla commedia demenziale — molti dei quali con protagonisti Franco e Ciccio — per poi consacrarsi come autore di culto nel giallo e nell’horror. Rivalutato nel tempo da critici e registi come Quentin Tarantino, Fulci ha firmato opere seminali come Non si sevizia un paperino, Zombi 2 e L’aldilà, lasciando un’impronta indelebile nella storia del cinema di genere.
Nel 1969, il regista romano segna il suo debutto nel giallo con Una sull’altra (conosciuto anche con il titolo internazionale di Perversion Story), realizzando, quasi interamente a San Francisco un film che anticipa molti dei temi e delle estetiche distintive del suo cinema futuro.
La vicenda ruota attorno a George Dumurrier (Jean Sorel), medico dalla moralità discutibile, che a seguito dell'improvvisa morte della moglie, eredita un milione di dollari grazie a una polizza assicurativa. Qualche giorno dopo, durante una serata in un night club con l'amante Jane (Elsa Martinelli), George incontra Monica Weston (Marisa Mell), una sensuale spogliarellista che sembra essere la perfetta sosia della defunta moglie. Nel frattempo la polizia sospetta che Dumurrier abbia orchestrato la morte della moglie per incassare l’ingente assicurazione. Mentre le prove contro di lui si accumulano, George si ritrova intrappolato in una spirale di sospetti, tradimenti e rivelazioni inaspettate.
La storia richiama in maniera abbastanza esplicita La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, ma Fulci ne rielabora i temi con un approccio personale, inserendo una carica morbosa ed erotica che rende il film più audace e trasgressivo. Lo striptease sulla moto e la scena lesbica tra le due attrici protagoniste, pur risultando meno espliciti di quanto il titolo internazionale lascerebbe immaginare, contribuirono a scandalizzare il pubblico dell’epoca, ancora poco abituato a scene dal contenuto così allusivo e sensuale. Al di là dell'erotismo come elemento narrativo, la regia di Fulci fa grande uso dei primissimi piani sugli occhi dei protagonisti, muovendosi tra zoom audaci e dettagli estetici che anticipano molte delle tecniche che il regista perfezionerà nei suoi horror. Nonostante alcune ingenuità narrative, una recitazione un pò da fotoromanzo e una colonna sonora jazz che ho trovato particolarmente invasiva e irritante, Una sull’Altra ha il merito di anticipare il nascente giallo all’italiana, ponendosi come un film significativo e audace, quantomeno per il suo tempo.
Film
Heretic
di Scott Beck e Bryan Woods
Heretic, l'ultima produzione di A24, è un horror psicologico a tema religioso.
Diretto da Scott Beck e Bryan Woods, già noti per "A Quiet Place", il film affronta temi come la fede e il libero arbitrio, rovesciando i cliché dell’horror religioso, dove i fanatici perseguitano le vittime di turno. Qui accade l'esatto contrario.
La storia segue due giovani missionarie della chiesa mormone, sorella Paxton (Chloe East) e sorella Barnes (Sophie Thatcher), che girano per una piccola città del Colorado, andando di porta in porta nella speranza di convertire gli abitanti. In una serata piovosa, le due missionarie decidono di bussare alla porta di una casa isolata. Accolte dal carismatico sig. Reed (Hugh Grant) che con una scusa le invita a entrare in casa, le due ragazze si rendono presto conto di essere cadute in una trappola, oscura e manipolativa.
Il film si divide essenzialmente in due parti distinte. La prima è un thriller giocato sull'ambiguità e sulla tensione, con dei dialoghi affilati, un’atmosfera tesa e una regia che sa valorizzare i silenzi e gli sguardi. Nella seconda metà, invece, il film cambia marcia, abbracciando completamente il genere horror. L'atmosfera precipita in un crescendo di terrore, con le due protagoniste costrette a confrontarsi con la messa alla prova della loro fede, intrappolate in una casa che si trasforma in un labirinto infernale.
Interessante la riflessione sulla natura della fede e del libero arbitrio, così come provocatorio, e per certi versi divertente, il paragone con le diverse edizioni del Monopoli, Guerre Stellari e Creep dei Radiohead (spunti e influenze mi erano già noti) per sostenere che la maggior parte delle religioni non sono altro che adattamenti l'una dell'altra. Certo, qualche fedele potrebbe offendersi, ma del resto, il titolo del film mi pare sia abbastanza esplicito.
