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giovedì, 4 dicembre 2025
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After the Hunt - Dopo la caccia

di Luca Guadagnino

Non sono un amante del cinema di Luca Guadagnino. Quel suo stile, elegante e a tratti persino algido, che con tanta ossessiva cura tende a ritrarre le classi agiate, quegli ambienti dove l’estetica prevale sempre sull’autenticità, dove si parla di filosofia tra bicchieri di vino pregiato e ogni gesto sembra calibrato per mantenere intatta una facciata impeccabile. Quel mondo patinato, splendide vetrine di drammi emotivi, mi risulta freddo, lontano, poco interessante, sopratutto se viene trattato senza ironia. Per questo mi sono avvicinato a After the Hunt - Dopo la caccia, film di produzione statunitense del 2025 presentato fuori concorso a Venezia 82, con una certa diffidenza. Alla fine, pur trovandolo parecchio verboso, devo ammettere che qualche tema interessante l’ho trovato.

La storia ruota attorno ad Alma Olsson, professoressa di filosofia all'università di Yale (interpretata da Julia Roberts), che si trova al centro di una tempesta quando la sua brillante allieva Maggie (Ayo Edebiri) accusa di molestie sessuali Hank (Andrew Garfield), collega e migliore amico di Alma. L'accusa arriva nel momento peggiore: Alma e Hank sono in competizione per ottenere la cattedra di professore ordinario, quella per cui ha lavorato una vita intera. Inizia così una vera e propria caccia alla verità in cui la presunta innocenza o colpevolezza di Hank si scontra con le ambizioni personali, le lealtà professionali e, soprattutto, i fantasmi di un oscuro segreto nel passato di Alma stessa.

Guadagnino mette in scena un thriller psicologico dove le certezze morali si sgretolano scena dopo scena, lasciando lo spettatore in uno stato di costante sospensione. After the Hunt rifiuta la facile presa di posizione. L'intera narrazione gioca sul fatto che la verità rimane ambigua. Nessuno dei personaggi è completamente vittima o carnefice. Ci vengono dati indizi, vengono sollevate domande cruciali – sul plagio, sulla sincerità di Maggie, sulla storia di Alma – ma il punto non è tanto sapere chi mente, quanto vedere come le persone reagiscono, si proteggono o si scontrano di fronte a un conflitto che non può più essere spazzato sotto il tappeto. Il film sembra essere un omaggio a Woody Allen. Non solo l'estetica, evidente fin dai titoli di testa, con quel font caratteristico e le sonorità jazz, ma nella volontà di scandagliare le ipocrisie e le contraddizioni della classe intellettuale americana.
Julia Roberts, lontana anni luce dai ruoli che l'hanno resa famosa, è brava. Accanto a lei, Andrew Garfield e Ayo Edebiri completano un triangolo attoriale di altissimo livello, mentre la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross aggiunge con quelle note di piano dilatate un tappeto sonoro che amplifica le tensioni narrative. 
Il limite del film è che è decisamente troppo prolisso e verboso. La sceneggiatura di Nora Garrett si perde in dialoghi a volte ridondanti, discussioni teoriche, dispute accademiche che appesantiscono il ritmo. Eppure, dentro quell’eccesso verbale si nasconde la parte più riuscita dell’opera. La parola diventa arma, scudo, maschera. Tutti parlano e nessuno si espone davvero. È in questo scarto, nel non detto che pulsa tra una frase e l’altra, che After the Hunt trova la sua densità emotiva.
Interessante anche il modo in cui Guadagnino mette in scena la reputazione come oggetto fragile e manipolabile. Basta un’accusa, uno sguardo di troppo, un dettaglio lasciato a metà. E la protagonista scivola lentamente verso una perdita di controllo che non ha nulla di spettacolare ma molto di umano. È un dramma di corrosione, più che di esplosione.

Negli stessi giorni in cui in Italia il Senato discute la nuova legge sul consenso in materia sessuale, After the Hunt ci ricorda quanto sia facile muoversi in zone grigie, dove potere, desiderio e vulnerabilità si intrecciano senza offrire risposte semplici. Non significa sminuire la tutela delle vittime, che resta fondamentale, ma riconoscere che la realtà è più complessa delle nostre narrazioni binarie. Come mostra il film di Guadagnino, la realtà non è bianco e nera ma fatta di sfumature, fraintendimenti e rapporti di potere sottili. Più che cercare colpevoli immediati, e creare ancora più distanza e sfiducia tra uomini e donne, a mio parere dovremmo imparare a muoverci dentro questa complessità.

Film
Drammatico
USA
Italia
2025
martedì, 2 dicembre 2025
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Bugonia

di Yorgos Lanthimos

Nel panorama del cinema d'autore, è raro assistere a una prolificità costante. Yorgos Lanthimos, il cineasta greco ormai celebre per il suo stile inconfondibile e spesso disturbante, sembra aver invertito la rotta, inanellando una produzione serrata che lo vede tornare sul grande schermo a breve distanza dal suo precedente lavoro.
Dopo il tripudio visivo di Povere Creature, e l'esperimento frammentato di Kinds of Kindness, Lanthimos torna con Bugonia, un film che, pur essendo un remake (del sudcoreano Save the Green Planet di Jang Joon-hwan), contiene tutte le cifre stilistiche del regista, confermando la sua necessità di raccontare le fragilità e le nevrosi del nostro tempo. Si tratta di un'opera sicuramente più accessibile rispetto ad atri suoi film, ma non meno nichilista e ficcante nella sua satira grottesca.

Teddy Gatz (interpretato da un magistrale Jesse Plemons), vive in un mondo costruito su teorie del complotto e ossessioni apocalittiche. Insieme al cugino Don (il debuttante Aidan Delbis), un giovane neurodivergente, Teddy orchestra il rapimento di Michelle Fuller (Emma Stone), amministratrice delegata della potente azienda farmaceutica Auxolith in cui lavora, convinto che sia in realtà un'aliena infiltrata con l'obiettivo di distruggere l'umanità. Segregata nel seminterrato della loro casa, Michelle viene rasata e sottoposta a interrogatori e rituali bizzarri che riflettono l’abisso mentale in cui i due vivono. Il loro piano è semplice e folle allo stesso tempo: usarla come ostaggio per negoziare con gli alieni, spingendoli ad abbandonare la Terra prima della prossima eclissi lunare. Ne nasce un claustrofobico gioco di potere, paranoia e assurdità, dove la vittima – incarnazione glaciale del capitalismo più spietato – e i suoi aguzzini – rappresentanti di una "plebe" accecata dal complottismo – si affrontano in un teatro dell’assurdo.

Bugonia è una commedia nera travestita da thriller grottesco (o forse il contrario), attraversata da una satira politica pungente che tocca la paranoia cospirazionista, l’ambientalismo, la manipolazione delle coscienze e l’intreccio tra potere mediatico e finanziario.
Lanthimos utilizza il rapimento e l’accusa di "alienità" come una lente per analizzare due derive del presente: il capitalismo predatorio impersonato da Michelle, che parla di benessere aziendale mentre pratica una gestione fredda e disumanizzante, e la follia complottista di Teddy, che canalizza il suo senso di fallimento e impotenza in una narrativa apocalittica. Michelle è "aliena" non perché viene da un altro pianeta, ma perché incarna una forma di potere così disumana da apparire extraterrestre.
Il titolo stesso, Bugonia (che nell'antichità indicava la credenza nella generazione spontanea delle api dalla carcassa di un toro), suggerisce il tema del sacrificio e della rinascita in un ciclo brutale: chi deve morire affinché la vita, o un nuovo sistema, possa prosperare?
Girato in 4:3 e con ampio ricorso al grandangolo, il film non rinuncia al tocco disturbante del regista, che si diverte a giocare con ruoli ambigui e prospettive oblique. Questa è la quarta collaborazione tra Lanthimos ed Emma Stone, e la complicità artistica tra i due è palpabile, ma è Jesse Plemons a dominare la scena. Il suo Teddy trasuda disperazione, un impasto di rabbia repressa, abusi e traumi infantili irrisolti e una grottesca ma sincera rettitudine morale. Stone, dal canto suo, è glaciale, calcolatrice, ma con lampi di umanità che ti fanno dubitare costantemente delle sue vere intenzioni.
Il finale – che non svelerò – divide nettamente gli spettatori. Alcuni lo troveranno un colpo di genio altri un eccesso gratuito. Io l'ho apprezzato, pur avendo intuito dove Lanthimos volesse andare a parare, conoscendo la sua inclinazione a provocare lo spettatore eccedendo nell'assurdità con ironia delirante e disturbante. È Lanthimos allo stato puro, un autore che sembra osservare l’umanità dallo spazio, come se fosse davvero un alieno che prende appunti sulle nostre fragilità, per poi restituircele con un sorriso amaro stampato sul volto.

Film
Grottesco
Distopia
USA
2025
martedì, 25 novembre 2025
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Good Boy

di Ben Leonberg

Ben Leonberg avrà sicuramente notato che nei film horror, soprattutto quelli con case infestate e presenze inquietanti, il primo a intuire che qualcosa non va è sempre il cane. E allora perché non capovolgere la prospettiva e raccontare l'intera storia attraverso di lui? Da qui nasce l’idea che deve aver acceso la fantasia di Leonberg. Al suo esordio dietro la macchina da presa, lui e sua moglie hanno addestrato il loro cane Indy, un vivace toller, e lo hanno ripreso per tre anni, accumulando oltre 400 giorni di materiale, per realizzare Good Boy, un horror visto - e vissuto - dagli occhi di un cane.

La trama è minimale ed essenziale. Todd (Shane Jensen), un giovane con gravi problemi di salute, decide di trasferirsi nella vecchia casa di campagna del nonno defunto. Con lui c'è solo Indy, il suo fedele compagno a quattro zampe. La casa, isolata nei boschi del New Jersey, è però infestata da una presenza malvagia. E Indy lo percepisce immediatamente. Angoli vuoti che lo fissano, presenze invisibili che solo lui riesce a vedere, lo spirito di un altro cane che gli appare in visioni inquietanti, e i ricordi oscuri della morte del precedente proprietario. Mentre la salute mentale e fisica di Todd si deteriora sotto l'influsso della casa, il cane si ritrova a combattere una guerra solitaria. Costretto a vegliare sul suo padrone, Indy tenta disperatamente di avvertirlo del pericolo, scontrandosi però con l'incomunicabilità tra specie e l'incredulità del suo umano.

Girato con quattro spicci ma tanta passione, Good Boy è un film indipendente che punta tutto sul coraggio dell’idea. Recentemente l’horror ha iniziato a giocare sempre più con il cambio di prospettiva – dal fantasma di Presence al serial killer di In a Violent Nature – e anche Leonberg sceglie questa strada, non girando in soggettiva ma spostando il punto di vista ad "altezza cane". Leonberg sfrutta bene questo espediente tecnico, lavorando sul sound design e sui sensi amplificati dell'animale per creare tensione. L'orrore non nasce tanto da ciò che appare, ma da ciò che non può essere espresso. È la frustrazione del cane, incapace di comunicare il pericolo al suo umano, a generare inquietudine. Superato però l'impatto iniziale, la dinamica diventa presto ripetiva. Manca una vera evoluzione nel meccanismo della paura e la narrazione procede su binari prevedibili, risultando a tratti priva di veri scossoni. 
Probabilmente chi ha visssuto con un cane, riconoscerà alcuni comportamenti e potrà emozionarsi  – io sono un gattaro, ma poco cambia – tuttavia, al di là dell’osservazione affettuosa dei nostri animali e dell’idea registica, ho faticato a trovare qualcosa che restasse davvero. È uno di quei film che rispetti per l’indipendenza e la creatività dello sguardo, ma che fai fatica a consigliare con entusiasmo a chi è poco interessato a vedere film che hanno gli animali come protagonisti. Ah, a proposito, per chi odia la violenza sugli animali, al nostro amico a quattro zampe non viene torto un pelo, solo qualche spavento.

