
Il gatto a nove code
di Dario Argento
Nei primi anni settanta, dopo il clamoroso successo de L’uccello dalle piume di cristallo, Dario Argento torna dietro la macchina da presa con Il gatto a nove code, secondo tassello della cosiddetta "trilogia degli animali" – saga non ufficiale unita più dai titoli zoologici che da un vero filo conduttore. Meno impattante del suo predecessore e meno visionario del successivo Quattro mosche di velluto grigio, questo film si colloca come un’opera di transizione, un capitolo intermedio che, pur con i suoi limiti, si rivela fondamentale per la crescita stilistica e narrativa del regista romano. Un film di passaggio, sì, ma tutt’altro che trascurabile.
La vicenda prende il via con un misterioso furto in un laboratorio di genetica di Torino. Non viene sottratto nulla, ma il giorno dopo uno degli scienziati finisce sotto un treno in circostanze decisamente sospette. A interessarsi al caso sono Franco Arno (Karl Malden), un ex giornalista cieco con un fiuto da detective e una nipotina sveglia, e Carlo Giordani (James Franciscus), un reporter d’assalto pronto a tutto.I due iniziano a scavare tra piste inconcludenti, silenzi sospetti e una catena di omicidi sempre più inquietanti. Tutto sembra ruotare attorno a quell’istituto scientifico, dove si conducono ricerche d'avanguardia sulla genetica e la predisposizione al crimine.
Il gatto a nove code è un thriller dal ritmo serrato, con un montaggio dinamico e un uso costante della soggettiva dell'assassino, spesso anticipata da un inquietante primo piano di una pupilla dilatata. Gli omicidi iniziando a diventare più brutali, ma ancora relativamente “anemici” rispetto agli standard futuri di Argento. Le atmosfere sono ben costruite, ricche di tensione e con evidenti influenze hitchcockiane ma anche con una vena ironica e personaggi quasi caricaturali che alleggeriscono la tensione. Tecnicamente il film funziona. La regia è solida, la fotografia elegante e il tutto è supportato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Bravi Karl Malden e James Franciscus. Meno convincente Catherine Spaak, bella ma legnosa, con una scena di sesso che sembra uscita da una pubblicità vintage del dopobarba.
Certo, è un film imperfetto. A volte sbilenco, con una sceneggiatura che zoppica e un finale che lascia l’amaro in bocca più per le promesse mancate che per il colpo di scena. Ma è anche l’opera di un autore in piena evoluzione, che inizia a maneggiare con sicurezza i ferri del mestiere e che, con la sua cifra stilistica sempre più definita, comincia a lasciare un’impronta inconfondibile nel giallo all’italiana.
Film
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto
di Elio Petri
Un pugno nello stomaco. Dev'essere stato questo l'effetto di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto quando uscì nelle sale italiane nel 1970, in un periodo di forte tensione politica e sociale. Un opera scomoda, corrosiva, che rischiò la censura e il sequestro per la sua critica feroce alle istituzioni, in particolare alla polizia e al potere autoritario in Italia. Alla fine, il film di Elio Petri riuscì ad arrivare nelle sale, vincendo il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes e, l'anno successivo, l'Oscar come miglior film straniero.
Roma. Il capo della sezione omicidi (Gian Maria Volonté), proprio nel giorno della sua promozione all'ufficio politico, uccide l'amante Augusta Terzi (Florinda Bolkan). Invece di coprire le sue tracce, l'alto funzionario della polizia, che rimarrà senza nome, fa di tutto per seminare indizi che lo collegano al crimine, sfidando il sistema e mettendo alla prova fino a che punto il suo potere possa proteggerlo. Per quanto si sforzi di dare prove della sua colpevolezza, il sistema rifiuta di prenderle in considerazione. I suoi sottoposti, invece di sospettarlo, lo giustificano, lo proteggono, cercano spiegazioni alternative. Anche quando un testimone chiave, un idraulico, si trova davanti a lui e potrebbe incastrarlo, il timore reverenziale e il clima di omertà lo spingono al silenzio. Fino a che punto può spingersi un uomo investito di autorità? Quanto è disposto il sistema a proteggere se stesso, anche di fronte all'evidenza di un delitto?
