
Black Mirror (stagione 7)
Charlie Brooker
Black Mirror non solo è tornata, ma lo ha fatto nella sua forma migliore.
Dopo la deludente sesta stagione di un paio d’anni fa, la serie creata da Charlie Brooker torna su Netflix con sei nuovi episodi, dalla durata variabile (dai quaranta minuti all'ora e mezza), e soprattutto con un'identità ritrovata. La settima stagione abbandona le derive horror e soprannaturali degli ultimi tempi per riportare al centro la tecnologia, la società e i futuri possibili, sempre più vicini.
Il primo episodio, "Gente comune", è a mio avviso il più riuscito della stagione. La storia segue Amanda e Mike (Rashida Jones e Chris O'Dowd — sì, proprio il Roy di The IT Crowd), una coppia qualunque con il sogno di avere un figlio. Quando Amanda scopre di avere un tumore al cervello, la loro unica speranza è affidarsi a Rivermind, una compagnia in grado di rimuovere la parte malata e sostituirla con una porzione sintetica, la cui memoria è però collegata a un server remoto. L’operazione è gratuita, ma il canone mensile che la coppia è costretta a sottoscrivere si rivelerà invasivo, costoso e totalizzante. È una satira feroce contro la logica degli abbonamenti perpetui e l'illusione della gratuità. Un futuro opprimente, plausibile, angosciante nella sua verità.
"Bête Noire" è più leggero nel tono, ma non meno inquietante. Protagonista è una ricercatrice alimentare che lavora per un'azienda dolciaria e che si ritrova faccia a faccia con una sua ex compagna del liceo, appassionata di tecnologia, vittima di bullismo e oggi esperta di informatica quantistica. Ne nasce un thriller psicologico fatto di vendetta e manipolazione della memoria. È forse l’episodio più "fantascientifico" della stagione e anche uno dei più sorprendenti.
Con "Hotel Reverie", il tono cambia ancora. Una giovane attrice accetta di prendere parte a un remake immersivo di un film romantico anni ’40. La sua coscienza viene trasferita in una simulazione dove interagisce con repliche digitali dei personaggi dell'originale. Episodio elegante, malinconico, ma, a mio avviso, il meno incisivo.
"Plaything" è una piccola perla per gli appassionati di videogiochi. Peter Capaldi interpreta un critico videoludico che riceve una copia di Thronglets, un gioco simulativo con creature digitali in grado di evolversi e comunicare, in pratica un Tamagotchi portato all’estremo. Tra nostalgia anni ’90, acidi lisergici e riflessioni sull’intelligenza artificiale, l’episodio gioca (letteralmente) con l’etica del gioco e la responsabilità del giocatore.
"Eulogy" è l’episodio più emozionante. Paul Giamatti è Philip, un uomo sollecitato da una compagnia tech a contribuire a un memoriale digitale della sua ex compagna. Attraverso una tecnologia capace di rielaborare il lutto con un'intelligenza artificiale empatica, Philip affronta i suoi ricordi e scopre segreti nascosti. È un racconto struggente, dove la tecnologia non è più un mostro da temere, ma uno strumento per capire, per perdonare, per chiudere i conti con il passato.
Chiude la stagione "USS Callister: Into Infinity", primo vero sequel della serie, che riprende i personaggi dell’episodio cult della quarta stagione. L’equipaggio della USS Callister è ora un gruppo di pirati spaziali in fuga, in un universo virtuale che mescola avventura e satira sociale. È l’episodio più spettacolare, anche se meno profondo.
Non c’è più l’effetto sorpresa dei primi anni, ma Black Mirror dimostra di avere ancora molto da dire. Il ritorno all’origine, alla tecnologia come specchio oscuro dell’umanità, è evidente. Ci sono scelte discutibili, certo, e non tutti gli episodi sono allo stesso livello, ma il salto di qualità rispetto alla sesta stagione è notevole.
La serie torna a inquietare, ma con una malinconia nuova, fatta di silenzi, crepe e ferite emotive. Non è solo il futuro a spaventarci, ma le emozioni che abbiamo perso per strada. È meno futuristica, più umana. E proprio in questa fragilità ritrovata — penso a episodi come Eulogy — Black Mirror riscopre la sua anima.

La pelle di Satana
di Piers Haggard
La Pelle di Satana (The Blood on Satan’s Claw), diretto da Piers Haggard nel 1971, è un film inglese prodotto dalla Tigon che, pur con le sue ingenuità e un budget limitato, si è ritagliato un posto d’onore tra gli appassionati di folk horror. Stiamo parlando di un genere che, per chi non lo sapesse, mescola superstizioni, credenze e rituali arcaici legati alla natura e alle tradizioni popolari, che verrà definito un paio di anni più tardi nel più riuscito The Wicker Man di Robin Hardy.
Siamo in un remoto villaggio rurale dell’Inghilterra del XVIII secolo. Un contadino, mentre ara il campo, scopre un corpo con un braccio artigliato, appartenenti a qualcosa di decisamente poco umano. Quando mostra il ritrovamento al giudice del villaggio, i resti spariscono misteriosamente, ma da quel momento iniziano a verificarsi strani eventi. Gli abitanti del villaggio iniziano a sviluppare delle inquietanti macchie cutanee pelose, mentre altri si abbandonano a comportamenti sempre più disturbanti. La giovane Angel Blake (una Linda Hayden in stato di grazia, eterea e maledettamente seducente) emerge come la leader di una setta che, tra rituali pagani, sacrifici umani e un progressivo delirio collettivo, trascina il villaggio in un vortice di follia. Solo il giudice, interpretato con carisma da Patrick Wymark, cercherà di fermare il contagio diabolico prima che sia troppo tardi.
La Pelle di Satana è un horror imperfetto, che ha una sceneggiatura scricchiolante, sopratutto nella seconda parte, degli effetti speciali mediocri e un cast modesto. Dalla sua ha però ha una cura nel montaggio, una buona fotografia, e una ottima colonna sonora di Marc Wilkinson, anche se a volte troppo invadente. Nulla di imprescindibile dunque, ma per gli appassionati di folk horror gli ingredienti giusti non mancano. I paesaggi desolati, una buona ricostruzione storica, momenti disturbanti, come la sequenza dello stupro rituale e l’erotismo morboso che permea il personaggio di Angel Blake, censurato negli Stati Uniti per il nudo integrale di Linda Hayden. Non è paragonabile ai grandi classici dell'horror britannico, anche perchè siamo più in territorio B-movie, ma per chi ama il folk horror e le atmosfere malsane, resta un titolo da recuperare. Anche solo per vedere Linda Hayden mentre cerca di sedurre un prete con lo sguardo di chi ha già prenotato un biglietto per l’inferno.
Film
28 giorni dopo
di Danny Boyle
Rivedendo 28 giorni dopo, è impossibile non pensare alla pandemia che ha sconvolto il mondo pochi anni fa. Certo, il Covid-19 non ha trasformato le persone in furie omicide assetate di sangue, ma l’idea di un virus che si diffonde rapidamente, lasciando città deserte e un senso opprimente di isolamento, è diventata spaventosamente familiare.
Danny Boyle, talentuso regista inglese che con Trainspotting ha ridefinito il dramma generazionale, nel 2002 rivoluziona il cinema horror con 28 giorni dopo, un'apocalisse zombie (anche se, tecnicamente, non sono nemmeno zombie), che, ancora oggi, resta un punto di riferimento imprescindibile per gli amanti del cinema di genere.
Tutto ha inizio con un gruppo di animalisti che, nel tentativo di liberare alcuni scimpanzé da un laboratorio segreto, finiscono per scatenare l’inferno. Le cavie sono infatti infette da un virus altamente contagioso che trasforma chiunque venga esposto al loro sangue in una creatura furiosa e omicida. 28 giorni dopo, Jim (Cillian Murphy) si risveglia dal coma in un ospedale, ritrovandosi in una Londra deserta e abbandonata. La città è infestata da infetti, non morti viventi, ma esseri umani travolti da un’aggressività incontrollabile, trasformati in bestie assetate di violenza. Jim trova rifugio con la determinata Selena (Naomie Harris), il bonario Frank (Brendan Gleeson) e sua figlia Hannah (Megan Burns), con cui parte alla ricerca di una presunta salvezza in una base militare. Ma il vero orrore non si cela solo negli infetti, ma nella natura umana, che spinta al limite, può rivelarsi persino più spaventosa.
Scritto da Alex Garland – ed è sempre bene ricordare il contributo del futuro regista di Ex Machina e di altre perle della fantascienza contemporanea – 28 giorni dopo prende spunto dal romanzo Il giorno dei Trifidi di John Wyndham. Girato con un budget ridotto e una camera digitale sporca e traballante, Boyle costruisce un racconto dal taglio quasi documentaristico, sottolineando la fragilità della nostra civiltà, capace di sgretolarsi nel giro di poche settimane. Iconica la sequenza iniziale in cui Jim vaga per una Londra deserta – girata all’alba, quando la città era ancora addormentata – sulle note di East Hastings dei Godspeed You! Black Emperor. Perfetto Cillian Murphy nei panni del protagonista, inizialmente smarrito e vulnerabile, poi sempre più trasformato dalla brutalità del nuovo mondo.
Uno degli aspetti più rivoluzionari di 28 giorni dopo è la concezione stessa della minaccia. Niente zombie lenti e barcollanti: qui gli infetti sono veloci, feroci, implacabili. Non c’è scampo, non c’è tempo per riflettere. Bisogna correre o morire. Una scelta che ha ridefinito il cinema horror e influenzato profondamente il genere negli anni successivi. Ma il cuore del film non è solo un virus nato da esperimenti sugli animali, simbolo dell’arroganza umana nel voler dominare la natura senza comprenderne le conseguenze. La vera paura sta nel modo in cui, davanti al collasso della società, riemergono divisioni di classe, militarismo e patriarcato tossico. Il rifugio militare, che dovrebbe rappresentare la salvezza, diventa invece un incubo ancora più terrificante degli infetti.
