Caught Stealing - Una scomoda circostanza
di Darren Aronofsky
Ho un rapporto un po’ contrastante con Darren Aronofsky. Ho amato i suoi primi due film, mentre altri mi hanno lasciato parecchio perplesso. Senza dubbio mi pare sia un autore parecchio eclettico, capace di spostarsi con disinvoltura dal dramma paranoico all'horror psicologico, fino alla dimensione più visionaria e allegorica. Nel 2025 decide di adattare il romanzo A tuo rischio e pericolo di Charlie Huston e realizzare Caught Stealing - Una scomoda circostanza, un thriller action urbano dalle spiccate influenze tarantiniane, che segna una nuova deviazione nel suo percorso cinematografico.
La storia è ambientata nel 1998, nel Lower East Side di Manhattan, e segue le disavventure di Henry “Hank” Thompson (Austin Butler), ex promessa del baseball la cui carriera è stata stroncata da un incidente stradale. Ora Hank lavora come barista in un pub, affoga le giornate nell’alcol, frequenta una giovane infermiera (Zoë Kravitz), ed è legato alla madre, che gli ha trasmesso la passione per il baseball. La sua esistenza tutto sommato tranquilla prende una piega inaspettata quando il suo vicino di casa punkettone, Russ (Matt Smith), gli chiede di badare al suo gatto per qualche giorno. Da quel momento, Hank si ritrova improvvisamente braccato da gangster, poliziotti corrotti e criminali senza scrupoli, trascinato in una spirale di violenza, inseguimenti e paranoia di cui non riesce a capire le ragioni.
Strizzando l’occhio al Fuori orario di Scorsese — che omaggia con il cameo di Griffin Dunne nei panni del proprietario del pub — Aronofsky prova a mescolare l’umorismo nero dei fratelli Coen, il pulp sanguinolento di Tarantino e il gangster crime di Guy Ritchie, per confezionare un film tutto azione, situazioni esasperate, toni da commedia grottesca e personaggi sopra le righe. Volendo, anche divertente, ma che io, personalmente, l'ho trovato di poca sostanza.
Mi pare che Aronofsky abbia voluto realizzare un polpettone derivativo più per voglia di distrarsi che per raccontare un storia capace di scuotere davvero qualche corda emotiva. Alla fine è ancora la storia dell’atleta (dopo il wrestler, questa volta un giocatore di baseball, sport che non ho mai capito e non ho neanche troppa voglia di sforzarmi di capire) che ha perso la sua occasione e si ritrova sbandato, trascinato in un vortice di situazioni assurde e sempre più fuori controllo.
Di buono c’è la ricostruzione del Lower East Side di New York di fine anni novanta, sporco, malfamato, pieno di spazzatura e palazzi fatiscenti. Poi c’è il gattone, che a tratti diventa il vero protagonista del film, e la musica degli Idles, perfetta per accompagnare il caos.
Troppo poco, però, per evitargli l’insufficienza.
Eddington
di Ari Aster
Ari Aster, autore di Hereditary, Midsommar e Beau ha paura, è ormai considerato uno dei registi più interessanti del cinema di genere contemporaneo. Fin dai primissimi anni della sua carriera aveva in mente di realizzare Eddington, con l’intento di raccontare l’America di oggi attraverso un western contemporaneo. Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film ha suscitato reazioni fortemente contrastanti. Alcuni critici hanno elogiato l’audacia politica e la volontà di usare il genere per parlare del presente, altri lo hanno definito sbilanciato, confusionario e dispersivo.
Io l’ho visto al cinema e devo dire che ancora lo devo metabolizzare... proverò a farlo scrivendo questa recensione.
Il film è ambientato durante la pandemia di Covid-19, nell’estate del 2020, in una cittadina immaginaria del Nuovo Messico chiamata Eddington, poco più di duemila abitanti. Lo sceriffo locale, Joe Cross (Joaquin Phoenix), non sembra particolarmente incline a rispettare le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria (come l’obbligo di indossare la mascherina) e finisce per scontrarsi con il sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal), uomo dagli interessi poco chiari legati alla costruzione di un gigantesco data center nei pressi della città, impegnato nella campagna per la propria rielezione. Tra i due non corre buon sangue nemmeno sul piano personale, per vecchie ruggini che riguardano la moglie dello sceriffo, Louise (Emma Stone), una donna segnata dalla depressione, che secondo la madre di quest'ultima, figura ossessiva e complottista, sarebbe stata violentata da Garcia quando erano ragazzi.