Film
Horror
USA
2025
sabato, 22 novembre 2025
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Dracula - A Love Tale

di Luc Besson

Devo essere sincero. Inizialmente non avevo alcuna intenzione di vedere Il Dracula di Luc Besson. Avevo percepito una certa diffidenza da parte del pubblico, letto critiche che lo accusavano di essere troppo simile al Dracula di Coppola, troppo sentimentale, troppo poco horror. Ero quasi convinto di aspettare l’uscita in home video e rinunciare all’esperienza del grande schermo. Poi, quasi all’ultimo momento, ho cambiato idea. Una decisione impulsiva che si è rivelata giusta. Perché Dracula – L’amore perduto merita la sala cinematografica, con le sue scenografie imponenti, la fotografia avvolgente e l’ottima colonna sonora “burtoniana” di Danny Elfman. Non è sicuramente il mio Dracula preferito, ma è una rilettura godibile e visivamente curata di un regista che ha dichiarato di non aver mai amato l’horror e di aver voluto scrivere semplicemente una storia d’amore, trasformando il romanzo di Stoker (nel quale l’amore è praticamente inesistente) in una tragica favola romantica dove l’orrore è più da fiaba alla Grimm che da terrore puro.

La storia ci porta nel XV secolo, presentandoci il principe Vlad (Caleb Landry Jones) che, dopo aver combattuto strenuamente per la chiesa, torna a casa solo per trovare la sua amata moglie morta. Devastato dal dolore, rinnega la propria fede, e questa scelta attira su di lui una maledizione terribile: l'immortalità. Condannato a vagare attraverso i secoli, il principe diventa il conte Dracula, un'esistenza solitaria scandita da un'unica ossessione: ritrovare la reincarnazione della donna amata.
Quattro secoli dopo, nella Parigi di fine ottocento, quella ricerca sembra finalmente giungere a compimento. Dracula individua in una giovane donna, fidanzata di un notaio, i tratti inconfondibili della sua Elisabetta (Zoe Sidel). Da qui parte un disperato tentativo di riconnessione emotiva, ostacolato ovviamente da chi vorrebbe piantargli un paletto nel cuore.

È evidente che il riferimento principale non sia tanto Stoker quanto il Dracula di Coppola. Ma laddove Gary Oldman incarnava un fascinoso dandy assetato di sangue, il Dracula interpretato da Caleb Landry Jones è una creatura fragile, spezzata, quasi malata. È un vampiro stanco, consumato dai secoli, che vive solo per il ricordo della sua amata. Un mostro che fa più tenerezza che paura, e Jones è bravissimo a sorreggere l’intera parte emotiva del film. Ottima anche Matilda De Angelis, vampira folle, sensuale e imprevedibile, che ruba più di una scena. Meno incisiva la protagonista femminile. Christoph Waltz, nei panni del prete, porta come sempre il suo carisma ma non lascia il segno.
Visivamente, Dracula – L’amore perduto è uno dei lavori più curati della filmografia di Besson. Le scenografie oscillano tra il gotico e il barocco, con interni carichi di dettagli, costumi sontuosi e una attenzione maniacale per l'estetica che si percepisce in ogni singola inquadratura. Dalla riproduzione del castello di Dracula alla corte di Versailles. Certo, c'è una vena ironica di sottofondo che a tratti fa sembrare il Dracula di Besson quasi una parodia – mi riferisco alla scena del giovane avvocato nel castello, il balletto nelle varie corti, l’episodio delle suore infoiate. Anche i gargoyle "alla Disney", la natura poco chiara della maledizione e del vampirismo, e il profumo afrodisiaco (che sembra uscito da Il profumo di Süskind) sono scelte abbastanza discutubili.
Eppure, nel suo insieme, Dracula – L’amore perduto è un film che ha il coraggio delle sue idee. Non cerca di rivaleggiare con Coppola sul terreno dell’horror romantico classico, ma offre una rilettura personale che parla di perdita, di ossessione e di quanto sia difficile lasciar andare ciò che amiamo. Per chi accetta questa premessa, il film regala un’esperienza visiva e emotiva piacevole e coinvolgente. Per chi invece desidera il brivido puro dell’horror, probabilmente non è la scelta giusta. Ma questa, dopotutto, è una distinzione che Besson non ha mai avuto intenzione di nascondere.

Film
Horror
sentimentale
Vampiri
Francia
UK
2025
Cinema
domenica, 16 novembre 2025
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Black Phone 2

di Scott Derrickson

Difficilmente un sequel riesce a superare il primo film, ma ogni tanto capita. Restando nel territorio dell’horror recente, per esempio, il secondo Smile io l’ho trovato molto più interessante del primo. Così, con un barlume di ottimismo (e forse un eccesso di buona fede), mi sono avvicinato a Black Phone 2. Il primo del 2022 non mi aveva per niente convinto, ma magari stavolta... Niente. Il miracolo non è arrivato. Anzi, questo ritorno firmato ancora da Scott Derrickson e prodotto dalla Blumhouse riesce addirittura a fare peggio.

Siamo nel 1982, qualche anno dopo gli eventi del primo film. Finney (Mason Thames) e sua sorella Gwen (Madeleine McGraw) cercano di lasciarsi alle spalle il loro passato traumatico. Gwen, però, è tormentata da incubi che sembrano sono legati alla loro madre e a un vecchio campo vacanze del Midwest in cui la donna aveva lavorato. Gwen, Finn e il loro amico Ernesto decidono, allora, di recarsi ad Alpine Lake. Bloccati da una tormenta di neve, il telefono nero torna a suonare, e i tre capiscono che la chiave per chiudere definitivamente i conti con il Rapace potrebbe trovarsi proprio sotto il ghiaccio di quel lago.

L’ambientazione da campeggio invernale potrebbe anche avere il suo fascino, una sorta di Venerdì 13 con la neve al posto delle foglie autunnali. Il problema è che, mentre Black Phone aveva almeno una sua tensione psicologica, in questo sequel Derrickson decide di cambiare completamente registro tuffandosi a capofitto nel soprannaturale, trasformando il Rapace in una specie di entità demoniaca che invade i sogni di Gwen.
Il risultato? Una storia pasticciata che vorrebbe essere Nightmare - Dal profondo della notte ma finisce per diventarne la copia sfocata, con continue sequenze oniriche in stile Super 8 che dopo un po' stancano e spengono ogni barlume di tensione. Noia. Pura, cristallizzata noia.
Se il primo Black Phone non mi aveva convinto, questo sequel mi ha definitivamente fatto prendere la decisione di staccare il telefono.

Film
Horror
USA
2025
lunedì, 10 novembre 2025
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Frankenstein (2025)

di Guillermo del Toro

Il Frankenstein di Guillermo del Toro è, senza dubbio, uno dei film più attesi dell’anno.
Prodotto da Netflix, presentato in anteprima a Venezia e distribuito solo in poche sale selezionate – giusto il tempo per garantirsi l’accesso ai premi – il film arriva in questi giorni sulla nota piattaforma streaming diventando il suo fiore all'occhiello.
Sulla carta, l’incontro tra del Toro e il Frankenstein di Mary Shelley sembra scritto nel destino. Dopotutto, il regista messicano – da Il labirinto del fauno a La forma dell’acqua, fino al recente Pinocchio – ha sempre avuto una predilezione per i reietti, per le creature imperfette e malinconiche, sospese tra umanità e mostruosità.
ToltoTim Burton, forse nessun altro autore possiede oggi uno sguardo tanto visionario, gotico e insieme barocco da fondersi con l’universo tragico e poetico del mostro di Frankenstein.

La storia la conosciamo tutti, un classico della letteratura e del cinema che da numerose generazioni fa parte del nostro immaginario collettivo. Del Toro lo affronta con rispetto ma anche con il coraggio di piegarlo al proprio linguaggio. Il film, lungo due ore e mezza, è strutturato in un preludio e due parti. Nel preludio viene ripreso quanto raccontato all'inizio del romanzo:  il barone Victor Frankenstein (Oscar Isaac) vaga tra i ghiacci del Polo Nord, braccato dalla Creatura (interpretato da Jacob Elordi), un essere dalla forza sovrumana e apparentemente indistruttibile. Raccolto dall'equipaggio di una nave rimasta intrappolata nei ghiacci artici, Frankenstein, ferito ed esausto, rivela di essere stato lui a dare vita alla Creatura raccontando gli eventi che hanno portato alla sua creazione.
Nella prima parte, che occupa buona parte del film, viene così raccontata l'infanzia del giovane Victor, la morte della madre, il rapporto contrastato con un padre freddo e autoritario, la carriera universitaria come medico e la folle ossessione di poter sconfiggere la morte iniziando a fare esperimenti sui cadaveri per riportarli in vita. Sostenuto da un mercante d’armi senza scrupoli, costruisce un laboratorio in una torre abbandonata e lì, pezzo per pezzo, assembla un corpo fatto di cadaveri animandolo tramite complessi macchinari che imbrigliano la corrente elettrica dei fulmini durante una tempesta. Un evidente omaggio all'iconografia cinematografica del primo Frankenstein di Whale dal momento che nel romanzo la creazione del "mostro" non viene descritta. La Creatura, però, è ben diversa dal mostro massiccio e goffo della tradizione. È longilinea, fragile, con movenze incerte e un’innocenza disarmante. Non conosce la malvagità né il linguaggio, è come un bambino che cerca di capire il mondo e il proprio posto in esso. Deluso e terrorizzato da ciò che ha fatto, Victor prima lo rinnega, lo umilia e lo imprigiona – replicando la violenza subita dal padre – e infine prova a distruggerlo.
Nella seconda parte la narrazione riprende dal punto di vista del mostro, ed è probabilmente la più riuscita. Sopravvissuta, la Creatura incontra un vecchio cieco che gli insegna a leggere e parlare. Qui il ritmo rallenta e il film diventa quasi contemplativo. Sono momenti delicati, sospesi, che contrastano con la brutalità della prima metà e ci fanno entrare davvero nella pelle di questo essere smarrito che non ha mai chiesto di nascere.
Molto bravo Jacob Elordi, sepolto sotto strati di trucco prostetico. Il suo mostro di Frankenstein è forse un po' troppo belloccio e fisicato – stiamo sempre parlando di un uomo assemblato con parti di cadaveri – ma la sua interpretazione è ricca di profondità emotiva riuscendo a trasmettere il dolore dell’abbandono, della solitudine e della paura di non essere amati.
Oscar Isaac tratteggia un Victor divorato dal proprio ego e dalla rabbia, un uomo brillante ma logorato da ferite mai rimarginate. La sua performance è intensa, a tratti eccessiva, ma perfettamente in linea con la natura febbrile del personaggio.
La sempre più affascinante Mia Goth nei panni di Elizabeth porta nel film una voce diversa, più compassionevole. Non più la fidanzata remissiva del romanzo, ma una scienziata, un’entomologa animata da curiosità e compassione. È lei a riconoscere nella Creatura un essere senziente, a offrirgli per la prima volta uno sguardo privo di paura.

Esteticamente il film è una meraviglia. Ma non mi soprende conoscendo i lavori di Del Toro. Scenografie sontuose. Elegante, barocco e gotico al contempo, con squarci pittorici. La fotografia gioca con luci e ombre in modo quasi espressionista.