Per il resto la regia di Beck e Woods è solida, con una gestione sapiente dei tempi narrativi nella prima parte e un uso abile degli spazi claustrofobici nella seconda. Brave le due attrici, Chloe East che interpreta la sorella ingenua a timorosa, e Sophie Thatcher, la sorella più carismatica e dallo sguardo profondo, che spicca per la sua fresca bellezza. Il vero mattatore del film è però Hugh Grant che offre una grande performance attoriale, interpretando con ironia e sottile inquietudine un folle teologo che si diverte a manipolare le due giovani missionarie, orchestrando un disturbante gioco psicologico.
"Heretic" è un film che esplora temi di prevaricazione psicologica, sfruttando il contesto religioso come un veicolo per parlare di manipolazione e controllo. Con il suo mix di tensione, riflessioni filosofiche e atmosfera cupa, il film si è rivelato uno dei più interessanti dell'anno. In Italia uscirà a febbraio del 2025.
Film
La signora scompare
di Alfred Hitchcock
La signora scompare (The Lady Vanishes) è uno degli ultimi film di Alfred Hitchcock del periodo inglese. Una pellicola che mescola sapientemente giallo, spionaggio e commedia.
Basato sul romanzo "Il mistero della signora scomparsa" pubblicato nel 1936 da Ethel Lina White, il film si apre con un piano sequenza su un modellino in scala che riproduce un pittoresco paesino tra le montagne dell'Europa centrale. La cinepresa ci porta poi all'interno della sala d'attesa affollata di un albergo, dove si radunano i passeggeri di un treno diretto a Londra, costretti a una sosta forzata a causa del maltempo. In questo scenario, Hitchcock introduce una galleria di personaggi che spaziano dall’ereditiera inglese Iris Henderson (Margaret Lockwood), decisa a tornare a casa per il suo imminente matrimonio, al giovane e scanzonato clarinettista Gilbert Redman (Michael Redgrave), passando per una coppia di inglesi ossessionati dal cricket, un avvocato fedifrago in viaggio con l'amante, e un'anziana governante inglese in viaggio per l'Europa, Miss Froy. Il giorno dopo, quando il treno riprende finalmente la corsa, Iris stringe amicizia con Miss Froy. Tuttavia, dopo un improvviso malore, al suo risveglio scopre che l’anziana donna è misteriosamente scomparsa. Non solo, nessuno dei passeggeri sembra ricordare la presenza della signora a bordo. Determinata a scoprire la verità, Iris, supportata da Gilbert, si trova a dover sfidare l'incredulità generale e il crescente sospetto che qualcosa di più grande si nasconda dietro questa enigmatica sparizione.
Il film parte come una commedia per poi virare, nelle scene all'interno del treno, in un thriller carico di tensione e mistero. Il tutto però sempre dosato con una buona dose di humor e momenti di irresistibile leggerezza. L’unico cedimento è forse nella parte conclusiva, quando l’intrigo spionistico prende il sopravvento con una lunga sequenza d’azione che, pur avvincente, perde in eleganza rispetto alla costruzione serrata e meticolosa della prima parte.
Interessante la sottotrama dei due scapoli inglesi più interessati a conoscere il risultati del cricket che preoccuparsi dei venti di guerra che stavano soffiando sull’Europa. Una critica neanche troppo velata a una certa indifferenza tipicamente britannica verso le tensioni geopolitiche dell’epoca.

Sabotaggio
di Alfred Hitchcock
Sabotaggio è un film di Alfred Hitchcock del cosiddetto periodo inglese. Realizzato nel 1936 e ispirato al romanzo "L'agente segreto" di Joseph Conrad, il film rappresenta uno dei primi esperimenti del Maestro del Brivido nella costruzione di un thriller ad alta tensione. Negli Stati Uniti è stato distribuito con il nome "The Woman Alone".
