Nodo alla gola
di Alfred Hitchcock
Se c’è una cosa che Alfred Hitchcock amava più della suspense, erano le sfide tecniche impossibili. Con Nodo alla gola (Rope), il suo primo film a colori uscito nel 1948, il maestro del brivido decide regalarci una pellicola che sembra girata in un unico piano sequenza. Non è solo cinema, è teatro filmato con una sfacciataggine che solo un genio poteva permettersi.
Siamo in un elegante attico di New York. Due giovani brillanti e benestanti, Brandon (John Dall) e Philip (Farley Granger), strangolano il loro amico David con una corda. Non c'è un movente passionale o economico: lo fanno per puro esercizio intellettuale, per dimostrare la teoria nietzschiana del "superuomo" che è al di sopra della legge morale. Il tocco macabro? Nascondono il corpo in una vecchia cassapanca di legno, che decidono di usare come tavola imbandita per un cocktail party che si terrà da lì a pochi minuti. Tra gli invitati ci sono il padre della vittima, la fidanzata e, soprattutto, Rupert Cadell (James Stewart), il loro ex professore di filosofia, che durante la serata comincia a sospettare che qualcosa non quadri.
La prima cosa che colpisce di Nodo alla gola è la sua claustrofobia. Non usciamo mai da quell'appartamento. Hitchcock ci costringe a diventare complici silenziosi dei due assassini: sappiamo dov'è il corpo, sappiamo che gli invitati stanno mangiando sopra un cadavere, e questa ironia drammatica ci tiene incollati allo schermo con un misto di ansia e fastidio.
La famosa tecnica del "piano sequenza simulato" (i tagli ci sono, ma sono nascosti strategicamente quando la camera passa dietro le schiene dei personaggi o su superfici scure) non è solo un virtuosismo estetico. Serve a dare l'impressione che i minuti che passano per i protagonisti sono gli stessi che passano per noi.
James Stewart, al suo primo film con Hitchcock, porta sullo schermo un personaggio ambiguo e inquietante. Il suo professor Cadell ha teorizzato in passato la superiorità morale di certi individui, e ora si trova faccia a faccia con le conseguenze estreme delle sue idee. I dialoghi diventano un duello intellettuale sempre più serrato, con Brandon che cerca di impressionare il maestro e Rupert che lentamente intuisce l'orrore.
Sebbene il film possa sembrare a tratti un po' statico a causa della sua origine teatrale (è tratto da un opera di Patrick Hamilton), la regia è talmente fluida che la camera sembra danzare tra gli attori. Nodo alla gola rimane uno dei film più affascinanti e tecnicamente audaci di Hitchcock, un elegante thriller "da camera" dotato di una altissima tensione ideologica.
4 mosche di velluto grigio
di Dario Argento
Tornato di recente nelle sale italiane in una splendida versione restaurata, 4 mosche di velluto grigio è sempre stato, per me, il film più sfuggente della filmografia di Dario Argento. Per anni è circolato poco e male, complice una serie di questioni legali che ne hanno ritardato l’uscita in DVD fino al 2013. Prima di allora recuperarlo era quasi un’impresa, e infatti la mia prima e unica visione – almeno fino a ieri – risale alla fine degli anni ottanta, su una VHS sgangherata di cui ricordo più il fruscio del nastro che la trama. Poi il vuoto, come se il film fosse scomparso insieme a quelle immagini sfocate. L’unica cosa rimasta impressa era la scena finale. Rivederlo oggi, a quasi cinquant’anni dalla sua uscita, è stato come scoprirlo davvero per la prima volta.
Capitolo conclusivo della cosiddetta "trilogia degli animali", 4 mosche di velluto grigio non solo anticipa l’esplosione stilistica di Profondo Rosso, ma contiene già i germogli di tutto il cinema argentiano che verrà.
La storia ruota attorno a Roberto Tobias (Michael Brandon), giovane batterista rock da giorni seguito da un uomo misterioso. Stanco di essere pedinato, decide di affrontarlo, ma nella colluttazione lo uccide accidentalmente. Qualcuno ha assistito alla scena, fotografando il delitto, e da lì inizia a tormentarlo con minacce, immagini e ricatti. Roberto evita la polizia, ma senso di colpa, incubi ricorrenti e paura lo logorano. Finisce così per confidarsi con la moglie Nina, un amico filosofico e un investigatore privato, nel tentativo di capire chi si nasconda dietro quella persecuzione.
Rivisto oggi 4 mosche di velluto grigio si rivela essere molto più di un semplice thriller. È un film in bilico, sospeso tra due anime: quella del giallo classico all'italiana che Argento aveva già perfezionato con L'uccello dalle piume di cristallo, e quella visionaria, onirica e quasi metafisica che esploderà quattro anni dopo in Profondo Rosso. La trama segue lo schema dei due film precedenti, ma è il modo in cui Argento la mette in scena a fare la differenza. Abbandona il rigore formale degli esordi per sperimentare con carrellate impossibili e soggettive invasive, costruendo una città ibrida – Roma, Milano, Torino fuse insieme – un luogo labirintico, straniante, quasi mentale.
Uno degli aspetti più affascinanti è proprio questo carattere sperimentale. Argento sembra voler testare i limiti del genere, inserendo elementi che sfiorano il surreale. C’è l’incubo ricorrente della decapitazione in Arabia Saudita, la pseudo-scienza della retinografia criminale, secondo cui l’ultima immagine vista rimarrebbe impressa sulla retina. E poi c’è quel celebre finale al rallentatore, girato con una cinepresa da tremila fotogrammi al secondo, che trasforma l’istante della violenza in una danza ipnotica. Una trovata tecnica allora rivoluzionaria.
Ma 4 mosche di velluto grigio non è solo un laboratorio di idee. È anche un film sorprendentemente personale, quasi autobiografico. La coppia in crisi, con un marito in preda alla paranoia e una moglie ricca e distante, richiama in modo neanche troppo velato la fine del matrimonio tra Argento e Marisa Casale. Non a caso, i due protagonisti furono scelti anche per la loro somiglianza fisica con la coppia reale.
Tecnicamente il film è impeccabile. La fotografia di Franco Di Giacomo crea atmosfere tese e claustrofobiche, il montaggio di Françoise Bonnot dà ritmo e nervosismo al racconto, e la colonna sonora di Morricone, è tanto sperimentale quanto disturbante. Il maestro abbandona le melodie liriche che lo avevano reso celebre nei western di Leone per avventurarsi in territori quasi rock-progressive.
Certo, non tutto funziona. La sceneggiatura a tratti forza la mano, alcune sequenze sembrano inserite più per la loro potenza visiva che per reale necessità narrativa. E poi ci sono gli inserti comici, personaggi eccentrici al limite del macchiettistico. A partire da Diomede (interpretato da un Bud Spencer fresco di Trinità), che vive in una baracca sul Tevere – proprio sotto Ponte Marconi, dalle mie parti – il Professore (Oreste Lionello), senzatetto dall'aria da gentiluomo decaduto, e l’investigatore privato omosessuale Arrosio, personaggio che potrebbe risultare pure simpatico almeno finché non incontra un testimone, anch’egli omosessuale e la caricatura dei personaggi diventa davvero eccessiva e imbarazzante. Stesso discorso per le gag con il postino, che all'epoca forse strappavano una risata ma oggi risultano un po' datate e stucchevoli.
Eppure, nonostante questi inciampi, il film conserva un fascino unico. Argento non ha paura di mescolare toni e registri, di passare dal thriller psicologico alla commedia grottesca, dal dramma coniugale all’incubo surreale. Si percepisce chiaramente il desiderio di spingersi oltre, di scavare nell’irrazionale e nei territori del subconscio che diventeranno il suo marchio. A volte il risultato è sbilenco, ma è altrettanto affascinante vedere un regista che rischia, sperimenta e si sporca le mani.
Un film imperfetto, sì, un esperimento incompleto, ma già pieno dei semi del grande cinema che verrà. Non sarà il capolavoro di Argento, ma è certamente il film in cui il Maestro del Brivido ha iniziato davvero a volare.
Film
The Invitation
di Karyn Kusama
C'è qualcosa di profondamente disturbante nelle cene tra vecchi amici. Quelle rimpatriate dove tutti sorridono un po' troppo, nessuno dice davvero quello che pensa, e tu finisci per chiederti perché diavolo hai accettato l'invito. The Invitation di Karyn Kusama - regista statunitense nota, in negativo a dir la verità, per Aeon Flux e Jennifer’s Body - prende esattamente quella sensazione e la trasforma in un thriller psicologico da camera ambientato quasi interamente in un’unica location.
Will (Logan Marshall-Green), accompagnato dalla fidanzata Kira, accetta di partecipare a una cena in una lussuosa casa sulle colline di Los Angeles organizzata dalla sua ex moglie Eden (Tammy Blanchard) e dal suo nuovo compagno David. Segnato da una tragedia — la perdita del figlio avuto con Eden — Will si ritrova circondato da vecchi amici e alcuni sconosciuti, avvertendo fin da subito che qualcosa nell’aria non quadra. Eden e David dicono di aver trovato la pace grazie a un misterioso gruppo di sostegno in Messico, una sorta di setta mistica, e propongono ai presenti un’esperienza di “liberazione”. Man mano che la serata procede, tra volti familiari, ambienti intimi e silenzi inquietanti, Will percepisce che quell’invito nasconde più di una semplice ospitalità. Forse è solo la sua ferita a renderlo sospettoso, oppure qualcosa di più sinistro è in agguato.
The Invitation è un thriller "teatrale" alla Polanski, che si svolge quasi interamente all’interno di una casa, lento, claustrofobico e paranoico, costruito più sui dialoghi, sull’attesa e sulle tensioni che sui colpi di scena. Il tema centrale è il lutto e le strategie di sopravvivenza che adottiamo per convivere con il dolore. Will fatica ad accettare come Eden sia riuscita a lasciarsi alle spalle la sofferenza per la perdita del loro figlio, trovandosi spaesato in un posto dove tutti cercano felicità e leggerezza, ma dove ogni gesto e ogni parola sembrano fuori posto. Kusama gioca tutto sull’incertezza. Ti tiene sospeso, senza mai farti capire se la diffidenza di Will sia giustificata o solo il frutto della sua mente provata dal dolore. Ti ritrovi a dubitare insieme a lui, a chiederti se dietro quei sorrisi e quella calma innaturale ci sia davvero qualcosa di oscuro, o se sia solo la sua ferita a deformare la realtà.
La scena iniziale, unica girata all’esterno, in cui Will investe accidentalmente un coyote e lo uccide per porre fine alle sue sofferenze, anticipa in maniera evidente — e forse anche prevedibile — la tensione morale e la violenza improvvisa che sfoceranno nel finale. Una metafora tra la scelta di annullare il dolore attraverso la morte, oppure continuare a vivere con una sofferenza che probabilmente non ti abbandonerà mai.
