
The Cure
Songs of a Lost World
Sono cresciuto con i Cure, la band che più di ogni altra ha segnato la mia formazione musicale. Li ho visti dal vivo numerose volte, e ogni concerto è stato un'esperienza indimenticabile. Tuttavia, il mio entusiasmo per Robert Smith e compagni si è affievolito dopo Wish, con gli album successivi che mi hanno lasciato piuttosto indifferente, per usare un eufemismo. Trent'anni senza una nuova canzone dei Cure capace di riaccendere la scintilla (l'ultima è stata From the Edge of the Deep Green Sea) sono davvero tanti. É una generazione.
Del nuovo album si parlava ormai da anni, e i continui rinvii lo avevano trasformato quasi in un oggetto misterioso. Alla fine, però, dopo sedici anni dall'ultimo lavoro in studio, è arrivato Songs of a Lost World, preceduto da due brani usciti il mese scorso. Molti dei brani presenti nell'album sono stati suonati dal vivo durante il recente tour dei Cure ed essendo stati pubblicati su YouTube i fans più accaniti hanno potuto farsi una idea di quale sarebbe stato il "mood" di questo tanto atteso album.
Il disco si apre con "Alone", una potente ballata che affronta la mortalità. Ecco, questi sono i miei Cure, quelli che riconosco e che non ascoltavo da tempo. Tutto è condensato in otto minuti, con un intro lunghissmo ed emozionante che sfocia con la voce di Robert Smith che canta l'angoscia di sapere che giovinezza e innocenza sono irrimediabilmente perdute. Il miglior brano dell'album così come il loro pezzo migliore degli ultimi trent'anni. (Sì, lo so qualcuno potrà dire ci voleva poco). Il secondo brano, "And Nothing is Forever", parte con un'atmosfera più melodica con pianoforte e archi, per poi esplodere in tutta la sua potenza. Forse un pò stucchevole. "A Fragile Thing" è il secondo singolo ed probabilmente il pezzo più leggero dell'album, anche se molto lontano dai classici brani pop dei Cure del passato. In "Warsong" Smith affronta il tema degli attuali conflitti del mondo in un brano che con quelle chitarre distorte, feedback e organo in apertura mi ha riportato indietro a Disintegration. "Drone: No Drone" è il pezzo più rock del disco, ma francamente a un primo ascolto mi dice ben poco. Il dolore personale di Smith emerge in "I Can Never Say Goodbye" un tributo straziante al fratello scomparso, Richard. Un pianoforte a scandire la linea melodica, stessa batteria secca di "Alone", ma con una composizione meno convincente. "All I Ever Am" ha un ritmo vivace e la chitarra classica di Smith in un brano che, nel complesso, risulta piacevole. L'album si chiude con "End Song", un trascinante brano di oltre dieci minuti, in cui la batteria scandisce ipnoticamente ogni battuta, culminando in un crescendo polifonico di chitarre distorte. Insieme a "Alone", è il brano più emozionante e coinvolgente dell’intero disco.
Queste sono le mie impressioni a caldo dopo un paio di ascolti, anche se molti pezzi li avevo già assimilati nelle versioni live. È un album cupo e solenne, dove il tema della morte ricorre in ogni traccia. Scritto in un periodo difficile per Smith, segnato dalla perdita dei genitori e del fratello maggiore, Songs of a Lost World è un disco che guarda al passato e che probabilmente non aggiunge nulla di nuovo a quanto i Cure hanno già fatto nei loro momenti migliori. Ma tra i tanti gruppetti che oggi popolano il sottobosco dark underground, loro rimangono gli originali e i migliori. E poi, nonostante l’aspetto segnato e il rossetto sbavato, ormai quasi una caricatura del personaggio che fu, la voce di Robert Smith è rimasta praticamente immutata.
Musica
Joy Division. Tutta la storia
Peter Hook
Ho letto in un paio di giorni la biografia di Peter Hook, bassista dei Joy Division e poi fondatore, insieme ai componenti superstiti, dei New Order.
I Joy Division sono stati il gruppo più iconico e influente della scena post-punk e insieme ai Cure, Depeche Mode e pochi altri, sono quelli che durante la mia adolescenza hanno plasmato la mia formazione musicale aprendo le porte a un genere che ancora oggi amo ascoltare.
Il libro scritto da Peter Hook, pubblicato in Italia da Tsunami Edzioni nel 2014, rispetto ad altri libri sui Joy Division non si concentra esclusivamente sulla figura di Ian Curtis, il carismatico e tormentato leader morto suicida nel 1980, ma racconta in maniera intima, appassionata e approfondita la storia personale di Hook, l'incontro con Bernard Sumner, Ian Curtis e Stephen Morris, il fatidico concerto dei Sex Pistols che li ha spinti a formare un gruppo, e tutte le sfide e le gioie di essere parte di una band emergente di Manchester in pieno fermento punk alla fine degli anni settanta. Il punto di vista del racconto è quello di Hooky, quindi interno alla band, così oltre alle amicizie, i litigi, i concerti e le registrazioni, veniamo a conoscenza del loro lato goliardico e dei tanti anedotti e retroscena che ricostruiscono la storia della band dagli esordi fino allo scioglimento. Io l'ho trovato interessante e coinvolgente in particolar modo quando viene descritto il processo compositivo di "Unknown Pleasures" - il primo dei due album dei Joy Division - la decisione di affidarsi a una piccola etichetta indipendente come la Fiction invece di essere fagocitati da una major, e il ruolo avuto da Martin Hannet in fase di produzione nel plasmare il suono distintivo ed epocale della band.