La storia si svolge a Londra, dove Karl Verloc (Oskar Homolka), un uomo all'apparenza rispettabile, gestisce un piccolo cinema insieme alla moglie (Sylvia Sidney) e al giovane cognato, Stevie. In realtà, Verloc è un agente segreto al servizio di una potenza straniera, incaricato di organizzare attentati segreti senza che la moglie ne sospetti nulla. Sotto l'occhio vigile di Scotland Yard, un agente di polizia in incognito segue da vicino i movimenti di Verloc, nutrendo forti sospetti su di lui. Quando a Verloc viene affidata una nuova missione - far esplodere una bomba in un luogo strategico della città - l’uomo si trova impossibilitato a compiere l'azione di persona. Decide così di affidare il pacco esplosivo al giovane Stevie, il quale, ignaro del pericolo, si mette in cammino per le strade di Londra con la bomba nascosta nel pacco, inesorabilmente innescata e pronta a esplodere.
In "Sabotaggio" Hitchcock mette in mostra tutte le sue capacità nel creare tensione e nel giocare con le emozioni del pubblico, sviluppando una suspense quasi insostenibile per l'epoca. La scena in cui il ragazzo porta la bomba con sé, mentre il tempo scorre implacabile, non solo è realizzata in maniera magistrale ma risulta essere audace per la sua drammatica conclusione. Questa svolta lasciò il pubblico dell’epoca sconvolto e generò un'ondata di reazioni negative, al punto che Hitchcock stesso, in una celebre intervista con François Truffaut, confessò: "Ho commesso un grave errore: il ragazzino che porta la bomba... è diventato troppo simpatico al pubblico. E il pubblico non mi ha mai perdonato di averlo fatto morire."
Oltre per la bravura degli attori, il film si distingue per un finale decisamente controcorrente in cui il pubblico è portato a desiderare l'inevitabile tragedia come unica via di fuga per i protagonisti, in una crudele ironia che ribalta le aspettative del lieto fine.

Strange Darling
di J.T. Mollner
Uscito negli Stati Uniti nel 2024, Strange Darling è un insolito thriller diretto da J.T. Mollner. Diviso in sei capitoli non consequenziali - alla Tarantino degli esordi tanto per intenderci - il film non segue una narrazione lineare e vede come protagonista un serial killer e la sua vittima in un gioco di ribaltamenti di ruoli e aspettative.
La storia è ambientata in Oregon e racconta l'incontro fortuito tra un uomo e una donna che decidono di recarsi in un motel vicino per una notte di sesso estremo. Quello che sembra un gioco di seduzione e trasgressione prende rapidamente una piega pericolosa e imprevedibile, trascinando i protagonisti in un vortice di violenza e inganno.
Strange Darling è un film da scoprire senza conoscere troppi dettagli della trama, quindi, se non lo avete ancora visto, è il momento di interrompere la lettura perché da qui in avanti siamo in modalità spoiler.
Abituati a vedere film in cui la donna è vittima indifesa delll'uomo malvagio e violento, Mollner, sovverte abilmente i classici stereotipi di genere, e giocando con le aspettative del pubblico, pur mantenendo viva l’ambiguità e il senso di disagio, a metà film scopre le sue carte rivelando che è proprio la donna (interpretata da Willa Fitzgerald) a essere la pericolosa omicida seriale, conosciuta come "The Electric Lady", che la polizia sta cercando da alcuni anni. L’uomo (Kyle Gallner), che nella scena iniziale vediamo armato di fucile mentre la insegue, è in realtà solo una delle sue numerose vittime - prevalentemente uomini - che cerca disperatamente di vendicarsi delle violenze subite dopo essere stato drogato la notte precedente. Non conosciamo i motivi che spingono la protagonista a uccidere; non è la solita vittima in cerca di vendetta. Nel finale, afferma di vedere demoni al posto delle persone, facendo intuire una psiche profondamente turbata. È un personaggio intrigante, ambiguo e fuori controllo, che uccide senza scrupoli e che sembra cercare nel dolore quell'amore che forse non ha mai ricevuto.
Girato in 35mm, il film vanta una fotografia dai toni saturi e intensi, una splendida colonna sonora e una regia dal ritmo disorientante e incalzante, funzionale a esplorare la complessa dinamica tra i due protagonisti. Notevole l'interpretazione di Willa Fitzgerald (vista recentemente nella serie "La caduta della casa degli Usher"), che nel ruolo di scream queen al contrario offre una performance di grande intensità e versatilità, dimostrando un talento che arricchisce e ribalta la tradizionale figura della donna nel genere horror/thriller.