Il racconto si dipana tra presente e flashback, dove emerge il rapporto morboso con Augusta, un gioco di potere e seduzione in cui lei lo sfida a dimostrare di essere un vero uomo, un'autorità assoluta. Una sfida che lo porterà a compiere l'omicidio e a usarlo come esperimento politico e socale.
Elio Petri costruisce un thriller psicoanalitico sull'abuso del potere che critica e analizza in chiave grottesca l'autoritarismo e l'impunità degli apparati polizieschi. Scritto dal regista insieme a Ugo Pirro, il film fece scalpore sopratutto nel nostro paese perchè uscì appena due mesi dopo la strage di piazza Fontana e la morte dell'anarchico Pinelli in un momento delicatissimo della storia italiana. Il film sembra anticipare il clima che avrebbe caratterizzato gli anni di piombo, con uno stato che si regge sulla repressione e su un potere che non sbaglia mai. È un film politico, profondamente legato al suo periodo storico, che unisce il tormento psicologico dostoevskiano alla visione grottesca e claustrofobica del potere tipica di Kafka.
Gian Maria Volonté è monumentale. Il suo personaggio è un uomo arrogante, sprezzante, con un accento marcato e un piglio tronfio che nasconde un'insicurezza profonda. La sua interpretazione è un continuo gioco tra delirio e lucidità, tra volontà di controllo e bisogno di autoumiliazione. E poi c'è la colonna sonora di Ennio Morricone, uno dei temi più famosi della sua carriera, un tango ambiguo con il mandolino iniziale che evoca l'origine siciliana del protagonista.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è un film che non invecchia, anzi, con il tempo diventa ancora più inquietante. Il suo messaggio è chiaro: la giustizia non è uguale per tutti, e il potere può permettersi tutto, anche di uccidere alla luce del sole. E se nessuno osa fermarlo, forse il problema non è solo chi comanda, ma chi obbedisce senza farsi domande.
Film
Memorie di un assassino
di Bong Joon-ho
Memorie di un assassino (Memories of Murder) è il secondo lungometraggio di Bong Joon-ho, regista sudcoreano che ha conquistato il pubblico internazionale con film come The Host, il distopico Snowpiercer e soprattutto Parasite, vincitore dell’Oscar per il miglior film.
Ispirato ai crimini del primo serial killer conosciuto nella storia della Corea del Sud, il film è stato distribuito in patria nel 2003, ottenendo un ampio consenso di critica e pubblico. In Italia, invece, è arrivato solo quattro anni più tardi, direttamente in home video, per poi essere riproposto al cinema nel 2020 grazie al successo di Parasite.
Al di là dell'ennesima storpiatura italiana del titolo originale — Memorie di un assassino è ben diverso da Memorie di un omicidio — il film è ambientato negli anni ottanta, in un piccolo paese di provincia della Corea del Sud, dove si indaga su una serie di omicidi di donne, ritrovate legate e strangolate con la loro stessa biancheria, uccise probabilmente dalla stessa mano. Il detective locale Park Doo-man (Song Kang-ho) e il collega Cho Yong-gu, sono più abituati a pestaggi e confessioni estorte che a vere indagini, e presto si rendono conto di trovarsi di fronte a qualcosa di più grande di loro. Da Seoul arriva il più metodico e razionale Seo Tae-yoon (Kim Sang-kyung), pronto a dare una mano nell'indagine, ma ben presto anche lui viene travolto dall’incapacità della polizia e dalla frustrazione dell’impotenza, finendo per adottare la stessa violenza dei colleghi pur di far confessare l'uomo che sospetta essere il serial killer.