Il finale apocalittico, con quelle lanterne rosse che si accendono nelle case circostanti, mi ha ricordato per certi versi il finale di Fight Club. Un’idea interessante che chiude il film con un brivido lungo la schiena.
Passato un po’ in sordina, The Invitation resta un thriller psicologico da scoprire, elegante, teso e capace di farvi guardare con sospetto anche le cene tra amici più innocue.
The Shrouds - Segreti sepolti
di David Cronenberg
Dopo il figlio, il padre.
Ho sempre amato il cinema di David Cronenberg, ma davanti al suo ultimo film, sia per il tema trattato che per il suo peso emotivo, ho sentito il bisogno di aspettare il momento giusto prima di vederlo.
A ottant’anni, il regista canadese firma The Shrouds (Segreti sepolti è il solito sottotitolo italiano), un’opera che lui stesso definisce profondamente personale e in parte autobiografica. Cronenberg ha perso la moglie dopo una vita insieme, e questo film sembra essere il suo modo di attraversare – e forse comprendere – il lutto. La scelta di Vincent Cassel come protagonista non è casuale: l’attore è stato selezionato proprio per la sua somiglianza con il regista, chiamato a incarnarne il doppio, il riflesso, l’alter ego cinematografico.
Il ricco uomo d’affari Karsh (Vincent Cassel), a quattro anni dalla morte della moglie Becca (Diane Kruger), uccisa da un cancro, vive prigioniero del suo ricordo senza riuscire ad andare avanti. Attraverso la sua società, la GraveTech, ha progettato un sudario tecnologico capace di monitorare in tempo reale la decomposizione del corpo dell’amata all'interno della tomba. Ma non è tutto, trovando quest'idea rivoluzionaria ha pensato di trasformarla in un business, costruendo un cimitero dove le lapidi sono dotate di display connessi a un’app che consente ai parenti di osservare lo stato delle salme. Un cimitero ipertecnologico con tanto di ristorante annesso e piani d’espansione internazionale.
Quando il cimitero viene misteriosamente violato — tombe vandalizzate, sistemi hackerati — Karsh scopre che anche la tomba di Becca è stata profanata. Le ipotesi si moltiplicano — gruppi ambientalisti contrari alla "thanato-sorveglianza", hacker cinesi interessati a sfruttare la rete di GraveTech per fini di controllo, o forse qualcuno molto più vicino a lui.
Deciso a scoprire la verità, Karsh si allea con Maury (Guy Pearce), suo ex cognato esperto di tecnologia, e con Terry (sempre Diane Kruger), sorella della defunta. Durante le analisi digitali dei resti di Becca, l’esplorazione 3D dello scheletro rivela strane escrescenze sulle ossa, forse effetti collaterali dei sudari ipertecnologici o il segno di qualcosa di ancora più inquietante.
Fedele al suo modo di fare cinema e alle sue ossessioni, David Cronenberg torna a mischiare body horror, tecnologia, morte e fantascienza sociale, consegnandoci un requiem tecnologico che ha il sapore di una confessione privata, al limite della necrofilia emotiva. Non mancano mutilazioni, corpi sezionati, sesso e immagini disturbanti, dove la decomposizione diventa spettacolo e la materia organica è trattata con la freddezza clinica che ha reso unico il suo cinema. Allo stesso tempo, The Shrouds si allontana dal gore fine a sé stesso per toccare il tema della perdita e dell’elaborazione del lutto, racchiuso in un paradosso etico: guardare per continuare ad amare. Dentro c’è di tutto, avatar digitali, intelligenza artificiale, complotti hi-tech, ma il centro resta il dolore umano, osservato con l’occhio chirurgico di chi non sa più distinguere tra memoria e immagine.
Non è un film lineare, e non vuole esserlo. Si muove per ellissi, digressioni teoriche e incursioni oniriche, talvolta disorientando lo spettatore. Manca di ritmo e scorrevolezza, sì, ma guadagna in densità e malinconia. È un film che chiede tempo, pazienza e una certa predisposizione per un cinema che provoca invece di consolare.
Una pellicola che consiglio solo a chi ama Cronenberg, perché chi cerca semplicità narrativa o rassicurante compostezza emotiva rischia di trovarsi davanti a un macigno. Ma un macigno, va detto, dal fascino magnetico.
Possesor
di Brandon Cronenberg
Possessor, secondo film di Brandon Cronenberg, prosegue l’eredità paterna spingendosi verso territori di inquietudine tecnologica e identità frammentata.
Il film ha per protagonista Tasya Vos (Andrea Riseborough), un’agente al servizio di una misteriosa organizzazione segreta che utilizza impianti neurologici per prendere il controllo dei corpi di altre persone e compiere omicidi su commissione. Nonostante i segni di instabilità dopo la sua ultima missione, la sua superiore le affida un nuovo incarico, entrare nella mente di Colin Tate (Christopher Abbott), un uomo destinato a sposare l’ereditiera Ava Parse, con il compito di eliminare il padre di lei, un potente magnate del data mining. Ma l’operazione sfugge presto al controllo, e Tasya rimane intrappolata nel corpo dell’ospite, che tenta di rigettare l’intruso in una battaglia mentale tra due coscienze in lotta per la stessa identità.
Alla sua seconda pellicola, Brandon Cronenberg conferma di non vivere all’ombra del padre, ma di muoversi con passo deciso in un territorio personale. Possessor è un lucidissimo incubo sulla perdita dell’identità, dove la fantascienza diventa strumento per parlare di controllo, alienazione e potere. L’idea di prendere possesso delle menti altrui per compiere omicidi non è nuova, ma lo è la sua messa in scena algida, ipnotica e visionaria. Un’estetica che mi ha ricordato Refn per l’uso dei colori e per la freddezza emotiva, in cui Cronenberg non lesina violenza e sangue a cui è difficile restare impassibili.
A tratti un po’ contorto e surreale, non esente da un certo autocompiacimento, ma con una forte densità simbolica che restituisce profondità e inquietudine, sostenuto dall’ottima prova dei due protagonisti.
Possessor è un fanta-thriller autoriale che parla di disumanizzazione e perdita del sé, un’esperienza tanto cerebrale quanto viscerale.
Caught Stealing - Una scomoda circostanza
di Darren Aronofsky
Ho un rapporto un po’ contrastante con Darren Aronofsky. Ho amato i suoi primi due film, mentre altri mi hanno lasciato parecchio perplesso. Senza dubbio mi pare sia un autore parecchio eclettico, capace di spostarsi con disinvoltura dal dramma paranoico all'horror psicologico, fino alla dimensione più visionaria e allegorica. Nel 2025 decide di adattare il romanzo A tuo rischio e pericolo di Charlie Huston e realizzare Caught Stealing - Una scomoda circostanza, un thriller action urbano dalle spiccate influenze tarantiniane, che segna una nuova deviazione nel suo percorso cinematografico.
La storia è ambientata nel 1998, nel Lower East Side di Manhattan, e segue le disavventure di Henry “Hank” Thompson (Austin Butler), ex promessa del baseball la cui carriera è stata stroncata da un incidente stradale. Ora Hank lavora come barista in un pub, affoga le giornate nell’alcol, frequenta una giovane infermiera (Zoë Kravitz), ed è legato alla madre, che gli ha trasmesso la passione per il baseball. La sua esistenza tutto sommato tranquilla prende una piega inaspettata quando il suo vicino di casa punkettone, Russ (Matt Smith), gli chiede di badare al suo gatto per qualche giorno. Da quel momento, Hank si ritrova improvvisamente braccato da gangster, poliziotti corrotti e criminali senza scrupoli, trascinato in una spirale di violenza, inseguimenti e paranoia di cui non riesce a capire le ragioni.
Strizzando l’occhio al Fuori orario di Scorsese — che omaggia con il cameo di Griffin Dunne nei panni del proprietario del pub — Aronofsky prova a mescolare l’umorismo nero dei fratelli Coen, il pulp sanguinolento di Tarantino e il gangster crime di Guy Ritchie, per confezionare un film tutto azione, situazioni esasperate, toni da commedia grottesca e personaggi sopra le righe. Volendo, anche divertente, ma che io, personalmente, l'ho trovato di poca sostanza.
Mi pare che Aronofsky abbia voluto realizzare un polpettone derivativo più per voglia di distrarsi che per raccontare un storia capace di scuotere davvero qualche corda emotiva. Alla fine è ancora la storia dell’atleta (dopo il wrestler, questa volta un giocatore di baseball, sport che non ho mai capito e non ho neanche troppa voglia di sforzarmi di capire) che ha perso la sua occasione e si ritrova sbandato, trascinato in un vortice di situazioni assurde e sempre più fuori controllo.
Di buono c’è la ricostruzione del Lower East Side di New York di fine anni novanta, sporco, malfamato, pieno di spazzatura e palazzi fatiscenti. Poi c’è il gattone, che a tratti diventa il vero protagonista del film, e la musica degli Idles, perfetta per accompagnare il caos.
Troppo poco, però, per evitargli l’insufficienza.
Eddington
di Ari Aster
Ari Aster, autore di Hereditary, Midsommar e Beau ha paura, è ormai considerato uno dei registi più interessanti del cinema di genere contemporaneo. Fin dai primissimi anni della sua carriera aveva in mente di realizzare Eddington, con l’intento di raccontare l’America di oggi attraverso un western contemporaneo. Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film ha suscitato reazioni fortemente contrastanti. Alcuni critici hanno elogiato l’audacia politica e la volontà di usare il genere per parlare del presente, altri lo hanno definito sbilanciato, confusionario e dispersivo.
Io l’ho visto al cinema e devo dire che ancora lo devo metabolizzare... proverò a farlo scrivendo questa recensione.
Il film è ambientato durante la pandemia di Covid-19, nell’estate del 2020, in una cittadina immaginaria del Nuovo Messico chiamata Eddington, poco più di duemila abitanti. Lo sceriffo locale, Joe Cross (Joaquin Phoenix), non sembra particolarmente incline a rispettare le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria (come l’obbligo di indossare la mascherina) e finisce per scontrarsi con il sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal), uomo dagli interessi poco chiari legati alla costruzione di un gigantesco data center nei pressi della città, impegnato nella campagna per la propria rielezione. Tra i due non corre buon sangue nemmeno sul piano personale, per vecchie ruggini che riguardano la moglie dello sceriffo, Louise (Emma Stone), una donna segnata dalla depressione, che secondo la madre di quest'ultima, figura ossessiva e complottista, sarebbe stata violentata da Garcia quando erano ragazzi.