Film
Longlegs
di Oz Perkins
Longlegs è uno dei film più chiaccherati di questo periodo.
Se ne parla addirittura da mesi grazie a una efficace campagna marketing che ha saputo attirare l'attenzione sia da parte degli addetti ai lavori che del pubblico.
Distribuito da Neon e costato poco meno di 10 milioni di dollari il film in un paio di mesi ne ha incassato più di 100.
Il regista è Oz Penkins che ho già avuto modo di apprezzare nei suoi precedenti film, in particolar modo in "Gretel and Hansel", la rielaborazione gotica della favola dei fratelli Grimm.
Ambientato negli anni novanta, Lee Harker (Maika Monroe) è una giovane agente dell’FBI, apparentemente distaccata e priva di emozioni, che grazie alle sue straordinarie capacità percettive, viene assegnata dal suo capo, l’agente Carter (Blair Underwood), a indagare su una serie di brutali omicidi avvenuti nell'Oregon fin dagli anni settanta. Padri che senza ragione massacrano la loro famiglia, e successivamente si suicidano. Unico elemento in comune è che le figlie femmine assassinate festeggiano il compleanno il 14 del mese e che nella scena dei crimini viene sempre trovata una lettera dai caratteri incomprensibili in cui è riconoscibile solo la firma, Longlegs. Aiutata dal suo intuito, Lee riesce a decifrare il contenuto delle lettere scoprendo che il misterioso serial killer (interpretato da un irriconoscibile Nicholas Cage), è più vicino a lei di quanto pensasse.
Accostato al "Silenzio degli Innocenti" per il fatto che abbiamo una giovane agente dell'FBI che indaga su un serial killer, a "Seven", per via dell'ambientazione cupa e claustrofobica, oppure a "Zodiac" per le lettere scritte con uno strano codice, il film di Perkins, se proprio bisogna trovargli delle analogie, in realtà mi è sembrato più un incrocio tra la prima stagione di "True Detective" e un episodio dilatato di "X-Files", dove gli alieni e l'ignoto vengono sostituiti dal demonio e il culto di Satana. Diviso in tre atti, "Longlegs" parte come un classico thriller procedurale per poi sconfinare in un horror soprannaturale, dove il male si annida nelle pieghe del quotidiano, lasciando nello spettatore una sensazione di inquietudine che persiste ben oltre i titoli di coda. Tra citazioni bibliche, inquietanti bambole di porcellana e inneggiamenti a Satana, il film di Perkins non è certamente il miglior horror degli ultimi anni, e forse nemmeno del 2024, nonostante gli annunci e la grande aspettativa. Tuttavia, resta un'opera notevole, che trova la sua forza nella cura estetica del regista (inquadrature, controcampi e fotografia spettacolare) e sopratutto nell'interpretazione di un Nicholas Cage trasformato in una figura grottesca e ambigua, in cui incarna un “boogeyman” dai tratti glam-rock. Una sorta di Marilyn Manson invecchiato in versione albina. E già solo a pensare a questa immagine mi mette i brividi addosso.
Film
Il club dei 39
di Alfred Hitchcock
Il club dei 39 è uno dei film più noti del periodo inglese di Alfred Hitchcock, un classico thriller spionistico che unisce suspense, azione e ironia.
La storia vede protagonista Richard Hannay (Robert Donat), un uomo comune che si ritrova suo malgrado coinvolto in un intrigo di spionaggio internazionale. Dopo l'incontro con una misteriosa donna, Annabella, che viene assassinata nel suo appartamento, Hannay si ritrova a dover fuggire dalla polizia e dai veri colpevoli che lo vogliono eliminare. Durante la fuga Hannay incontra una donna (Madeleine Carroll), che inizialmente non crede alla sua storia e lo vede solo come un fuggitivo. Tra una serie di circostanze, malintesi e battibecchi, i due si ritrovano insieme a dover smascherare un'organizzazione spionistica segreta chiamata "Il club dei 39", in un crescendo di colpi di scena e inseguimenti.