Più per rivalsa che per reale convinzione politica, Cross decide di candidarsi a sindaco contro di lui. Mentre Eddington si frantuma sotto il peso delle paure collettive, dell’isolamento, della disuguaglianza e delle proteste del movimento Black Lives Matter (seguite alla morte di George Floyd da parte della polizia), Joe Cross, ferito anche dall’abbandono della moglie, attratta da Vernon Jefferson Peak (Austin Butler), un carismatico guru a capo di una setta che accoglie vittime di abusi, inizia a covare un senso di rivalsa che presto esploderà in tutta la sua violenza.
Insomma, come si intuisce da questa sinossi (e manca tanto altro, ve lo assicuro) qui c’è davvero tanta carne al fuoco. Sono molti i protagonisti, le storie e le sottotrame che si intrecciano. Eddington non è un film complesso, come poteva esserlo Beau ha paura, ma sicuramente è molto stratificato. Aster ingloba più generi, passando dal western alla satira, dalla commedia grottesca al thriller politico-sociale, usandoli con grande abilità per costruire un affresco beffardo e minaccioso sull'America di oggi.
La pandemia di Covid-19 — primo film di un certo peso a trattare esplicitamente questo tema — è solo il punto di partenza per isolare la cittadina del Nuovo Messico in una bolla, un microcosmo dove il razzismo, le disuguaglianze, i complotti, i guru, le proteste e la disinformazione diventano specchio deformante del paese intero. È un mondo dove un senzatetto ubriaco, presunto portatore del virus, può sparire senza che nessuno si chieda che fine abbia fatto, e dove l’edificio più grande del paese è un’armeria. Un'America in miniatura, dove i social network e la manipolazione dell’informazione sono dominanti (non credo sia un caso che più di una volta compare Trump mentre il protagonista scorre le notizie sul suo cellulare). Un video su Instagram può cambiare la percezione pubblica di un evento, una fotografia può essere usata come prova per incastrare il nero di turno, e la verità diventa solo un’altra narrazione da manipolare.
Il film si divide sostanzialmente in due parti. Nella prima, Aster introduce i personaggi — quasi tutti moralmente discutibili — e imposta i temi centrali con una messa in scena dilatata, statica, fatta di dialoghi e tensioni sotterranee. È un’esposizione volutamente lenta, dove la provincia americana viene ritratta come una terra stanca, piena di frustrazioni e paranoia. Nella seconda parte, Eddington cambia tono e ritmo, la storia si trasforma in un thriller politico con tratti da western urbano, fino a culminare in un epilogo amaro e disperato. Aster spinge sull’azione e la tensione diventa tangibile, quasi fisica. Splendida, per esempio, la sequenza in cui lo sceriffo, ansimante e armato di tutto punto, si muove tra i colpi dei cecchini mentre la macchina da presa si muove intorno a lui cercando di capire dove si trovino.
Joaquin Phoenix offre un’interpretazione di grande intensità, mostrando insieme fragilità, rabbia e bisogno di riscatto. Pedro Pascal è altrettanto convincente nel ruolo del sindaco Garcia, ambiguo e viscido quanto basta. Emma Stone, invece, rimane più ai margini, diventando una pedina funzionale alle svolte narrative.
Eddington è un film ambizioso, a metà strada tra Tarantino e i fratelli Coen, che mescola satira sociale, noir e western moderno per dissacrare la società americana, prendendo in giro tanto i conservatori quanto i progressisti, i complottisti quanto i moralisti della giustizia sociale. È sicuramente un film che, per la mole di temi e sfumature, richiede più di una visione. Non credo di essere il solo ma Eddington mi ha ricordato Una battaglia dopo l’altra per la sua capacità di raccontare la crisi americana contemporanea attraverso il caos e l’ironia. Personalmente gli preferisco Anderson, ma va riconosciuto ad Aster il coraggio di essersi spinto oltre il suo territorio consueto, firmando un film d’autore ironico, feroce, e amaramente lucido. Un viaggio dentro l’America ferita e paranoica del presente, raccontata con l’occhio cinico e beffardo di chi non crede più a nessuna verità.
Film
Vicious - I tre doni del male
di Bryan Bertino
Vicious – I tre doni del male è un horror psicologico a tinte demoniache uscito direttamente su Paramount+, diretto da Bryan Bertino, un regista di genere che ha già all'attivo un paio di film.