Bong Joon-ho costruisce un thriller cupo e stratificato, in cui la tensione non deriva solo dalla caccia all'assassino, ma anche dall’incapacità delle istituzioni di far fronte all’orrore. La polizia di provincia, incapace di risolvere il caso, appare inadeguata, arruffona e, soprattutto, violenta. L’investigatore che arriva da Seoul, con l’aspettativa di mettere ordine, si rivela ugualmente impotente. Il regista coreano, piuttosto che concentrarsi sul serial killer e sulle ipotesi relative alla sua identità, preferisce compiere una profonda critica sociale — nel periodo storico in cui è ambientato il film la Corea del Sud si trovava sotto dittatura — esplorando le fragilità, ma anche la tenacia, dei suoi personaggi, sullo sfondo di una Corea deprimente e desolata, fatta di campi fangosi, baracche e locande fumose.
Il finale irrisolto di Memorie di un assassino probabilmente scontenterà il giallista più incallito, ma, dato che non siamo a Hollywood bensì in Corea, alla fine risulta non solo credibile, ma anche spiazzante.
Ottimo.

L'uccello dalle piume di cristallo
di Dario Argento
Dario Argento non ha bisogno di presentazioni tra gli amanti del cinema di genere, ma ogni leggenda ha un inizio, e per il regista romano tutto comincia con L'uccello dalle piume di cristallo. Siamo nel 1970, un momento in cui il giallo italiano cerca una nuova identità. Figlio del produttore cinematografico Salvatore Argento e della fotografa Elda Luxardo, celebre per i suoi ritratti di dive italiane, Dario cresce immerso nel mondo dello spettacolo e del cinema. Prima di approdare dietro la macchina da presa, si afferma come giovane critico e sceneggiatore, collaborando con Sergio Leone per il soggetto di "C’era una volta il West".
Quando scrive la sceneggiatura di L’uccello dalle piume di cristallo - ispirandosi al romanzo giallo "La statua che urla" di Fredric Brown - Dario Argento non immagina che sarà lui stesso a dirigere il film. Tuttavia, innamoratosi della storia decide di fare il grande passo e debuttare come regista. Grazie all’appoggio del padre, che si unisce al progetto come co-produttore, Argento riesce a presentare il soggetto a Goffredo Lombardo, storico produttore della Titanus. Lombardo, entusiasta, accetta la sfida e dà fiducia a un esordiente che di lì a poco avrebbe cambiato per sempre il panorama del thriller italiano.
Con uno stile che gioca sul confine tra realtà e illusione, L'uccello dalle piume di cristallo è molto più di un film d’esordio: è il manifesto di una poetica che mescola eleganza visiva, suspence chirurgica e un gusto estetico inconfondibile. Nonostante Dario Argento abbia sempre respinto l’idea di essere stato influenzato da Mario Bava, è difficile non riconoscere alcune somiglianze con i capolavori del maestro, come "La ragazza che sapeva troppo" e "Sei donne per l’assassino". Dettagli come l’assassino con i guanti neri, il colpo di scena del doppio colpevole e l’uso della soggettiva sembrano suggerire un debito stilistico. Tuttavia, il film di Argento non è un’imitazione, bensì una reinvenzione, spiazzando lo spettatore con un raffinato gioco di prospettive e indizi. È il punto zero di un regista destinato a lasciare un’impronta indelebile nella storia del cinema.
La storia vede come protagonista Sam Dalmas (Tony Musante), un giovane scrittore americano, che assiste a un tentativo di omicidio in una galleria d’arte. Inizialmente i sospetti cadono su di lui, ma quando l'assassino lo prende di mira cercandi di ucciderlo, lo scrittore si improvvisa detective per cercare di risolvere il mistero e fermare la scia di sangue che terrorizza la città.
Con la sfrontatezza dell’esordiente convinto del proprio talento, Dario Argento si getta a capofitto nel genere giallo e ne rivoluziona l'approccio, intrecciando virtuosismi tecnici e una cura maniacale per l’estetica. Il risultato è un film che, pur basandosi su idee e atmosfere preesistenti, non solo sorprende per l’originalità della regia, ma pone le basi per un nuovo linguaggio cinematografico, capace di elevare il thriller italiano a livello internazionale.