In questo film possiamo già riconoscere una delle tematiche chiave del cinema di Hitchcock, quella dell’innocente in fuga coinvolto in un complotto spionistico, un elemento che il regista svilupperà e affinerà nei suoi futuri capolavori. Hitchcock dimostra già la sua abilità di saper dosare perfettamente la tensione con una buona dose di umorismo. La chimica tra Robert Donat e Madeleine Carroll è vivace e in qualche modo sensuale e i loro scambi frizzanti non solo introducono un tocco di leggerezza nel film, ma mettono anche in luce l'ironia distintiva del regista inglese.
Qualche ingenuità nella trama ma film abbastanza godibile.

Oddity
di Damian Mc Carthy
Oddity è il secondo film del regista irlandese Damian Mc Carthy.
In rete viene appprezzato parecchio e alcuni lo hanno già eletto come uno degli horror più riusciti dell'anno.
Ambientato in una remota casa di campagna irlandese, il film racconta la storia di Darcy (Carolyn Bracken), una sensitiva cieca che torna nel luogo dove la sorella gemella Dani (sempre Carolyn Bracken) è stata brutalmente uccisa. A uccidere la donna sembra essere stato un paziente della struttura di igiene mentale poca lontana, dove Ted, il marito della vittima (Gwilym Lee), lavora come psichiatra. Darcy però è convinta che l'omicidio di sua sorella non sia avvenuto come vogliono fargli credere e portandosi dietro una macabra statua di legno e degli oggetti che appartengono alla sua strana collezione cerca a suo modo di scoprire la verità.
Il film mantiene una costante tensione alternando momenti introspettivi a scene di intensa suspense. L'inquietudine e la tensione è generata da un uso sapiente del silenzio e dei suoni ambientali, come scricchiolii e rumori sinistri, e presenta alcuni colpi di scena ben assestati con jumpscare utilizzati in maniera estramemente eleganti e funzionali.
Forse un pò prevedibile a livello di trama, poiché si intuisce piuttosto presto chi sia il colpevole, ma sicuramente molto coinvolgente a livello di atmosfera e tensione. La fotografia è particolarmente curata, con un sapiente uso della luce fioca e delle ombre, che trasforma ogni angolo della casa in una minaccia nascosta e contribuisce a creare una sensazione di isolamento e claustrofobia.
Un horror psicologico che, pur non sorprendendo per originalità, riesce a coinvolgere lo spettatore con un’atmosfera ricercata e uno stile visivo affascinante.
Buono ma non memorabile.

Sono la bella creatura che vive in questa casa
di Oz Perkins
Il titolo di questo film, tradotto letteralmente dall'originale "I Am the Pretty Thing That Lives in the House", può trarre in inganno. Si potrebbe pensare a un comune horror di intrattenimento, facilmente assimilabile al vasto catalogo di genere su Netflix. Nulla di più sbagliato.
"Sono la bella creatura che vive in questa casa", la seconda pellicola diretta da Oz Perkins, è una ghost-story atipica e raffinata, in cui l’orrore non risiede nelle apparizioni spettrali o nei classici colpi di scena, ma nel lento svelarsi di un senso di inquietudine profonda.
La trama segue Lily (Ruth Wilson), una giovane infermiera incaricata di prendersi cura di una famosa scrittrice horror, Iris Blum (Paula Prentiss), una donna anziana malata di demenza. Mentre trascorre le sue giornate nella vecchia e isolata casa di campagna, Lily inizia a sentire strani rumori, vedere macchie di muffa propagarsi su una parete e percepire la presenza inquietante di una donna deceduta chiamata Polly (Lucy Boynton), protagonista di uno dei romanzi di Iris, il cui spirito sembra ancora dimorare nella casa.
Fin dal momento del suo arrivo Lily anticipa agli spettatori il suo tragico e inevitabile destino: ha ventotto anni ma non vivrà abbastanza per vedere il suo ventinovesimo compleanno.