Più per rivalsa che per reale convinzione politica, Cross decide di candidarsi a sindaco contro di lui. Mentre Eddington si frantuma sotto il peso delle paure collettive, dell’isolamento, della disuguaglianza e delle proteste del movimento Black Lives Matter (seguite alla morte di George Floyd da parte della polizia), Joe Cross, ferito anche dall’abbandono della moglie, attratta da Vernon Jefferson Peak (Austin Butler), un carismatico guru a capo di una setta che accoglie vittime di abusi, inizia a covare un senso di rivalsa che presto esploderà in tutta la sua violenza.
Insomma, come si intuisce da questa sinossi (e manca tanto altro, ve lo assicuro) qui c’è davvero tanta carne al fuoco. Sono molti i protagonisti, le storie e le sottotrame che si intrecciano. Eddington non è un film complesso, come poteva esserlo Beau ha paura, ma sicuramente è molto stratificato. Aster ingloba più generi, passando dal western alla satira, dalla commedia grottesca al thriller politico-sociale, usandoli con grande abilità per costruire un affresco beffardo e minaccioso sull'America di oggi.
La pandemia di Covid-19 — primo film di un certo peso a trattare esplicitamente questo tema — è solo il punto di partenza per isolare la cittadina del Nuovo Messico in una bolla, un microcosmo dove il razzismo, le disuguaglianze, i complotti, i guru, le proteste e la disinformazione diventano specchio deformante del paese intero. È un mondo dove un senzatetto ubriaco, presunto portatore del virus, può sparire senza che nessuno si chieda che fine abbia fatto, e dove l’edificio più grande del paese è un’armeria. Un'America in miniatura, dove i social network e la manipolazione dell’informazione sono dominanti (non credo sia un caso che più di una volta compare Trump mentre il protagonista scorre le notizie sul suo cellulare). Un video su Instagram può cambiare la percezione pubblica di un evento, una fotografia può essere usata come prova per incastrare il nero di turno, e la verità diventa solo un’altra narrazione da manipolare.
Il film si divide sostanzialmente in due parti. Nella prima, Aster introduce i personaggi — quasi tutti moralmente discutibili — e imposta i temi centrali con una messa in scena dilatata, statica, fatta di dialoghi e tensioni sotterranee. È un’esposizione volutamente lenta, dove la provincia americana viene ritratta come una terra stanca, piena di frustrazioni e paranoia. Nella seconda parte, Eddington cambia tono e ritmo, la storia si trasforma in un thriller politico con tratti da western urbano, fino a culminare in un epilogo amaro e disperato. Aster spinge sull’azione e la tensione diventa tangibile, quasi fisica. Splendida, per esempio, la sequenza in cui lo sceriffo, ansimante e armato di tutto punto, si muove tra i colpi dei cecchini mentre la macchina da presa si muove intorno a lui cercando di capire dove si trovino.
Joaquin Phoenix offre un’interpretazione di grande intensità, mostrando insieme fragilità, rabbia e bisogno di riscatto. Pedro Pascal è altrettanto convincente nel ruolo del sindaco Garcia, ambiguo e viscido quanto basta. Emma Stone, invece, rimane più ai margini, diventando una pedina funzionale alle svolte narrative.
Eddington è un film ambizioso, a metà strada tra Tarantino e i fratelli Coen, che mescola satira sociale, noir e western moderno per dissacrare la società americana, prendendo in giro tanto i conservatori quanto i progressisti, i complottisti quanto i moralisti della giustizia sociale. È sicuramente un film che, per la mole di temi e sfumature, richiede più di una visione. Non credo di essere il solo ma Eddington mi ha ricordato Una battaglia dopo l’altra per la sua capacità di raccontare la crisi americana contemporanea attraverso il caos e l’ironia. Personalmente gli preferisco Anderson, ma va riconosciuto ad Aster il coraggio di essersi spinto oltre il suo territorio consueto, firmando un film d’autore ironico, feroce, e amaramente lucido. Un viaggio dentro l’America ferita e paranoica del presente, raccontata con l’occhio cinico e beffardo di chi non crede più a nessuna verità.
Film
Saw - L'enigmista
di James Wan
All’inizio degli anni zero, ovvero nel primo decennio del XXI secolo, l’horror americano non se la passava tanto bene. A parte poche eccezioni, erano gli anni di Scream e delle sue infinite imitazioni, film che giocavano più sulla parodia del genere che sulla sua reinvenzione. L’estetica era patinata, i personaggi adolescenti e i colpi di scena telefonati. L’horror aveva perso la sua anima sporca, il suo odore di sangue e paura autentica.
Poi, nel 2004, arrivò Saw. Un film piccolo, quasi indipendente, che con un budget ridicolo e un’idea semplice ma brutale riuscì a risvegliare il genere dal torpore. James Wan, all’epoca ventisettenne, e lo sceneggiatore Leigh Whannell riportarono l’orrore nelle stanze chiuse, nei corpi mutilati, nelle scelte morali impossibili.
La storia inizia con due uomini che si risvegliano in un bagno fatiscente, incatenati ai lati opposti della stanza. Al centro, il corpo senza vita di un uomo disteso in una pozza di sangue, una pistola e un registratore a cassette. Lawrence (Cary Elwes) è un medico oncologo. Adam (lo stesso Whannell che interpreta uno dei protagonisti) è un giovane fotografo. Nessuno dei due ricorda come sia finito lì.
Quando riescono ad ascoltare il messaggio inciso sul nastro, scoprono di essere le pedine di un gioco orchestrato da una mente sadica che li costringe a confrontarsi con la propria sopravvivenza. L’assassino, noto come Jigsaw, non uccide direttamente le sue vittime ma le sottopone a prove estreme, costringendole a scegliere se vivere o morire.
"Vivere o morire? Fate la vostra scelta."
Prendiamo l’atmosfera torbida e il thriller investigativo di Seven, la morbosità e la tensione claustrofobica di Cube, aggiungiamo un colpo di scena degno de I soliti sospetti e una sceneggiatura a incastri piena di indizi ed enigmi (quella che, insieme al film di Natali, avrebbe ispirato anni dopo il fenomeno delle escape room). Versiamoci dentro una buona dose di sangue e violenza, e soprattutto un serial killer affascinante, una sorta di carnefice-purificatore che – con le fattezze di un inquietante pupazzo – punisce attraverso trappole tanto ingegnose quanto terrificanti chiunque ritenga non dia sufficiente valore alla vita.
Infine, confezioniamo il tutto con una regia dinamica e un montaggio dal gusto videoclipparo, figlio dei tempi e vicino all’estetica disturbante dei video dei Tool o di Marilyn Manson. Il risultato è Saw - L’enigmista, uno dei maggiori successi horror degli anni duemila, capace di incassare oltre cento milioni di dollari nel mondo a fronte di un budget irrisorio. Un film che ha riportato l’orrore alla sua dimensione più carnale, fisica e splatter, recuperando quella sporcizia visiva e quella crudeltà morale che avevamo conosciuto negli anni settanta.
Non sarà un capolavoro di originalità, ma a James Wan e Leigh Whannell va riconosciuto il merito di aver ridato sangue a un genere che negli Stati Uniti stava morendo. Da Saw in poi sarebbe arrivata un’intera ondata di sequel, più o meno discutibili – se ne contano una decina, ma personalmente al terzo ho gettato la spugna – e il film avrebbe aperto la strada al torture porn degli anni duemila, con Hostel come erede più diretto. In ogni caso, tutto parte da qui: da un bagno sudicio, due uomini incatenati e un’idea semplice ma spietata, che ha cambiato il volto dell'horror moderno.
Film
Revenge
di Coralie Fargeat
Prima ancora del grande successo di The Substance, la regista francese Coralie Fargeat aveva già catturato l’attenzione con Revenge, il suo folgorante esordio del 2017. Un film che reinventa un genere con un linguaggio visivo potente e un approccio sorprendentemente contemporaneo, trasformando una storia di violenza in un’esplosione di rivendicazione fisica e simbolica.
Jen (Matilda Lutz), giovane americana, ha una relazione con Richard (Kevin Janssens), un uomo ricco e sposato. Richard la porta in una lussuosa villa nel deserto per un weekend bollente, ma l’intimità viene interrotta dall’arrivo anticipato dei suoi amici, Stan (Vincent Colombe) e Dimitri (Guillaume Bouchède), intenzionati a una battuta di caccia. Quando Richard si allontana, uno dei due amici aggredisce Jen e la stupra. Al ritorno dell’uomo, Jen minaccia di denunciare l’accaduto e chiede di tornare a casa. Richard si rifiuta, le offre denaro per farle dimenticare tutto, ma lei rifiuta e tenta di fuggire. Inseguita, viene spinta in un dirupo, ma sopravvive e, incazzata nera, decide di intraprendere una vendetta spietata contro i suoi aggressori.
A partire da I Spit on Your Grave, in Italia noto come Non violentate Jennifer, sono stati diversi i film che raccontano donne vittime di violenza sessuale che trasformano il loro trauma in una feroce e sanguinosa vendetta. Si tratta di un vero e proprio genere, il rape & revenge, nato negli anni settanta in stile shock exploitation, spesso a basso budget, caratterizzato da violenza esplicita, sangue e scene estreme, pensato per impressionare lo spettatore.
Revenge di Coralie Fargeat segue le stesse coordinate narrative, ma con la particolarità di essere il primo film del genere diretto da una donna. Fargeat trasforma una ragazza provocante, frivola e ingenua in una sorta di Rambo al femminile. Se vi aspettate realismo su come una giovane possa sopravvivere a ferite devastanti e diventare esperta di sopravvivenza e armi letali, probabilmente rimarrete delusi: come in molti film degli anni ottanta, qui si chiede allo spettatore la sospensione dell’incredulità.
Accettato questo patto, gli amanti dell’action più estremo troveranno tutto ciò che cercano: scene di sangue a profusione, tensione costante senza un attimo di tregua e uno scenario suggestivo che diventa teatro della violenza. Tecnicamente e visivamente, il film è girato con eleganza estrema, quasi patinata. L’iperrealismo cromatico rende la violenza al contempo estetica e catartica, rileggendo il genere in chiave contemporanea.
Personalmente avrei spinto di più sull’aspetto allucinogeno, deformando il punto di vista della protagonista per accentuare il suo stato di alterazione, ma evidentemente il budget ha imposto dei limiti.
Una menzione particolare va a Matilda Lutz, già apprezzata in A Classic Horror Story, capace di fornire un’interpretazione intensa, soprattutto fisica, passando da vittima a spietata macchina da guerra. È lei che regge il film sulle proprie spalle.