La storia vede come protagonista Polly (Dakota Fanning), una donna in chiara fase depressiva che vive da sola in una casa in disordine, senza lavoro, senza legami, priva di qualsiasi slancio verso la vita. Una notte riceve la visita di un’anziana sconosciuta che le consegna una scatola di legno e una clessidra, avvertendola che ha un’ora di tempo per mettere nella scatola una cosa che odia, una di cui ha bisogno, e una che ama, o morirà.
Da quel momento, la sua abitazione diventa un labirinto di incubi e visioni, dove passato e presente si intrecciano, ricordi dolorosi riaffiorano e figure familiari si manifestano come presenze demoniache. La solitudine che da tempo la imprigiona assume contorni sempre più minacciosi, fino a trasformarsi in una trappola psicologica.
Mentre la sabbia nella clessidra scorre inesorabile, Polly è costretta a guardare dentro se stessa e a scegliere cosa sacrificare per salvarsi, scoprendo che il vero male non sempre proviene dall’esterno, ma spesso nasce proprio da ciò che portiamo dentro.
Vicious è un horror soprannaturale con una buona dose di tensione, qualche scena sanguinosa e un paio di jumpscare piuttosto telefonati — ironico, considerando che nel film i telefoni squillano di continuo. Bryan Bertino punta tutto sull’atmosfera angosciante e claustrofobica, costruendo un racconto sospeso tra realtà e allucinazione, dove il dubbio che tutto avvenga nella mente della protagonista diventa il vero motore del film.
Dakota Fanning è brava e regge da sola l’intera messa in scena, mentre la regia di Bertino si mantiene solida e funzionale, senza particolari guizzi ma coerente con il tono della storia. Peccato che, dopo un inizio promettente, Vicious finisca per arenarsi, dilatando troppo i tempi e smarrendo la forza del suo spunto iniziale. Il risultato è un filmetto appena sufficiente, corretto nella forma ma destinato a scivolare via senza lasciare traccia.
Una battaglia dopo l'altra
di Paul Thomas Anderson
Spinto dalle tante critiche entusiastiche mi sono andato a vedere al cinema Una battaglia dopo l'altra, l'ultima pellicola di Paul Thomas Anderson. Conosco poco i suoi lavori, ho un ricordo un pò sbiadito di Magnolia e poco altro, ma è considerato da più parti uno dei migliori registi americani contemporanei.
La storia è ambienta negli Stati Uniti, non si capisce bene se si tratta di un America distopica o quella Trumpiana contemporanea.
Pat Calhoun detto "Ghetto Pat" (Leonardo DiCaprio) e Perfidia Beverly Hills (Teyana Taylor) sono membri del gruppo rivoluzionario di estrema sinistra conosciuto come French 75. Dopo aver liberato gli immigrati detenuti da un centro di detenzione in California, Perfidia umilia il colonnello, Steven Lockjaw (Sean Penn), che sviluppa un'attrazione sessuale nei suoi confronti. Con il tempo Ghetto e Perfidia diventano amanti ma Lockjaw sembra ossessionato da Perfidia e dopo averla sorpresa mentre stava piazzando una bomba in una banca, la lascia andare dopo che lei accetta di fare sesso in un motel. Perfidia dà alla luce una bambina, Charlene (interpretata da Chase Infiniti nell’età adolescenziale), ma la donna vuole continuare la sua attività rivoluzionaria e poco dopo li abbandona. Sedici anni dopo, il passato riaffiora e Ghetto si ritrova di nuovo in prima linea per proteggere sua figlia dall’ossessione di Lockjaw.
Il film mi è piaciuto? Sì, e pure molto. Ingannato dal titolo e dalle poche immagini che me lo aveva fatto accostare al Civil War di Garland, mi sono trovato davanti invece a un action-movie d’autore dal ritmo travolgente, capace di divertire, spaventare e commuovere.
Liberamente tratto da Vineland, romanzo di Thomas Pynchon, il film è stato prodotto dalla Warner Bros con un budget di oltre 150 milioni di dollari. Una buona fetta dev’essere finita nel cachet di DiCaprio, visto che non ci sono sequenze catastrofiche né scenografie monumentali da blockbuster. Poco importa, non faccio i conti alle case di produzione, soprattutto quando il risultato convince e il pubblico sembra gradire.