Fin dal suo debutto, Argento introduce gli elementi distintivi del suo cinema come l’uso del punto di vista in soggettiva, primi piani su occhi e volti, un’ossessione per i dettagli e per la fotografia, trame ambientate in luoghi astratti e senza tempo, tocchi di ironia, personaggi grotteschi, moventi legati a profondi traumi, e una cura quasi rituale nella messa in scena degli omicidi. La macchina da presa diventa un personaggio a sé, muovendosi con soggettive immersive, zoom arditi, panoramiche vertiginose e angolazioni audaci. A completare questa visione innovativa, la fotografia magistrale di Vittorio Storaro, le ottime scenografie di Dario Micheli e la straordinaria colonna sonora di Ennio Morricone, che sottolinea l'importanza dell'elemento musicale nell’opera di Argento.
Il pubblico accolse il film con entusiasmo, premiandolo con un incasso al botteghino straordinario. Il successo di L'uccello dalle piume di cristallo non solo diede il via alla celebre trilogia degli animali, ma ispirò anche una lunga scia di imitazioni, consacrando Argento come il nuovo maestro del brivido.
Film
Una sull'altra
di Lucio Fulci
Lucio Fulci, regista e sceneggiatore italiano, è stato una figura poliedrica del cinema, capace di attraversare con disinvoltura generi diversi. A partire dagli anni Sessanta, ha diretto oltre cinquanta film, spaziando dai musicarelli alla commedia demenziale — molti dei quali con protagonisti Franco e Ciccio — per poi consacrarsi come autore di culto nel giallo e nell’horror. Rivalutato nel tempo da critici e registi come Quentin Tarantino, Fulci ha firmato opere seminali come Non si sevizia un paperino, Zombi 2 e L’aldilà, lasciando un’impronta indelebile nella storia del cinema di genere.
Nel 1969, il regista romano segna il suo debutto nel giallo con Una sull’altra (conosciuto anche con il titolo internazionale di Perversion Story), realizzando, quasi interamente a San Francisco un film che anticipa molti dei temi e delle estetiche distintive del suo cinema futuro.
La vicenda ruota attorno a George Dumurrier (Jean Sorel), medico dalla moralità discutibile, che a seguito dell'improvvisa morte della moglie, eredita un milione di dollari grazie a una polizza assicurativa. Qualche giorno dopo, durante una serata in un night club con l'amante Jane (Elsa Martinelli), George incontra Monica Weston (Marisa Mell), una sensuale spogliarellista che sembra essere la perfetta sosia della defunta moglie. Nel frattempo la polizia sospetta che Dumurrier abbia orchestrato la morte della moglie per incassare l’ingente assicurazione. Mentre le prove contro di lui si accumulano, George si ritrova intrappolato in una spirale di sospetti, tradimenti e rivelazioni inaspettate.
La storia richiama in maniera abbastanza esplicita La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, ma Fulci ne rielabora i temi con un approccio personale, inserendo una carica morbosa ed erotica che rende il film più audace e trasgressivo. Lo striptease sulla moto e la scena lesbica tra le due attrici protagoniste, pur risultando meno espliciti di quanto il titolo internazionale lascerebbe immaginare, contribuirono a scandalizzare il pubblico dell’epoca, ancora poco abituato a scene dal contenuto così allusivo e sensuale. Al di là dell'erotismo come elemento narrativo, la regia di Fulci fa grande uso dei primissimi piani sugli occhi dei protagonisti, muovendosi tra zoom audaci e dettagli estetici che anticipano molte delle tecniche che il regista perfezionerà nei suoi horror. Nonostante alcune ingenuità narrative, una recitazione un pò da fotoromanzo e una colonna sonora jazz che ho trovato particolarmente invasiva e irritante, Una sull’Altra ha il merito di anticipare il nascente giallo all’italiana, ponendosi come un film significativo e audace, quantomeno per il suo tempo.