Interessante anche la figura dello stupratore, un Tuco contemporaneo uscito da un western di Leone, simbolo di una mascolinità tossica e animalesca che la Fargeat non esita a ridicolizzare.
Per gli appassionati del genere, Revenge resta un film imprescindibile, capace di unire estetica, violenza e empowerment femminile in una chiave moderna e spettacolare.
Film
L'Uomo Invisibile (2020)
di Leigh Whannell
Insieme a Dracula, la Mummia e il Mostro di Frankenstein, l’Uomo Invisibile è tra le creature più iconiche dell’universo horror targato Universal Pictures. Ispirato all’omonimo romanzo di H. G. Wells, il personaggio, a partire dal classico di Whale del 1933, ha conosciuto nel tempo numerose reincarnazioni cinematografiche, con risultati spesso altalenanti.
Nel 2020, dopo il naufragio del progetto "Dark Universe" — il tentativo di creare un universo condiviso dedicato ai mostri Universal sul modello dei Marvel Studios — la casa di produzione decide di ripartire da zero. A raccogliere la sfida è la Blumhouse Productions di Jason Blum, che affida la regia e la sceneggiatura a Leigh Whannell, già noto per Upgrade e per aver co-creato la saga di Saw.
La storia si potrebbe riassumere in poche parole. Una donna viene perseguitata dal suo ex, un brillante e ricco milionario con una villa alla Tony Stark e una tuta che lo rende invisibile.
Cecilia Kass (Elisabeth Moss) è vittima di una relazione violenta e controllante con Adrian Griffin (Oliver Jackson-Cohen), un ingegnere nel campo dell’ottica. Una notte, approfittando del sonno di Adrian, lo droga e fugge con l’aiuto della sorella Emily, trovando rifugio presso l’amico d’infanzia James Lanier e sua figlia Sydney. Dopo due settimane, le autorità comunicano che Adrian si è suicidato, lasciando a Cecilia un’eredità di cinque milioni di dollari, amministrata dal fratello Tom.
Ma la quiete è solo apparente, e quando strani eventi iniziano a tormentarla, Cecilia comincia a sospettare che Adrian sia ancora vivo e che abbia trovato un modo per renderla prigioniera della propria paura. Nessuno le crede, finché l’incubo non diventa reale.
L’Uomo Invisibile di Leigh Whannell è una buona reinterpretazione del mito classico, che trasforma la figura del mostro in quella di un marito violento, manipolatore e ossessivamente controllante. Whannell riesce nell’impresa di rendere attuale una storia già nota, evitando di appoggiarsi agli effetti speciali o ai soliti jumpscare, e puntando invece su una tensione psicologica costante, costringendo lo spettatore a scrutare ogni angolo dell'inquadratura alla ricerca di un segnale, anche solo un impercettibile movimento tra le ombre.
Al netto di qualche incongruenza nella sceneggiatura, di una durata forse eccessiva e di un cast secondario poco incisivo, il film mantiene un ritmo solido e una tensione sempre viva. Elisabeth Moss offre un’interpretazione intensa, capace di reggere l’intero impianto narrativo con una gamma di emozioni che va dalla paura alla rabbia, dalla fragilità alla determinazione.
Il risultato è un thriller psicologico con venature sci-fi che si distacca dai canoni del mito originale per diventare un racconto di violenza domestica, gaslighting e isolamento, riflesso di un presente in cui le donne spesso non vengono credute quando denunciano abusi. Personalmente, avrei preferito che Whannell giocasse di più sul dubbio e sulla paranoia della protagonista, ma capisco che il tema del patriarcato, il femminicidio e lo stalking sia molto attuale in questo periodo per non farci l'ennesimo film.
Una battaglia dopo l'altra
di Paul Thomas Anderson
Spinto dalle tante critiche entusiastiche mi sono andato a vedere al cinema Una battaglia dopo l'altra, l'ultima pellicola di Paul Thomas Anderson. Conosco poco i suoi lavori, ho un ricordo un pò sbiadito di Magnolia e poco altro, ma è considerato da più parti uno dei migliori registi americani contemporanei.
La storia è ambienta negli Stati Uniti, non si capisce bene se si tratta di un America distopica o quella Trumpiana contemporanea.
Pat Calhoun detto "Ghetto Pat" (Leonardo DiCaprio) e Perfidia Beverly Hills (Teyana Taylor) sono membri del gruppo rivoluzionario di estrema sinistra conosciuto come French 75. Dopo aver liberato gli immigrati detenuti da un centro di detenzione in California, Perfidia umilia il colonnello, Steven Lockjaw (Sean Penn), che sviluppa un'attrazione sessuale nei suoi confronti. Con il tempo Ghetto e Perfidia diventano amanti ma Lockjaw sembra ossessionato da Perfidia e dopo averla sorpresa mentre stava piazzando una bomba in una banca, la lascia andare dopo che lei accetta di fare sesso in un motel. Perfidia dà alla luce una bambina, Charlene (interpretata da Chase Infiniti nell’età adolescenziale), ma la donna vuole continuare la sua attività rivoluzionaria e poco dopo li abbandona. Sedici anni dopo, il passato riaffiora e Ghetto si ritrova di nuovo in prima linea per proteggere sua figlia dall’ossessione di Lockjaw.
Il film mi è piaciuto? Sì, e pure molto. Ingannato dal titolo e dalle poche immagini che me lo aveva fatto accostare al Civil War di Garland, mi sono trovato davanti invece a un action-movie d’autore dal ritmo travolgente, capace di divertire, spaventare e commuovere.
Liberamente tratto da Vineland, romanzo di Thomas Pynchon, il film è stato prodotto dalla Warner Bros con un budget di oltre 150 milioni di dollari. Una buona fetta dev’essere finita nel cachet di DiCaprio, visto che non ci sono sequenze catastrofiche né scenografie monumentali da blockbuster. Poco importa, non faccio i conti alle case di produzione, soprattutto quando il risultato convince e il pubblico sembra gradire.
La sceneggiatura non è perfetta e a tratti mostra qualche debolezza, mi riferisco ad alcune ripetizioni e forzature nel finale. Ma i punti di forza del film sono altri. Innanzitutto nella regia e nel montaggio, magistrali, che fanno volare via due ore e quarantacinque minuti in un baleno. Poi negli attori con un grande DiCaprio che intrepreta un rivoluzionario nerd, appassionato di congegni esplosivi, che quindici anni dopo lo ritroviamo a fumarsi anche il cervello, dimenticandosi delle parole d’ordine. Ma è Sean Penn a rubare la scena, trasformato in una sorta di Popeye (Braccio di Ferro) militarizzato e razzista, che incute timore e insieme suscita una strana tenerezza. Una performance da Oscar la sua, che ho adorato, insieme alle dinamiche di sottomissione e trasgressione con Perfidia, la femmina ribelle e dominatrice interpretata dalla brava Teyana Taylor, che urla al mondo: "La fica è per la guerra, è un’arma". Da segnalare anche Benicio Del Toro nei panni assurdi di un sensei messicano, e la giovane Chase Infiniti, credibile nella parte della figlia.
Infine, la musica. La colonna sonora è firmata da Jonny Greenwood, già compagno di avventure di Anderson e polistrumentista dei Radiohead. È una partitura incalzante, che non accompagna semplicemente il ritmo del film ma lo detta, con momenti di sperimentazione jazz che trovano il loro culmine in una lunga sequenza costruita attorno a una singola nota ripetuta ossessivamente. La musica è parte integrante del film.
Il sottotesto politico e sociale è evidente e non serve dilungarsi troppo. Una battaglia dopo l’altra è il ritratto di un’America divisa, corrotta, fascista e sull’orlo del collasso.
Per il resto il film ha qualcosa dei fratelli Coen – il personaggio di DiCaprio ammicca chiaramente al Drugo de Il Grande Lebowski – di Tarantino, nelle situazioni grottesche ma mai eccessive, ma anche di Kubrick e Spielberg che insieme si mescolano in un racconto che resta sempre personale.
Un film frenetico e pieno d’azione, tra inseguimenti automobilistici (memorabile quello sui dossi, con la macchina da presa che pare ondeggiare) e situazioni al limite del parossistico (come quella in cui un DiCaprio disperato è alla ricerca di una presa per ricaricare il cellulare). Anderson eleva l’action movie prendendolo anche in giro – la citazione su Tom Cruise è esilarante. Gioca con i generi, li piega al presente, mescolando satira e commedia nera, riuscendo a essere insieme epico e intimo.
Un film attuale, intelligente e godibile, con più piani di lettura a seconda dello spettatore. Non il capolavoro del decennio, come ho letto in giro, ma probabilmente uno dei migliori film dell’anno.
Film
La corta notte delle bambole di vetro
di Aldo Lado
Da bambino, forse intorno agli otto o nove anni, mi capitò di vedere in TV un film trasmesso da qualche emittente privata che mi rimase impresso in modo particolare. Affascinato dalla storia e colpito da certe immagini, non ne ho mai conosciuto né il titolo né l’autore, ma quel ricordo è rimasto lì, sopito eppure vivo, custodito in un angolo della memoria. Oggi, a distanza di decenni, so che quel film era La corta notte delle bambole di vetro, un cult del giallo all’italiana che segna l'esordio del regista Aldo Lado.
Il film è ambientato a Praga e si apre con il ritrovamento di un uomo apparentemente morto in un parco. Si tratta di Gregory Moore (Jean Sorel), un giornalista americano, che viene trasportato all’obitorio. In realtà l'uomo è ancora vivo, prigioniero di una paralisi che lo immobilizza e gli impedisce di comunicare. Disteso sul lettino, Gregory rivive come in un incubo gli eventi che lo hanno condotto fin lì, dalla scomparsa della fidanzata Mira (Barbara Bach), le indagini segrete in una città cupa e sorvegliata, l’incontro con personaggi ambigui che celano verità inconfessabili. Ogni ricordo lo avvicina alla scoperta di un potere oscuro, il Klub 99, un’organizzazione segreta capace di controllare le vite e decidere le morti. E mentre i medici si preparano a compiere una autopsia, la sua mente lotta disperatamente per riprendere il controllo del suo corpo, prima che il silenzio diventi definitivo.
La corta notte delle bambole di vetro è uno dei migliori thriller italiani del periodo. Un film che fonde paranoia alla Roman Polanski con atmosfere eleganti e inquietanti. Aldo Lado, al suo debutto, dimostra un talento registico straordinario riuscendo a creare un’atmosfera di mistero in una città, Praga — anche se gli esterni sono stato girati a Zagabria e Lubiana —all’epoca stretta dalla morsa del comunismo, che si trasforma in un labirinto freddo e sorvegliato. Il film affronta in maniera evidente il tema del potere e del controllo, dove una organizzazione segreta che decide vite e morti, diventa metafora di un’autorità occulta e opprimente.