Poi c'è la tragedia che tutti conosciamo. Nel libro Hook condivide i ricordi toccanti che riguardano l'amico Ian Curtis, raccontando delle crisi epilettiche di cui soffriva, la sua complessa e imperscrutabile personalità ma anche del suo lato umano, accomodante e "cazzone", rammaricandosi, proprio nel momento in cui i Joy Division stavano sfondando, di non essersi fermati in tempo nel fare concerti nonostante avesse intuito i segnali di quello che sarebbe successo da lì a poco.
In conclusione, il libro di Peter Hook, tra la vasta quantità di libri, film e biografie non ufficiali disponibili, è un libro che consiglio perchè è adatto sia agli appassionati che già conoscono bene la storia dei Joy Division, sia a coloro che si avvicinano per la prima volta a una delle band più influenti della storia musicale.
Libri
Effigy
Talk Show
Disco di debutto per questo gruppo inglese che suona un post-punk parecchio contaminato che attinge molto agli anni novanta.
Tra le tante proposte di questa ennesima ondata post-punk e indie-rock britannica il disco di questi Talk Show è quello che in questo periodo ascolto più volentieri.
L'album si apre con Gold, un pezzo dalla solida base elettronica bello tirato, proseguendo con altri pezzi energici, tipo Red/White, che ricorda i Fontaines DC ma virati all'elettronica, oppure Got Sold, un pezzo alla Rage Against the Machine .
I miei pezzi preferiti sono però Oil at the Bottom of a Drum, una brano "strisciante" decisamente trip-hop, la coinvolgente Small Blue World, e l'ipnotica Catalonia che chiude il disco.
Nel complesso un disco fresco e trascinante, Niente di troppo eclatante ma piacevole da ascoltare.
Musica
Parquet
Sparkles & Mud
Consigliatomi dalla nona amica, ascolto con interesse questo album molto particolare.
Sono nove tracce, tutte strumentali, in cui si utilizza basso, batteria, chitarre elettriche e poco altro, per creare dei lunghi e ripetivi pattern sonori simile all'elettronica e alla techno che danno vita a dei pezzi fortemente ritmati in cui emergono di tanto in tanto elementi noise e post-punk.
I tizi sono dei francesi e mi pare che questo sia il loro album di esordio. Non male.
Musica
Idles
Tangk
Ho provato sin dal primo album a farmeli piacere ma la musica sporca, aggressiva e urlata a squarciagola da Joe Talbot, non mi ha mai preso più di tanto.
L'ultimo disco degli Idles, gruppo di Bristol che incarna la ribellione (post) punk di questi anni, si discosta un pochino dai precedenti, forse perchè meno ruvido e un pò più variegato.
Ecco quindi che tra pezzi "cafoni" come Hall & Oates e quelli da pogo sfrenato come Gratitude e Gift Horse, che sembrano essere messi lì per accontentare i fan ed essere suonati dal vivo, ci sono brani che ho trovato molto più interessanti come la "radioheadiana" Pop pop pop - si sente la mano di Nigel Godrich che produce il disco, l'accorata ballata Roy e sopratutto Grace, quello che reputo il pezzo più bello dell'album.
Ovviamente il mio giudizio è limitato alla musica e alla sensazione che mi trasmette. Salvo alcuni casi non approfondisco i testi delle canzoni che ascolto e quindi nel caso degli Idles, i cui testi e le tematiche affrontate mi dicono avere uno spessore rilevante, la mia valutazione è sicuramente parziale.

Chalk
Conditions
Non so neanche come ci sono arrivato ma questo disco mi ha catturato. Il genere è un post punk molto tirato ed è suonato da un gruppo di Belfast che recentemente ha pubblicato il suo primo EP "Conditions".
Le sonorità richiamano molto gli anni novanta e i cinque brani che compongono l'ep hanno quasi tutte una linea ritmica ossessiva, potente con chitarre sporche, rumorose, quasi hardcore. A sentire questa tempesta di energia distorta non posso fare a meno di pensare a quanto sarebbe elettrizzante ascoltare questi pezzi dal vivo.
Brani preferiti Asking e Conditions.
Musica
Exister
Soft Moon
Quinto album dei Soft Moon di Luis Vasquez, il progetto musicale a cui sono più legato da dieci anni a questa parte.
Se il precedente album mi aveva lasciato un pò freddino, questo Exister mi è penetrato dentro fin da subito come un affilato coltello. Ci muoviamo in territori postpunk, industrial e a tratti noise. Sono sonorità che adoro e con le quali sono cresciuto. Nonostante il tutto potrebbe risultare già sentito, in ogni brano di Exister, Vasquez lascia una sua impronta ben distintinguibile partorendo un disco di una claustrofobica cupezza ipnotica.
Brani preferiti "Become the Lies", "Monster", "Answers", ma anche la cupissima ballata d'apertura "Sad Song".
Musica