Il Frankenstein di Del Toro, oltre a rispettare la struttura del romanzo di Shelley, aggiungendo e definendo numerosi passaggi narrativi, tiene conto di decenni di storia del cinema racchiudendo in un solo film tutte le incarnazioni del mito – da Whale a Branagh, passando per la Hammer degli anni sessanta, fino a Edward mani di forbice e volendo anche Povere creature! – rileggendo il mito alla luce del proprio immaginario.

Il risultato è un’opera maestosa , in cui il vero mostro non è la Creatura, ma il suo creatore. Impossibile non identificarsi con la solitudine e la fame d’affetto della Creatura, con la sua rabbia e il suo bisogno d’amore. Quando pronuncia la sua prima parola, quella che ogni bambino rivolge a chi gli ha dato la vita, comprendiamo che il film di del Toro non parla della nascita dell’orrore, ma dell’origine dell’amore.

Forse si sarebbe potuto limare qualcosa nella prima parte, renderla più essenziale, e alleggerire quella patina di spettacolarità hollywoodiana che ogni tanto appesantisce la narrazione. In alcune sequenze l’uso della CGI risulta un po’ troppo evidente, quasi invasivo. Ma nonostante queste sbavature, Frankenstein resta un film visivamente sontuoso, emotivamente sincero e capace di ridare vita – in tutti i sensi – a uno dei miti fondanti del nostro immaginario.
Peccato non averlo potuto vedere sul grande schermo.

Film
Horror
Fantastico
Netflix
USA
2025
venerdì, 24 ottobre 2025
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Caught Stealing - Una scomoda circostanza

di Darren Aronofsky

Ho un rapporto un po’ contrastante con Darren Aronofsky. Ho amato i suoi primi due film, mentre altri mi hanno lasciato parecchio perplesso. Senza dubbio mi pare sia un autore parecchio eclettico, capace di spostarsi con disinvoltura dal dramma paranoico all'horror psicologico, fino alla dimensione più visionaria e allegorica. Nel 2025 decide di adattare il romanzo A tuo rischio e pericolo di Charlie Huston e realizzare Caught Stealing - Una scomoda circostanza, un thriller action urbano dalle spiccate influenze tarantiniane, che segna una nuova deviazione nel suo percorso cinematografico.

La storia è ambientata nel 1998, nel Lower East Side di Manhattan, e segue le disavventure di Henry “Hank” Thompson (Austin Butler), ex promessa del baseball la cui carriera è stata stroncata da un incidente stradale. Ora Hank lavora come barista in un pub, affoga le giornate nell’alcol, frequenta una giovane infermiera (Zoë Kravitz), ed è legato alla madre, che gli ha trasmesso la passione per il baseball. La sua esistenza tutto sommato tranquilla prende una piega inaspettata quando il suo vicino di casa punkettone, Russ (Matt Smith), gli chiede di badare al suo gatto per qualche giorno. Da quel momento, Hank si ritrova improvvisamente braccato da gangster, poliziotti corrotti e criminali senza scrupoli, trascinato in una spirale di violenza, inseguimenti e paranoia di cui non riesce a capire le ragioni.

Strizzando l’occhio al Fuori orario di Scorsese — che omaggia con il cameo di Griffin Dunne nei panni del proprietario del pub — Aronofsky prova a mescolare l’umorismo nero dei fratelli Coen, il pulp sanguinolento di Tarantino e il gangster crime di Guy Ritchie, per confezionare un film tutto azione, situazioni esasperate, toni da commedia grottesca e personaggi sopra le righe. Volendo, anche divertente, ma che io, personalmente, l'ho trovato di poca sostanza.
Mi pare che Aronofsky abbia voluto realizzare un polpettone derivativo più per voglia di distrarsi che per raccontare un storia capace di scuotere davvero qualche corda emotiva. Alla fine è ancora la storia dell’atleta (dopo il wrestler, questa volta un giocatore di baseball, sport che non ho mai capito e non ho neanche troppa voglia di sforzarmi di capire) che ha perso la sua occasione e si ritrova sbandato, trascinato in un vortice di situazioni assurde e sempre più fuori controllo.
Di buono c’è la ricostruzione del Lower East Side di New York di fine anni novanta, sporco, malfamato, pieno di spazzatura e palazzi fatiscenti. Poi c’è il gattone, che a tratti diventa il vero protagonista del film, e la musica degli Idles, perfetta per accompagnare il caos.
Troppo poco, però, per evitargli l’insufficienza.

Film
Action
Thriller
Pulp
USA
2025
giovedì, 23 ottobre 2025
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Eddington

di Ari Aster

Ari Aster, autore di Hereditary, Midsommar e Beau ha paura, è ormai considerato uno dei registi più interessanti del cinema di genere contemporaneo. Fin dai primissimi anni della sua carriera aveva in mente di realizzare Eddington, con l’intento di raccontare l’America di oggi attraverso un western contemporaneo. Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film ha suscitato reazioni fortemente contrastanti. Alcuni critici hanno elogiato l’audacia politica e la volontà di usare il genere per parlare del presente, altri lo hanno definito sbilanciato, confusionario e dispersivo.
Io l’ho visto al cinema e devo dire che ancora lo devo metabolizzare... proverò a farlo scrivendo questa recensione.

Il film è ambientato durante la pandemia di Covid-19, nell’estate del 2020, in una cittadina immaginaria del Nuovo Messico chiamata Eddington, poco più di duemila abitanti. Lo sceriffo locale, Joe Cross (Joaquin Phoenix), non sembra particolarmente incline a rispettare le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria (come l’obbligo di indossare la mascherina) e finisce per scontrarsi con il sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal), uomo dagli interessi poco chiari legati alla costruzione di un gigantesco data center nei pressi della città, impegnato nella campagna per la propria rielezione. Tra i due non corre buon sangue nemmeno sul piano personale, per vecchie ruggini che riguardano la moglie dello sceriffo, Louise (Emma Stone), una donna segnata dalla depressione, che secondo la madre di quest'ultima, figura ossessiva e complottista, sarebbe stata violentata da Garcia quando erano ragazzi.
Più per rivalsa che per reale convinzione politica, Cross decide di candidarsi a sindaco contro di lui. Mentre Eddington si frantuma sotto il peso delle paure collettive, dell’isolamento, della disuguaglianza e delle proteste del movimento Black Lives Matter (seguite alla morte di George Floyd da parte della polizia), Joe Cross, ferito anche dall’abbandono della moglie, attratta da Vernon Jefferson Peak (Austin Butler), un carismatico guru a capo di una setta che accoglie vittime di abusi, inizia a covare un senso di rivalsa che presto esploderà in tutta la sua violenza.

Insomma, come si intuisce da questa sinossi (e manca tanto altro, ve lo assicuro) qui c’è davvero tanta carne al fuoco. Sono molti i protagonisti, le storie e le sottotrame che si intrecciano. Eddington non è un film complesso, come poteva esserlo Beau ha paura, ma sicuramente è molto stratificato. Aster ingloba più generi, passando dal western alla satira, dalla commedia grottesca al thriller politico-sociale, usandoli con grande abilità per costruire un affresco beffardo e minaccioso sull'America di oggi.
La pandemia di Covid-19 — primo film di un certo peso a trattare esplicitamente questo tema — è solo il punto di partenza per isolare la cittadina del Nuovo Messico in una bolla, un microcosmo dove il razzismo, le disuguaglianze, i complotti, i guru, le proteste e la disinformazione diventano specchio deformante del paese intero. È un mondo dove un senzatetto ubriaco, presunto portatore del virus, può sparire senza che nessuno si chieda che fine abbia fatto, e dove l’edificio più grande del paese è un’armeria. Un'America in miniatura, dove i social network e la manipolazione dell’informazione sono dominanti (non credo sia un caso che più di una volta compare Trump mentre il protagonista scorre le notizie sul suo cellulare). Un video su Instagram può cambiare la percezione pubblica di un evento, una fotografia  può essere usata come prova per incastrare il nero di turno, e la verità diventa solo un’altra narrazione da manipolare.
Il film si divide sostanzialmente in due parti. Nella prima, Aster introduce i personaggi — quasi tutti moralmente discutibili — e imposta i temi centrali con una messa in scena dilatata, statica, fatta di dialoghi e tensioni sotterranee. È un’esposizione volutamente lenta, dove la provincia americana viene ritratta come una terra stanca, piena di frustrazioni e paranoia. Nella seconda parte, Eddington cambia tono e ritmo, la storia si trasforma in un thriller politico con tratti da western urbano, fino a culminare in un epilogo amaro e disperato. Aster spinge sull’azione e la tensione diventa tangibile, quasi fisica. Splendida, per esempio, la sequenza in cui lo sceriffo, ansimante e armato di tutto punto, si muove tra i colpi dei cecchini mentre la macchina da presa si muove intorno a lui cercando di capire dove si trovino.
Joaquin Phoenix offre un’interpretazione di grande intensità, mostrando insieme fragilità, rabbia e bisogno di riscatto. Pedro Pascal è altrettanto convincente nel ruolo del sindaco Garcia, ambiguo e viscido quanto basta. Emma Stone, invece, rimane più ai margini, diventando una pedina funzionale alle svolte narrative.

Eddington è un film ambizioso, a metà strada tra Tarantino e i fratelli Coen, che mescola satira sociale, noir e western moderno per dissacrare la società americana, prendendo in giro tanto i conservatori quanto i progressisti, i complottisti quanto i moralisti della giustizia sociale. È sicuramente un film che, per la mole di temi e sfumature, richiede più di una visione. Non credo di essere il solo ma Eddington mi ha ricordato Una battaglia dopo l’altra per la sua capacità di raccontare la crisi americana contemporanea attraverso il caos e l’ironia. Personalmente gli preferisco Anderson, ma va riconosciuto ad Aster il coraggio di essersi spinto oltre il suo territorio consueto, firmando un film d’autore ironico, feroce, e amaramente lucido. Un viaggio dentro l’America ferita e paranoica del presente, raccontata con l’occhio cinico e beffardo di chi non crede più a nessuna verità.

Film
Western
Commedia
Thriller
Grottesco
Ari Aster
USA
2025
Cinema
martedì, 21 ottobre 2025
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Vicious - I tre doni del male

di Bryan Bertino

Vicious – I tre doni del male è un horror psicologico a tinte demoniache uscito direttamente su Paramount+, diretto da Bryan Bertino, un regista di genere che ha già all'attivo un paio di film.

La storia vede come protagonista Polly (Dakota Fanning), una donna in chiara fase depressiva che vive da sola in una casa in disordine, senza lavoro, senza legami, priva di qualsiasi slancio verso la vita. Una notte riceve la visita di un’anziana sconosciuta che le consegna una scatola di legno e una clessidra, avvertendola che ha un’ora di tempo per mettere nella scatola una cosa che odia, una di cui ha bisogno, e una che ama, o morirà. 
Da quel momento, la sua abitazione diventa un labirinto di incubi e visioni, dove passato e presente si intrecciano, ricordi dolorosi riaffiorano e figure familiari si manifestano come presenze demoniache. La solitudine che da tempo la imprigiona assume contorni sempre più minacciosi, fino a trasformarsi in una trappola psicologica.
Mentre la sabbia nella clessidra scorre inesorabile, Polly è costretta a guardare dentro se stessa e a scegliere cosa sacrificare per salvarsi, scoprendo che il vero male non sempre proviene dall’esterno, ma spesso nasce proprio da ciò che portiamo dentro.