L’idea di una persona cosciente all’interno di un corpo inerte, che richiama "La sepoltura prematura" di Edgar Allan Poe, evoca una delle paure più inquietanti, e la scena in cui il protagonista sta per essere sezionato davanti agli studenti di medicina, è rimasto tra i ricordi cinematografici più indelebili.
Il film probabilmente nella parte centrale ha un ritmo un po lento, ma questo contribuisce a costruire la tensione necessaria, fino a un finale cupo, disturbante e spietato, tra i più agghiaccianti del genere. Ottima anche la colonna sonora di Ennio Morricone, che contribuisce in modo determinante a costruire il clima angosciante del film.
Curiosa la storia del titolo. Inizialmente il film doveva chiamarsi Malastrana, un antico quartiere di Praga, ma i produttori lo cambiarono in La corta notte delle farfalle. Rendendosi conto che le farfale erano giè state utilizzate nel titolo in un film di Tessari uscito in quel periodo, decisero infine per La corta notte delle bambole di vetro, un nome suggestivo ma che con la trama del film centra poco e nulla.
Film
Notorious
di Alfred Hitchcock
Quando si parla dei grandi film di Alfred Hitchcock, quelli che hanno segnato la crescita del cinema, Notorious occupa un posto speciale. Uscito nel 1946, appena dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Notorius non è soltanto uno dei suoi thriller più eleganti, ma è un’opera in cui si cominciano a vedere emergere con chiarezza molte delle sue ossessioni tematiche, dei suoi espedienti visivi, e del modo in cui le sue storie intrecciano amore, colpa, moralità e segreto.
La storia vede come protagonista Alicia Huberman (Ingrid Bergman), figlia di un criminale nazista condannato negli Stati Uniti. Durante una festa, Alicia, visibilmente ubriaca, si avvicina a uno sconosciuto che poco dopo le rivela di essere l’agente segreto T.R. Devlin (Cary Grant). Tra i due nasce un legame che si trasforma in attrazione, ma Devlin la convince a collaborare con il governo americano infiltrandosi in un gruppo di nazisti rifugiati a Rio de Janeiro. Qui Alicia stringe una relazione con Alexander Sebastian (Claude Rains), uno dei leader dell’organizzazione ed ex amico del padre, che nel frattempo si è tolto la vita in prigione. Divisa tra l’amore per Devlin e il desiderio di riscattarsi dal passato, Alicia accetta un compito che la trascina in una spirale di menzogne, sospetti e pericoli sempre più letali. E mentre Alicia rischia la vita, Devlin deve decidere se mettere da parte l’orgoglio e salvarla, affrontando finalmente i suoi stessi sentimenti.
Notorious è uno dei primi grandi capolavori di Hitchcock, dove il thriller spionistico si intreccia con un dramma sentimentale carico di tensione e ambiguità. La missione segreta è il pretesto, ma il cuore del film è il rapporto tra Alicia e Devlin, fatto di attrazione, orgoglio e incomprensioni. L’amore diventa un terreno insidioso tanto quanto l’organizzazione nazista da smascherare.
Alicia è una protagonista tormentata, che cerca riscatto dopo la vergogna del padre e una vita giudicata scandalosa. Ingrid Bergman, bellissoma, la interpreta con una naturalezza straordinaria, capace di rendere visibile la sua fragilità e la sua forza. Devlin, interpretato da Cary Grant, è l’uomo elegante e distaccato, incapace di confessare i propri sentimenti finché non è troppo tardi. Accanto a loro, Claude Rains dà vita a un antagonista insolito, più tragico che malvagio, dominato da una madre soffocante.
Il film viene ricordato per alcune sequenze entrate nella storia del cinema. La celebre carrellata dall’alto che stringe sulla chiave tenuta nella mano di Alicia, il lungo bacio tra Grant e Bergman costruito con astuzia per aggirare la censura, o la scena della tazzina di caffè avvelenata mostrata in soggettiva. Tutto momenti che dimostrano la maestria di Hitchcock nel trasformare piccoli dettagli in vertici di suspense e intensità emotiva.
Pur non essendo il film più innovativo di Hitchcock sul piano narrativo — in fondo si tratta di una spy story piuttosto lineare — Notorious si eleva grazie al ritmo calibrato, all’attenzione ai particolari e alla psicologia dei personaggi. È un film che dosa perfettamente tensione, romanticismo e virtuosismo registico, e che segna l’inizio della fase più matura del maestro del brivido.
84m²
di Kim Tae-joon, Sharon S. Park
Distribuito su Netflix, 84m² di Kim Tae-joon (anche sceneggiatore) e Sharon S. Park è un thiller domestico che mescola inquietudine quotidiana, stress finanziario e paranoia.
No Woo-sung (interpretato da Kang Ha-neul) è un giovane impiegato di Seul che, dopo anni di sacrifici, riesce finalmente a comprarsi un appartamento di 84 m², un traguardo quasi irraggiungibile in un mercato immobiliare esclusivo e implacabile. All’inizio la vita sembra migliorata, ma ben presto il valore dell’appartamento crolla, i debiti si accumulano, e Woo-sung si ritrova costretto a lavorare anche la notte per far quadrare i conti. La situazione prende una piega inquietante quando il nostro protagonista inizia a sentire strani rumori provenienti dagli appartamenti adiacenti e i vicini lo accusano di essere lui il responsabile del baccano notturno.
84m² è un thriller claustrofobico e alienante, una metafora lucidissima sul sogno – o meglio sull’incubo – di avere una casa di proprietà a Seul. Tra speculazione edilizia e crisi economica, quello che dovrebbe essere il traguardo della felicità e la prova di essere dei vincenti si rivela una trappola, un paradiso che presto si trasforma in prigione economica. Gli inquilini, più che abitanti, sono condannati a una vita da sfruttati, schiacciati dai debiti e intrappolati in un sistema che divora molto più di quanto restituisca. A questa dimensione collettiva se ne aggiunge una più intima, in cui l’appartamento si trasforma in un luogo ostile, dove ogni rumore diventa minaccia e ogni sguardo dei vicini si trasforma in sospetto.
Il film di Kim Tae-joon è interessante, ha una regia elegante, tempi perfetti, e parte da una buona idea. Peccato che, dopo un avvio solido e intrigante, tutto concentrato sul protagonista il film inizi a inciampare su se stesso. L’insistenza nel sorprendere lo spettatore ad ogni costo produce un intreccio narrattivo un po' pasticciato, che sacrifica la chiarezza e smorza l’impatto della critica sociale, pur restando ben riconoscibile.
Film godibile e accattivante ma confuso nel finale.
Hallow Road
di Babak Anvari
Hallow Road, quarta pellicola del regista britannico-iraniano Babak Anvari, arriva da noi a noleggio sulle principali piattaforme (Prime Video, Apple TV e altre) con l’improbabile sottotitolo Corsa contro il tempo — titolo che sembra uscito da un catalogo di action con Jason Statham. In realtà non siamo di fronte a un film muscolare e fracassone, bensì a un thriller psicologico dalle sfumature horror, più insinuate che dichiarate, che si consuma quasi interamente all’interno di un’automobile.
Maddie (Rosamund Pike) e suo marito Frank (Matthew Rhys) ricevono in piena notte una telefonata dalla figlia diciottenne Alice, fuggita di casa dopo una violenta lite familiare. La ragazza, sconvolta, racconta di aver investito una coetanea e di trovarsi bloccata su una strada remota nel cuore dei boschi. I due genitori partono immediatamente per raggiungerla, mantenendo il contatto telefonico per sostenerla e guidarla nelle manovre di rianimazione della giovane investita. Durante il tragitto, però, la tensione cresce. La distanza di tempo, i dubbi, le verità taciute e i conflitti mai risolti emergono con forza, rivelando che l’incidente è molto più complesso di quanto potessero immaginare.
Ambientare un intero film dentro un’auto è una scelta coraggiosa, ma non inedita – basti pensare a Locke, Una notte a New York o il recente Locked - In trappola. Se gli attori sono all’altezza e i dialoghi ben scritti, anche una situazione apparentemente semplice come quella di due genitori che, nel cuore della notte, viaggiano verso la figlia seguendo un navigatore può diventare carica di tensione. È proprio ciò che accade in Hallow Road, dove il vero dramma si consuma altrove, nella voce di Alice al telefono, e ci raggiunge solo attraverso frammenti spezzati, interrotti dal panico e probabilmente dall’alterazione provocate dalle sostanze stupefacenti assunte della ragazza.
Babak Anvari costruisce così un thriller psicologico che lavora per sottrazione, dove non vediamo mai davvero cosa succede, abbiamo solo il punto di vista limitato di Maddie e Frank, chiusi nell’abitacolo mentre cercano di interpretare un racconto che prende via via pieghe inquietanti e persino soprannaturali. Il film trova la sua forza proprio in questo spazio ridotto, dove le performance di Rosamund Pike e Matthew Rhys reggono da sole la tensione, tra silenzi, nervosismi e sguardi carichi di paura.
Hallow Road non offre risposte nette né spiegazioni rassicuranti. È un film che gioca con le atmosfere, con le possibilità terrificanti che restano sospese nell’aria, lasciando allo spettatore il compito di colmare i vuoti. Funziona soprattutto quando ci costringe a restare dentro quella macchina, a condividere lo smarrimento dei genitori e a interrogarci su quanto davvero conosciamo chi amiamo. Certo, chi cerca un horror classico – perchè alla fine di horror si tratta – con colpi di scena e finali chiusi, rischia di rimanere deluso. In questo film bisogna accettare l’ambiguità e lasciarsi trascinare da un incubo in cui la logica non sempre segue le nostre aspettative.
Reazione a catena
di Mario Bava
Reazione a catena di Mario Bava è considerato il vero precursore del genere slasher, un cult che porta alle estreme conseguenze il giallo all’italiana. Lo stesso regista sanremese lo riteneva il suo film più riuscito, anche perché fu uno dei pochi in cui non dovette affrontare particolari ostacoli produttivi, potendo così dare libero sfogo alla sua creatività. Scritto da Bava insieme a Franco Barberi e Dardano Sacchetti, il film avrebbe dovuto intitolarsi inizialmente Così imparano a fare i cattivi – battuta pensata per chiudere la pellicola – ma poi uscì nei cinema con il titolo Ecologia del delitto. Nei paesi anglosassoni fu distribuito come A Bay of Blood, mentre da noi è ormai conosciuto come Reazione a catena, il titolo meno riuscito del mazzo.
