
Il condominio
J. G. Ballard
Considerato uno degli scrittori più originali e disturbanti della letteratura britannica del novecento, J.G. Ballard è noto soprattutto per la sua fantascienza distopica e psicologica, capace di trasformare ambienti ordinari in scenari di alienazione e follia. Tra i suoi romanzi più celebri figurano La mostra delle atrocità (1969), L’isola di cemento (1974), Crash (1973) e L’impero del sole (1984). Da quest'ultimi due sono stati tratti anche i film diretti rispettivamente da David Cronenberg e Steven Spielberg.
Il condominio, pubblicato nel 1975, è uno dei suoi lavori più emblematici, un ritratto spietato della società borghese intrappolata in un grattacielo di lusso. Un esperimento sociologico travestito da romanzo, che analizza il disfacimento dell’ordine civile e morale. Oltre a High-Rise, adattamento ufficiale uscito nel 2015, sono numerosi i film che si sono ispirati a questo romanzo, da Snowpiercer a Il buco, fino al più recente Lockdown Tower.
Un moderno grattacielo di quaranta piani ospita cinquemila persone. Dirigenti, medici, giornalisti, professionisti. Una popolazione benestante che rientra ogni sera nei propri cubicoli dopo aver parcheggiato l’auto nei livelli interrati. Al suo interno non manca nulla: piscine, supermercati, palestre, scuole, persino un sistema di raccolta rifiuti. Un microcosmo perfetto, autosufficiente e protetto, dove i residenti non hanno più bisogno di uscire. Ma proprio questa autarchia lucida e razionale si trasforma lentamente in una trappola. Quando iniziano i primi guasti, le prime frizioni tra i diversi piani del palazzo, l’equilibrio si incrina. I condomini si organizzano in clan, la legge sparisce, l’isolamento si intensifica, e la civiltà comincia a sgretolarsi, piano dopo piano. In un’atmosfera sempre più claustrofobica, il palazzo diventa teatro di una regressione feroce, un’arena chiusa dove l’istinto prende il sopravvento.
Non è stata una lettura facile. Il condominio è il primo romanzo di Ballard che affronto, e se da un lato ne ho riconosciuto l'originalità e la forza seminale, capace di influenzare decenni di narrativa e cinema distopico, dall’altro ho faticato moltissimo ad andare avanti. L’idea alla base è potente, inquietante nella sua apparente semplicità. Una metafora della civiltà divisa nelle sue classi sociali che si sgretola dall’interno di un grattacielo, senza bisogno di eventi apocalittici. Ma una volta afferrato questo concetto, il romanzo sembra rimanere lì, a girarci attorno ossessivamente. I protagonisti - il medico, l’architetto, e il giornalista - che si alternano durante il racconto, sono archetipi, più che persone reali. Nessuno con cui empatizzare davvero. Nessun personaggio che provi a opporsi al disastro, che lo metta in discussione. Tutti sembrano rassegnati, come se la barbarie fosse un passaggio naturale e inevitabile. E forse è proprio questo che ho trovato più faticoso. Dopo le prime cinquanta, sessanta pagine, ho cominciato a perdere interesse. Le scene si ripetono, lo schema si fa prevedibile: ascensori bloccati, spazzatura ovunque, appartamenti devastati, ostilità crescenti tra i piani. Una spirale di degrado che non sorprende più, perché segue sempre lo stesso ritmo. Senza sussulti, senza pause, senza evoluzione. Ho trascinato il libro per settimane, incapace di finirlo in tempi ragionevoli, come se anche per me, lettore, fosse diventato una prigione verticale da cui non riuscivo a uscire.
Lo stile di Ballard è freddo, controllato, chirurgico. Una scelta coerente con l’atmosfera alienata del romanzo, certo. Ma questa lucidità estrema finisce per anestetizzare ogni possibilità di coinvolgimento emotivo. La violenza diventa routine, la follia quotidianità, e tutto si appiattisce su un unico registro, come un esperimento sociologico osservato da dietro un vetro opaco.
Non so se tornerò presto a Ballard, ma so che Il condominio mi ha lasciato addosso una sensazione strana. Non quella del disgusto, non quella della fascinazione, ma qualcosa di più stanco, più opaco. Come se, alla fine, fossi uscito anche io da quel palazzo, stordito e un po’ più vuoto.