La sceneggiatura non è perfetta e a tratti mostra qualche debolezza, mi riferisco ad alcune ripetizioni e forzature nel finale. Ma i punti di forza del film sono altri. Innanzitutto nella regia e nel montaggio, magistrali, che fanno volare via due ore e quarantacinque minuti in un baleno. Poi negli attori con un grande DiCaprio che intrepreta un rivoluzionario nerd, appassionato di congegni esplosivi, che quindici anni dopo lo ritroviamo a fumarsi anche il cervello, dimenticandosi delle parole d’ordine. Ma è Sean Penn a rubare la scena, trasformato in una sorta di Popeye (Braccio di Ferro) militarizzato e razzista, che incute timore e insieme suscita una strana tenerezza. Una performance da Oscar la sua, che ho adorato, insieme alle dinamiche di sottomissione e trasgressione con Perfidia, la femmina ribelle e dominatrice interpretata dalla brava Teyana Taylor, che urla al mondo: "La fica è per la guerra, è un’arma". Da segnalare anche Benicio Del Toro nei panni assurdi di un sensei messicano, e la giovane Chase Infiniti, credibile nella parte della figlia.
Infine, la musica. La colonna sonora è firmata da Jonny Greenwood, già compagno di avventure di Anderson e polistrumentista dei Radiohead. È una partitura incalzante, che non accompagna semplicemente il ritmo del film ma lo detta, con momenti di sperimentazione jazz che trovano il loro culmine in una lunga sequenza costruita attorno a una singola nota ripetuta ossessivamente. La musica è parte integrante del film.
Il sottotesto politico e sociale è evidente e non serve dilungarsi troppo. Una battaglia dopo l’altra è il ritratto di un’America divisa, corrotta, fascista e sull’orlo del collasso.
Per il resto il film ha qualcosa dei fratelli Coen – il personaggio di DiCaprio ammicca chiaramente al Drugo de Il Grande Lebowski – di Tarantino, nelle situazioni grottesche ma mai eccessive, ma anche di Kubrick e Spielberg che insieme si mescolano in un racconto che resta sempre personale.
Un film frenetico e pieno d’azione, tra inseguimenti automobilistici (memorabile quello sui dossi, con la macchina da presa che pare ondeggiare) e situazioni al limite del parossistico (come quella in cui un DiCaprio disperato è alla ricerca di una presa per ricaricare il cellulare). Anderson eleva l’action movie prendendolo anche in giro – la citazione su Tom Cruise è esilarante. Gioca con i generi, li piega al presente, mescolando satira e commedia nera, riuscendo a essere insieme epico e intimo.
Un film attuale, intelligente e godibile, con più piani di lettura a seconda dello spettatore. Non il capolavoro del decennio, come ho letto in giro, ma probabilmente uno dei migliori film dell’anno.
Film
Together
di Michael Shanks
Together è il film di esordio per Michael Shanks, un altro regista australiano che dopo Sean Byrne e i fratelli Philippou si cimenta con l'horror contemporaneo. In questo caso si tratta di un body horror che affronta il tema della coppia, la dipendenza affettiva e la prigione emotiva.
Tim e Millie (interpretati rispettivamente da Dave Franco e Alison Brie) sono una giovane coppia che decide di trasferirsi in una casa in campagna. Lei è un insegnante che desiderà stabilità e un futuro insieme, lui è un musicista mancato segnato dalla perdita dei genitori. Prima di partire Millie ha fatto una proposta di matrimonio, ma Tim ha esitato, mettendola in imbarazzo di fronte agli amici. La coppia sta attraversando un periodo di crisi, i due non fanno sesso da tempo e lontano dalla città sperano di recuperare la loro relazione. Durante un'escursione vicino alla loro nuova casa, cadono in una grotta sotterranea durante un temporale e decidono di accamparsi lì per la notte. Al mattino Tim e Millie trovano le gambe parzialmente attaccate. E' l'inizio di un incubo in cui i loro corpi iniziano a fondersi, a incastrarsi l’uno nell’altro, rendendoli letteralmente inseparabili.
Il corpo come specchio delle relazioni. È questa la chiave con cui Michael Shanks racconta Together, portando il body horror su un piano intimo ed emotivo. La fusione fisica di Tim e Millie diventa metafora dell’amore come dipendenza, della coppia come spazio in cui l’individualità rischia di dissolversi.
La regia alterna con intelligenza momenti di autentico orrore a sequenze di commedia nera, mantenendo sempre la tensione emotiva. Il gore è presente ma mai gratuito. Dave Franco e Alison Brie – coppia anche nella vita reale – sostengono il film con un’interpretazione credibile anche quando la vicenda sfocia nel grottesco, come nella scena del rapporto nel bagno della scuola o in quella in cui i due sono attratti l’uno all’altro come calamite. Lui fragile e irrisolto, lei determinata ma stanca, entrambi intrappolati in una danza che alterna cura e rancore. La loro chimica rende palpabile la contraddizione di un amore che nutre e al tempo stesso consuma.