Curiosità. Nel DVD (e facilmente reperibili su YouTube) si possono trovare alcuni finali alternativi. In uno, Jim muore per le ferite da arma da fuoco, in un altro l'epidemia è solo un incubo di Jim che si trova in coma, mentre in quello mai girato, ma storyboardato, Frank infettato non viene ucciso ma viene sottoposto a una trasfusione di sangue per essere salvato.
Nel 2007 è stato realizzato il sequel 28 settimane dopo, diretto da Juan Carlos Fresnadillo. A giugno 2025 è invece atteso 28 anni dopo, che riporterà insieme Danny Boyle e Alex Garland dopo oltre vent’anni, pronti a raccontare ancora una volta l'incubo dei sopravvissuti in un mondo devastato.

Terrore e terrore
di Gordon Hessler
Negli anni ’70, il cinema horror britannico cercava di reinventarsi, mescolando elementi tradizionali con nuove derive fantascientifiche e thriller. Terrore e terrore (Scream and Scream Again) è uno di questi tentativi, ma il risultato – diciamolo subito – non è proprio dei più riusciti.
Diretto da Gordon Hessler e tratto dal romanzo The Disorientated Man (1967), il film intreccia tre trame che sembrano viaggiare ognuna per conto proprio. A Londra, un uomo si risveglia in ospedale scoprendo, con orrore, di essere stato amputato. Nel frattempo, la polizia indaga su un serial killer che dissangua giovani donne. Altrove, in un regime totalitario non meglio identificato, un agente segreto elimina i suoi superiori con un inquietante tocco letale. Le indagini, guidate dal sovrintendente Bellaver (Alfred Marks), conducono al laboratorio del dottor Browning (Vincent Price), scienziato ossessionato dall’idea dell’uomo perfetto, che ha creato esseri artificiali per sostituire l’umanità.
L’idea di mescolare horror, poliziesco e fantapolitica poteva anche funzionare, ma qui tutto è dosato in modo confuso e approssimativo. La narrazione procede senza una vera direzione, le sequenze si dilatano oltre ogni ragionevolezza (su tutte, l’interminabile inseguimento di venti minuti) e il film, oltre che disordinato, a tratti diventa persino snervante.
La presenza in un unico film di Vincent Price, Christopher Lee e Peter Cushing – le tre leggende dell'horror britannico – in realtà è solo uno specchietto per le allodole in quanto solo il primo ha un ruolo di un certo rilievo, mentre Lee e Cushing appaiono brevemente e, peggio ancora, mai insieme. Un’occasione sprecata, proprio come il film stesso.
Film
Vampiri amanti
di Roy Ward Baker
Negli anni Settanta, la Hammer – leggendaria casa di produzione inglese specializzata in horror gotici – iniziava a mostrare i primi segni di cedimento. Il barocco decadente che aveva ridefinito l'immaginario del genere stava lasciando il passo a un cinema dell'orrore più esplicito, violento e trasgressivo. La Hammer, però, non aveva nessuna intenzione di arrendersi, e con astuzia, offrì al pubblico esattamente ciò che chiedeva. Vampiri amanti (The Vampire Lovers) è un horror spiccatamente erotico che segna un punto di svolta nella produzione della casa britannica. Per la prima volta abbiamo vampiri dichiaratamente lesbici, in un'operazione audace per l'epoca, che alza il tiro su nudi, seduzione e ambiguità sessuale, senza rinunciare all'eleganza formale e al fascino delle ambientazioni gotiche.
Vampire amanti è il primo capitolo della trilogia hammeriana ispirata a Carmilla – il famoso racconto di Sheridan Le Fanu – a cui seguiranno Mircalla, l’amante immortale e Le figlie di Dracula, entrambi realizzati l’anno successivo. Il film segue la figura enigmatica e seducente di Mircalla Karnstein (Ingrid Pitt), una vampira che si insinua nella vita di giovani fanciulle con sguardi ammalianti e un'insaziabile sete d'amore e sangue. La sua prima vittima è Laura, figlia del generale Spielsdorf (Peter Cushing), che soccombe lentamente al fascino oscuro della creatura. Ma la morte di Laura non è che l'inizio. Sotto una nuova identità, Mircalla riappare come Carmilla e punta il suo sguardo sulla dolce e ingenua Emma (Madeline Smith), trascinandola in un vortice di fascinazione e terrore.
Vampiri amanti è un film che, pur essendo commerciale, cerca di svecchiare il gotico vampiresco in un modo quasi autoriale, imprimendo nel genere una maggiore morbosità. Scene di nudo, generosi décolleté e allusioni esplicite alla sessualità lesbo senza però rinunciare ai classici elementi dell’horror hammeriano con cripte, castelli e decapitazioni rituali.
Ottimo cast, dove gli uomini, compreso Cushing, restano in secondo piano per lasciare spazio ad aggraziate fanciulle ambigue e seducenti, tra cui spicca Ingrid Pitt che interpreta una Carmilla magnetica e letale, e la verginale e decisamente più attraente – almeno per i miei gusti – Madeline Smith.
Cult imprescindibile dell’horror vampiresco, il film unisce eleganza e trasgressione, mantenendo ancora oggi il suo fascino ambiguo e decadente.
Film
Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde
Robert Louis Stevenson
Proseguendo il mio viaggio tra i classici della letteratura gotica, mi sono letto Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson. Non ho potuto fare a meno di riflettere su come doveva essere l’esperienza dei lettori dell'epoca, ignari di ciò che li attendeva in questa storia. Il romanzo di Stevenson è strutturato come un vero e proprio thriller, mantenendo fino alle ultime pagine il mistero sul rapporto tra Jekyll e Hyde.
Oggi, la vicenda del dottore che beve una pozione trasformandosi nella sua parte più malvagia è entrata a far parte del nostro immaginario collettivo grazie a innumerevoli adattamenti cinematografici, rappresentazioni teatrali e fumetti. Ma nel 1886, quando il libro venne pubblicato – riscuotendo un successo straordinario – nessuno poteva prevedere l'incredibile direzione che la storia avrebbe preso.
Ambientato in una Londra ottocentesca avvolta dalla nebbia, l’avvocato Utterson si trova coinvolto in una serie di eventi inquietanti legati al misterioso signor Edward Hyde, un uomo spregevole e violento. Hyde sembra avere un’inspiegabile influenza sul'amico Henry Jekyll, stimato e rispettabile medico e scienziato. Man mano che Utterson indaga, la verità che emerge è sconcertante: Jekyll e Hyde non sono solo collegati, ma sono due facce della stessa persona.
Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è una storia affascinante che anticipa il tema del doppio poi ripreso da Oscar Wilde ne "Il ritratto di Dorian Grey".
Il romanzo esplora il rapporto inscindibile tra bene e male nella natura umana. Jekyll, stimato medico londinese, è il simbolo della rispettabilità, ma reprime i suoi istinti per adattarsi ai rigidi standard della società vittoriana. Hyde, il suo alter ego abietto, rappresenta la liberazione di queste pulsioni, consentendo a Jekyll di vivere una doppia vita senza compromettere la sua reputazione.
Stevenson ci mette davanti a uno specchio: Jekyll e Hyde siamo noi. Jekyll incarna la maschera sociale, mentre Hyde è la nostra ombra, il puro male privo di freni morali. Questa dualità denuncia l’ipocrisia di una società perbenista, ricordandoci che il confine tra bene e male è più sottile di quanto vorremmo credere.
Lo stile del libro è estremamente scorrevole e avvincente. Non è una lettura impegnativa, bensì un libro abbastanza breve che ho letto in un paio di giorni.
Libri
Frankenstein
Mary Shelley
Alla riscoperta dei classici della letteratura gotica, ho finalmente deciso di leggere Frankenstein di Mary Shelley. Nonostante le innumerevoli trasposizioni cinematografiche abbiano reso il "mostro" un'icona della cultura popolare, il romanzo originale, che avevo nella mia libreria in diverse edizioni, era rimasto per anni inesplorato. Leggendolo, ho scoperto una storia profondamente diversa da quella raccontata sul grande schermo.
Mary Shelley (1797-1851) è una scrittrice britannica dalla vita intensa e affascinante. Per chi ama i film biografici, nel 2017 è stato realizzato un lungometraggio con Elle Fanning nel ruolo di Mary Shelley, che racconta i suoi amori e le sfide che hanno segnato la sua esistenza.
Figlia di due illustri intellettuali – il filosofo e politico William Godwin e la filosofa e femminista Mary Wollstonecraft, deceduta dieci giorni dopo il parto – Mary dimostrò fin da giovane una straordinaria intelligenza e immaginazione. A soli 16 anni, fuggì con il poeta Percy Bysshe Shelley, che sposò dopo la morte della prima moglie di lui. Nel 1816 il poeta Lord Byron, che aveva intrapreso una relazione con la sorellastra di Mary, Claire Clairmont, invita Mary e Percy a trascorrere un soggiorno nella sua villa di Ginevra, dove è ospite anche lo scrittore John William Polidori. A causa di un prolungato e anomalo maltempo che li costrinse a restare al chiuso per giorni, Byron propose ai suoi amici una sfida invitandoli a scrivere ciascuno una storia dell'orrore. Ispirata da un incubo, Mary iniziò a scrivere Frankenstein che però completò e pubblicò anonimamente solo nel 1818.
Frankenstein o il moderno Prometeo – è questo il titolo originale – prende spunto dalla figura mitologica greca che plasmò l'uomo dall'argilla e che, per aver restituito agli uomini il fuoco – simbolo del progresso tecnico-scientifico – venne condannato da Zeus a una punizione eterna. Il romanzo di Mary Shelley però è ben lontano dall’essere una condanna della scienza o un manifesto contro il progresso tecnologico. I riferimenti mitologici presenti nell'opera rimangono puramente metafore letterarie, utilizzate per arricchire la narrazione. Quella di Shelley è, prima di tutto, una storia di orrore e di profonda solitudine che nasce dal rifiuto e dall'incomprensione.