A metà tra Henry James ed Edgar Allan Poe, il film di Perkins racconta di dolore e solitudine in un mondo sospeso tra la vita e la morte, dove il tempo sembra cristallizzarsi. Non è un film per tutti. Si tratta di un horror gotico, decisamente autoriale, che abbraccia la lentezza come cifra stilistica e richiede pazienza e attenzione da parte dello spettatore. Il ritmo contemplativo può sembrare quasi soporifero per alcuni, ma per chi è disposto ad immergersi nelle sue atmosfere rarefatte e nei silenzi pesanti, Sono la bella creatura che vive in questa casa lascia un’impronta profonda. È un’opera che scava nell’anima, regalando una bellezza sottile e inquietante, capace di risuonare a lungo nella mente e nel cuore di chi sa coglierne la delicatezza e il senso di angoscia che la attraversa.

MaXXXine
di Ti West
"Maxxxine" è il terzo capitolo della trilogia horror di Ti West iniziata con "X - A sexy horror story" e proseguita con "Pearl". Nei tre film l'assoluta protagonista è Mia Goth, la nuova regina dell'horror che interpreta sia la tragica Pearl che la determinata Maxine. L'importanza di Mia Goth in questa trilogia si evince anche dal fatto che l'attrice ha collaborato alla sceneggiatura e ha avuto un ruolo di produttrice esecutiva.
Los Angeles, 1985. Maxine Minx, sopravvissuta agli eventi tragici del passato, si trova a Hollywood con l’obiettivo di sfondare nel mondo del cinema. Lavora nel porno ma vuole fare il grande salto e diventare una vera attrice. Brama il successo e la fama ed è più determinata che mai a ottenere il ruolo che le cambierà la vita. L'occasione si presenta quando il suo agente la informa di un'audizione per un film horror di serie B, "The Puritan II", diretto da una giovane e ambiziosa regista. Convinta che questo sia il trampolino di lancio verso la celebrità, Maxine riesce a ottenere la parte ignara che il cammino verso la gloria sarà costellato di pericoli, misteri e incontri con figure oscure del suo passato.
Se "X" era un chiaro omaggio agli slasher degli anni settanta, e "Pearl" fondeva l'horror psicologico con il technicolor della Hollywood degli anni trenta e quaranta, in "Maxxxine", ambientato negli ottanta in pieno boom del VHS e dell'industria dell'intrattenimento per adulti, i riferimenti sono i b-movie americani, il giallo all'italiana e i thriller alla Brian De Palma. Rispetto agli altri due film della trilogia il gore è meno esplicito (anche se la scena nel vicolo almeno a noi maschietti provoca parecchio disagio) a favore di una maggiore tensione psicologica e di una critica velata al mondo dello spettacolo. Il personaggio interpretato dalla Goth, che ricalca in qualche modo quello di Marilyn Chambers, la pornostar che venne scelta da Cronenberg per girare il suo film horror "Rabid", incarna perfettamente sia la vulnerabilità che la forza di una donna che ha scelto in tutti i modi di arrivare ad avere "la vita che si merita". Dal punto di vista tecnico il film si distingue per un estetica dai colori saturi e luminosi, una vivacità nel montaggio e di una colonna sonora incisiva che cattura perfettamente l'atmosfera di quegli anni. Bellissima la scena in cui Maxine/Mia Goth si trova in discoteca truccata da replicante di Blade Runner mentre balla "Welcome to the Pleasuredome" dei Frankie Goes To Hollywood.
Tuttavia, nonostante l'ottima confezione, "Maxxxine" risulta a mio avviso il film più debole della trilogia. Ho trovato poco interessante la figura del serial killer, e la sceneggiatura mostra dei limiti, soprattutto nel finale, che mi ha lasciato parecchi dubbi. Il film è gradevole, ma non possiede la freschezza del primo né il coinvolgimento emotivo del secondo. In tutti i modi, Mia Goth continua a brillare nel ruolo di Maxine, confermandosi come la mia final girl preferita.

L'uomo che sapeva troppo (1934)
di Alfred Hitchcock
Nel 1934 Alfred Hitchcock firma un contratto con la Gaumont British Picture Corporation, casa di produzione cinematografica inglese, con la quale realizza L'uomo che sapeva troppo, il primo di una serie di film di spionaggio. La storia verrà ripresa anni più tardi dallo stesso Hitchcock - quando il regista inglese si trovava da tempo negli Stati Uniti - in un remake dall'omonimo titolo.