Nonostante qualche incertezza narrativa, soprattutto nel finale, la miscela di generi funziona: la grotta, il rito pagano, la filosofia e persino le Spice Girls si integrano con sorprendente coerenza. Con effetti prostetici efficaci che rimandano a Cronenberg, Yuzna e più di recente The Substance, Shanks utilizza il romanticismo del mito platonico – l’essere umano incompleto che cerca l’altra metà – in chiave horror.
Together diventa così la storia di una relazione di dipendenza tossica, la paura di donarsi sacrificando parte del proprio ego per crescere come coppia. Un horror che parla al presente, gioca con i generi e non teme l’ironia. Ottimo esordio per Michael Shanks.
Film
The Woman in the Yard
di Jaume Collet-Serra
The Woman in the Yard è un horror psicologico targato Blumhouse e diretto da Jaume Collet-Serra, regista che dopo Orphan e una lunga parentesi tra thriller e action torna al genere che meglio esalta il suo gusto per l’inquietudine e l’ambiguità.
La protagonista è Ramona (Danielle Deadwyler), sopravvissuta a un grave incidente d’auto in cui ha perso il marito. Costretta a muoversi con una gamba ingessata, vive in una fattoria isolata insieme ai due figli, Taylor (14 anni) e Annie (6 anni). Ferita nel corpo e segnata da un lutto mai elaborato, fatica a occuparsi della casa e dei bambini, che provano da soli a tenere insieme una quotidianità ormai spezzata. Una mattina, dalla finestra, la famiglia scorge una donna avvolta in un velo nero, immobile nel cortile a fissarli. Ramona pensa inizialmente a una sconosciuta in difficoltà o disturbata, ma la sua presenza si fa sempre più inquietante e vicina alla casa, minacciando la sicurezza della famiglia.
The Woman in the Yard è un horror psicologico che trasforma lutto e depressione in una presenza fisica. L’idea di dare corpo al dolore attraverso la donna in nero, funziona quando resta immobile a fissare la famiglia dal cortile, molto meno, a mio parere, quando passa all’azione.
Jaume Collet-Serra costruisce un racconto che punta sull’atmosfera, evocando titoli come Babadook e Hereditary, con cui condivide il tema del lutto come abisso interiore e la depressione intesa come spettro che avvolge lentamente la vita quotidiana. La regia lavora bene su spazi e silenzi, mentre la sceneggiatura d’esordio di Sam Stefanak introduce un buon spunto ma non lo sviluppa con la necessaria precisione. Il terzo atto, in particolare, appare confuso e pasticciato, e lascia la sensazione di un’occasione mancata.
Nel complesso, un horror minimale e suggestivo, che riesce a inquietare quando rimane sospeso nell’ambiguità e nella metafora, meno quando cerca la concretezza della spiegazione.
La valle dei sorrisi
di Paolo Strippoli
Negli ultimi anni alcuni giovani cineasti stanno tentando di riportare l’horror e il cinema di genere al centro della scena italiana, riallacciandosi a una tradizione che dagli anni sessanta agli ottanta ci ha reso protagonisti, seppur spesso di nicchia, sulla scena mondiale. Tra i nuovi autori che si muovono in questa direzione – da De Feo a Zampaglione – spicca Paolo Strippoli, che proprio con De Feo ha firmato A Classic Horror Story, un film capace di riaccendere l’interesse verso un genere a lungo guardato con diffidenza e spesso relegato ai margini dalle case di produzione.
Presentato fuori concorso all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, La valle dei sorrisi è il nuovo film di Paolo Strippoli, uscito nei cinema a distanza di circa tre anni dal precedente Piove.
Sergio (Michele Riondino), insegnante di educazione fisica ed ex campione di judo dal passato tormentato, viene trasferito nel remoto paese di Remis, una comunità isolata tra le montagne delle Alpi. Solo un anno prima il paese è stato sconvolto da un terribile deragliamento ferroviario che ha causato numerose vittime, ma oggi Remis appare come un luogo sospeso nel tempo, dove gli abitanti sembrano condurre un’esistenza serena, quasi inquietantemente felice. Dietro questa facciata si nasconde però un segreto: Matteo (Giulio Feltri), un ragazzo introverso dotato della capacità di assorbire il dolore e l’angoscia degli altri, al centro di un misterioso rito a cui partecipa l’intera comunità. Inizialmente diffidente, Sergio viene convinto da Michela (Romana Maggiora Vergano), che lavora nel bar del paese, a liberarsi del segreto che lo tormenta affidandosi a Matteo. Nel tentativo di comprendere e forse salvare il ragazzo da un destino di sacrificio, Sergio scoprirà che il rito, la felicità apparente e l’armonia di Remis sono molto più ambigui e intrecciati di quanto avesse immaginato.