Strutturato come una sorta di diario che alterna due narratori, il romanzo racconta la storia di Victor Frankenstein, giovane e ambizioso scienziato ginevrino, che ossessionato a dare la vita alla materia inanimata, crea un essere umano fatto di pezzi di cadaveri. Quando la creatura prende vita, resosi conto di aver generato un mostro, Frankenstein fugge terrorizzato. Abbandonato dal suo creatore, il “mostro” vaga per il mondo, cercando accettazione e affetto, ma trova solo rifiuto e orrore. La creatura, ferita dalla crudeltà degli uomini e dalla solitudine, decide di vendicarsi del suo creatore, dando vita a una spirale tragica che si snoda tra ghiacciai, foreste oscure e tormenti interiori.
Conoscevo solo il Frankenstein del cinema, in cui il "mostro", fin dai primi film della Universal, è sempre stato raffigurato come una creatura sì dotata di forza straordinaria, ma anche goffa, rozza e priva di intelligenza. Il Frankenstein di Mary Shelley, invece, è curioso, assetato di conoscenza, dotato di una sensibilità profonda e di un forte desiderio di apprendere. Ciò che la creatura desidera più di ogni altra cosa è essere accettata, amata, trovare qualcuno con cui condividere il proprio mondo. La sua bontà è evidente, le sue intenzioni sono semplici e genuine. Desidera solo affetto e comprensione. Tuttavia, è proprio l'abbandono da parte del suo creatore e il rifiuto di un'umanità incapace di accettare la sua diversità a trasformarlo in un "mostro". La rabbia, il rancore e il desiderio di vendetta non sono altro che il risultato di questa profonda solitudine e del dolore che gli viene inflitto.
Un romanzo che si è rivelato tutt’altro che scontato, una lettura ricca di spunti e riflessioni.
Libri
La signora scompare
di Alfred Hitchcock
La signora scompare (The Lady Vanishes) è uno degli ultimi film di Alfred Hitchcock del periodo inglese. Una pellicola che mescola sapientemente giallo, spionaggio e commedia.
Basato sul romanzo "Il mistero della signora scomparsa" pubblicato nel 1936 da Ethel Lina White, il film si apre con un piano sequenza su un modellino in scala che riproduce un pittoresco paesino tra le montagne dell'Europa centrale. La cinepresa ci porta poi all'interno della sala d'attesa affollata di un albergo, dove si radunano i passeggeri di un treno diretto a Londra, costretti a una sosta forzata a causa del maltempo. In questo scenario, Hitchcock introduce una galleria di personaggi che spaziano dall’ereditiera inglese Iris Henderson (Margaret Lockwood), decisa a tornare a casa per il suo imminente matrimonio, al giovane e scanzonato clarinettista Gilbert Redman (Michael Redgrave), passando per una coppia di inglesi ossessionati dal cricket, un avvocato fedifrago in viaggio con l'amante, e un'anziana governante inglese in viaggio per l'Europa, Miss Froy. Il giorno dopo, quando il treno riprende finalmente la corsa, Iris stringe amicizia con Miss Froy. Tuttavia, dopo un improvviso malore, al suo risveglio scopre che l’anziana donna è misteriosamente scomparsa. Non solo, nessuno dei passeggeri sembra ricordare la presenza della signora a bordo. Determinata a scoprire la verità, Iris, supportata da Gilbert, si trova a dover sfidare l'incredulità generale e il crescente sospetto che qualcosa di più grande si nasconda dietro questa enigmatica sparizione.
Il film parte come una commedia per poi virare, nelle scene all'interno del treno, in un thriller carico di tensione e mistero. Il tutto però sempre dosato con una buona dose di humor e momenti di irresistibile leggerezza. L’unico cedimento è forse nella parte conclusiva, quando l’intrigo spionistico prende il sopravvento con una lunga sequenza d’azione che, pur avvincente, perde in eleganza rispetto alla costruzione serrata e meticolosa della prima parte.
Interessante la sottotrama dei due scapoli inglesi più interessati a conoscere il risultati del cricket che preoccuparsi dei venti di guerra che stavano soffiando sull’Europa. Una critica neanche troppo velata a una certa indifferenza tipicamente britannica verso le tensioni geopolitiche dell’epoca.

Stopmotion
di Robert Morgan
L'inglese Robert Morgan è un animatore in stopmotion noto per i suoi cortometraggi oscuri e profondamente inquietanti. Alcuni dei suoi lavori più interessanti sono The Cat with Hands, Bobby Yeah e The Separation che denotano il suo gusto per il macabro, l'orrore e le atmosfere disturbanti e surreali.
Nel 2023 Morgan compie il grande passo è realizza il suo primo lungometraggio, Stopmotion, un horror psicologico che mescola live action e animazione. Il film è stato presentato alla 24ª edizione del ToHorror Fantastic Film Fest di Torino ed è, al momento, ancora inedito in Italia.
La storia ha come protagonista Ella (Aisling Franciosi), una giovane animatrice in stopmotion, che sta aiutando la madre, una vera leggenda in questo campo, a realizzare il suo ultimo film. Il rapporto tra le due è tutt’altro che idilliaco. La madre, affetta da una grave artrite alle mani, utilizza la figlia per muovere i pupazzi, rimproverandola severamente a ogni suo errore. Ella, frustrata e intrappolata, sogna di creare qualcosa di proprio, ma è paralizzata dalla mancanza di una visione chiara e dalla pressione materna. Quando la madre viene colpita da un ictus e successivamente muore, Ella si trasferisce in un appartamento isolato per completare il progetto incompiuto e trovare finalmente la propria voce artistica. La sua solitudine viene presto interrotta dall'arrivo di una misteriosa bambina, che critica il lavoro di Ella e le suggerisce di abbandonare il film della madre per dedicarsi a una nuova storia: quella di una ragazzina perduta nei boschi, perseguitata da un'entità malvagia conosciuta come Ash Man. Influenzata dalla bambina, Ella comincia a creare pupazzi fatti di carne cruda e carcasse di animali, sprofondando lentamente in un incubo psicologico dove le sue creazioni sembrano prendere vita, e lei stessa diventa vittima delle sue ossessioni e delle sue allucinazioni.
Il film di Robert Morgan esplora la dinamica dell'artista tormentato che scivola nella follia, spinto da un'ossessione inarrestabile per la propria arte. E' un tema caro al cinema horror, rivisitato questa volta attraverso il filtro del laborioso mondo dell'animazione in stop motion.
Le sequenze animate, realizzate con pupazzi fatti di materiali disturbanti e arricchite da un sound design appiccicoso e viscerale, sono il punto forte del film, suscitando un mix di fascino e disgusto. Tolte queste, il film si perde in una sceneggiatura che soffre di prevedibilità e si appoggia a cliché come l’artista instabile, il trauma ereditato e il confine sfocato tra realtà e fantasia. La figura della bambina misteriosa, che dovrebbe aggiungere ambiguità, risulta troppo prevedibile, e il crollo psicologico di Ella, che si ritrova persa, incapace di definire se stessa o la propria arte, quando i fili che la tenevano sotto il controllo della madre manipolatrice vengono tagliati, non viene esplorato con la profondità necessaria.
Pur visivamente audace, il film manca di coesione narrativa e fatica a bilanciare le sue immagini potenti con una storia che lasci il segno. E' un film che colpirà gli amanti dell'animazione e del gore, ma che probabilmente lascerà delusi coloro che cercano un racconto più incisivo e originale.

La macchina del tempo
H.G. Wells
Affascinato dalle copertine di Antonello Silverini realizzate per la collana Piccola biblioteca del fantastico edita da Fanucci, ho acquistato quattro romanzi di H.G. Wells, uno dei più importanti scrittori di fantascienza, che ha ispirato generazioni di autori e registi.
Ho iniziato con La macchina del tempo, il primo romanzo di Wells, pubblicato nel 1895.
In un’epoca in cui il progresso tecnologico avanzava rapidamente e la società iniziava a interrogarsi sulle infinite possibilità aperte dalle nuove scoperte, Wells immagina uno scienziato, il cui nome rimane anonimo, che costruisce una macchina capace di viaggiare nel tempo. La sua prima avventura lo porta oltre l’anno 800.000, dove, invece di trovare una società avanzata, scopre un mondo abitato da due razze umane: gli Eloi, esseri fragili e delicati che vivono in superficie, immersi in una vita apparentemente idilliaca ma priva di significato, e i Morlock, creature inquietanti e primitive che abitano nel sottosuolo, brutali ma dotati di una forza che manca agli Eloi. Questa divisione tra Eloi e Morlock non è casuale: Wells la utilizza per costruire una critica arguta alla società del suo tempo. Gli Eloi rappresentano la classe nobiliare decadente, mentre i Morlock incarnano la classe operaia, sfruttata al punto da essere diventata mostruosa e vendicativa verso i suoi antichi padroni.
Questo scenario distopico suggerisce una visione di involuzione dell’umanità piuttosto che di progresso, e la narrazione si fa ancora più inquietante quando il Viaggiatore si spinge ancora più avanti, verso un futuro in cui la vita sulla Terra è praticamente estinta e il pianeta è ridotto a un paesaggio desolato e ostile. Questa visione cupa del futuro estremo chiude perfettamente il messaggio di Wells, che invita i lettori a riflettere sui rischi del progresso incontrollato, sulle implicazioni etiche delle scelte umane e sul destino dell’umanità stessa. La macchina del tempo, da semplice invenzione scientifica, si trasforma in uno strumento per esplorare paure e inquietudini, incubi e dilemmi eterni dell’essere umano.
Nonostante sia stato scritto più di un secolo fa, La macchina del tempo non solo introduce il concetto di viaggio temporale, ispirando opere di letteratura e cinema, ma si rivela ancora attualissimo, un’opera fondamentale per chiunque ami la fantascienza.