Vicious è un horror soprannaturale con una buona dose di tensione, qualche scena sanguinosa e un paio di jumpscare piuttosto telefonati — ironico, considerando che nel film i telefoni squillano di continuo. Bryan Bertino punta tutto sull’atmosfera angosciante e claustrofobica, costruendo un racconto sospeso tra realtà e allucinazione, dove il dubbio che tutto avvenga nella mente della protagonista diventa il vero motore del film.
Dakota Fanning è brava e regge da sola l’intera messa in scena, mentre la regia di Bertino si mantiene solida e funzionale, senza particolari guizzi ma coerente con il tono della storia. Peccato che, dopo un inizio promettente, Vicious finisca per arenarsi, dilatando troppo i tempi e smarrendo la forza del suo spunto iniziale. Il risultato è un filmetto appena sufficiente, corretto nella forma ma destinato a scivolare via senza lasciare traccia.

Film
Horror
USA
2025
giovedì, 2 ottobre 2025
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Una battaglia dopo l'altra

di Paul Thomas Anderson

Spinto dalle tante critiche entusiastiche mi sono andato a vedere al cinema Una battaglia dopo l'altra, l'ultima pellicola di Paul Thomas Anderson. Conosco poco i suoi lavori, ho un ricordo un pò sbiadito di Magnolia e poco altro, ma è considerato da più parti uno dei migliori registi americani contemporanei.

La storia è ambienta negli Stati Uniti, non si capisce bene se si tratta di un America distopica o quella Trumpiana contemporanea.
Pat Calhoun detto "Ghetto Pat" (Leonardo DiCaprio) e Perfidia Beverly Hills (Teyana Taylor) sono membri del gruppo rivoluzionario di estrema sinistra conosciuto come French 75. Dopo aver liberato gli immigrati detenuti da un centro di detenzione in California, Perfidia umilia il colonnello, Steven Lockjaw (Sean Penn), che sviluppa un'attrazione sessuale nei suoi confronti. Con il tempo Ghetto e Perfidia diventano amanti ma Lockjaw sembra ossessionato da Perfidia e dopo averla sorpresa mentre stava piazzando una bomba in una banca, la lascia andare dopo che lei accetta di fare sesso in un motel. Perfidia dà alla luce una bambina, Charlene (interpretata da Chase Infiniti nell’età adolescenziale), ma la donna vuole continuare la sua attività rivoluzionaria e poco dopo li abbandona.  Sedici anni dopo, il passato riaffiora e Ghetto si ritrova di nuovo in prima linea per proteggere sua figlia dall’ossessione di Lockjaw.

Il film mi è piaciuto? Sì, e pure molto. Ingannato dal titolo e dalle poche immagini che me lo aveva fatto accostare al Civil War di Garland, mi sono trovato davanti invece a un action-movie d’autore dal ritmo travolgente, capace di divertire, spaventare e commuovere.
Liberamente tratto da Vineland, romanzo di Thomas Pynchon, il film è stato prodotto dalla Warner Bros con un budget di oltre 150 milioni di dollari. Una buona fetta dev’essere finita nel cachet di DiCaprio, visto che non ci sono sequenze catastrofiche né scenografie monumentali da blockbuster. Poco importa, non faccio i conti alle case di produzione, soprattutto quando il risultato convince e il pubblico sembra gradire.
La sceneggiatura non è perfetta e a tratti mostra qualche debolezza, mi riferisco ad alcune ripetizioni e forzature nel finale. Ma i punti di forza del film sono altri. Innanzitutto nella regia e nel montaggio, magistrali, che fanno volare via due ore e quarantacinque minuti in un baleno. Poi negli attori con un grande DiCaprio che intrepreta un rivoluzionario nerd, appassionato di congegni esplosivi, che quindici anni dopo lo ritroviamo a fumarsi anche il cervello, dimenticandosi delle parole d’ordine. Ma è Sean Penn a rubare la scena, trasformato in una sorta di Popeye (Braccio di Ferro) militarizzato e razzista, che incute timore e insieme suscita una strana tenerezza. Una performance da Oscar la sua, che ho adorato, insieme alle dinamiche di sottomissione e trasgressione con Perfidia, la femmina ribelle e dominatrice interpretata dalla brava Teyana Taylor, che urla al mondo: "La fica è per la guerra, è un’arma". Da segnalare anche Benicio Del Toro nei panni assurdi di un sensei messicano, e la giovane Chase Infiniti, credibile nella parte della figlia.
Infine, la musica. La colonna sonora è firmata da Jonny Greenwood, già compagno di avventure di Anderson e polistrumentista dei Radiohead. È una partitura incalzante, che non accompagna semplicemente il ritmo del film ma lo detta, con momenti di sperimentazione jazz che trovano il loro culmine in una lunga sequenza costruita attorno a una singola nota ripetuta ossessivamente. La musica è parte integrante del film.
Il sottotesto politico e sociale è evidente e non serve dilungarsi troppo. Una battaglia dopo l’altra è il ritratto di un’America divisa, corrotta, fascista e sull’orlo del collasso.
Per il resto il film ha qualcosa dei fratelli Coen – il personaggio di DiCaprio ammicca chiaramente al Drugo de Il Grande Lebowski – di Tarantino, nelle situazioni grottesche ma mai eccessive, ma anche di Kubrick e Spielberg che insieme si mescolano in un racconto che resta sempre personale. 
Un film frenetico e pieno d’azione, tra inseguimenti automobilistici (memorabile quello sui dossi, con la macchina da presa che pare ondeggiare) e situazioni al limite del parossistico (come quella in cui un DiCaprio disperato è alla ricerca di una presa per ricaricare il cellulare). Anderson eleva l’action movie prendendolo anche in giro – la citazione su Tom Cruise è esilarante. Gioca con i generi, li piega al presente, mescolando satira e commedia nera, riuscendo a essere insieme epico e intimo.

Un film attuale, intelligente e godibile, con più piani di lettura a seconda dello spettatore. Non il capolavoro del decennio, come ho letto in giro, ma probabilmente uno dei migliori film dell’anno.

Film
Action
Thriller
USA
2025
Cinema
mercoledì, 1 ottobre 2025
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Together

di Michael Shanks

Together è il film di esordio per Michael Shanks, un altro regista australiano che dopo Sean Byrne e i fratelli Philippou si cimenta con l'horror contemporaneo. In questo caso si tratta di un body horror che affronta il tema della coppia, la dipendenza affettiva e la prigione emotiva.

Tim e Millie (interpretati rispettivamente da Dave Franco e Alison Brie) sono una giovane coppia che decide di trasferirsi in una casa in campagna. Lei è un insegnante che desiderà stabilità e un futuro insieme, lui è un musicista mancato segnato dalla perdita dei genitori. Prima di partire Millie ha fatto una proposta di matrimonio, ma Tim ha esitato, mettendola in imbarazzo di fronte agli amici. La coppia sta attraversando un periodo di crisi, i due non fanno sesso da tempo e lontano dalla città sperano di recuperare la loro relazione. Durante un'escursione vicino alla loro nuova casa, cadono in una grotta sotterranea durante un temporale e decidono di accamparsi lì per la notte. Al mattino Tim e Millie trovano le gambe parzialmente attaccate. E' l'inizio di un incubo in cui i loro corpi iniziano a fondersi, a incastrarsi l’uno nell’altro, rendendoli letteralmente inseparabili.

Il corpo come specchio delle relazioni. È questa la chiave con cui Michael Shanks racconta Together, portando il body horror su un piano intimo ed emotivo. La fusione fisica di Tim e Millie diventa metafora dell’amore come dipendenza, della coppia come spazio in cui l’individualità rischia di dissolversi.
La regia alterna con intelligenza momenti di autentico orrore a sequenze di commedia nera, mantenendo sempre la tensione emotiva. Il gore è presente ma mai gratuito. Dave Franco e Alison Brie – coppia anche nella vita reale – sostengono il film con un’interpretazione credibile anche quando la vicenda sfocia nel grottesco, come nella scena del rapporto nel bagno della scuola o in quella in cui i due sono attratti l’uno all’altro come calamite. Lui fragile e irrisolto, lei determinata ma stanca, entrambi intrappolati in una danza che alterna cura e rancore. La loro chimica rende palpabile la contraddizione di un amore che nutre e al tempo stesso consuma.
Nonostante qualche incertezza narrativa, soprattutto nel finale, la miscela di generi funziona: la grotta, il rito pagano, la filosofia e persino le Spice Girls si integrano con sorprendente coerenza. Con effetti prostetici efficaci che rimandano a Cronenberg, Yuzna e più di recente The Substance, Shanks utilizza il romanticismo del mito platonico – l’essere umano incompleto che cerca l’altra metà – in chiave horror.

Together diventa così la storia di una relazione di dipendenza tossica, la paura di donarsi sacrificando parte del proprio ego per crescere come coppia. Un horror che parla al presente, gioca con i generi e non teme l’ironia. Ottimo esordio per Michael Shanks.

Film
Horror
Australia
2025
sabato, 20 settembre 2025
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The Woman in the Yard

di Jaume Collet-Serra

The Woman in the Yard è un horror psicologico targato Blumhouse e diretto da Jaume Collet-Serra, regista che dopo Orphan e una lunga parentesi tra thriller e action torna al genere che meglio esalta il suo gusto per l’inquietudine e l’ambiguità.

La protagonista è Ramona (Danielle Deadwyler), sopravvissuta a un grave incidente d’auto in cui ha perso il marito. Costretta a muoversi con una gamba ingessata, vive in una fattoria isolata insieme ai due figli, Taylor (14 anni) e Annie (6 anni). Ferita nel corpo e segnata da un lutto mai elaborato, fatica a occuparsi della casa e dei bambini, che provano da soli a tenere insieme una quotidianità ormai spezzata. Una mattina, dalla finestra, la famiglia scorge una donna avvolta in un velo nero, immobile nel cortile a fissarli. Ramona pensa inizialmente a una sconosciuta in difficoltà o disturbata, ma la sua presenza si fa sempre più inquietante e vicina alla casa, minacciando la sicurezza della famiglia.

The Woman in the Yard è un horror psicologico che trasforma lutto e depressione in una presenza fisica. L’idea di dare corpo al dolore attraverso la donna in nero, funziona quando resta immobile a fissare la famiglia dal cortile, molto meno, a mio parere, quando passa all’azione.
Jaume Collet-Serra costruisce un racconto che punta sull’atmosfera, evocando titoli come Babadook e Hereditary, con cui condivide il tema del lutto come abisso interiore e la depressione intesa come spettro che avvolge lentamente la vita quotidiana. La regia lavora bene su spazi e silenzi, mentre la sceneggiatura d’esordio di Sam Stefanak introduce un buon spunto ma non lo sviluppa con la necessaria precisione. Il terzo atto, in particolare, appare confuso e pasticciato, e lascia la sensazione di un’occasione mancata. 

Nel complesso, un horror minimale e suggestivo, che riesce a inquietare quando rimane sospeso nell’ambiguità e nella metafora, meno quando cerca la concretezza della spiegazione.

Film
Horror
USA
2025
venerdì, 19 settembre 2025
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La valle dei sorrisi

di Paolo Strippoli

Negli ultimi anni alcuni giovani cineasti stanno tentando di riportare l’horror e il cinema di genere al centro della scena italiana, riallacciandosi a una tradizione che dagli anni sessanta agli ottanta ci ha reso protagonisti, seppur spesso di nicchia, sulla scena mondiale. Tra i nuovi autori che si muovono in questa direzione – da De Feo a Zampaglione – spicca Paolo Strippoli, che proprio con De Feo ha firmato A Classic Horror Story, un film capace di riaccendere l’interesse verso un genere a lungo guardato con diffidenza e spesso relegato ai margini dalle case di produzione.