La trama segue Bob e Jill Lawrence, una coppia britannica in vacanza con la loro figlia Betty a Sankt Moritz in Svizzera. Durante il soggiorno, assistono involontariamente all'omicidio di un agente segreto francese che, prima di morire, rivela a Jill che un gruppo di cospiratori stanno preparando un attentato contro un diplomatico a Londra. In breve tempo la coppia si vede rapire la loro figlia Betty dai terroristi per garantirsi il loro silenzio. Bob e Jill si ritrovano così costretti a risolvere il mistero e salvare la loro figlia, affrontando i pericoli che li attendono in una Londra notturna e minacciosa.
Sarà che non sono mai stato un amante dei film di spionaggio ma a me questo film non mi ha convinto. A metà tra commedia e giallo, il film ha una sceneggiatura poco avvincente che in alcune parti appare datata, e una recitazione a tratti teatrale e poco emozionale. La sparatoia finale poi è decisamente troppo lunga e alla lunga annoia. Mi rendo conto che stiamo parlando sempre di un film della metà degli anni trenta ma alcuni film muti di Hitchcock sono invecchiati decisamente meglio. Di questo film salvo l'intepretazione di Peter Lorre, nel ruolo dell'enigmatico antagonista, e la scena nell'Albert Hall in cui il maestro della Suspense utilizza sapientemente il silenzio e la musica per creare una tensione straordinaria dimostrando una maestria che anticipa i suoi futuri capolavori.
Film
Operazione diabolica (Seconds)
di John Frankenheimer
"Seconds" è un thriller psicologico del 1966 diretto da John Frankenheimer. Adattamento dell'omonimo romanzo di David Ely pubblicato nel 1963, il film in italiano è conosciuto con l'infelice titolo di "Operazione Diabolica" mentre il libro da cui è tratto è stato pubblicato in Italia con il titolo "Istituto di bella morte". Tra i due titoli non si sa quale sia peggio.
Il film racconta la storia di Arthur Hamilton, un uomo di mezz'età insoddisfatto della sua vita e del suo lavoro, che viene contattato da un misteriosa organizzazione che gli offre la possibilità di una nuova vita sotto falsa identità. Hamilton accetta, passando attraverso una serie di operazioni chirurgiche e trasformazioni che lo rendono fisicamente giovane e diverso. Con il nuovo volto, Arthur assume l’identità di Tony Wilson, pittore di Malibu ritrovandosi a vivere una vita completamente diversa. Tuttavia, la sua nuova vita si rivela ben presto un incubo, portandolo a confrontarsi con le conseguenze delle sue scelte e con la fragilità della propria identità.
"Seconds" è un film poco conosciuto ma particolare che solleva interrogativi sul desiderio di evasione e sull'opportunità di ricominciare una nuova vita. Un fanta thriller che offre una riflessione disturbante sui temi dell'identità e del cambiamento, girato in bianco e nero con uno stile psichedelico e onirico. Il film è caratterizzato da angolazioni bizzarre, scenografie angolari e un uso audace della luce e dell'ombra che, fin dai titoli di testa (realizzati dal grafico Saul Bass), contribuiscono a creare un'atmosfera di disorientamento e inquietudine, riflettendo l'angoscia interiore del protagonista. Tra prospettive impossibili - vedi la scena del presunto stupro - e deformazioni surrealistiche, il film, sopratutto nella prima parte, mi ha ricordato un incubo Lynchano, evocando quella stessa atmosfera disturbante presente nelle sue opere. Peccato che nel mezzo, ovvero nella sequenza della festa pagana hippie o nell'ubriacatura durante il ricevimento nella casa di Malibù, secondo me si esagera nei tempi e nella sostanza diventando tutto troppo eccessivo. Il film si riprende nel finale con un colpo di scena, magari prevedibile, ma ben assestato. Buona la prova dell'attore Rock Hudson, che qui interpreta la nuova identità del protagonista, in un ruolo assai diverso da quello a cui il pubblico era abituato a vederlo, così come quella di John Randolph che interpreta Hamilton prima dell'operazione.
Film