Libri
Sabotaggio
di Alfred Hitchcock
Sabotaggio è un film di Alfred Hitchcock del cosiddetto periodo inglese. Realizzato nel 1936 e ispirato al romanzo "L'agente segreto" di Joseph Conrad, il film rappresenta uno dei primi esperimenti del Maestro del Brivido nella costruzione di un thriller ad alta tensione. Negli Stati Uniti è stato distribuito con il nome "The Woman Alone".
La storia si svolge a Londra, dove Karl Verloc (Oskar Homolka), un uomo all'apparenza rispettabile, gestisce un piccolo cinema insieme alla moglie (Sylvia Sidney) e al giovane cognato, Stevie. In realtà, Verloc è un agente segreto al servizio di una potenza straniera, incaricato di organizzare attentati segreti senza che la moglie ne sospetti nulla. Sotto l'occhio vigile di Scotland Yard, un agente di polizia in incognito segue da vicino i movimenti di Verloc, nutrendo forti sospetti su di lui. Quando a Verloc viene affidata una nuova missione - far esplodere una bomba in un luogo strategico della città - l’uomo si trova impossibilitato a compiere l'azione di persona. Decide così di affidare il pacco esplosivo al giovane Stevie, il quale, ignaro del pericolo, si mette in cammino per le strade di Londra con la bomba nascosta nel pacco, inesorabilmente innescata e pronta a esplodere.
In "Sabotaggio" Hitchcock mette in mostra tutte le sue capacità nel creare tensione e nel giocare con le emozioni del pubblico, sviluppando una suspense quasi insostenibile per l'epoca. La scena in cui il ragazzo porta la bomba con sé, mentre il tempo scorre implacabile, non solo è realizzata in maniera magistrale ma risulta essere audace per la sua drammatica conclusione. Questa svolta lasciò il pubblico dell’epoca sconvolto e generò un'ondata di reazioni negative, al punto che Hitchcock stesso, in una celebre intervista con François Truffaut, confessò: "Ho commesso un grave errore: il ragazzino che porta la bomba... è diventato troppo simpatico al pubblico. E il pubblico non mi ha mai perdonato di averlo fatto morire."
Oltre per la bravura degli attori, il film si distingue per un finale decisamente controcorrente in cui il pubblico è portato a desiderare l'inevitabile tragedia come unica via di fuga per i protagonisti, in una crudele ironia che ribalta le aspettative del lieto fine.

The Cure
Songs of a Lost World
Sono cresciuto con i Cure, la band che più di ogni altra ha segnato la mia formazione musicale. Li ho visti dal vivo numerose volte, e ogni concerto è stato un'esperienza indimenticabile. Tuttavia, il mio entusiasmo per Robert Smith e compagni si è affievolito dopo Wish, con gli album successivi che mi hanno lasciato piuttosto indifferente, per usare un eufemismo. Trent'anni senza una nuova canzone dei Cure capace di riaccendere la scintilla (l'ultima è stata From the Edge of the Deep Green Sea) sono davvero tanti. É una generazione.
Del nuovo album si parlava ormai da anni, e i continui rinvii lo avevano trasformato quasi in un oggetto misterioso. Alla fine, però, dopo sedici anni dall'ultimo lavoro in studio, è arrivato Songs of a Lost World, preceduto da due brani usciti il mese scorso. Molti dei brani presenti nell'album sono stati suonati dal vivo durante il recente tour dei Cure ed essendo stati pubblicati su YouTube i fans più accaniti hanno potuto farsi una idea di quale sarebbe stato il "mood" di questo tanto atteso album.
Il disco si apre con "Alone", una potente ballata che affronta la mortalità. Ecco, questi sono i miei Cure, quelli che riconosco e che non ascoltavo da tempo. Tutto è condensato in otto minuti, con un intro lunghissmo ed emozionante che sfocia con la voce di Robert Smith che canta l'angoscia di sapere che giovinezza e innocenza sono irrimediabilmente perdute. Il miglior brano dell'album così come il loro pezzo migliore degli ultimi trent'anni. (Sì, lo so qualcuno potrà dire ci voleva poco). Il secondo brano, "And Nothing is Forever", parte con un'atmosfera più melodica con pianoforte e archi, per poi esplodere in tutta la sua potenza. Forse un pò stucchevole. "A Fragile Thing" è il secondo singolo ed probabilmente il pezzo più leggero dell'album, anche se molto lontano dai classici brani pop dei Cure del passato. In "Warsong" Smith affronta il tema degli attuali conflitti del mondo in un brano che con quelle chitarre distorte, feedback e organo in apertura mi ha riportato indietro a Disintegration. "Drone: No Drone" è il pezzo più rock del disco, ma francamente a un primo ascolto mi dice ben poco. Il dolore personale di Smith emerge in "I Can Never Say Goodbye" un tributo straziante al fratello scomparso, Richard. Un pianoforte a scandire la linea melodica, stessa batteria secca di "Alone", ma con una composizione meno convincente. "All I Ever Am" ha un ritmo vivace e la chitarra classica di Smith in un brano che, nel complesso, risulta piacevole. L'album si chiude con "End Song", un trascinante brano di oltre dieci minuti, in cui la batteria scandisce ipnoticamente ogni battuta, culminando in un crescendo polifonico di chitarre distorte. Insieme a "Alone", è il brano più emozionante e coinvolgente dell’intero disco.
Queste sono le mie impressioni a caldo dopo un paio di ascolti, anche se molti pezzi li avevo già assimilati nelle versioni live. È un album cupo e solenne, dove il tema della morte ricorre in ogni traccia. Scritto in un periodo difficile per Smith, segnato dalla perdita dei genitori e del fratello maggiore, Songs of a Lost World è un disco che guarda al passato e che probabilmente non aggiunge nulla di nuovo a quanto i Cure hanno già fatto nei loro momenti migliori. Ma tra i tanti gruppetti che oggi popolano il sottobosco dark underground, loro rimangono gli originali e i migliori. E poi, nonostante l’aspetto segnato e il rossetto sbavato, ormai quasi una caricatura del personaggio che fu, la voce di Robert Smith è rimasta praticamente immutata.
Musica
The Substance
di Coralie Fargeat
Mi sono visto al cinema The Substance, il body horror diretto da Coralie Fargeat, recentemente premiato per la miglior sceneggiatura a Cannes.
Elizabeth Sparkle (Demi Moore) è una ex diva di Hollywood che conduce da anni un programma di fitness in televisione. Quando il giorno del suo cinquantesimo compleanno viene licenziata, perchè il viscido produttore (Dennis Quaid) vuole sostituirla con una ragazza più giovane, Elizabeth decide di aderire a un programma sperimentale chiamato The Substance, che gli promette di tornare ad essere "giovane, bella e perfetta". Ottenuto il kit con le dosi, le siringhe, e le relative istruzioni, la donna si inietta quello che viene chiamato l'attivatore, generando dal suo corpo, che si lacera aprendosi sulla schiena, un suo clone, un’altra sé stessa giovane e bellissima (Margaret Qualley). A questo punto, per far sì che tutto funzioni correttamente, la matrice e il clone devono seguire alla lettera la procedura. Mentre un corpo vive, l’altro rimane dormiente alternandosi ogni sette giorni. Nella settimana di attività il clone deve alimentare Elisabeth con un particolare nutriente, iniettandosi quotidianamente una sostanza prelevata e prodotta dal corpo originale. Ovviamente il clone, che si fa chiamare Sue, ottiene il posto che era di Elisabeth incantando il produttore con la sua bellezza e riscuotendo subito un enorme successo di pubblico. Per un po’ Elizabeth e Sue vivono a settimane alterne seguendo scupolosamente il ciclo alternato, ma quando Sue, inebriata dal successo, decide di "restare in attività" più del dovuto, prosciuga eccessivamente la linfa vitale di Elizabeth, che al suo risveglio si ritrova invecchiata e deteriorata irreversibilmente. Diventata vittima del suo doppio e della sua avvenenza, Elisabeth precipita in una lotta disperata e autodistruttiva, in un conflitto di convivenza che si trascina in maniera feroce ed esasperata fino a un finale parossistico.
Coralie Fargeat porta sullo schermo una cruda allegoria della società moderna e della sua ossessione per la giovinezza e la bellezza ai tempi di Instagram e Tik Tok, in un body horror estremo che richiama molto Cronenberg e il "Society" di Brian Yuzna. Girato a tratti con lenti deformanti, inquadrature ravvicinate e un montaggio compulsivo trainato da musica elettronica che mi ha ricordato l'estetica di "Requiem for a Dream" di Aronofsky, "The Substance" è un film grottesco, fortemente caricaturale ed esasperato che a tratti sembra sprofondare nella parodia. Il finale del film è un tripudio splatter che può provocare disgusto e disagio, in coloro che si aspettavano un approccio più psicologico e profondo al tema, o al contrario esaltare chi si diverte a guardare mutazioni e deformazione del corpo con tanto di schizzi di sangue a profusione.
Soprassedendo su alcune ingenuità nella trama - come il clone che realizza un lavoro murario a regola d'arte, o la protagonista diventata vecchia, prima bloccata dall’artrite e poi in grado di correre per le scale - il film, preso per quello che è, ovvero una caricatura estremizzata della "cultura" che celebra l’immagine giovanile come unico valore di successo, è comunque riuscito. Anche se il messaggio rischia di perdersi nella messa in scena volutamente eccessiva, "The Substance" si fa apprezzare per il coraggio con cui punta lo sguardo su un'ossessione contemporanea senza mezze misure.
A mio parere il miglior horror del 2024.
Film
Il club dei 39
di Alfred Hitchcock
Il club dei 39 è uno dei film più noti del periodo inglese di Alfred Hitchcock, un classico thriller spionistico che unisce suspense, azione e ironia.