Presentato fuori concorso all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, La valle dei sorrisi è il nuovo film di Paolo Strippoli, uscito nei cinema a distanza di circa tre anni dal precedente Piove.

Sergio (Michele Riondino), insegnante di educazione fisica ed ex campione di judo dal passato tormentato, viene trasferito nel remoto paese di Remis, una comunità isolata tra le montagne delle Alpi. Solo un anno prima il paese è stato sconvolto da un terribile deragliamento ferroviario che ha causato numerose vittime, ma oggi Remis appare come un luogo sospeso nel tempo, dove gli abitanti sembrano condurre un’esistenza serena, quasi inquietantemente felice. Dietro questa facciata si nasconde però un segreto: Matteo (Giulio Feltri), un ragazzo introverso dotato della capacità di assorbire il dolore e l’angoscia degli altri, al centro di un misterioso rito a cui partecipa l’intera comunità. Inizialmente diffidente, Sergio viene convinto da Michela (Romana Maggiora Vergano), che lavora nel bar del paese, a liberarsi del segreto che lo tormenta affidandosi a Matteo. Nel tentativo di comprendere e forse salvare il ragazzo da un destino di sacrificio, Sergio scoprirà che il rito, la felicità apparente e l’armonia di Remis sono molto più ambigui e intrecciati di quanto avesse immaginato.

Il film affronta molti temi, forse anche troppi. Quello dominante è il dolore come elemento rimosso o negato dalla società, il mito della felicità obbligatoria e del sorriso che nasconde ferite. Ma oltre a questo, troviamo la dimensione del sacrificio e della responsabilità, l’empatia che diventa risorsa da sfruttare, la religione e la sacralità dei gesti come maschera di una dipendenza dal sentirsi felici, il bullismo scolastico, l’adolescenza queer e il rapporto padre-figlio.
La valle dei sorrisi è un horror atipico che non punta a spaventare con jumpscare né a intrattenere con soluzioni facili, ma a scavare nella profondità dell’animo umano. La prima parte, più lenta e introspettiva, serve a delineare i protagonisti e il microcosmo di Remis, un paese tra le montagne in cui ognuno cela un malessere interiore e un segreto inconfessabile. L’inquadratura con il cartello "Benvenuto a Remis" richiama inevitabilmente quello di Twin Peaks, e come nella serie di Lynch il paesaggio montano non è semplice sfondo, ma vero e proprio elemento narrativo che alimenta mistero, sospetto e straniamento.
Nella seconda parte il film cresce fino a evocare suggestioni da Villaggio dei dannati e rimandi alla Ari Aster – la palestra trasformata in una sorta di chiesa pagana mi ha ricordato molto Midsommar. Eppure Strippoli riesce a mantenere una propria identità, costruendo un crescendo misurato in cui l’atmosfera si fa via via più intensa. La regia dosa bene l’inquietudine, lavora sul suono e sul silenzio, sfrutta il mistero prima di svelarlo, trovando un equilibrio visivo e ritmico notevole.
Convincente Michele Riondino, che all’inizio mi ricordava un malinconico Tomas Milian/Monnezza, bravo soprattutto quando rivela il trauma che lo perseguita. Solida anche la prova di Giulio Feltri, capace di incarnare insieme l’innocenza e le pulsioni dell’adolescenza, mentre cerca di sottrarsi a un destino che lo vuole ricettacolo del dolore altrui.
La valle dei sorrisi non è un film perfetto, né il miglior horror italiano degli ultimi anni, ma segna una direzione importante. È un’opera che dimostra come questa sia la strada giusta da percorrere per riportare il nostro cinema di genere a nuova vita.

Film
Horror
Italia
2025
Cinema
sabato, 13 settembre 2025
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84m²

di Kim Tae-joon, Sharon S. Park

Distribuito su Netflix, 84m² di Kim Tae-joon (anche sceneggiatore) e Sharon S. Park è un thiller domestico che mescola inquietudine quotidiana, stress finanziario e paranoia.

No Woo-sung (interpretato da Kang Ha-neul) è un giovane impiegato di Seul che, dopo anni di sacrifici, riesce finalmente a comprarsi un appartamento di 84 m², un traguardo quasi irraggiungibile in un mercato immobiliare esclusivo e implacabile. All’inizio la vita sembra migliorata, ma ben presto il valore dell’appartamento crolla, i debiti si accumulano, e Woo-sung si ritrova costretto a lavorare anche la notte per far quadrare i conti. La situazione prende una piega inquietante quando il nostro protagonista inizia a sentire strani rumori provenienti dagli appartamenti adiacenti e i vicini lo accusano di essere lui il responsabile del baccano notturno.

84m² è un thriller claustrofobico e alienante, una metafora lucidissima sul sogno – o meglio sull’incubo – di avere una casa di proprietà a Seul. Tra speculazione edilizia e crisi economica, quello che dovrebbe essere il traguardo della felicità e la prova di essere dei vincenti si rivela una trappola, un paradiso che presto si trasforma in prigione economica. Gli inquilini, più che abitanti, sono condannati a una vita da sfruttati, schiacciati dai debiti e intrappolati in un sistema che divora molto più di quanto restituisca. A questa dimensione collettiva se ne aggiunge una più intima, in cui l’appartamento si trasforma in un luogo ostile, dove ogni rumore diventa minaccia e ogni sguardo dei vicini si trasforma in sospetto.
Il film di Kim Tae-joon è interessante, ha una regia elegante, tempi perfetti, e parte da una buona idea. Peccato che, dopo un avvio solido e intrigante, tutto concentrato sul protagonista il film inizi a inciampare su se stesso. L’insistenza nel sorprendere lo spettatore ad ogni costo produce un intreccio narrattivo un po' pasticciato, che sacrifica la chiarezza e smorza l’impatto della critica sociale, pur restando ben riconoscibile.

Film godibile e accattivante ma confuso nel finale.

Film
Thriller
Drammatico
Corea del Sud
Netflix
2025
venerdì, 12 settembre 2025
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Hallow Road

di Babak Anvari

Hallow Road, quarta pellicola del regista britannico-iraniano Babak Anvari, arriva da noi a noleggio sulle principali piattaforme (Prime Video, Apple TV e altre) con l’improbabile sottotitolo Corsa contro il tempo — titolo che sembra uscito da un catalogo di action con Jason Statham. In realtà non siamo di fronte a un film muscolare e fracassone, bensì a un thriller psicologico dalle sfumature horror, più insinuate che dichiarate, che si consuma quasi interamente all’interno di un’automobile.

Maddie (Rosamund Pike) e suo marito Frank (Matthew Rhys) ricevono in piena notte una telefonata dalla figlia diciottenne Alice, fuggita di casa dopo una violenta lite familiare. La ragazza, sconvolta, racconta di aver investito una coetanea e di trovarsi bloccata su una strada remota nel cuore dei boschi. I due genitori partono immediatamente per raggiungerla, mantenendo il contatto telefonico per sostenerla e guidarla nelle manovre di rianimazione della giovane investita. Durante il tragitto, però, la tensione cresce. La distanza di tempo, i dubbi, le verità taciute e i conflitti mai risolti emergono con forza, rivelando che l’incidente è molto più complesso di quanto potessero immaginare.

Ambientare un intero film dentro un’auto è una scelta coraggiosa, ma non inedita – basti pensare a Locke, Una notte a New York o il recente Locked - In trappola. Se gli attori sono all’altezza e i dialoghi ben scritti, anche una situazione apparentemente semplice come quella di due genitori che, nel cuore della notte, viaggiano verso la figlia seguendo un navigatore può diventare carica di tensione. È proprio ciò che accade in Hallow Road, dove il vero dramma si consuma altrove, nella voce di Alice al telefono, e ci raggiunge solo attraverso frammenti spezzati, interrotti dal panico e probabilmente dall’alterazione provocate dalle sostanze stupefacenti assunte della ragazza.
Babak Anvari costruisce così un thriller psicologico che lavora per sottrazione, dove non vediamo mai davvero cosa succede, abbiamo solo il punto di vista limitato di Maddie e Frank, chiusi nell’abitacolo mentre cercano di interpretare un racconto che prende via via pieghe inquietanti e persino soprannaturali. Il film trova la sua forza proprio in questo spazio ridotto, dove le performance di Rosamund Pike e Matthew Rhys reggono da sole la tensione, tra silenzi, nervosismi e sguardi carichi di paura.
Hallow Road non offre risposte nette né spiegazioni rassicuranti. È un film che gioca con le atmosfere, con le possibilità terrificanti che restano sospese nell’aria, lasciando allo spettatore il compito di colmare i vuoti. Funziona soprattutto quando ci costringe a restare dentro quella macchina, a condividere lo smarrimento dei genitori e a interrogarci su quanto davvero conosciamo chi amiamo. Certo, chi cerca un horror classico – perchè alla fine di horror si tratta –  con colpi di scena e finali chiusi, rischia di rimanere deluso. In questo film bisogna accettare l’ambiguità e lasciarsi trascinare da un incubo in cui la logica non sempre segue le nostre aspettative.

Film
Thriller
Psicologico
UK
2025
domenica, 7 settembre 2025
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Un film fatto per Bene

di Franco Maresco

Presentato all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, sono andato a vedere l’ultimo film di Franco Maresco, probabilmente il regista più corrosivo e dissacrante del nostro cinema contemporaneo. Con Daniele Ciprì ha dato vita a Cinico Tv, assurdo programma satirico degli anni novanta che quelli della mia generazione ricorderanno senz'altro – erano i tempi di Fuorio Orario, Avanzi, un periodo in cui il terzo canale della Rai aveva ancora il coraggio di rischiare, di lasciare spazio a linguaggi scomodi e sperimentali. Da lì arrivarono Lo zio di Brooklyn e il famigerato Totò che visse due volte, accolto da polemiche e censure per il suo sguardo blasfemo e senza compromessi. Negli anni duemila Maresco ha continuato a lavorare tra cinema e documentario, costruendo un percorso che non concede nulla allo spettatore se non la verità ruvida della sua visione. Conoscendo la sua fama, sapevo che non sarebbe stata una visione semplice, ma con la complicità di un paio di amici, ho deciso di vedermi Un film fatto per Bene.

Il film, girato come fosse un documentario, racconta la travagliata storia della realizzazione di un film su Carmelo Bene da parte di Franco Maresco. Prodotto dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti  tra incidenti, incomprensioni, ciak infiniti e ripetuti ritardi, le riprese vengono bruscamente interrotte in anticipo e il film rimane incompleto. Maresco accusa la produzione di “filmicidio” e sparisce dalla circolazione. A questo punto Umberto Cantone, suo amico e co-autore, si mette alla sua ricerca, contatta testimoni e collaboratori, ripercorrendo così la personalità di un regista ossessivo, nevrotico, nichilista e apocalitticamente pessimista.