Film
La signora scompare
di Alfred Hitchcock
La signora scompare (The Lady Vanishes) è uno degli ultimi film di Alfred Hitchcock del periodo inglese. Una pellicola che mescola sapientemente giallo, spionaggio e commedia.
Basato sul romanzo "Il mistero della signora scomparsa" pubblicato nel 1936 da Ethel Lina White, il film si apre con un piano sequenza su un modellino in scala che riproduce un pittoresco paesino tra le montagne dell'Europa centrale. La cinepresa ci porta poi all'interno della sala d'attesa affollata di un albergo, dove si radunano i passeggeri di un treno diretto a Londra, costretti a una sosta forzata a causa del maltempo. In questo scenario, Hitchcock introduce una galleria di personaggi che spaziano dall’ereditiera inglese Iris Henderson (Margaret Lockwood), decisa a tornare a casa per il suo imminente matrimonio, al giovane e scanzonato clarinettista Gilbert Redman (Michael Redgrave), passando per una coppia di inglesi ossessionati dal cricket, un avvocato fedifrago in viaggio con l'amante, e un'anziana governante inglese in viaggio per l'Europa, Miss Froy. Il giorno dopo, quando il treno riprende finalmente la corsa, Iris stringe amicizia con Miss Froy. Tuttavia, dopo un improvviso malore, al suo risveglio scopre che l’anziana donna è misteriosamente scomparsa. Non solo, nessuno dei passeggeri sembra ricordare la presenza della signora a bordo. Determinata a scoprire la verità, Iris, supportata da Gilbert, si trova a dover sfidare l'incredulità generale e il crescente sospetto che qualcosa di più grande si nasconda dietro questa enigmatica sparizione.
Il film parte come una commedia per poi virare, nelle scene all'interno del treno, in un thriller carico di tensione e mistero. Il tutto però sempre dosato con una buona dose di humor e momenti di irresistibile leggerezza. L’unico cedimento è forse nella parte conclusiva, quando l’intrigo spionistico prende il sopravvento con una lunga sequenza d’azione che, pur avvincente, perde in eleganza rispetto alla costruzione serrata e meticolosa della prima parte.
Interessante la sottotrama dei due scapoli inglesi più interessati a conoscere il risultati del cricket che preoccuparsi dei venti di guerra che stavano soffiando sull’Europa. Una critica neanche troppo velata a una certa indifferenza tipicamente britannica verso le tensioni geopolitiche dell’epoca.

Sabotaggio
di Alfred Hitchcock
Sabotaggio è un film di Alfred Hitchcock del cosiddetto periodo inglese. Realizzato nel 1936 e ispirato al romanzo "L'agente segreto" di Joseph Conrad, il film rappresenta uno dei primi esperimenti del Maestro del Brivido nella costruzione di un thriller ad alta tensione. Negli Stati Uniti è stato distribuito con il nome "The Woman Alone".
La storia si svolge a Londra, dove Karl Verloc (Oskar Homolka), un uomo all'apparenza rispettabile, gestisce un piccolo cinema insieme alla moglie (Sylvia Sidney) e al giovane cognato, Stevie. In realtà, Verloc è un agente segreto al servizio di una potenza straniera, incaricato di organizzare attentati segreti senza che la moglie ne sospetti nulla. Sotto l'occhio vigile di Scotland Yard, un agente di polizia in incognito segue da vicino i movimenti di Verloc, nutrendo forti sospetti su di lui. Quando a Verloc viene affidata una nuova missione - far esplodere una bomba in un luogo strategico della città - l’uomo si trova impossibilitato a compiere l'azione di persona. Decide così di affidare il pacco esplosivo al giovane Stevie, il quale, ignaro del pericolo, si mette in cammino per le strade di Londra con la bomba nascosta nel pacco, inesorabilmente innescata e pronta a esplodere.