La storia vede protagonista Richard Hannay (Robert Donat), un uomo comune che si ritrova suo malgrado coinvolto in un intrigo di spionaggio internazionale. Dopo l'incontro con una misteriosa donna, Annabella, che viene assassinata nel suo appartamento, Hannay si ritrova a dover fuggire dalla polizia e dai veri colpevoli che lo vogliono eliminare. Durante la fuga Hannay incontra una donna (Madeleine Carroll), che inizialmente non crede alla sua storia e lo vede solo come un fuggitivo. Tra una serie di circostanze, malintesi e battibecchi, i due si ritrovano insieme a dover smascherare un'organizzazione spionistica segreta chiamata "Il club dei 39", in un crescendo di colpi di scena e inseguimenti.
In questo film possiamo già riconoscere una delle tematiche chiave del cinema di Hitchcock, quella dell’innocente in fuga coinvolto in un complotto spionistico, un elemento che il regista svilupperà e affinerà nei suoi futuri capolavori. Hitchcock dimostra già la sua abilità di saper dosare perfettamente la tensione con una buona dose di umorismo. La chimica tra Robert Donat e Madeleine Carroll è vivace e in qualche modo sensuale e i loro scambi frizzanti non solo introducono un tocco di leggerezza nel film, ma mettono anche in luce l'ironia distintiva del regista inglese.
Qualche ingenuità nella trama ma film abbastanza godibile.

Hellbound - Hellraiser II
di Tony Randel
"Hellbound: Hellraiser II" (in Italia è stato aggiunto il sottotitolo "Prigionieri dell'Inferno") è il seguito del capolavoro horror "Hellraiser" di Clive Barker. Uscito nel 1988 tra mille difficoltà produttive, il film, diretto da Tony Randel e scritto da Barker insieme a Peter Atkins, riparte esattamente da dove il primo film si era interrotto, ampliando il terrificante universo dei Cenobiti e spingendo ulteriormente i limiti del macabro.
Kirsty Cotton (Ashley Laurence), sconvolta dagli eventi del primo film, si ritrova ricoverata in un ospedale psichiatrico sotto le cure del dottor Channard (Kenneth Cranham). La ragazza cerca di convincere i medici dell’esistenza dei Cenobiti e della loro dimensione infernale ma si scontra con la loro apparente diffidenza e incredulità. In realtà scopriamo che Channard è un chirurgo sadico ossessionato dal mondo dei Cenobiti, che, dopo aver riportato in vita Julia (Clare Higgins), utilizza Tiffany (Imogen Boorman), una bambina esperta nel risolvere enigmi, per aprire un varco verso la dimensione infernale, trascinando Kirsty e Tiffany in un mondo di terrore estremo e indicibile.
"Hellbound" è un’opera coraggiosa, disturbante e visionaria. Degno seguito del suo predecessore, il film ha il merito di distinguersi esplorando nuovi territori sia narrativi che visivi. Pur mantenendo gli elementi splatter e gore che avevano caratterizzato il primo film di Barker, in "Hellbound" la componente sessuale si attenua, spostandosi nella seconda parte verso un fantasy onirico e delirante - a metà strada tra Labyrinth e gli incubi di Nightmare - per rappresentare la dimensione infernale dei Cenobiti. Un luogo di perversione rappresentato come un labirinto di strapiombi geometrici e deliri architettonici ispirati alle opere di Escher, dove realtà e incubo si fondono in un’esplosione disturbante ma al tempo stesso affascinante.
Quando ho visto per la prima volta questo film, probabilmente di notte su Rai 3, ne rimasi sconvolto per la sua potenza visionaria. Rivedendolo oggi purtroppo escono fuori tutti i limiti di una regia poco convincente e di una sceneggiatura confusionaria. Nonostante tutto per me questo film continua a esercitare un fascino oscuro, capace di catturare e inquietare come poche altre opere del genere.

Hellraiser
di Clive Barker
"Hellraiser", diretto da Clive Barker e uscito nel 1987, è un cult movie che ha segnato profondamente il genere horror e ha dato vita a una lunga saga cinematografica composta, ad oggi, da dieci film - dalla parabola qualitativa alquanto discendente - più il recente reboot del 2022. Tratto dal racconto breve "The Hellbound Heart" (tradotto in Italia come "Schiavi dell'Inferno") scritto dallo stesso Barker, il film si distingue per la sua visione originale e inquietante dell'orrore, discostandosi nettamente dagli stereotipi del genere slasher che dominavano l’epoca.
Scrittore, illustratore e artista poliedrico, l’inglese Clive Barker, ancora prima dell’uscita di “Hellraiser”, era già un nome abbastanza noto nella letteratura horror di quel periodo grazie alla pubblicazione dei Libri di Sangue (Books of Blood), una raccolta di racconti usciti tra il 1984 e il 1985 che avevano catturato l’attenzione di autori come Stephen King, David Cronenberg e James G. Ballard. Nel mondo cinematografico, Barker aveva già avuto qualche esperienza firmando le sceneggiature di "Underworld" e "Rawhead Rex" entrambi diretti da George Pavlou. Tuttavia, insoddisfatto del modo in cui erano stati realizzati, Barker decise di mettersi dietro la macchina da presa per la prima volta con "Hellraiser" determinato a esplorare senza compromessi i temi oscuri e le atmosfere macabre che contraddistinguono il suo lavoro. Ottenuto un contratto con la New World Pictures di Roger Corman, il produttore Christopher Figg mise a disposizione di Barker un budget ridotto, circa un milione di dollari, costringendo il regista e il suo team a essere estremamente creativi nella gestione delle risorse. Nonostante queste limitazioni finanziarie, Barker riuscì a sfruttare al massimo ogni dollaro, utilizzando effetti speciali pratici, girando il film all'interno di una vera casa per mantenere i costi bassi, e affidandosi a un cast di attori principalmente sconosciuti, ma di talento. Pur dovendo affrontare restrizioni imposte dalla censura, "Hellraiser" fu un successo, guadagnando oltre 14 milioni di dollari al botteghino solo negli Stati Uniti.
"Hellraiser" racconta la storia di Frank Cotton, un uomo che, spinto dalla ricerca di esperienze estreme e proibite, entra in possesso della scatola di Lemarchand, un misterioso cubo rompicapo che promette di aprire le porte a piaceri ultraterreni. Convinto di poter accedere a un nuovo regno di sensazioni, Frank risolve il puzzle, ma invece di trovare il piacere che cercava, evoca i Cenobiti (nel film vengo tradotti in Supplizianti), creature demoniache dal look sadomaso che percepiscono il piacere come una forma di tortura estrema. Condannato a un'eternità di sofferenza, Frank viene smembrato e trascinato in una dimensione infernale.
Qualche tempo più tardi, Larry, il fratello di Frank, e sua moglie Julia (Clare Higgins) si trasferiscono nella vecchia casa di famiglia. Durante il trasloco Larry si ferisce alla mano e il sangue cola sul pavimento della soffitta, proprio nel luogo dove suo fratello ha compiuto il rituale prima di scomparire. Questo evento avvia il processo di rigenerazione del corpo di Frank, il quale, all'insaputa del fratello, ha avuto in passato una relazione con sua moglie. Quando Julia scopre che il suo ex amante è ancora vivo, ma fisicamente incompleto, la donna, ancora innamorata di lui, decide di aiutarlo procurandogli il sangue delle vittime che lei stessa attira, sperando di riportarlo alla sua condizione normale e tornare tra le sue braccia. Kirsty (interpretata da Ashley Laurence), che nel racconto è un'amica di Julia mentre nel film diventa la figlia di Larry avuta dalla sua prima moglie, inizia a sospettare dello strano comportamento della sua matrigna. Penetrata all'interno della casa, Kirsty scopre accidentalmente l'orribile segreto nascosto nella soffitta ed entra in possesso della scatola di Lemarchand ritrovandosi a dover affrontare i Cenobiti per salvare se stessa e porre fine al malvagio piano di Frank.
Il film è una viscerale e provocatoria discesa nell'immaginario infernale, popolato da incubi opprimenti, creature demoniache, e fantasie sadomaso. I temi del sesso e della morte si intrecciano in modo indissolubile, esplorando i confini estremi del piacere e del dolore, e sfidando le convenzioni sociali e morali dell’epoca. Affascinato dalla cultura BDSM e influenzato dalla scena industrial degli anni Ottanta, Clive Barker (che solo negli anni successivi farà pubblicamente coming out pur non avendo mai nascosto i suoi gusti sessuali), affronta il tema della sessualità deviata, della perversione e del dolore attraverso un’estetica audace e provocatoria in cui il confine tra piacere e sofferenza diventa davvero labile. I Cenobiti, con le loro catene, spilli e vestiti in lattice, riprendono l'estetica fetish, sadomasochista e bondage, incarnando un’interpretazione disturbante del piacere estremo. Le loro mutilazioni auto-inflitte e i dettagli anatomici grotteschi riflettono un’ossessione per la trasgressione fisica, trasformando il corpo in un terreno di esplorazione e tortura. Personalmente, il Cenobita che mi ha sempre disturbato è quello con il viso deformato e la bocca spalancata da ganci, che batte ripetutamente i denti. È stato un vero incubo della mia adolescenza. Tuttavia, è Pinhead, il Cenobita con gli spilli in faccia interpretato da Doug Bradley, a diventare, sopratutto con i successivi film, una vera e propria icona del cinema horror, alla pari di Freddy Krueger, Jason Voorhees e Leatherface. Pinhead (viene nominato così solo nei sequel successivi) non è un semplice mostro, ma una sorta di demone infernale privo di emozioni umane, che insieme agli altri Cenobiti infligge punizioni eterne a chiunque osi evocarlo. In "Hellraiser" e nel racconto originale, la sua presenza è sullo stesso piano degli altri demoni, ma a partire dal secondo film, diventerà il principale villain della saga.