Maresco firma un film metacinematografico, assolutamente autoreferenziale ma spietatamente critico con se stesso e con l’industria cinematografica. Un’opera consapevole di essere destinata a quattro gatti – o a pantegane intellettualoidi – ma che Maresco realizza perchè questo è l'unico modo per dare sfogo alla rabbia e all’orrore che prova per questo "mondo di merda". Un film fatto per Bene diventa così una sorta di (auto)analisi che prende avvio in una stanza d’albergo, prenotata ogni cinque o sei mesi per tagliarsi i capelli, per poi passare a un taxi guidato dal personaggio forse più esilarante, un autista che usa la preghiera come intercalare, fino agli spezzoni di un film incompiuto ambientati nella brulla Sicilia e in studi cinematografici. In mezzo, una partita a scacchi con la Morte di Bergman impersonata da un irresistibile Antonio Rezza – «ma lo sai come si gioca a scacchi, Peppino?» – e l’ascesa ai cieli di San Giuseppe da Copertino, con conseguente caduta. Il film finisce per spolverare ritagli della memoria in un percorso a ritroso che rievoca il sodalizio con Daniele Ciprì, Cinico Tv, Totò che visse due volte, tra materiali d’epoca e ricostruzioni girate per sembrare d’archivio.
Ne viene fuori un film autocelebrativo, sconclusionato, a tratti confuso, che non provoca, ma che riesce comunque a strappare risate – soprattutto nella prima parte – grazie ai suoi personaggi tragicomici. Qui non ci sono la disperazione e gli eccessi taglienti, ruvidi e blasfemi delle opere anni novanta, né l’impatto disturbante del miglior Maresco. In realtà non c’è neanche Carmelo Bene, ed è un peccato. Resta un film che diverte chi sa ridere delle tristezze altrui, ma che alla lunga sfianca. Consigliato solo a chi conosceun minimo l’autore. Per tutti gli altri, astenersi.

Film
Grottesco
Italia
2025
Cinema
giovedì, 21 agosto 2025
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Dangerous Animals

di Sean Byrne

Fin dai tempi del capostipite del genere, Lo Squalo di Steven Spielberg, i grandi predatori marini con dentature affilate sono diventati un nemico naturale dell’uomo che osa sfidare le profondità dell’oceano. Ovviamente si tratta di un mito soprattutto cinematografico, perché nella realtà le zanzare fanno più vittime degli squali, ma sul grande schermo pungiglioni e ronzii hanno meno fascino delle mascelle spalancate, ed è per questo che i film dedicati agli insetti si contano sulle dita di una mano.

Dangerous Animals, diretto dall’australiano Sean Byrne, si inserisce in questa tradizione con un approccio ibrido, a metà tra survival horror e lo slasher. Perché il vero pericolo non arriva soltanto dal mare, ma da un serial killer ossessionato dagli squali, che rapisce le sue vittime per gettarle in pasto ai predatori, riprendendo ogni dettaglio delle loro agonie con una vecchia telecamera in vhs.

La storia è semplice. La protagonista è Zephyr (Hassie Harrison), surfista dal passato turbolento e dallo spirito ribelle, che dopo una notte di passione con un ragazzo di nome Moses (Josh Heuston) finisce nelle mani di Tucker (Jai Courtney), un folle omicida che si diverte ad attirare giovani vittime sulla sua barca per sacrificarle agli squali. Intrappolata in mare aperto, Zephyr si trova a lottare con tutte le sue forze per sopravvivere, tra bagni di sangue, fughe disperate e la costante minaccia delle acque che la circondano.

Dangerous Animals è il classico horror estivo che fa il suo dovere, ovvero intrattiene con buon ritmo e una tensione costante. Sean Byrne, regista noto per un paio di film interessanti, rilegge il genere dello shark-movie spostando il centro della paura dagli squali all’essere umano, trasformando i predatori marini in semplici strumenti nelle mani di un serial killer ossessionato dalla violenza.
La sceneggiatura non è priva di forzature, a tratti persino ridicole, ma il film funziona esattamente per ciò che promette: tensione, adrenalina e quel divertimento ansiolitico tipico del cinema di genere. Hassie Harrison, al suo primo ruolo di rilievo, si impone come una "final girl" carismatica e combattiva, quasi una Jennifer Lawrence in versione Rambo, con una resistenza fisica che diventa metafora della sua determinazione. Sul fronte opposto Jai Courtney, volto già noto in alcuni action-movie, dà vita a un maniaco rozzo, spietato e sottilmente ironico, risultando credibile e disturbante al tempo stesso.
Il confronto tra i due protagonisti regge l’intero film, con un continuo capovolgimento dei ruoli di predatore e preda, mentre gli squali restano sullo sfondo, più che altro come elementi naturali di un rituale di morte. Nonostante i limiti di scrittura, l’idea di intrecciare la figura del serial killer al mito degli squali funziona, regalando un thriller che, senza reinventare nulla, riesce comunque a intrattenere e inquietare.

Film
Horror
USA
2025
mercoledì, 13 agosto 2025
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Weapons

di Zach Cregger

Sono andato al cinema a vedere Weapons, il nuovo film scritto e diretto da Zach Cregger, lo stesso regista di Barbarian. Un horror che attraversa il mistery e il thriller, passando per il sovrannaturale, la tensione socio-psicologica e persino un tocco di humor nero.

La storia ruota intorno a un evento misterioso. In una tranquilla cittadina della Pennsylvania, alle 2:17 di notte, diciassette bambini della stessa classe di terza elementare si alzano dai loro letti e corrono fuori casa con le braccia spalancate, come piccoli aeroplani, fino a scomparire inghiottiti dal buio. Nessuna spiegazione, nessun indizio, solo immagini sgranate riprese da videocamere di sorveglianza e un’angoscia che si insinua in ogni famiglia del quartiere. L’unico a non sparire è Alex, un bambino taciturno e profondamente scosso per la situazione. La comunità, traumatizzata e in cerca di un colpevole, individua nella giovane maestra Justine Gandy (Julia Garner) il capro espiatorio perfetto su cui sfogare rabbia e frustrazione. L’unico deciso a scoprire la verità è Archer (Josh Brolin), padre di uno dei bambini scomparsi, che insieme a Justine, all’agente di polizia Paul (Alden Ehrenreich), al preside Marcus (Benedict Wong), a un giovane tossicodipendente (Austin Abrams) e allo stesso Alex, è protagonista di uno dei sei capitoli in cui si articola la pellicola. Sei punti di vista che, intrecciandosi e sovrapponendosi, finiscono per comporre un inquietante puzzle.

Il modo migliore per apprezzare Weapons è arrivarci sapendo il meno possibile, e per una volta il trailer non svela troppo. L’incipit è già di per sé potentissimo. Cregger ci porta in una provincia americana segnata dal male, in una storia sospesa tra un racconto alla Stephen King e una fiaba oscura dei fratelli Grimm. La scelta del titolo, il modo in cui i bambini corrono, la sequenza onirica del fucile… tutto lascia intuire che il male sia radicato nel tessuto stesso della comunità. È anche una critica sociale che riflette sulla necessità di trovare colpevoli, su come possiamo diventare armi e su come la rabbia, filtrata dal dolore, possa distorcere la verità. Una caccia alle streghe che si trasforma in metafora dell’America di oggi.

La forza di Weapons sta nella sua struttura. La storia viene raccontata di volta in volta dal punto di vista di diversi protagonisti, in un montaggio tecnicamente impeccabile. Lo spettatore è spaesato quanto i personaggi, tutti tratteggiati in modo negativo, e come loro non riesce a dare un senso a ciò che accade perché mancano pezzi fondamentali. La tensione emotiva resta alta finché il puzzle non si ricompone e l’arcano viene svelato. È qui che la tensione cala e il thriller psicologico costruito fino a quel momento, punteggiato da sequenze oniriche e qualche jump scare ben calibrato, lascia spazio a un horror soprannaturale legato alla magia. A questo punto il film cambia tono e ciò che era sottile e inquietante diventa improvvisamente surreale, grottesco e persino sopra le righe, con sfumature quasi da humor nero.
Personalmente il finale mi ha spiazzato trovandolo quasi comico nella messa in scena. Ammetto che all’uscita dalla sala ero abbastanza confuso. Ripensandoci a mente fredda, però, l’ho percepito come una scelta coraggiosa e persino originale. Perché, pur virando sul grottesco, il film non si chiude in modo positivo e tutti i protagonisti sembrano riportare ferite profonde, forse permanenti, per ciò che hanno vissuto.

Weapons funziona bene sul piano narrativo e può contare su un cast di spessore. È un film che non cerca di piacere a tutti i costi, che preferisce il rischio alla sicurezza e che colpisce per il coraggio stilistico. Una scelta consapevole, che può dividere, ma che per molti, compreso per chi scrive, è la chiave del suo fascino.

Film
Horror
USA
2025
Cinema
martedì, 5 agosto 2025
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Locked - In Trappola

di David Yarovesky

Locked è un action thriller americano del 2025 prodotto da Sam Raimi e diretto da David Yarovesky. Si tratta del remake di 4x4, un film argentino del 2019 che ha raccolto consensi nei festival internazionali. Non avendo visto l’originale, eviterò confronti antipatici che spesso sminuiscono la versione americana.

La storia vede come protagonista Eddie (Bill Skarsgård), un ladruncolo che vive di espedienti e che ha un disperato bisogno di soldi per recuperare il suo furgone, fermo dal meccanico. Senza di esso non può lavorare né andare a prendere sua figlia a scuola nei pochi giorni in cui gli è concesso vederla.
Nel tentativo di racimolare qualcosa, si introduce in un SUV parcheggiato in una strada tranquilla. Peccato che una volta dentro, si ritrovi prigioniero. Le portiere non si aprono, i vetri sono blindati, l’auto è insonorizzata e completamente isolata dal mondo esterno, senza alcuna copertura di rete per il cellulare. Dietro questa trappola c’è William (Anthony Hopkins), il proprietario del veicolo, un uomo deluso dalla giustizia, che ormai crede solo in quella personale e come un vendicatore solitario, ha deciso di farsi giustizia a modo suo, tormentando il povero ladruncolo con musica ad alto volume, temperature estreme, disidratazione e fame.

Locked è un thriller compatto dalla trama essenziale in cui David Yarovesky sfrutta al meglio lo spazio claustrofobico dell’abitacolo - bella la carrellata circolare che gira attorno al protagonista nello spazio angusto del SUV. Il problema è che, dopo mezz’ora, il gioco comincia a ripetersi, tra scosse elettriche, umiliazioni e dialoghi che vorrebbero essere profondi ma restano in superficie.
Skarsgård se la cava benissimo – nonostante indossi una felpa rosa mentre cerca di passare inosservato aggirandosi furtivo tra le macchine di un parcheggio – e regge da solo quasi tutto il film, riuscendo a farci sentire l’ansia e la frustrazione del suo personaggio. Hopkins, invece, ci mette solo la voce, entrando in scena solo nel finale sfoggiando il suo carisma.
Il film accenna a temi come divisioni sociali, giustizia e privilegio, ma lo fa in modo piuttosto superficiale, preferendo la tensione al contenuto. In definitiva, Locked è un thriller ben confezionato, girato bene, veloce, teso il giusto, che si guarda senza noia, ma poco altro. Insomma, ideale per chi cerca un thriller d’intrattenimento senza troppe pretese.

Film
Thriller
USA
2025
domenica, 3 agosto 2025
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28 anni dopo

di Danny Boyle

Se fosse uscito tra cinque anni sarebbe stato perfetto. Ma tant’è.
Accantonando le mie ossessioni compulsive legata alla simmetria temporale, Danny Boyle torna nel 2025 con 28 anni dopo, nuovo capitolo della saga horror-post apocalittica iniziata con 28 giorni dopo nel 2002 - e poi proseguita con 28 settimane dopo nel 2007.

Quasi trent’anni dopo da quando il virus della rabbia ha trasformato gli infetti in zombie assassini, l’Inghilterra si trova ancora in quarantena. Il resto del mondo, temendo la diffusione, ha circondato l’isola e sigillato ogni contatto, lasciando i sopravvissuti a gestirsi da soli.
La vicenda si apre su una comunità isolata su una piccola isola, senza elettricità o altre comodità moderne, collegata alla terraferma da una striscia di terra accessibile solo con la bassa marea. Qui vive Jamie (Aaron Taylor-Johnson) con la moglie Isla (Jodie Comer) – affetta da una malattia impossibile da diagnosticare a causa dell’assenza di dottori – e il figlio dodicenne Spike (Alfie Williams). Per Jamie è giunto il momento che suo figlio diventi adulto e, in una sorte di rituale di iniziazione celebrato da tutta la comunità, decide di portarlo con sè, verso la terraferma, armato di arco e frecce, per insegnargli a cacciare e uccidere gli infetti.