In "Sabotaggio" Hitchcock mette in mostra tutte le sue capacità nel creare tensione e nel giocare con le emozioni del pubblico, sviluppando una suspense quasi insostenibile per l'epoca. La scena in cui il ragazzo porta la bomba con sé, mentre il tempo scorre implacabile, non solo è realizzata in maniera magistrale ma risulta essere audace per la sua drammatica conclusione. Questa svolta lasciò il pubblico dell’epoca sconvolto e generò un'ondata di reazioni negative, al punto che Hitchcock stesso, in una celebre intervista con François Truffaut, confessò: "Ho commesso un grave errore: il ragazzino che porta la bomba... è diventato troppo simpatico al pubblico. E il pubblico non mi ha mai perdonato di averlo fatto morire."
Oltre per la bravura degli attori, il film si distingue per un finale decisamente controcorrente in cui il pubblico è portato a desiderare l'inevitabile tragedia come unica via di fuga per i protagonisti, in una crudele ironia che ribalta le aspettative del lieto fine.

Diabolik
di Mario Bava
Nel 1968 il produttore Dino De Laurentis affidò a Maria Bava il compito di dirigere un film su Diabolik, il personaggio dei fumetti creato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani cinque anni prima. Nonostante il considerevole budget rispetto a quello avuto a disposizione per gli altri suoi film, Bava, almeno inizialmente, non era particolarmente entusiasta di occuparsi di questo personaggio, ma alla fine, tra diverse difficoltà riuscì a realizzare una pellicola con un suo stile senza aver nemmeno speso tutti i soldi che De Laurentis gli aveva messo a disposizione.
La storia vede come protagonista Diabolik (John Phillip Law), genio criminale mascherato dotato di grande astuzia e abilità che insieme alla sua complice e amante Eva Kent (Marisa Mell), riesce a compiere degli audaci furti mettendo in ridicolo l'ispettore Ginko (Michel Piccoli) che cerca invano di catturarlo. In aiuto alle forze dell’ordine, Ginko fa un patto con il criminale Valmont (Adolfo Celi) che gli promette di consegnargli Diabolik in cambio di chiudere un occhio sui suoi traffici.
All'epoca il film non riscosse un grande successo di pubblico, anzi fu un vero e proprio flop, e la critica, sopratutto quella italiana, fu abbastanza dura (Tullio Kezich lo definì "uno dei film più stupidi degli anni Sessanta"). Costretto da De Laurentis ad abbandonare lo stile noir e sanguinoso del fumetto (lo era sopratutto nei primi albi di Diabolik), Bava, prende spunto dal Batman televisivo degli anni sessanta e come riferimento il movimento artistico della Pop Art di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, che proprio in quel periodo si stava affermando a livello mondiale, realizzando un film volutamente kitch dove Diabolik è un criminale alla 007 che ama il lusso sfrenato e le belle donne immerso in un mondo ricco di colori sgargianti e scenografie psichedeliche. A fronte di una sceneggiatura mediocre e ripetitiva e una caratterizzazione nulla dei personaggi, Bava dimostra una maestria straordinaria nell'uso degli effetti speciali e nella gestione delle scenografie. Un esempio su tutti è il rifugio sotterraneo di Diabolik che nella sua apparente grandezza è stato realizzato con un uso di specchi e un gioco di prospettive.
Menzione particolare alla colonna sonora di Ennio Morricone che si integra alla perfezione con l'atmosfera visiva creata da Bava.
Non si tratta del sua pellicola più riuscita, ma le atmosfere pop-psichedeliche e la sua estetica negli anni lo hanno reso un film di culto tra gli appassionati del genere.

Sei donne per l'assassino
di Mario Bava
Dopo lo scandaloso La frusta e il corpo, nel 1964 Mario Bava dirige il thriller Sei Donne per l'Assassino.
E' un film seminale che anticipa il cosidetto filone del giallo all'italiana - Dario Argento ne è debitore per i film che realizzerà nel decennio successivo - e che presenta per la prima volta l'immaginario di un serial killer in impermeabile scuro, guanti in pelle, e una maschera in spandex che cela il volto. Inoltre gli omicidi sono efferrati e, anche se il sangue è dosato, estremamente violenti.