Nel film diretto da Barker, in realtà il vero "mostro" è Julia, una donna infedele e sessualmente insoddisfatta disposta a tutto, persino uccidere, pur di riportare in vita il suo amante e rivivere la passione travolgente del passato. Julia incarna il lato oscuro del desiderio umano, mostrando come un amore malato e il desiderio di soddisfare i propri impulsi possa degenerare in ossessione, sangue e morte.
Riguardo gli effetti speciali, tralasciando quelli di postproduzione che sembrano posticci e fastidiosi, gli effetti pratici e il makeup di Bob Keen risultano ancora oggi molto validi. La scena della rinascita e ricomposizione del corpo di Frank, con tutta la sua gelatinosa gommosità, rimane una delle sequenze più memomorabili.
In conclusione, "Hellraiser" è un classico del genere horror che merita il suo posto d'onore per l'originalità, la forza visiva e l'influenza duratura che ha avuto sul cinema horror. Una delle opere più innovative e disturbanti del cinema degli anni ottanta.
Prima di concludere un aneddoto riguardo la colonna sonora. Barker saltuariamente frequentava il Forbidden Planet di Londra, all'epoca ancora un piccolo negozio dove si potevano trovare fumetti pulp, horror e roba indipendente. Uno dei clienti abituali era un certo Stephen Thrower, appassionato di horror e weird che aveva letto i racconti di Barker e subito lo riconobbe. Thrower era un musicista che in quel periodo faceva parte dei Coil, il gruppo post-industriale di Balance e Christopherson. I due diventano presto amici e Barker ascoltando la loro musica rimane così folgorato chiedendo ai Coil di comporre la colonna sonora per il film che stava realizzando. I Coil se ne escono con una serie di pezzi oscuri e conturbanti (usciranno in seguito nell'album The Unreleased Themes From Hellraiser) ma la produzione li rifiutò in quanto ritenuti troppo poco commerciali preferendo affidare la colonna sonora a Christopher Young.
Io, da appassionato dei Coil, ogni volta che penso alla scelta che è stata presa precipito nella disperazione.

Schiavi dell'inferno
Clive Barker
"Schiavi dell'inferno" di Clive Barker, noto anche come "Hellbound Heart", è il romanzo breve da cui è stato tratto il film "Hellraiser" del 1987, il primo della lunga saga horror che ha come protagonista Pinhead e gli altri Cenobiti.
Pubblicato in patria nel 1986, il libro, che ha poco più di cento pagine, in Italia è uscito nel 1991, quindi qualche anno dopo il film. A distanza di trent'anni, in un caldo pomeriggio estivo, l'ho riletto con piacere nell'edizione che ho in libreria, ovvero quella della Bompiani con la traduzione di Tullio Dobner. Attualmente il libro si trova fuori catalogo, come quasi tutti i libri di Barker ad eccezione dei due "Libri di Sangue" pubblicati recentemente da Fanucci. Tuttavia non dovrebbe essere difficile recuperare una copia nel mercato dell'usato.
La storia ruota attorno a Frank Cotton, un uomo ossessionato dal piacere estremo e dalla ricerca di nuove emozioni, che entra in possesso di un cubo chiamato "Lemarchand’s Box", una scatola misteriosa in grado aprire le porte di una dimensione parallela dove sarebbe possibile raggiungere picchi di piacere mai provati. Trasferitosi nella casa di famiglia, vuota dopo la morte dei genitori, Frank risolve la combinazione e apre il cubo, venendo raggiunto dai Supplizianti (termine usato anche nel primo film e quindi riproposto giustamente dal traduttore), una sorta di malvagie divinità dall'aspetto terrificante che incarnano un concetto perverso di piacere e sofferenza, i quali lo trascinano nel loro mondo condannandolo a un'esistenza di tormento, torture e dolore. Quando nella casa si trasferiscono Larry Cotton detto Rory, il fratello di Jack, insieme a sua moglie Julia, una donna con cui Jack anni addietro, aveva avuto una relazione, Jack, sapendo che la moglie di suo fratello nutre ancora una passione segreta per lui, cerca di manifestarsi e convincerla a compiere dei sacrifici di sangue che possano permettergli di fuggire dalla sua eterna agonia.
Il libro di Barker è tanto affascinante quanto disturbante. Forse, rispetto ad altri suoi racconti, potrebbe risultare un po' acerbo, ma la storia già contiene tutti quei tratti distintivi dei suoi lavori, come il tema del piacere nel dolore, la perversione sessuale e l'orrore insito nell'animo umano che emergono con potenza, creando un'atmosfera di inquietante seduzione. I quattro protagonisti della storia - oltre a Frank, suo fratello Rory e la moglie di quest'ultimo Julia, c'è anche una loro amica, Kirsty, che avrà un ruolo molto importante nello svolgimento della storia e nel film viene sostituita dalla figlia di Rory - sono caratterizzati molto bene, ognuno con le proprie ombre e fragilità. La complessità delle loro relazioni e delle loro motivazioni personali conferisce profondità alla narrazione, rendendo la discesa nell'orrore ancora più coinvolgente. Julia, in particolare, rappresenta una figura tragica, intrappolata in un matrimonio insoddisfacente e sedotta dalle qualità oscure e pericolose di Frank, tanto da spingerla a compiere atti terribili pur di sfuggire alla monotonia della sua vita. Barker ci mostra come il vero inferno non sia rappresentato solo dai demoni, ma dalla capacità dell'essere umano di distruggere se stesso attraverso il desiderio incontrollato e la mancanza di autoconsapevolezza. Julia non è semplicemente una vittima delle sue pulsioni, ma l'artefice della propria rovina, incapace di riconoscere i limiti che non dovrebbe superare. I Supplizianti o Cenobiti, pur essendo figure terrificanti - veramente cruenti le scene delle torture descritte con ganci e catene che dilaniano la carne - restano sullo sfondo, richiamati solo quando qualcuno decide di varcare il confine tra il noto e l'ignoto. Barker ci avverte del pericolo insito nel cercare di oltrepassare i limiti della nostra umanità, un rischio che può portare alla distruzione personale, proprio come accade a Frank, che, alla ricerca del piacere estremo, finisce per cadere in una trappola mortale.
Un piccolo gioiello perfetto per chi si vuole avvicinare a questo autore. Certo, il fatto che il suo nome sia praticamente scomparso dagli scaffali delle librerie non aiuta. Davvero non si comprende.
Libri
L'uomo che sapeva troppo (1934)
di Alfred Hitchcock
Nel 1934 Alfred Hitchcock firma un contratto con la Gaumont British Picture Corporation, casa di produzione cinematografica inglese, con la quale realizza L'uomo che sapeva troppo, il primo di una serie di film di spionaggio. La storia verrà ripresa anni più tardi dallo stesso Hitchcock - quando il regista inglese si trovava da tempo negli Stati Uniti - in un remake dall'omonimo titolo.
La trama segue Bob e Jill Lawrence, una coppia britannica in vacanza con la loro figlia Betty a Sankt Moritz in Svizzera. Durante il soggiorno, assistono involontariamente all'omicidio di un agente segreto francese che, prima di morire, rivela a Jill che un gruppo di cospiratori stanno preparando un attentato contro un diplomatico a Londra. In breve tempo la coppia si vede rapire la loro figlia Betty dai terroristi per garantirsi il loro silenzio. Bob e Jill si ritrovano così costretti a risolvere il mistero e salvare la loro figlia, affrontando i pericoli che li attendono in una Londra notturna e minacciosa.
Sarà che non sono mai stato un amante dei film di spionaggio ma a me questo film non mi ha convinto. A metà tra commedia e giallo, il film ha una sceneggiatura poco avvincente che in alcune parti appare datata, e una recitazione a tratti teatrale e poco emozionale. La sparatoia finale poi è decisamente troppo lunga e alla lunga annoia. Mi rendo conto che stiamo parlando sempre di un film della metà degli anni trenta ma alcuni film muti di Hitchcock sono invecchiati decisamente meglio. Di questo film salvo l'intepretazione di Peter Lorre, nel ruolo dell'enigmatico antagonista, e la scena nell'Albert Hall in cui il maestro della Suspense utilizza sapientemente il silenzio e la musica per creare una tensione straordinaria dimostrando una maestria che anticipa i suoi futuri capolavori.
Film
Dracula
Bram Stoker
Dracula di Bram Stoker è il libro che ho in più edizioni nelle mia libreria. Sono quattro e le ho prese in diversi momenti della mia vita. Il più vecchio è un tascabile della Oscar Mondadori mentre il più recente l’ho preso usato qualche tempo fà ed è un volume di una collana uscita in edicola chiamata “I Maestri del Fantastico” pubblicata da RBA. Il libro ha una copertina che si ispira alle edizioni d'epoca e contiene illustrazioni e stampe che arricchiscono le pagine di uno dei romanzi più celebri di sempre. Ho letto questa edizione alternandola con quella della BUR Deluxe di Rizzoli per confrontare le traduzioni, soprattutto quando, in alcune parti, ho avvertito una certa fatica nel proseguire la lettura. Nonostante sia un classico della letteratura gotica e io sia da sempre affascinato dal genere, quando la prima volta mi sono avvicinato a questo libro, probabilmente in adolescenza, superate le prime cento pagine, l'ho abbandonato e non sono più riuscito a finirlo. Questa volta mi sono impuntato e l'ho portato a termine, ma non senza difficoltà. I motivi delle mie difficoltà li descriverò più avanti.
Com'è noto, nel creare Dracula, lo scrittore irlandese si è ispirato al personaggio storico di Vlad III di Valacchia, conosciuto anche come Vlad Tepes o Vlad l'Impalatore, un principe rumeno del XV secolo famoso per la sua crudeltà e per l'uso dell'impalamento come metodo di esecuzione, da cui deriva il suo soprannome. Stoker prese il nome e alcune caratteristiche di Vlad l'Impalatore, combinandole con leggende e folklore sui vampiri, per creare il celebre conte Dracula del suo romanzo.