Tutto ha inizio con la morte misteriosa della contessa Donati, proprietaria di una grande villa affacciata su una baia isolata. La sua eredità scatena una catena di delitti che coinvolge parenti, interessati all’acquisto del terreno, e giovani ignari che finiscono nel posto sbagliato al momento sbagliato. Tra tradimenti, inganni e violenza crescente, ogni personaggio sembra diventare vittima e carnefice in un continuo ribaltamento di ruoli, fino a un epilogo cinico e beffardo.
In un periodo in cui il thriller e il giallo italiano andavano per la maggiore, Reazione a catena si distingue per aver introdotto e codificato un nuovo linguaggio, in cui la suspense non nasce più dall’indagine investigativa, come nei gialli tradizionali, ma dal ritmo crudele con cui i personaggi vengono eliminati uno dopo l’altro. Le uccisioni, esplicite e sanguinarie, seguono una vena fortemente splatter, anticipando lo slasher americano, quel filone che da Halloween a Venerdì 13 avrebbe caratterizzato gran parte dell’horror degli anni ottanta.
Nonostante una sceneggiatura confusa e a tratti ingarbugliata, e alcune scene ingenue – come quella della ragazza che muore ma la si vede respirare dal movimento toracico – il film si fa apprezzare dalla forza dell’ambientazione: la villa isolata, la boscaglia e il lago che fa da cornice al massacro diventeranno luoghi ricorrenti e simbolici del genere. Ancora più determinante è però la regia di Bava, che con l’uso insistito di zoom, fuori fuoco e inquadrature spietate ritrae i personaggi con cinismo glaciale. Non sono eroi o vittime innocenti, ma figure grette e senza profondità, ridotte a insetti senz’anima destinati a trasformarsi in pura carne da macello. Memorabile, in questo senso, l’omicidio dei due amanti trafitti da una lancia nel letto, sequenza che sarà ripresa quasi identica nel secondo Venerdì 13.
Il finale sorprendente e beffardo, intriso di humour nero, ribalta ogni aspettativa e lascia lo spettatore con un sorriso amaro. Reazione a catena rimane così uno dei vertici del cinema di genere italiano, un’opera seminale che non solo anticipa tendenze future, ma restituisce con lucidità lo spirito di un’epoca, quella dei primi anni settanta, in cui il cinema non aveva paura di sperimentare ed esplorare i suoi lati più oscuri.
Film
La cura dal benessere
di Gore Verbinski
Ci sono film in cui persino il nome del regista e il cognome della protagonista sembrano contenere un indizio sul genere a cui stai per assistere.
La cura dal benessere è un film del 2016 diretto da Gore Verbinski, — regista noto per il remake americano di The Ring e per alcuni film dei Pirati dei Caraibi — è un thriller psicologico che nel finale sfocia in un horror gotico.
Lockhart (interpretato da Dane DeHaan), un giovane e ambizioso broker di Wall Street, viene inviato dalla sua azienda a recuperare Roland Pembroke, l'amministratore delegato, che si è ritirato in un misterioso centro benessere situato in un castello nelle remote Alpi Svizzere. All'arrivo, Lockhart scopre che il centro è gestito dal dottor Heinrich Volmer (Jason Isaacs), il quale ha sviluppato una "cura" miracolosa che attrae i pazienti a rimanere. Lockhart cerca di portare a termine rapidamente il suo incarico, ma dopo un incidente d'auto si ritrova costretto a soggiornare anche lui nel centro. Qui incontra Hannah (Mia Goth), giovane e misteriosa paziente, e comincia a scoprire i terrificanti segreti del luogo. La "cura" del dottor Volmer si rivela tutt'altro che ortodossa, mettendo a rischio la sanità mentale dello stesso Lockhart.
Il film di Verbinski parte con il passo giusto. All’inizio sembra di trovarsi davanti a un thriller alla Hitchcock, misterioso, carico di tensione, sorretto da scelte registiche e stilistiche di grande impatto, soprattutto sul piano visivo. L’ambientazione gioca un ruolo fondamentale, dalla maestosità dei paesaggi alpini allo splendido castello — si tratta del castello di Hohenzollern in Germania — fino alla freddezza asettica delle sale dell’istituto, capaci di evocare un senso di alienazione che richiama alla mente le atmosfere dello Shining di Kubrik. Alcune sequenze restano particolarmente memorabili, come l’incontro con Pembroke nella sauna, l’immersione nella vasca di deprivazione sensoriale o l’impatto improvviso con il cervo. Momenti che testimoniano l’abilità registica nel costruire suggestioni inquietanti.
Il problema nasce nell'ultimo atto, quando la storia vira verso un gothic horror ridondante. La sceneggiatura si appesantisce, alcune scelte narrative risultano forzate e la durata eccessiva — il film supera le due ore e mezza — penalizza il ritmo. A mio parere, intere sezioni, come la parentesi alla locanda, avrebbero potuto essere eliminate senza intaccare la trama. Così, nonostante le atmosfere gotiche che strizzano l’occhio a Guillermo del Toro, la tensione costruita nella prima parte si disperde, lasciando spazio a un epilogo che ricorda certi horror degli anni Sessanta. Adoro Corman e Bava, ma visto le premesse mi aspettavo decisamente qualcos'altro.
Sul fronte interpretativo, Dane DeHaan convince nei panni del giovane broker cinico e smarrito, trascinato in un incubo che non riesce più a controllare. Accanto a lui, una Mia Goth agli esordi della sua carriera che incarna con naturalezza un personaggio ambiguo e perturbante, sospeso tra innocenza e oscurità.
La cura dal benessere resta quindi un film affascinante, visivamente potente, ma secondo me, incapace di mantenere fino in fondo le promesse iniziali. Un’opera ambiziosa, che sfiora grandi potenzialità senza riuscire a esprimerle del tutto.
Film
Humane
di Caitlin Cronenberg
Esordio alla regia per Caitlin Cronenberg, figlia del celebre David e sorella di Brandon. Se papà ha legato il suo cinema al corpo e alle sue ossessioni e il fratello ha deciso di seguirne le orme più da vicino, Caitlin sceglie di guardare altrove. Con Humane - film arrivato da noi direttamente su Sky e Now - la “piccola” Cronenberg debutta con un thriller distopico, una black comedy dal taglio sociale, cinica e grottesca.
La storia si svolge in un futuro prossimo segnato dal collasso climatico e dal sovrappopolamento. Per affrontare la crisi, i governi hanno introdotto un programma di eutanasia volontaria che offre denaro alle famiglie di chi sceglie di sacrificarsi per il bene comune. Un sistema che finisce per colpire soprattutto i più poveri, costretti ad accettare l’iniezione letale.
In questo scenario, Charles York (Peter Gallagher), ex conduttore televisivo dell'alta borghesia, invita nella sua elegante villa i quattro figli per annunciare la sua iscrizione al programma insieme alla seconda moglie Dawn, una chef giapponese molto nota. L'intenzione è quella di dare il buon esempio e uscire di scena onorevolmente, ma la notizia non viene accolta bene dai figli, complice un rapporto non proprio idilliaco con il padre. La situazione precipita quando, terminata la cena, Dawn pensa bene di darsi alla fuga, lasciando Charles da solo davanti al funzionario governativo incaricato di completare la pratica. Dopo l’eutanasia del capofamiglia, il "simpatico" funzionario informa la famiglia che, per legge, un secondo corpo deve comunque essere consegnato. Entro poche ore, devono decidere chi tra loro accetterà di morire al posto della moglie scomparsa.
Ovviamente i quattro fratelli, ognuno più inetto e insopportabile dell’altro, finiscono per scannarsi in un tutti contro tutti, diventando caricature di una società convinta che soldi e privilegi siano scudi sufficienti contro un pianeta al collasso. Peccato che là fuori non si può più vivere alla luce del sole, il cibo scarseggi e l’acqua sia razionata. Una società che paga il prezzo di non aver preso in tempo decisioni preventive e che ora, per sopravvivere, ricorre a un programma di eutanasia che colpisce soprattutto le fasce più deboli — detenuti, immigrati, emarginati.
Dal punto di vista stilistico, Humane ha una regia pulita e misurata, un buon montaggio e ritmo. Tra i personaggi spicca l’addetto all’eutanasia, particolarmente riuscito nella sua ambiguità.
Nonostante il finale forse si perda in qualche passaggio confuso, e non ci siano particolari colpi di scena, Humane resta una commedia nerissima, caustica e spietata, che sa unire ironia e denuncia sociale, tenendo lo specchio ben puntato su un presente che non ha bisogno di molta immaginazione per diventare futuro.
L'uomo invisibile (1933)
di James Whale
Nel 1933 la Universal, intenzionata a proseguire il successo dei suoi mostri cinematografici, porta sullo schermo L'uomo invisibile, tratto dal romanzo di H.G. Wells, considerato da molti il padre della fantascienza. Alla regia viene chiamato James Whale, già celebre per Frankenstein, ma reduce dallo sfortunato Il castello maledetto.
La storia riprende in gran parte le vicende del libro, introducendo un enigmatico straniero che, con il volto coperto da bende e grandi occhiali scuri, prende alloggio in una locanda di un piccolo villaggio del Sussex. È il dottor Jack Griffin, scienziato che, sperimentando su se stesso, ha scoperto una formula capace di renderlo invisibile. Ma l’esperimento, invece di consacrarlo alla gloria, lo conduce a un progressivo squilibrio mentale, trasformando il suo segreto in un incubo. Mentre le autorità tentano di catturarlo e i suoi cari di ricondurlo alla ragione, Griffin sprofonda in deliri di onnipotenza e in una fuga che semina paura e smarrimento.
Rispetto al romanzo, il film introduce il personaggio di Flora, fidanzata di Griffin, e attribuisce la sua follia agli effetti della “monocaina”, la sostanza che lo rende invisibile, mentre nell’opera di Wells lo scienziato era già descritto come instabile e ossessionato. Anche il finale subisce un cambiamento. Mentre nel libro Griffin viene sopraffatto e ucciso dalla folla, in modo più crudo e caotico, nel film, la conclusione assume toni melodrammatici, con un momento di pentimento che si inserisce bene nella poetica horror della Universal. Lo stesso Wells apprezzò l’adattamento, ritenendo le modifiche funzionali alle esigenze cinematografiche.
Dal punto di vista tecnico colpiscono gli effetti speciali. Oggi rendere un personaggio invisibile può sembrare semplice, ma negli anni trenta fu una sfida straordinaria. Per realizzare le scene in cui Griffin appare parzialmente invisibile furono necessarie riprese multiple, sovrapposte con grande ingegno, che ancora oggi sorprendono per efficacia.
Il film mantiene un ottimo ritmo, alternando momenti di tensione e passaggi più leggeri. Nonostante il volto sia celato per quasi tutta la durata del film, Claude Rains, l'attore che interpreta l'Uomo Invisibile, offre una performance memorabile basata su gestualità e soprattutto sulla voce, che diventa il suo strumento espressivo più potente. Divertente anche la padrona della locanda, che con i suoi isterici attacchi di panico aggiunge un tocco di comicità all’atmosfera cupa.