Il film affronta molti temi, forse anche troppi. Quello dominante è il dolore come elemento rimosso o negato dalla società, il mito della felicità obbligatoria e del sorriso che nasconde ferite. Ma oltre a questo, troviamo la dimensione del sacrificio e della responsabilità, l’empatia che diventa risorsa da sfruttare, la religione e la sacralità dei gesti come maschera di una dipendenza dal sentirsi felici, il bullismo scolastico, l’adolescenza queer e il rapporto padre-figlio.
La valle dei sorrisi è un horror atipico che non punta a spaventare con jumpscare né a intrattenere con soluzioni facili, ma a scavare nella profondità dell’animo umano. La prima parte, più lenta e introspettiva, serve a delineare i protagonisti e il microcosmo di Remis, un paese tra le montagne in cui ognuno cela un malessere interiore e un segreto inconfessabile. L’inquadratura con il cartello "Benvenuto a Remis" richiama inevitabilmente quello di Twin Peaks, e come nella serie di Lynch il paesaggio montano non è semplice sfondo, ma vero e proprio elemento narrativo che alimenta mistero, sospetto e straniamento.
Nella seconda parte il film cresce fino a evocare suggestioni da Villaggio dei dannati e rimandi alla Ari Aster – la palestra trasformata in una sorta di chiesa pagana mi ha ricordato molto Midsommar. Eppure Strippoli riesce a mantenere una propria identità, costruendo un crescendo misurato in cui l’atmosfera si fa via via più intensa. La regia dosa bene l’inquietudine, lavora sul suono e sul silenzio, sfrutta il mistero prima di svelarlo, trovando un equilibrio visivo e ritmico notevole.
Convincente Michele Riondino, che all’inizio mi ricordava un malinconico Tomas Milian/Monnezza, bravo soprattutto quando rivela il trauma che lo perseguita. Solida anche la prova di Giulio Feltri, capace di incarnare insieme l’innocenza e le pulsioni dell’adolescenza, mentre cerca di sottrarsi a un destino che lo vuole ricettacolo del dolore altrui.
La valle dei sorrisi non è un film perfetto, né il miglior horror italiano degli ultimi anni, ma segna una direzione importante. È un’opera che dimostra come questa sia la strada giusta da percorrere per riportare il nostro cinema di genere a nuova vita.
84m²
di Kim Tae-joon, Sharon S. Park
Distribuito su Netflix, 84m² di Kim Tae-joon (anche sceneggiatore) e Sharon S. Park è un thiller domestico che mescola inquietudine quotidiana, stress finanziario e paranoia.
No Woo-sung (interpretato da Kang Ha-neul) è un giovane impiegato di Seul che, dopo anni di sacrifici, riesce finalmente a comprarsi un appartamento di 84 m², un traguardo quasi irraggiungibile in un mercato immobiliare esclusivo e implacabile. All’inizio la vita sembra migliorata, ma ben presto il valore dell’appartamento crolla, i debiti si accumulano, e Woo-sung si ritrova costretto a lavorare anche la notte per far quadrare i conti. La situazione prende una piega inquietante quando il nostro protagonista inizia a sentire strani rumori provenienti dagli appartamenti adiacenti e i vicini lo accusano di essere lui il responsabile del baccano notturno.
84m² è un thriller claustrofobico e alienante, una metafora lucidissima sul sogno – o meglio sull’incubo – di avere una casa di proprietà a Seul. Tra speculazione edilizia e crisi economica, quello che dovrebbe essere il traguardo della felicità e la prova di essere dei vincenti si rivela una trappola, un paradiso che presto si trasforma in prigione economica. Gli inquilini, più che abitanti, sono condannati a una vita da sfruttati, schiacciati dai debiti e intrappolati in un sistema che divora molto più di quanto restituisca. A questa dimensione collettiva se ne aggiunge una più intima, in cui l’appartamento si trasforma in un luogo ostile, dove ogni rumore diventa minaccia e ogni sguardo dei vicini si trasforma in sospetto.