Pubblicato per la prima volta nel 1897, il Dracula di Stoker ha dato vita a uno dei personaggi più iconici della letteratura e continua a esercitare una forte influenza sulla cultura popolare. La storia, narrata attraverso una serie di diari, lettere e articoli di giornale, segue un gruppo di persone che lottano contro il conte Dracula, un antico e potente vampiro, intenzionato a stabilirsi in Inghilterra e diffondere la sua maledizione. La narrazione inizia con il giovane avvocato Jonathan Harker, che si reca in Transilvania per assistere Dracula nell'acquisto di una proprietà a Londra. Durante il suo soggiorno nel castello di Dracula, Harker scopre la vera natura del conte ritrovandosi di fronte a un vampiro immortale che si nutre di sangue umano. Questa parte, a mio parere, è quella più affascinante del romanzo. E' la parte in cui l'atmosfera gotica e il senso di isolamento raggiungono il loro apice. Il castello di Dracula, descritto con toni cupi e inquietanti, diventa un luogo di incubo, dove ogni ombra sembra nascondere un pericolo e ogni suono risuona come un presagio di morte. Inizialmente Harker nega l'evidenza ma poi è costretto a confrontarsi con l'orrore che lo circonda, ritrovandosi intrappolato non solo fisicamente, ma anche psicologicamente, in un mondo dove le regole della realtà sembrano non avere più valore. Stoker nel descrivere l'ambiente del castello, con le sue scale tortuose, le stanze abbandonate e le finestre che si affacciano su precipizi inaccessibili, contribuisce a creare un senso di claustrofobia e impotenza che vede il suo culmine nella scena in cui tre vampire cercano di sedurre e nutrirsi del giovane ospite. E' una scena che mescola erotismo e terrore, creando un'atmosfera carica di tensione e inquietudine.
Quando Dracula si trasferisce a Londra e Harker riesce a fuggire dal castello, l'azione si sposta nell'Inghilterra vittoriana dove, attraverso uno scambio epistolare, conosciamo Mina Murray, la fidanzata di Harker, la sua cara amica Lucy Westenra, John Seward, direttore di un manicomio, il texano Quincey Morris e sopratutto il dottor Van Helsing, un esperto in fenomeni paranormali, colui che scoprirà che la giovane Lucy è stata presa di mira da un vampiro, e insieme agli altri darà la caccia a Dracula. In linea generale questi sono i personaggi principali del romanzo a cui si aggiunge Renfield, un paziente di Seward che manifesta un'ossessione inquietante per il consumo di creature vive, come insetti e piccoli animali, perchè crede gli conferiscano forza vitale. Superate le prime ottanta pagine, quindi per gran parte del romanzo dal momento che ne ha quattrocento di pagine, il conte Dracula si vedrà ben poco. La sua diventa più una presenza, una figura sfumata, quasi mai mostrata in azione, che si manifesta come nebbia o come un pipistrello pronto a intrufolarsi nelle camere delle indifese fanciulle per placare la sua sete di sangue. Il suo pensiero, le sue motivazioni le conosciamo solo attraverso i racconti degli altri personaggi che ovviamente lo tratteggiano come una creatura malvagia che con le sue abilità soprannaturali e la sua sete insaziabile di sangue, rappresenta non solo una minaccia fisica ma anche un pericolo morale per l'umanità. Come detto la parte più coinvolgente rimane quella iniziale in cui il giovane Harker si reca al castello di Dracula. Quando l'azione si sposta a Londra il ritmo del racconto si rallenta, con lunghe descrizioni e riflessioni dei personaggi che risultano dispersive ed eccessivamente verbose. Il fatto che il Dracula di Stoker sia un romanzo epistolare composto dai diari, i telegrammi e le lettere scritte dai personaggi principali probabilmente lo rende discontinuo e frammentato, spezzando la tensione narrativa in alcuni punti cruciali e appesantendolo con dettagli non sempre necessari.
Rimane, tuttavia, un'opera fondamentale nella letteratura gotica, capace di dar vita a un personaggio il cui immaginario ha ispirato romanzi, film, fumetti e parodie di ogni genere.
Uno dei personaggi più affascinanti della letteratura e del cinema horror, il conte Dracula, continua a incarnare il terrore e il mistero, resistendo al tempo e alle reinterpretazioni, e confermando il suo essere una icona contemporanea praticamente... immortale.

Musick to play in the dark, vol 1
Coil
John Balance e Peter Christopherson sono stati i Coil, influente gruppo britannico di musica industrial sperimentale attivo dal 1982. La loro produzione è caratterizzata da una miscela di campionamenti, suoni elettronici, testi criptici e tematiche occulte, che hanno dato origine a diversi album e delle "canzoni" decisamente fuori dagli schemi convenzionali.
Nel 2000 Balance e Christopherson, con il supporto del polistrumentista Thighpaulsandra, danno alla luce Musick to play in the dark, vol 1, il primo dei due album lunari, che segna un deciso cambiamento nel loro stile e nella loro estetica sonora. Sei pezzi dilatati per un totale di sessanta minuti in cui l'ascoltatore sprofonda in un mondo oscuro e misterioso, dove suoni ambientali, synth eterei e voci sussurrate creano un'atmosfera ipnotica e onirica. A mio avviso si tratta di uno degli album più rappresentativi e affascinanti dei Coil, un disco notturno e avvolgente che dietro l'apparente quiete nasconde una lucida follia.
L'album si apre con "Are You Shivering?" in un cui una voce frammentata viene piegata dal suono cupo e minaccioso di un drone prima che Balance inizi a recitare i suoi criptici deliri esistenziali. La successiva "Red Birds Will Fly Out of the East and Destroy Paris in a Night" è un omaggio alla musica cosmica strumentale in cui un incalzante giro elettronico ci trascina in un viaggio lisergico che si conclude in un crescendo apocalittico. "Red Queen", invece, ha un ritmo più lento e sensuale in cui la profonda voce di Balance e un pianoforte jazzato ci conducono attraverso un paesaggio sonoro noir e di atmosfera. "Broccoli" è un pezzo bizzarro e crepuscolare, dove la voce narrante di John Balance recita sopra un tappeto sonoro minimalista e pulsante. "Strange Birds" è un esperimento sonoro e rumorisitico che per certi versi mi ricorda "Several Species of Small Furry Animals.." di pinkfloydiana memoria. Il pezzo che conclude l'album è affidato a "The Dreamer is Still Asleep", una lunga e ipnotica ballata in cui il 'sognatore' descritto da Balance potrebbe benissimo essere il Cthulhu di Lovecraft.
Capolavoro.
This is moon music in the light of the moon
Musica
Repulsion
di Roman Polanski
Un tuffo negli anni sessanta con un thiller psicologico di Roman Polanski poco conosciuto.
"Repulsion" del 1965 è il secondo lungometraggio di Polanski e il primo della sua trilogia sull'appartamento, seguito da "Rosemary's Baby" del 1968 e da quello che io considero il suo capolavoro, "L'inquilino del terzo piano" del 1976. Girato in un bianco e nero sgranato e contrastato, "Repulsion" è un viaggio terrificante nella mente di una donna che scivola lentamente nella follia.
Carol (interpretata da Catherine Deneuve), è una giovane donna, timida e introversa, che lavora in un centro estetico come manicure e vive in un appartamento a Londra con sua sorella Helen. E' una donna strana, assente, che ha una repulsione verso il sesso e gli uomini. Quando sua sorella parte per una vacanza romantica con il suo fidanzato, Carol, rimasta sola nell'appartamento, inizia a manifestare segni di disturbi mentali. La solitudine, l'incapacità di gestirsi senza l'aiuto della sorella, e tutte le sue fragilità psicologiche, la investono violentemente portandola a un progressivo isolamento in cui visioni allucinatorie distorcono la realtà e l'appartamento diventa un luogo claustrofobico, pieno di incubi e paure che la spingono sempre più verso il baratro della follia.
Roman Polanski trascina lo spettatore nella psiche disturbata di Carol, facendoci vivere i suoi incubi e le sue angosce all'interno di un appartamento che diventa un vero e proprio labirinto di orrori, con pareti che si crepano e mani che emergono dai muri. Le riprese angolate, deformate, i primi piani stretti e le inquadrature dall'alto aumentano il senso di oppressione, facendoti sentire intrappolato insieme alla protagonista. Gli effetti sonori e la colonna sonora, composta da percussioni e suoni dissonanti, aggiungono un ulteriore strato di tensione, rendendo l'esperienza ancora più angosciante. È una musica che viene utilizzata per creare contrasto, poiché le scene più disturbanti avvengono in un silenzio assordante, rotto solo dal ticchettio dell'orologio o dal ronzio delle mosche intorno al coniglio scuoiato lasciato a marcire nel soggiorno. Il coniglio, peraltro, ha un'inquietante somiglianza con il feto deforme di "Eraserhead," il che mi porta a pensare che Lynch possa essersi ispirato proprio a questo film nel realizzare la sua "creatura".
L'interpretazione algida di Catherine Deneuve è perfetta nel trasmettere tutta la fragilità e la paranoia del suo personaggio con una recitazione silenziosa ma intensa. È una pellicola che non solo spaventa, ma invita anche a riflettere sulle ombre dell'animo umano e sull'indifferenza della società di fronte alle persone affette da disturbi mentali. Alla fine, mettendo da parte la tensione e l'alienante angoscia, quello che più mi ha sconcertato di questo film è proprio il fatto che nonostante Carol mostri evidenti segni di squilibrio, tutte le persone che le ruotano intorno non sanno o non riescono a interpretare il suo malessere. L'unico che ci prova, anche se in maniera superficiale, è il fidanzato della sorella, che però viene subito zittito.
Il regista polacco non spiega il motivo del trauma della protagonista, ma l'inquadratura finale lascia intendere che potrebbe essere stata vittima di abusi sessuali. Questa inquadratura si ricollega a quella strettissima sull'occhio della Deneuve che apre il film, un omaggio alla famosa scena del taglio dell'occhio di Luis Buñuel.