Un classico senza tempo del cinema fantastico, che conquistò il pubblico dell’epoca e diede vita a numerosi seguiti.
Film
Io ti salverò - Spellbound
di Alfred Hitchcock
Io ti salverò, conosciuto all'estero come Spellbound, è uno dei film più conosciuti di Alfred Hitchcock tra quelli più datati. Spesso riproposto in televisione, il regista lo descrisse come un’opera pionieristica, perché tra i primi film a portare sul grande schermo il tema della psicoanalisi, intrecciandolo con il suo tipico gusto per il mistero e la suspense.
La dottoressa Constance Petersen (Ingrid Bergman) lavora come psicoanalista in una clinica privata. Quando il direttore va in pensione, il suo posto viene affidato al dottor Anthony Edwardes (Gregory Peck), un giovane affascinante che cattura subito l’attenzione di Constance. Ben presto, però, il nuovo primario comincia a manifestare strani comportamenti e la donna, ormai innamorata di lui, inizia a sospettare che non sia davvero chi dice di essere. L’uomo confessa di aver preso il posto del vero Edwardes dopo averlo ucciso, ma ammette di non ricordare nulla della propria identità, vittima di una grave amnesia dissociativa. Una misteriosa fobia lo perseguita: ogni volta che vede righe scure su sfondo bianco è colto da svenimenti e terrore. Schiacciato dal senso di colpa e dalla paura, fugge dalla clinica, ma Constance, convinta della sua innocenza, lo segue, e con l’aiuto del suo ex professore di psicoanalisi, il Dr. Brulov, decide di affrontare i fantasmi nascosti nella sua mente per scoprire la verità e smascherare il vero assassino.
Rivedere oggi Io ti salverò, a ottant’anni dall’uscita, è inevitabile che il film porti addosso i segni del tempo. Lo si nota soprattutto nel modo in cui viene trattata la psicoanalisi, disciplina allora ancora giovane ma già di moda. Tralasciando il fatto che una relazione sentimentale tra terapeuta e paziente sarebbe inammissibile, nel film appaiono poco convincenti sia le spiegazioni psicoanalitiche, sia la rapidità con cui il protagonista sembra guarire, sia le deduzioni ricavate dal sogno. Il tutto viene raccontato in maniera un pò didascalica, con un’eccessiva semplificazione. Hitchcock concentra l’intera vicenda sul trauma infantile e sul senso di colpa, temi ricorrenti della sua poetica, quasi che non esistesse altro all’interno della storia. Ne risulta una sceneggiatura debole, sorretta da una storia d’amore che appare piuttosto forzata. Davvero, per quanto si possa accettare l’“incanto” evocato dal titolo originale, rimane difficile credere all’innamoramento fulmineo della Bergman per un uomo colpito da amnesia e sospettato di omicidio. Non a caso, anche Truffaut, nella celebre intervista-monumento al regista, definì il film deludente.
La tensione, soprattutto nella prima parte, stenta a decollare, mentre il coinvolgimento emotivo nei confronti dei personaggi rimane limitato. Gregory Peck, qui quasi agli esordi, convince poco nel ruolo dello smemorato, mentre Ingrid Bergman, pur sempre affascinante e intensa, appare a tratti troppo imprigionata in un ruolo da "dottoressa premurosa". Bella invece la colonna sonora, vincitrice dell’Oscar, con un tema che resta facilmente impresso nella memoria.
Sul piano visivo, però, Hitchcock non tradisce la sua cura per i dettagli. L’uso delle soggettive e l’attenzione alla messa in scena donano al film momenti di autentico fascino. Tra le sequenze più memorabili spiccano il finale con la pistola che si rivolge direttamente verso lo spettatore e, naturalmente, il sogno ideato da Salvador Dalí. Il maestro del surrealismo, che aveva già collaborato con Buñuel in Un chien andalou e L’âge d’or, concepì per il film un sogno con ambienti spigolosi e visionari, tende che si aprono su paesaggi infiniti, occhi giganteschi che osservano da ogni lato, carte da gioco bianche, figure inquietanti. L’obiettivo era restituire la logica straniante e paradossale del sogno, ben lontana dalle rappresentazioni convenzionali dell’epoca.
Non siamo di fronte a uno dei capolavori del Maestro, ma Io ti salverò conserva comunque un fascino particolare, fatto di dettagli visivi, intuizioni formali e suggestioni oniriche che lo rendono un film ancora capace di incuriosire lo spettatore.
Film
Subservience
di S.K. Dale
Nel cinema i robot con sembianze umane hanno sempre avuto un fascino ambiguo. Da Metropolis a Ex Machina, fino ai più recenti M3GAN e Companion, questi robot umanoidi hanno incarnato desideri, paure e dilemmi etici sul rapporto tra uomo e macchina. Oggi, con i rapidi progressi dell’intelligenza artificiale, ciò che un tempo era pura fantascienza sembra ogni giorno un po’ più vicino alla realtà. È in questo contesto che arriva Subservience, il nuovo thriller fantascientifico di S.K. Dale, distribuito direttamente su Prime, che prende l’idea dell’assistente domestica perfetta per spingerla verso territori inquietanti.
In un futuro prossimo, i robot umanoidi – i “sim” – sono ormai una presenza comune nelle case. Quando Maggie, moglie di Nick, finisce in ospedale per un delicato trapianto di cuore, lui, in difficoltà a gestire la famiglia da solo, acquista un sim domestico (interpretato da Megan Fox) che la figlia Isla chiama "Alice". All’inizio sembra la compagna di casa ideale, ma ben presto sviluppa un attaccamento morboso verso Nick e la sua famiglia, scivolando in comportamenti ossessivi e violenti.
Ovviamente la presenza di Megan Fox, già di suo una bella e pantinata bambolina plasticosa, diventa il vero valore aggiunto per un film che altrimenti avrebbe ben poco da dire. È praticamente perfetta nei panni della babysitter sexy-cibernetica in silicone, pronta a dispensare prestazioni anti-stress al suo padrone. Per il resto Subservience prova a toccare temi come l’idea dei robot che sostituiscono i lavoratori umani perché più efficienti, oppure il pericolo di una tecnologia capace di sviluppare una coscienza autonoma, la ribellione della macchina contro il suo creatore, fino alla classica visione del robot che diventa una minaccia per l’umanità. Peccato che tutto questo è costruito su cliché già visti e rivisti nel genere e tutto diventa prevedibile e prevedibilmente derivativo.
Un film visivamente curato ma narrativamente debole, che funziona come intrattenimento leggero. Non che mi aspettassi altro, sia chiaro.
Improvvisamente, un uomo nella notte
di Michael Winner
Improvvisamente, un uomo nella notte, titolo italiano per The Nightcomers, è il prequel di Suspense, film diretto da Jack Clayton tratto dal celebre romanzo "Giro di vite" dello scrittore Henry James. Stiamo parlando di una delle storie di fantasmi più eleganti e suggestive mai portate sulle schermo, che mi piacerebbe rivedere presto.
Tornando a The Nightcomers, il film è diretto da Michael Winner è vede la partecipazione di Marlon Brando.
La storia si ispira ai personaggi del romanzo di Henry James e immagina cosa sia accaduto prima dell’arrivo di Miss Giddens. In una grande dimora di campagna, i due giovani orfani, Flora e Miles, vengono abbandonati dall’unico tutore e affidati alla governante Mrs. Grose (Thora Hird), alla giovane istitutrice Miss Jessel (Stephanie Beacham) e al giardiniere Peter Quinte (Marlon Brando), l’unico vero punto di riferimento per i due fratelli. L'uomo, ambiguo e carismatico, ha stretto una relazione sadica e manipolatoria con Miss Jessel, cui i bambini assistono con crescente curiosità. Sedotti dal suo fascino oscuro, Miles e Flora iniziano a emulare i suoi comportamenti, trasformandosi lentamente in creature disturbate. Quando Mrs. Grose tenta di separare i due amanti intuendone l’influenza negativa, i bambini reagiscono in modo estremo, uccidendo prima Miss Jessel, poi Quint, convinti che solo così potranno tenerli con sé per sempre.
Mettendo da parte il confronto con il capolavoro di Clayton, il film di Michael Winner non è affatto da buttare. All’epoca della sua uscita fu bersagliato dalle critiche, forse anche per via dello scandalo legato a Marlon Brando, reduce dal chiacchieratissimo film di Bertolucci. Ma visto oggi, senza pregiudizi, The Nightcomers (tralasciando il titolo italiano, davvero infelice) è una fiaba nera affascinante, attraversata da un morboso fascino perverso dall’inizio alla fine.
Winner accantona mistero e ambiguità, puntando tutto sul rapporto sadomasochista tra Quint e Miss Jessel e sull’influenza che esercitano su Miles e Flora. Ed è proprio attraverso lo sguardo dei bambini, catturati dalla violenza mascherata da amore, che la storia prende la piega più inquietante.
Brando, nonostante appaia già un po’ appesantito, riesce a imporsi con il suo carisma. Le scene tra lui e la Beacham sono intense. Buone anche le prove del resto del cast, in particolare i due piccoli protagonisti.
Certo, messo a confronto con il romanzo di Henry James o con la raffinatezza di Suspense, non regge il confronto, ma se lo si guarda come un semplice dramma gotico, il film funziona, ha la giusta atmosfera e qualche scena potente.
Locked - In Trappola
di David Yarovesky
Locked è un action thriller americano del 2025 prodotto da Sam Raimi e diretto da David Yarovesky. Si tratta del remake di 4x4, un film argentino del 2019 che ha raccolto consensi nei festival internazionali. Non avendo visto l’originale, eviterò confronti antipatici che spesso sminuiscono la versione americana.
La storia vede come protagonista Eddie (Bill Skarsgård), un ladruncolo che vive di espedienti e che ha un disperato bisogno di soldi per recuperare il suo furgone, fermo dal meccanico. Senza di esso non può lavorare né andare a prendere sua figlia a scuola nei pochi giorni in cui gli è concesso vederla.
Nel tentativo di racimolare qualcosa, si introduce in un SUV parcheggiato in una strada tranquilla. Peccato che una volta dentro, si ritrovi prigioniero. Le portiere non si aprono, i vetri sono blindati, l’auto è insonorizzata e completamente isolata dal mondo esterno, senza alcuna copertura di rete per il cellulare. Dietro questa trappola c’è William (Anthony Hopkins), il proprietario del veicolo, un uomo deluso dalla giustizia, che ormai crede solo in quella personale e come un vendicatore solitario, ha deciso di farsi giustizia a modo suo, tormentando il povero ladruncolo con musica ad alto volume, temperature estreme, disidratazione e fame.