Il film di Kim Tae-joon è interessante, ha una regia elegante, tempi perfetti, e parte da una buona idea. Peccato che, dopo un avvio solido e intrigante, tutto concentrato sul protagonista il film inizi a inciampare su se stesso. L’insistenza nel sorprendere lo spettatore ad ogni costo produce un intreccio narrattivo un po' pasticciato, che sacrifica la chiarezza e smorza l’impatto della critica sociale, pur restando ben riconoscibile.
Film godibile e accattivante ma confuso nel finale.
Hallow Road
di Babak Anvari
Hallow Road, quarta pellicola del regista britannico-iraniano Babak Anvari, arriva da noi a noleggio sulle principali piattaforme (Prime Video, Apple TV e altre) con l’improbabile sottotitolo Corsa contro il tempo — titolo che sembra uscito da un catalogo di action con Jason Statham. In realtà non siamo di fronte a un film muscolare e fracassone, bensì a un thriller psicologico dalle sfumature horror, più insinuate che dichiarate, che si consuma quasi interamente all’interno di un’automobile.
Maddie (Rosamund Pike) e suo marito Frank (Matthew Rhys) ricevono in piena notte una telefonata dalla figlia diciottenne Alice, fuggita di casa dopo una violenta lite familiare. La ragazza, sconvolta, racconta di aver investito una coetanea e di trovarsi bloccata su una strada remota nel cuore dei boschi. I due genitori partono immediatamente per raggiungerla, mantenendo il contatto telefonico per sostenerla e guidarla nelle manovre di rianimazione della giovane investita. Durante il tragitto, però, la tensione cresce. La distanza di tempo, i dubbi, le verità taciute e i conflitti mai risolti emergono con forza, rivelando che l’incidente è molto più complesso di quanto potessero immaginare.
Ambientare un intero film dentro un’auto è una scelta coraggiosa, ma non inedita – basti pensare a Locke, Una notte a New York o il recente Locked - In trappola. Se gli attori sono all’altezza e i dialoghi ben scritti, anche una situazione apparentemente semplice come quella di due genitori che, nel cuore della notte, viaggiano verso la figlia seguendo un navigatore può diventare carica di tensione. È proprio ciò che accade in Hallow Road, dove il vero dramma si consuma altrove, nella voce di Alice al telefono, e ci raggiunge solo attraverso frammenti spezzati, interrotti dal panico e probabilmente dall’alterazione provocate dalle sostanze stupefacenti assunte della ragazza.
Babak Anvari costruisce così un thriller psicologico che lavora per sottrazione, dove non vediamo mai davvero cosa succede, abbiamo solo il punto di vista limitato di Maddie e Frank, chiusi nell’abitacolo mentre cercano di interpretare un racconto che prende via via pieghe inquietanti e persino soprannaturali. Il film trova la sua forza proprio in questo spazio ridotto, dove le performance di Rosamund Pike e Matthew Rhys reggono da sole la tensione, tra silenzi, nervosismi e sguardi carichi di paura.
Hallow Road non offre risposte nette né spiegazioni rassicuranti. È un film che gioca con le atmosfere, con le possibilità terrificanti che restano sospese nell’aria, lasciando allo spettatore il compito di colmare i vuoti. Funziona soprattutto quando ci costringe a restare dentro quella macchina, a condividere lo smarrimento dei genitori e a interrogarci su quanto davvero conosciamo chi amiamo. Certo, chi cerca un horror classico – perchè alla fine di horror si tratta – con colpi di scena e finali chiusi, rischia di rimanere deluso. In questo film bisogna accettare l’ambiguità e lasciarsi trascinare da un incubo in cui la logica non sempre segue le nostre aspettative.
Un film fatto per Bene
di Franco Maresco
Presentato all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, sono andato a vedere l’ultimo film di Franco Maresco, probabilmente il regista più corrosivo e dissacrante del nostro cinema contemporaneo. Con Daniele Ciprì ha dato vita a Cinico Tv, assurdo programma satirico degli anni novanta che quelli della mia generazione ricorderanno senz'altro – erano i tempi di Fuorio Orario, Avanzi, un periodo in cui il terzo canale della Rai aveva ancora il coraggio di rischiare, di lasciare spazio a linguaggi scomodi e sperimentali. Da lì arrivarono Lo zio di Brooklyn e il famigerato Totò che visse due volte, accolto da polemiche e censure per il suo sguardo blasfemo e senza compromessi. Negli anni duemila Maresco ha continuato a lavorare tra cinema e documentario, costruendo un percorso che non concede nulla allo spettatore se non la verità ruvida della sua visione. Conoscendo la sua fama, sapevo che non sarebbe stata una visione semplice, ma con la complicità di un paio di amici, ho deciso di vedermi Un film fatto per Bene.