28 anni dopo nasce come primo capitolo di una nuova trilogia. Boyle torna alla regia, affiancato alla sceneggiatura da Alex Garland, ricomponendo la coppia che aveva dato vita al film originale.
Gli infetti – che non sono zombie nel senso classico, ma umani trasformati dal virus della rabbia in creature iperaggressive – si sono evoluti. Oltre ai classici corridori, ora ci sono i “lenti”, deformi e striscianti, e gli “Alpha”, forti, intelligenti e in grado di organizzarsi, guidare e persino riprodursi.
Il vero protagonista del film è Spike, interpretato con intensità dal giovane Williams, probabilmente destinato a guidare l’intera trilogia. Il film segue due suoi viaggi fuori dall’isola. Il primo, con il padre, è una sorta di battesimo del fuoco che pare più un’esibizione di virilità paterna che un vero insegnamento. Il secondo, con la madre, è un percorso più intimo, alla ricerca di un medico in grado di salvarla. Il vaggio con il padre è dominato dall’azione – da segnalare l’intensa scena della fuga sull’isolotto inseguiti da un Alfa – mentre il secondo è più riflessivo, e porta Spike a confrontarsi con una realtà molto più complessa e difficile da accettare quale la mortalità delle persone che amiamo.

Partiamo dalle cose che mi sono piaciute.
La fotografia predilige paesaggi rurali e spazi aperti, evitando le ambientazioni urbane e regalando dei panorami mozzafiato.
Ho apprezzato anche la parte con il montaggio alternato tra l’addestramento dei bambini e immagini d’archivio militari, accompagnate dalla lettura del poema Boots di Rudyard Kipling.
Tra i personaggi secondari spicca il Dr. Kelson, interpretato da Ralph Fiennes, figura carismatica e ambigua che richiama il colonnello Kurtz di Apocalypse Now: isolato, ossessionato dalla memoria, circondato da una torre di teschi che sembra un monumento alla follia.
Toccante anche il rapporto tra Spike e la madre, percorso da una dolcezza trattenuta che esplode nel finale. Il tema della morte attraversa il film e trova espressione nella frase latina che lo accompagna: memento mori.
L’isolamento della Gran Bretagna potrebbe far pensare a una metafora sulla Brexit, ma se il riferimento esiste, rimane in superficie e non trova vero sviluppo.
Nota di merito, infine, alla colonna sonora firmata dagli Young Fathers che dona al film un'identità sonora netta e accativante.

Veniamo a cosa non mi è piaciuto.
Alcune scelte narrative io le ho trovato parecchie forzate o poco credibili.
L’episodio dell’infetta che partorisce e accetta di essere aiutata da Isla, ad esempio, mi ha lasciato perplesso. Pure il fatto che la neonata sembra miracolosamente immune, rimane un mistero, ma magari verrà spiegato nei successivi episodi. Sono inezie, me ne rendo conto, ma anche la già citata torre di teschi, per quanto suggestiva, così come è composta da migliaia di teschi appoggiati uno sull’altro, mi fa pensare che al primo temporale viene tutto giù.
E il finale, chiaramente pensato per lasciare aperta la strada ai sequel, l'ho trovato parecchio pacchiano e spiazzante. Insomma, non mi invoglia per niente a vedere il suo seguito.

28 anni dopo è un film che ha momenti intensi e scelte discutibili. Vediamo se il mondo riaperto da Boyle e Garland avrà ancora qualcosa da dire.

Film
Horror
Zombi
postapocalittico
UK
USA
2025
sabato, 26 luglio 2025
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I Fantastici Quattro - Gli inizi

di Matt Shakman

Da lettore di vecchia data dei Fantastici Quattro — fin dai tempi degli albi Corno, tanto per intenderci — ho sempre pensato che portare questi personaggi al cinema  — dopo i due film degli anni 2000 e il disastroso reboot del 2015  — fosse una sfida quasi impossibile. Non per mancanza di potenziale, ma perché troppo legati a un immaginario d’avventura e meraviglia ormai distante dal tono cupo e disilluso del cinema supereroistico moderno.

Con I Fantastici Quattro – Gli inizi, i Marvel Studios provano a ricominciare da capo. E, sorprendentemente, lo fanno guardando (quasi) nella direzione giusta. Diretto da Matt Shakman (Wandavision), il film è ambientato in un universo alternativo, Terra 828 — omaggio alla data di nascita di Jack Kirby, cocreatore insieme a Stan Lee deI Fantastici Quattro. La spiegazione che viene data all’assenza storica del gruppo nel MCU - ricordiamo che nei fumetti i Fantastici Quattro sono stati i primi supereroi della Silver Age della Marvel - è semplicemente che si sono sempre trovati in un altra dimensione, un mondo retrofuturista ispirato agli anni sessanta, dove la squadra è già attiva da anni e acclamata come simbolo dell’America che sogna il futuro.

Reed Richards (Pedro Pascal), Sue Storm (Vanessa Kirby), Ben Grimm (Ebon Moss-Bachrach) e Johnny Storm (Joseph Quinn) sono gli eroi di una nazione che li celebra come icone pop. L’incidente spaziale che ha cambiato per sempre le loro vite ci viene raccontato solo attraverso immagini d’archivio trasmesse in TV, come un frammento di storia diventato leggenda. La squadra sembra compatta, Reed e Sue aspettano un figlio, finché qualcosa non incrina l’equilibrio. Una figura argentata attraversa il cielo annunciando agli abitanti della Terra che il loro pianeta è destinato a scomparire. È Silver Surfer (Julia Garner), messaggera di un’entità cosmica che non conosce pietà né redenzione. Si chiama Galactus, il Divoratore dei Mondi. E ha fame.

Senza ombra di dubbio l'estetica e la riproposizione di quel senso di meraviglia tipica dei fumetti degli anni sessanta è la parte più riuscita. Il cast e la rappresentazione dei personaggi mi ha lasciato qualche perplessità. Il personaggio di Sue interpretata da Vanessa Kirby spicca notevolmente su tutti mettendo in ombra gli altri. La Torcia Umana funziona, mentre la Cosa, probabilmente uno dei personaggi più interessanti nel fumetto, viene lasciata un pò ai margini. Pedro Pascal nei panni di Reed Richards, invece, non mi ha convinto per niente. Il personaggio, che dovrebbe incarnare il supergenio razionale e visionario, appare spesso spaesato, cupo, quasi fuori contesto. Più che il leader della squadra, sembra un uomo in piena crisi di mezza età, confuso di fronte a una gravidanza imminente e a responsabilità che non riesce a gestire. 
Tra i villain, l’Uomo Talpa è poco più di un siparietto grottesco, mentre Silver Surfer (Shalla-Bal nei fumetti, quindi non una scelta “woke” come alcuni hanno commentato) risulta affascinante ma poco approfondita. Galactus, invece, è una presenza potente, maestosa, fedele allo spirito originale senza scadere nel ridicolo. Impresa non scontata.
Alcune scelte narrative, come [spoiler] nascondere la Terra in un altro universo [/spoiler], richiedono una certa sospensione dell’incredulità, ma per chi conosce i fumetti sa perfettamente che sono coerenti con lo spirito ingenuo dei comics anni sessanta.
Per il resto gli effetti speciali sono buoni, la regia è funzionale, la colonna sonora di Giacchino risalta propotentemente il tutto. A mancare è la profondita e la caratterizzazione dei personaggi. La sensazione che la pellicola sia stato sottoposta a vari tagli in fase di montaggio e postproduzione è molto forte. Non è un film memorabile, probabilmente poco più che sufficiente, ma tra i prodotti recenti del MCU, dicono che sia uno dei più godibili (gli ultimi della Marvel, quelli della fase 5 per intenderci, non li ho visti perchè non mi attiravano per niente). Meno ambizioso del Superman di Gunn, ma più coerente nel suo voler omaggiare con affetto l’epoca d’oro Marvel. Un film che non rilancia davvero il franchise, ma almeno riaccende — timidamente — la scintilla.

Film
cinecomic
Fantascienza
Azione
USA
2025
Cinema
martedì, 15 luglio 2025
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Bring Her Back - Torna da me

di Danny e Michael Philippou

A distanza di tre anni dal successo ottenuto con Talk to me tornano i fratelli Philippou con un nuovo horror. Prodotto sempre dalla A24, Bring Her Back - Torna da me, abbandona le possessioni adolescenziali affrontando il tema del lutto e dell'ossessione.

La storia ruota attorno a due fratelli, Piper (Sora Wong) e Andy (Billy Barratt). Piper è una ragazzina ipovedente che riesce a distinguere solo luci e forme sfocate, ma questo non le impedisce di essere curiosa e piena di vitalità. Andy, protettivo nei suoi confronti, porta dentro di sé le ferite di un passato difficile. Alla morte del padre, i due vengono affidati a Laura (Sally Hawkins), una nuova madre adottiva che vive in una casa isolata di campagna insieme a un altro bambino, Oliver (Jonah Wren Phillips), un ragazzino muto, calvo e dal comportamento inquietante. Col passare dei giorni, Piper e Andy scoprono che la casa è circondata da un misterioso cerchio di gesso bianco, e che Laura, segnata dalla perdita della figlia Cathy, sembra nascondere un oscuro segreto.

Bring Her Back è un horror che punta tutto sulla tensione psicologica. I Philippou evitano i colpi di scena facili e preferiscono costruire l’inquietudine scena dopo scena, senza mai dare una visione chiara e completa. L’atmosfera è disturbante, sospesa, con influenze da folk horror, rituali oscuri e found footage che accentuano il senso di spaesamento. Le sequenze più estreme sfiorano lo splatter, ma sono sempre funzionali e ben realizzate, grazie a ottimi effetti pratici. Il cuore del film, però, è la prova di Sally Hawkins, magnetica nel ruolo di una madre adottiva fragile e disturbata, sospesa tra tenerezza e follia. 
La trama lascia diversi interrogativi – il rituale, ad esempio, è spiegato in modo confuso  con la protagonista che sembra apprenderlo da vecchie videocassette come se stesse vedendo un tutorial su YouTube – ma sul piano emotivo e visivo resta potente. Un horror che colpisce per l’intensità del suo disagio. Sicuramente l'ho preferito al sopravvalutato Talk to Me.

Film
Horror
Australia
2025
sabato, 12 luglio 2025
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Superman (2025)

di James Gunn

Ho un rapporto piuttosto contrastato con i cinecomic. Da vecchio nerd appassionato e collezionista di fumetti, in principio li amavo. Poi è arrivata una crisi di rigetto. Hanno cominciato a stancarmi, a sembrarmi tutti uguali, e ho finito per detestarli.
Superman, tra l’altro, non è mai stato il mio supereroe preferito. Se restiamo in casa DC Comics, il mio cuore è sempre appartenuto a Batman. Eppure Superman, forse perché è stato il primo supereroe della storia dei fumetti moderni, resta il supereroe per antonomasia. Un’icona culturale globale, riconoscibile ovunque, come la Coca-Cola o il volto di Marilyn Monroe.
Sul grande schermo, almeno per quelli della generazione X, Superman ha il volto inconfondibile di Christopher Reeve. Le versioni più recenti firmate da Zack Snyder non mi hanno lasciato molto. Ma oggi c’è James Gunn, regista capace di mescolare ironia, azione, empatia e visione pop. È a lui che la Warner ha affidato non solo il reboot di Superman, ma l’intero rilancio dell’universo DC. Questo Superman è il primo passo.
Spinto dalla curiosità — e anche da mio figlio, che con l’incanto tipico dell’infanzia sta iniziando a lasciarsi alle spalle i cartoni per scoprire un altro tipo di racconto — sono tornato in sala.