La storia è ambientata in un atelier dove una modella viene strangolata da un misterioso assassino dal volto coperto e ritrovata poco dopo in un armadio dalla direttrice. Durante una sfilata, un altra modella ritrova per caso il diario dell'amica defunta che pare contenga rivelazioni compromettenti. Quando il diario viene rubato ha inizio una catena di omicidi, in cui altre modelle vengono uccise dallo stesso assassino.
Sebbene sia un giallo a tutti gli effetti con la polizia che indaga per scoprire chi sia l'assassino, la trama diventa quasi marginale, un pretesto per raccontare la decadenza dell'alta borghesia romana e permettere a Bava di mostrare le diverse tecniche con cui l'assassino uccide, in modo crudele, sadico e con un neanche troppo celato erotismo, le belle donne che qui vengono rappresentate come dei manichini di carne. Oggi, sessant'anni dopo, in un Italia in cui il fenomeno del femminicidio è molto presente, un film del genere non potrebbe mai uscire. All'epoca, a causa delle scene particolarmente violenti, ricevette il divieto ai minori di 18 anni.
Stilisticamente il film ha un montaggio, una composizione e una regia ineccepibile. La scenografia pop surrealista e sopratutto l'uso dei colori volutamente innaturali conferiscono alla pelliccola un atmosfera onirica e al tempo stesso inquietante. Già dai titoli di testa pare di vedere un fumetto pulp in movimento. E parlando di fumetti non posso evitare di accostare Sei donne per l'assassino al fumetto nero, genere che proprio nei primi anni sessanta in Italia aveva preso piede. Stiamo parlando di Diabolik (di cui Bava avrebbe fatto un adattamento un paio di anni più tardi) ma anche e sopratutto del Kriminal di Max Bunker (il cui primo numero uscì proprio nello stesso anno in cui uscì il film) con il quale l'assassino di Bava ha numerosi punti in comune.
Che altro dire, un film che pur non brillando per la sceneggiatura anticipa moda e genere cinematografico annoverandosi tra i cult movie di genere.
Film
Profondo Rosso
di Dario Argento
Tornato nelle sale in versione restaurata in 4K, ho potuto vedere per la prima volta al cinema uno dei più grandi e iconici film di Dario Argento, Profondo Rosso. Anno 1975.
La trama vede come protagonista Mark Daly (David Hemmings), un pianista jazz inglese, che mentre si trova in una piazza insieme a un suo amico, volgendo lo sguardo alla facciata del palazzo in cui abita, assiste all'omicidio di una donna che viene massacrata da qualcuno che le spinge la testa contro il vetro della finestra dalla quale stava chiedendo aiuto. La vittima è una medium che poche ore prima, durante una conferenza sul paranormale, aveva percepito tra gli spettatori in sala la presenza di un assassino. Mark si precipita all’interno dell’abitazione dove trova il corpo senza vita della donna dopo aver percorso un lungo corridoio pieno di quadri in cui vi sono raffigurati dei macabri volti (uno dei quali colpisce particolarmente la sua attenzione senza conoscerne il motivo). Insieme alla polizia giunge sul posto anche Gianna Brezzi (Daria Nicolodi), una frizzante e ambiziosa giornalista con la quale Mark stringe amizia. I due decidono di indagare per conto loro su chi sia il misterioso assassino che continua a compiere efferrati omicidi sulle note di un’infantile e terribile nenia.
Che dire di questo capolavoro dell'orrore e del cinema italiano?! Profondo rosso è un thriller scandito da una sequenza di omicidi che con la loro potenza visiva hanno segnato l'immaginario collettivo di una intera generazione. In questo film c'è molto Mario Bava (il grande ispiratore) ma c'è sopratutto un Dario Argento, qui all'apice della sua forma, che gira un thriller che fa paura come un horror, con delle scene violente per l'epoca disturbanti.