Il film di Polanski deve molto al cinema surrealista, sia per il bianco e nero che per l'uso di immagini oniriche e distorte. Tuttavia, nel trattare il disturbo psichico che sfocia negli impulsi omicidi, il regista trae ispirazione anche dal cinema di Hitchcock, in particolare a quel capolavoro che è "Psycho" uscito pochi anni prima.
Per gli amanti del cinema d'autore e dell'horror psicologico, "Repulsion" è un'opera imperdibile in cui sono presenti tutti gli elementi distintivi che nel giro di pochi anni faranno di Roman Polanski uno dei grandi maestri del genere.
Film
Omicidio!
di Alfred Hitchcock
"Omicidio!" (Murder!) è un film del 1930 diretto da Alfred Hitchcock, una delle prime opere sonore del maestro del brivido. Tratto dal romanzo "Enter Sir John" di Clemence Dane e Helen Simpson, il film è stato girato contemporaneamente anche con attori tedeschi uscendo l'anno successivo con il titolo di Mary (all’epoca non esisteva il doppiaggio e i film venivano girati in diverse versioni).
La storia ruota attorno al processo di Diana Baring (Norah Baring), un'attrice accusata dell'omicidio della sua collega Edna Druce. Tutti gli indizi puntano contro Diana, che viene trovata sul luogo del delitto con un'arma in mano e senza ricordare nulla dell'accaduto. Sir John Menier (Herbert Marshall), un famoso attore e membro della giuria, è convinto dell'innocenza di Diana e decide di condurre un'indagine personale per trovare il vero colpevole.
"Omicidio!" è un film giallo piuttosto canonico, in cui la scoperta del colpevole avviene con un colpo di scena finale. Hitchcock, tuttavia, non amava i gialli a enigma, i cosiddetti "whodunit", poiché riteneva che l'interesse si concentrasse unicamente sul finale. Questo film è considerato una delle sue opere minori, a causa di una trama poco avvincente e dei dialoghi lunghi e statici che ne appesantiscono il ritmo, come nella parte processuale. Nonostante ciò, "Omicidio!" contiene alcune sequenze particolari e scelte innovative per l'epoca. Un esempio è la scena in cui Sir John riflette sull'omicidio mentre si rade, con la sua voce sovrapposta ai pensieri, anticipando l'uso del monologo interiore e della voce fuori campo. Un'altra scena significativa è quella dell'ombra del cappio che si alterna alle inquadrature della detenuta angosciata che cammina nella cella. Infine da segnalare come il tema del teatro sia presente in tutto il film, sia nell'impostazione che nel gioco della simulazione, così come merita attenzione anche il tema dell'omosessualità, trattato in modo sottile in un film del 1930.
Film
Flatlandia
Edwin A. Abbott
Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni di Edwin A. Abbott è un libro insolito. Difficile catalogarlo in un genere, volendo potremmo definirlo un opera di fantascienza distopica che fonde matematica, satira sociale e fantasia. Ciò che più sorprende è che questo libro è stato scritto nel 1884. L'autore è uno scrittore, teologo e pedagogo britannico, rettore e docente di materie scientifiche di un importante scuola londinese.
La storia si svolge a Flatlandia, un mondo bidimensionale in cui gli abitanti sono forme geometriche che vivono su un piano e percepiscono la realtà in sole due dimensioni. La società di Flatlandia è rigorosamente gerarchica, dove la forma e il numero dei lati di un individuo determinano il suo status sociale. Le donne sono linee rette e rappresentano lo scalino più basso della società. A causa della loro forma appuntita, le donne sono considerate pericolose e se vogliono camminare in un luogo pubblico, hanno l'obbligo di muovere ininterrottamente la loro parte posteriore, da sinistra a destra, per rendersi visibili. Gli abitanti di Flatlandia, muovendosi su un piano, non si vedono come forme geometriche bensì come delle linee, quindi una donna vista frontalmente o da dietro appare come un punto impercettibile. Per quanto riguarda i maschi, i triangoli isosceli sono gli operai e i soldati, i triangoli equilateri sono la classe borghese, i quadrati e i pentagoni sono i professionisti, mentre gli esagoni fanno parte dell'aristocrazia. Una volta raggiunto un numero di lati che rende il poligono indistinguibile dal cerchio, si accede all'ordine sacerdotale, la classe più alta. In questo mondo ogni nascituro acquisisce un lato in più rispetto al padre, in modo tale che ogni generazione salga di un gradino nell'ordine sociale. Questa regola non vale per gli isosceli, perché non hanno i lati uguali, per le donne, che sono delle linee rette, e per i poligoni irregolari, considerati dei veri e propri reietti da eliminare. Nella prima parte del libro ci viene descritto il mondo di Flatlandia e le sue regole attraverso la voce del narratore, A. Square, un quadrato che nelle pagine iniziali troviamo in prigione. Nella seconda parte prosegue il racconto del nostro protagonista che, attraverso dei sogni rivelatori, scopre l'esistenza di diverse realtà. Il primo mondo con cui viene a contatto è un universo di un unica dimensione, Linelandia, popolato da punti in movimento su una retta e governato da un re che rifiuta il racconto del quadrato non riuscendo a comprendere un mondo a due dimensioni. Successivamente A. Square riceve la visita di una sfera proveniente da Spacelandia, un mondo tridimensionale. La sfera, che a Flatlandia appare come un cerchio di dimensioni variabili - la sua ampiezza dipende dalla intersecazione del piano - cerca di spiegargli l'esistenza della terza dimensione ma per A. Square il concetto risulta incomprensibile. Per fargli capire meglio, la sfera trascina il quadrato a Spacelandia e così il nostro protagonista non solo ha la possibilità di vedere la sfera in tutta la sua interezza, ma ha modo di osservare il suo mondo per la prima volta dall'alto. Dopo aver acquisito tutte le informazioni relative a Spacelandia, A. Square ipotizza dell'esistenza di un universo a quattro o a più dimensioni che la sfera ovviamente non può percepire in quanto vive in un universo di tre dimensioni. La sfera si spazientisce e, stufa dei vaneggiamenti del quadrato, lo rispedisce a Flatlandia. Tornato a casa A. Square inizia a mettere in discussione le norme e le limitazioni della sua società, e tacciato per un eretico alla fine viene imprigionato a vita.
Flatlandia di Abbott² (il suo nome completo è Edwin Abbott Abbott perchè i suoi genitori avevano lo stesso cognome essendo cugini - così tanto per rendere il tutto ancora più incasinato) ha diverse chiavi di lettura. Da una parte abbiamo una critica sottile ma potente della rigida struttura sociale vittoriana dell'epoca di Abbott. La descrizione della società di Flatlandia, con le sue rigide gerarchie basate sulla forma geometrica, serve come metafora per le classi sociali e le discriminazioni basate su genere e nascita. Le donne, rappresentate come semplici linee, sono confinate in ruoli strettamente limitati, evidenziando la condizione delle donne nell'epoca vittoriana.
L'altro tema è quello più strettamente filosofico ed esistenziale espresso nella seconda parte che è quella che ho più apprezzato. Flatlandia, oltre a essere un trattato di geometria comprensibile a tutti, invita il lettore a riflettere su temi più ampi come la percezione della realtà, la limitazione della conoscenza umana e la possibilità di mondi e dimensioni oltre la nostra comprensione. Ciò che noi vediamo e chiamiamo realtà è limitata dalla percezione dei nostri sensi e potrebbe non coincidere con un mondo che per noi è del tutto incomprensibile. Affascinante se pensiamo che quando è stato pubblicato il libro per la prima volta Albert Einstein aveva appena sei anni.
Sebbene sia stato scritto nel 1884, il libro risulta parecchio attuale nell'esplorare i limiti della conoscenza umana e le possibilità oltre di essa. Certo, non aspettatevi azione, caratterizzazione dei personaggi o coinvolgimento emotivo. Chi è abituato a leggere romanzi contemporanei potrebbe rimanere deluso. Flatlandia è più un saggio con le sembianze di un racconto.
Nel corso degli anni sono stati fatti diversi adattamenti cinematografici del libro di Abbott. Il primo è un cortometraggio italiano girato in stop-motion da Michele Emmer nel 1982 mentre l'ultimo è un cortometraggio d'animazione del 2007 diretto da Jeffrey Travis. Entrambi si trovano su Youtube. Gli ho dato un'occhiata ma non mi sono sembrati particolarmente attrattivi. Decisamente meglio il libro.
Libri
Noesis
Clock DVA
Arrivo tardi per segnalare questo disco uscito nel 2023 che segna il ritorno di un gruppo storico della scena industrial britannica.
Adi Newton è la mente dietro i Clock Dva che insieme ai Cabaret Voltaire e i Throbbing Gristle ha partecipato nei primissimi anni ottanta a quella sferzante ondata sperimentale che combinava il post-punk con la musica industriale emergente.
Dopo un paio di album e una serie di cambiamenti nella formazione, Newton ricostituisce i Clock DVA alla fine degli anni '80 facendo uscire "Buried Dreams", un album che segna una svolta verso un suono più accessibile, contradistinto da una elettronica dai suoni cupi e ambient che tocca temi cyberpunk e tecnologie emergenti.
A distanza di trent'anni, Adi Newton insieme a Maurizio 'TeZ' Martinucci, artista che usa le nuove tecnologie come strumenti di esplorazione audiovisive, pubblica Noesis, album che si distingue dall'accurato packaging e che nella versione CD contiene quattro tracce in più. Il disco riprende il discorso lasciato in sospeso proiettandolo in un futuro in cui l'intelligenza artificiale rischia di disumanizzare la produzione musicale.
Il disco alterna brani dark ambient dalle ritmiche techno industriali con la voce "narrante" di Newton che affronta il lato oscuro delle nuove tecnologie. Un viaggio cinematico futuribile e visionario di grande spessore. Bentornato.