La storia la conosciamo tutti, ed è forse proprio per questo che Gunn decide di saltare le origini del personaggio ed entrare subito nel vivo dell’azione. Superman (David Corenswet) è già attivo da tre anni, in un mondo affollato di metaumani, mostri e tecnologie avanzatissime. Dopo essere intervenuto nel conflitto tra Boravia e Jarhanpur, viene sconfitto da una gigantesca creatura meccanizzata e salvato dal supercane Krypto, che lo trascina nella Fortezza della Solitudine.
Dietro l’attacco c’è Lex Luthor (Nicholas Hoult), magnate spregiudicato che manipola la verità per i propri scopi, diffondendo l’idea che Superman sia stato inviato sulla Terra non per proteggerla, ma per dominarla. Mentre Lois Lane (Rachel Brosnahan) e Jimmy Olsen (Skyler Gisondo) cercano di fare luce sulla verità, una squadra di metaumani – la Justice Gang, composta da Mr. Terrific (Edi Gathegi), Hawkgirl (Isabela Merced) e Lanterna Verde (Nathan Fillion) – cerca di capire da che parte stare.

Il Superman di Gunn è lontano dall’eroe infallibile e muscolare a cui siamo abituati. È vulnerabile, idealista, perfino goffo con quel costume retrò. Non incarna l’America, ma l’umanità intera. Forse è proprio per questo che viene visto con sospetto, come un corpo estraneo, un immigrato, un alieno in tutti i sensi. Lex Luthor — qui un tecno-capitalista modellato su Elon Musk — non solo guida una campagna diffamatoria per screditarlo, (utilizzando un esercito di scimmie addestrate per generare commenti e hashtag di odio contro di lui), ma fornisce l'aiuto militare e tecnologico alla Bovaria e al suo sanguinario dittatore. Inutile giraci intorno, il conflitto tra Boravia e Jarhanpur, più che la guerra tra Russia e Ucraina, richiama con forza la situazione israelo-palestinese, con Superman che sceglie di schierarsi con i più deboli. Che un blockbuster hollywoodiano prenda una posizione così chiara è raro. Gunn lo fa senza retorica, lasciando parlare le immagini e i personaggi.

Ma Superman è anche — e soprattutto — una giostra visiva travolgente. Un film pieno di colori, azione, mostri colossali, battaglie epiche e distruzioni spettacolari. Bellissimo il piano sequenza dell’assalto di Mr. Terrific a una base militare.
È probabilmente il film più "marveliano" della DC.  Un cinecomic pop, accessibile, ricco di idee, ma con una propria identità. Ogni personaggio è trattato con attenzione. Finalmente abbiamo una Lois Lane pensante: Rachel Brosnahan è perfetta nel ruolo, audace, pragmatica, mai in ombra. Memorabile la scena in cui chiede un’intervista a Superman e lui, impacciato, finisce quasi per “prenderle” dalla donna che ama.
Lex Luthor è un villain semplice ma efficace, radicato nel nostro presente. Ossessionato dal potere, dall’immagine, da una tecnologia usata come mezzo di controllo, senza scrupoli etici.
Anche i personaggi secondari trovano tutti un momento di rilievo. Qualcuno sfiora la macchietta — come la spasimante di Jimmy Olsen che gli passa informazioni in cambio di attenzioni — ma in un racconto così ampio sono dettagli trascurabili.

Superman non è un film perfetto, alcune situazioni si ripetono, certi passaggi sono ridondanti. Ma è un cinecomic riuscito, che diverte, emoziona e fa riflettere. Parla di identità, appartenenza, famiglia. E di un alieno che, paradossalmente, si rivela più umano degli umani.
James Gunn ha fatto centro. È riuscito a restituire anima e attualità a un simbolo che sembrava ormai superato.

Film
Fantastico
Azione
cinecomic
USA
2025
Cinema
sabato, 21 giugno 2025
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The Sick Man Of Europe

The Sick Man Of Europe

Erano mesi che non postavo una recensione su un disco. Il problema è, almeno nel campo delle novità, che non c'era nulla che attirasse più di tanto la mia attenzione. In quest’epoca di playlist, streaming e marasma di proposte mordi e fuggi, è sempre più difficile rimanere colpiti da qualcosa.
A ridestare il mio interesse ci pensa questo gruppo londinese, The Sick Man Of Europe, il cui album, che porta lo stesso nome, è uscito proprio in questi giorni, anticipato nelle ultime settimane da una manciata di singoli.
The Sick Man of Europe è un termine storicamente associato all’Impero Ottomano, ma che oggi torna utile per descrivere lo stato confusionale del Regno Unito post-Brexit. E la musica di questo disco sembra partite proprio da lì, da un'Europa senza bussola, iperconnessa e disumanizzata.

Il trio – semisconosciuto, avvolto da un alone di mistero, nessuna intervista, pochissime informazioni, solo qualche apparizione live in piccoli club – arriva con un debutto che suona sintetico, minimale, monocromatico, ossessivo nella forma, radicale nel contenuto.
Le influenze sono dichiarate e nobili, una sorta di Joy Division in chiave elettronica con influenze krautrock alla Neu!. Pattern elettronici gelidi e ripetitivi, costruiti su drum machine e tastiere analogiche su cui una voce distaccata, spettrale e filtrata parla del malessere dell’epoca digitale, dell’identità umana, dell’alienazione tecnologica, e della ricerca di un significato nel mondo moderno. A che punto diventiamo obsoleti?
Sono i temi dei primi due brani, Obsolete e Transactional, dal ritmo incalzante e ripetitivo. Sanguine si prende nove minuti per mappare ansie geopolitiche e futuri possibili, mentre Profane Not Profound inchioda l’ascoltatore con un ritornello brutale: "We eat, we bite, we shit. The modern world makes me sick. Let’s destroy it. Si continua con la penetrante Movement, e la meno interessante Acidity Regulator. Chiude tutto I’m Alive, l’unico spiraglio di affermazione vitale in un disco che sembra scritto dentro un server che ha appena acquisito autocoscienza. È la luce fredda di un neon rotto. Ma è luce.

The Sick Man Of Europe è un disco fuori dal tempo, claustrofobico, rigido, a tratti impenetrabile. Ma se si accetta il suo codice, è uno di quei dischi che ti si pianta dentro il cranio. Al momento è il mio disco dell'anno.

https://thesickmanofeurope.bandcamp.com/album/the-sick-man-of-europe

Musica
Post-Punk
Krautrock
UK
2025
giovedì, 12 giugno 2025
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I Peccatori (Sinners)

di Ryan Coogler

Fin dalla sua uscita al cinema, I Peccatori, il film di Ryan Coogler, regista noto per Creed e Black Panther, ha fatto parlare di sè, raccogliendo consensi positivi tra pubblico e critica.

Mississippi, 1932. Due fratelli gemelli, Smoke e Stack (entrambi interpretati da Michael B. Jordan), tornano nella loro terra d’origine dopo un passato burrascoso nei bassifondi di Chicago. Con in tasca le lezioni imparate tra racket e notti violente, acquistano una vecchia segheria con l’intenzione di trasformarla in un juke joint, un locale notturno dove la comunità nera possa ballare, bere, ascoltare musica e dimenticare, per qualche ora, le fatiche nei campi di cotone. A unirsi alla loro impresa c’è Sammie, detto Preacher Boy (Miles Caton), un giovane chitarrista blues, capace di evocare qualcosa di più grande della musica stessa. Insieme a lui, amici, parenti e vecchi complici si danno da fare per aprire il locale la sera stessa dell’arrivo dei gemelli. Tutto sembra pronto per una notte di festa, sudore e redenzione — ma qualcosa, nell’aria densa del Delta, annuncia che la vera oscurità non arriva mai bussando alla porta.

Sinners mi ha ricordato, e non poco, Dal tramonto all’alba. Stessa struttura narrativa, con due parti nettamente distinte e la virata all'horror vampiresco nel finale. Nessuno spoiler, Coogler non gioca sull’effetto sorpresa, anzi si intuisce già dalla prima scena la direzione che prenderà il film. Lo stesso predicatore mette in guardia il figlio sul potere oscuro della musica, richiamando le leggende legate alla nascita del blues e al patto col diavolo.
Restando nel gioco delle affinità cinematografiche, la prima parte de I Peccatori richiama, almeno come tematiche, Mississippi Burning, con la sua atmosfera tesa, il razzismo, il Ku Klux Klan, polvere, sudore e rabbia repressa. Vengono presentati i personaggi, introdotto il contesto storico, e reso palpabile il clima culturale e politico dell’America del sud degli anni '30. Poi, nella seconda metà, il film cambia pelle e si trasforma in un assedio alla John Carpenter, un western notturno e furibondo, dove i vampiri emergono da ogni angolo e l’istinto di sopravvivenza diventa l’unica legge.
Ma il cuore del film, il suo nucleo pulsante, è la musica. Il blues, nella sua dimensione sacra e viscerale, è il vero centro gravitazionale della narrazione. In opposizione a esso, la musica dei "bianchi" – quella irlandese, filtrata dai non-morti – diventa un controcanto sinistro, una filastrocca stregata che sembra arrivare da un’altra epoca, e da un altro mondo.
E' proprio alla musica è legata una delle sequenze più riuscite del film, quella ambientata nel juke joint, quando la serata si accende, l’alcol scorre a fiumi, i corpi sudano, danzano, si stringono. Nell’aria si respira un’euforia febbrile, carica di desiderio e carnalità. In un lungo piano sequenza – autentico momento di cinema visionario – la musica squarcia il tempo, si connette passato, presente e futuro, mette in contatto i personaggi con i loro antenati e con chi erediterà la loro storia. Corpi separati da generazioni si muovono al ritmo di una stessa pulsione, in una sinfonia che fonde strumenti, culture, sangue e memoria.
Certo, I Peccatori non è un film perfetto. Non so se sia davvero "l’horror dell’anno", come si legge in giro. Anche perchè secondo me è proprio la seconda parte, quella più horror, la più debole e priva di tensione. Anche la caratterizzazione dei vampiri bianchi come puro simbolo oppressivo, certi momenti didascalici, suonano un po' prevedibili. Ma resta un film audace, che osa fondere folklore, storia afroamericana e horror gotico senza puntare tutto sull’action. Coogler, forte di un budget solido, mette in scena un’ambientazione curata, una fotografia evocativa – quei campi di cotone sotto cieli infuocati sono puro spettacolo – e una regia consapevole dei propri mezzi.
Michael B. Jordan, nel doppio ruolo dei gemelli Smoke e Stack, non mi ha particolarmente entusiasmato. La sua performance è solida ma poco sfaccettata, e se non fosse per il cappello, spesso i due personaggi risulterebbero indistinguibili. Ma il film regge, anzi avvolge. Due ore e un quarto di horror blues caldo e viscerale, con una coda finale che prosegue anche dopo i titoli, lasciandoti addosso il sapore di un’idea di cinema popolare, contaminato, e profondamente fisico. E sì, mi è piaciuto.

Film
Drammatico
Horror
Vampiri
USA
2025

© , the is my oyster