Ambientato in una città inesistente, sospesa e quasi onirica (in realtà il film è stato girato a Roma, Perugia e in gran parte a Torino), Dario Argento con l'aiuto dello scenografo Giuseppe Bassan ha fatto ricostruire il Blue Bar, il locale in cui si svolgono alcune sequenze del film, tale e quale ai Nottambuli, il celebre dipinto di Edward Hopper tanto che le comparse al suo interno sono quasi immobili come se fossero all'interno di un dipinto.
Mettendo da parte i vari omicidi (dall'annegamento nella vasca di acqua bollente all'iconica scena finale in cui la collana dell'assassino si impiglia nell'ascensore), sono tante le scene memorabili e, per l'epoca, particolarmente angoscianti. Mi viene in mente il manichino telecomandato (costruito da Carlo Rambaldi), l'inquietante bambina che uccide le lucertole, la villa abbandonata con il disegno nascosto dietro la parete, l'occhio dell'assassino che si cela nel buio. Un vero e proprio repertorio di tutte le paure inconsce e irrazionali dello spettatore dell'epoca concentrate in un unico film. Un film da incubo come mai si era visto prima.
Ci sarebbero dire tante altre cose ma non posso terminare la mia disanima senza menzionare la ormai mitica colonna sonora. Dario Argento era un appassionato di rock progressive, genere che proprio in quel periodo in Italia aveva raggiunto il suo apice. Non contento del risultato del compositore Giorgio Gaslini (in realtà avrebbe voluto i Deep Purple - da qui parte del titolo - e addirittura i Pink Floyd) Argento decise di affidare la musica al giovane gruppo dei Goblin di Claudio Simonetti che, avendo ricevuto come linee guida il Tubular Bells di Mike Oldfield (quello usato per l'Esorcista di qualche anno prima) confezionarono una delle colonne sonore horror più riuscite di sempre per uno dei film più paurosi del secolo scorso.
Erano i tempi in cui il cinema italiano faceva addirittura scuola.

La ragazza che sapeva troppo
di Mario Bava
La ragazza che sapeva troppo è un film del 1962 diretto da Mario Bava in cui il regista ligure si cimenta con il thriller anticipando di fatto il giallo all'italiana.
La storia racconta di una giovane ragazza americana appassionata di gialli, Nora Davis (interpretata da Leticia Roman) giunta a Roma per passare una vacanza ospite di una anziana signora. Durante la prima notte, la signora ha una crisi e muore. Sconvolta, Nora esce di casa in cerca di aiuto, ritrovandosi a vagare in una piazza di Spagna deserta, dove prima subisce uno scippo e poi assiste al brutale omicidio di una donna accoltellata alla schiena. Nora viene trovata la mattina dopo, priva di sensi, da un poliziotto che la porta in ospedale. Il cadavere è sparito e non c'è nessuna traccia dell'omicidio, così Nora non viene creduta. Fortunamente un giovane dottore (John Saxon) che Nora aveva già incontrato la notte prima dalla signora che la ospitava, gli da retta - anche perchè è palesemente attratto da lei - e insieme decidono di investigare sul misterioso omicidio.
Non ci vuole un genio per trovare in questo film, quanto meno a livello di sceneggiatura, le influenze di Alfred Hitchcock - che in questo periodo negli Stati Uniti stava spopolando con suoi capolavori - basta leggere il titolo che si rifà palesemente a L'uomo che sapeva troppo. Tralasciando la storia, la teatrale recitazione degli attori protagonisti e alcune bislacche trovate intente a smorzare la tensione, la forza in questo film sta tutta nella regia, la fotografia, il montaggio e nei tagli delle inquadrature di Mario Bava.
Girato in un bianco e nero, con ombre scure e luci taglienti, Bava da vita al genere del thriller all'italiana catturando una Roma notturna, affascinante e a tratti inquietante, che ha fatto da scuola per i film a venire. Tanto per citarne uno, sono scene che verranno riprese da Dario Argento una decina di anni più tardi nei film che lo hanno reso famoso.
Un film importante in quanto precursore del thriller all'italiana ma lo consiglio solo ai cultori del genere.
Ma davvero negli anni sessanta esistevano le sigarette alla marijuana?
Film