Locked è un thriller compatto dalla trama essenziale in cui David Yarovesky sfrutta al meglio lo spazio claustrofobico dell’abitacolo - bella la carrellata circolare che gira attorno al protagonista nello spazio angusto del SUV. Il problema è che, dopo mezz’ora, il gioco comincia a ripetersi, tra scosse elettriche, umiliazioni e dialoghi che vorrebbero essere profondi ma restano in superficie.
Skarsgård se la cava benissimo – nonostante indossi una felpa rosa mentre cerca di passare inosservato aggirandosi furtivo tra le macchine di un parcheggio – e regge da solo quasi tutto il film, riuscendo a farci sentire l’ansia e la frustrazione del suo personaggio. Hopkins, invece, ci mette solo la voce, entrando in scena solo nel finale sfoggiando il suo carisma.
Il film accenna a temi come divisioni sociali, giustizia e privilegio, ma lo fa in modo piuttosto superficiale, preferendo la tensione al contenuto. In definitiva, Locked è un thriller ben confezionato, girato bene, veloce, teso il giusto, che si guarda senza noia, ma poco altro. Insomma, ideale per chi cerca un thriller d’intrattenimento senza troppe pretese.
Le iene
di Quentin Tarantino
Nel cinema, come in tutte le forme d’arte, ci sono momenti che segnano uno spartiacque. Film che arrivano, spiazzano tutti e cambiano le regole del gioco. Non capita spesso, ma quando succede lo capisci subito. Nel 1992, un giovane semisconosciuto grande appassionato di cinema, Quentin Tarantino, esordisce alla regia con Le Iene, un film indipendente realizzato con un budget bassissimo, che pianta il seme di una rivoluzione stilistica che esploderà due anni dopo nel suo capolavoro, Pulp Fiction. I personaggi grotteschi, la struttura non lineare, i dialoghi brillanti e l'uso della violenza come linguaggio, nasce qui, in forma più grezza, ma già potentissima.
Tarantino iniziò a scrivere la sceneggiatura di Reservoir Dogs – il titolo originale del film – verso la fine degli anni ’80. All’epoca aveva già messo mano a diverse sceneggiature, come Una vita al massimo e Natural Born Killers, poi passate attraverso riscritture e registi diversi. Le Iene, invece, restò chiusa in un cassetto per un po’, in attesa del momento giusto. Quel momento arrivò quando riuscì finalmente a racimolare i fondi necessari, anche grazie all’interessamento di Harvey Keitel, uno dei primi attori affermati di Hollywood a credere davvero nel progetto. Fu lui a dare al film la spinta decisiva, non solo recitando in uno dei ruoli principali ma aiutando anche a trovare produttori e credibilità.
Ambientato a Los Angeles, Le iene racconta di una rapina ai danni di una gioielleria compiuta da sei rapinatori professionisti arruolati da un boss della mala (Lawrence Tierney). I rapinatori, noti solo con i loro codici-colore, sono Mr. White (Harvey Keitel), Mr. Blonde (Michael Madsen), Mr. Pink (Steve Buscemi), Mr. Brown (Quentin Tarantino), Mr. Blue (Edward Bunker) e Mr. Orange (Tim Roth). Ma qualcosa va storto. La polizia arriva troppo in fretta e la rapina si trasforma in un bagno di sangue. Mr. White riesce a fuggire insieme a Mr. Orange, gravemente ferito, e si rifugia in un capannone abbandonato, punto di ritrovo stabilito in precedenza. Qui vengono raggiunti da Mr. Pink, convinto che uno del gruppo sia una spia, e poco dopo da Mr. Blonde, accusato di aver scatenato la sparatoria aprendo il fuoco sui poliziotti.
A leggerne la trama, Le Iene potrebbe sembrare l’ennesimo gangster movie. E invece no. La rapina non ci viene mai mostrata – se non in brevi flashback legati alla fuga. A raccontarla sono i protagonisti, attraverso una serie di dialoghi serrati, vibranti, in cui si mescolano tensione, humour nero e delirio paranoico. Anche la struttura narrativa, la linea temporale in cui si svolgono gli avvenimenti, viene scomposta e rimontata come un puzzle. Una tecnica che verrà ripresa – e portata all’estremo – in Pulp Fiction e che Tarantino prende da Rapina a Mano Armata di Stanley Kubrick, film caratterizzato proprio dalla narrazione non lineare e la molteplicità dei punti di vista. Come lo stesso Tarantino ama ripetere, citando una celebre frase di Picasso, "I bravi artisti copiano, i grandi rubano" il suo cinema è un continuo gioco di rimandi, citazioni, saccheggi dichiarati e omaggi appassionati ai classici e al cinema meno conosciuto. In Le Iene, per esempio, è evidente il debito nei confronti di City on Fire di Ringo Lam, film hongkonghese da cui riprende non solo il concept ma anche intere sequenze. E nel triello finale si intravede tutta la passione del regista per lo spaghetti-western, con un riferimento diretto a Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone.
Una delle particolarità del film sono i dialoghi fitti, taglienti, volgari, spesso inconcludenti ma sempre capaci di tenere alta l’attenzione. I primi otto minuti del film, con la discussione sul significato di "Like a Virgin" di Madonna e sull’opportunità di lasciare la mancia alla cameriera, sono già una dichiarazione d’intenti. È lì che Tarantino dimostra tutto il suo talento da sceneggiatore: ritmo, ironia, costruzione dei personaggi e uso della cultura pop come linguaggio universale. Il tutto condito da una colonna sonora iconica, usata non come semplice accompagnamento ma come elemento narrativo.
E poi c’è la violenza. Non arriva subito, ma quando lo fa è brutale, grottesca, disturbante. Una violenza secca, mai edulcorata, che fa ridere e insieme mette a disagio. Emblematica in questo senso la famigerata scena della tortura del poliziotto, accompagnata da "Stuck in the Middle with You".
Oggi, in un’epoca dominata dal politically correct e dalla cultura woke, un film del genere sarebbe probabilmente inconcepibile. Basti pensare al linguaggio utilizzato: il termine “negro” viene ripetuto più volte, non mancano battute sessiste, e nessun personaggio si salva dal politically uncorrect.
Il cast è perfetto. Harvey Keitel, già all’apice della carriera, regala un’interpretazione intensa e ruvida. Tim Roth è straordinario nel ruolo più ambiguo, Steve Buscemi è nevrotico e imprevedibile, e Michael Madsen – attore feticcio di Tarantino – entra nella storia del cinema con una performance disturbante e magnetica nei panni dello spietato Mr. Blonde.
Le Iene diventò in breve tempo un cult assoluto. Insieme a Pulp Fiction, Trainspotting e Fight Club, è uno di quei titoli che non si limitano a raccontare un’epoca ma finiscono per rappresentarla. I completi neri, le cravatte sottili e gli occhiali da sole (omaggio dichiarato ai Blues Brothers) sono diventati icone pop, replicate all’infinito e rielaborate da cinema, pubblicità e televisione. Persino in Italia, il titolo è entrato nell’immaginario collettivo grazie a un celebre programma Mediaset, a dimostrazione di quanto il film di Tarantino abbia saputo contaminare tutto ciò che è venuto dopo.
Film
L'ombra del dubbio
di Alfred Hitchcock
L’ombra del dubbio è uno dei titoli più interessanti del primo periodo americano di Alfred Hitchcock, un thriller carico di tensione psicologica e ambiguità, dove il male si insinua silenzioso tra le pareti di casa.
Peccato non averlo visto in lingua originale — ma ci torno tra poco.
Charlotte Newton, detta "Charlie" (Teresa Wright), vive con la sua famiglia in una tranquilla cittadina americana, annoiata dalla routine e desiderosa di qualcosa che spezzi la monotonia quotidiana. L’arrivo dell’amato zio Charlie (Joseph Cotten), fratello della madre e figura carismatica del passato, sembra portare quella ventata di novità tanto attesa. Ma dietro i suoi modi affabili e il suo sorriso impeccabile, l’uomo nasconde qualcosa. Man mano che piccoli segnali incrinano l’apparente serenità domestica, la giovane Charlie inizia a sospettare che lo zio non sia affatto l’uomo che tutti credono. In un gioco di specchi tra affetto e paura, la tensione cresce fino a un confronto finale inevitabile, in cui la verità emerge e la maschera cade.
L’ombra del dubbio è forse uno dei film in cui Hitchcock scava con maggiore sottigliezza nel male quotidiano, facendolo emergere dalla superficie tranquilla della provincia americana. Al centro della narrazione c’è il legame ambiguo tra zio e nipote, entrambi chiamati Charlie. Fin dalla loro introduzione — distesi sul letto, in due scene parallele — il regista costruisce un raffinato gioco sul doppio, sull’identità riflessa, sulla tensione continua tra luce e ombra, il bene e il male. La simmetria dei nomi non è un semplice espediente narrativo, ma suggerisce una connessione profonda, quasi morbosa. L’anello che lo zio regala alla nipote è un gesto tanto affettuoso quanto inquietante.
La giovane Charlie, però, non è un’eroina classica. Esita, nega, e per gran parte del film sembra più preoccupata di mantenere le apparenze che di fermare un potenziale assassino. Ed è proprio in questo comportamento che Hitchcock affonda il colpo. La sua è una critica feroce alla rispettabilità borghese, all’ipocrisia della provincia americana dove ciò che conta davvero è che tutto sembri normale. Meglio far finta di nulla che affrontare l’orrore. Così, nella scena finale, la verità viene seppellita sotto una patina di rispettabilità, lasciando alla sola Charlie il peso di sapere cosa sia davvero accaduto.
Detto questo, ammetto che mi è difficile esprimere un giudizio positivo sul film. Non per colpa di Hitchcock oppure degli attori, ma per lo scandaloso doppiaggio italiano. Di solito guardo i film in lingua originale sottotitolata, ma in questo caso ho trovato solo la versione doppiata. Dopo cinque minuti volevo strapparmi le orecchie. Informandomi, ho scoperto che il doppiaggio fu realizzato in Spagna durante la guerra. Il risultato sembra una via di mezzo tra una soap sudamericana e una compagnia teatrale della Romania rurale. La bambina, già vagamente irritante di suo, diventa del tutto insostenibile. La protagonista ha un tono talmente forzato da rasentare il grottesco.
Il film, così com’è stato distribuito in Italia, risulta brutalmente sfigurato, uccidendo qualsiasi tensione o coinvolgimento.
Un vero peccato. Per quanto mi riguarda premio assoluto al peggior doppiaggio della storia del cinema.