Il film, girato come fosse un documentario, racconta la travagliata storia della realizzazione di un film su Carmelo Bene da parte di Franco Maresco. Prodotto dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti tra incidenti, incomprensioni, ciak infiniti e ripetuti ritardi, le riprese vengono bruscamente interrotte in anticipo e il film rimane incompleto. Maresco accusa la produzione di “filmicidio” e sparisce dalla circolazione. A questo punto Umberto Cantone, suo amico e co-autore, si mette alla sua ricerca, contatta testimoni e collaboratori, ripercorrendo così la personalità di un regista ossessivo, nevrotico, nichilista e apocalitticamente pessimista.
Maresco firma un film metacinematografico, assolutamente autoreferenziale ma spietatamente critico con se stesso e con l’industria cinematografica. Un’opera consapevole di essere destinata a quattro gatti – o a pantegane intellettualoidi – ma che Maresco realizza perchè questo è l'unico modo per dare sfogo alla rabbia e all’orrore che prova per questo "mondo di merda". Un film fatto per Bene diventa così una sorta di (auto)analisi che prende avvio in una stanza d’albergo, prenotata ogni cinque o sei mesi per tagliarsi i capelli, per poi passare a un taxi guidato dal personaggio forse più esilarante, un autista che usa la preghiera come intercalare, fino agli spezzoni di un film incompiuto ambientati nella brulla Sicilia e in studi cinematografici. In mezzo, una partita a scacchi con la Morte di Bergman impersonata da un irresistibile Antonio Rezza – «ma lo sai come si gioca a scacchi, Peppino?» – e l’ascesa ai cieli di San Giuseppe da Copertino, con conseguente caduta. Il film finisce per spolverare ritagli della memoria in un percorso a ritroso che rievoca il sodalizio con Daniele Ciprì, Cinico Tv, Totò che visse due volte, tra materiali d’epoca e ricostruzioni girate per sembrare d’archivio.
Ne viene fuori un film autocelebrativo, sconclusionato, a tratti confuso, che non provoca, ma che riesce comunque a strappare risate – soprattutto nella prima parte – grazie ai suoi personaggi tragicomici. Qui non ci sono la disperazione e gli eccessi taglienti, ruvidi e blasfemi delle opere anni novanta, né l’impatto disturbante del miglior Maresco. In realtà non c’è neanche Carmelo Bene, ed è un peccato. Resta un film che diverte chi sa ridere delle tristezze altrui, ma che alla lunga sfianca. Consigliato solo a chi conosceun minimo l’autore. Per tutti gli altri, astenersi.
Dangerous Animals
di Sean Byrne
Fin dai tempi del capostipite del genere, Lo Squalo di Steven Spielberg, i grandi predatori marini con dentature affilate sono diventati un nemico naturale dell’uomo che osa sfidare le profondità dell’oceano. Ovviamente si tratta di un mito soprattutto cinematografico, perché nella realtà le zanzare fanno più vittime degli squali, ma sul grande schermo pungiglioni e ronzii hanno meno fascino delle mascelle spalancate, ed è per questo che i film dedicati agli insetti si contano sulle dita di una mano.
Dangerous Animals, diretto dall’australiano Sean Byrne, si inserisce in questa tradizione con un approccio ibrido, a metà tra survival horror e lo slasher. Perché il vero pericolo non arriva soltanto dal mare, ma da un serial killer ossessionato dagli squali, che rapisce le sue vittime per gettarle in pasto ai predatori, riprendendo ogni dettaglio delle loro agonie con una vecchia telecamera in vhs.
La storia è semplice. La protagonista è Zephyr (Hassie Harrison), surfista dal passato turbolento e dallo spirito ribelle, che dopo una notte di passione con un ragazzo di nome Moses (Josh Heuston) finisce nelle mani di Tucker (Jai Courtney), un folle omicida che si diverte ad attirare giovani vittime sulla sua barca per sacrificarle agli squali. Intrappolata in mare aperto, Zephyr si trova a lottare con tutte le sue forze per sopravvivere, tra bagni di sangue, fughe disperate e la costante minaccia delle acque che la circondano.
Dangerous Animals è il classico horror estivo che fa il suo dovere, ovvero intrattiene con buon ritmo e una tensione costante. Sean Byrne, regista noto per un paio di film interessanti, rilegge il genere dello shark-movie spostando il centro della paura dagli squali all’essere umano, trasformando i predatori marini in semplici strumenti nelle mani di un serial killer ossessionato dalla violenza.
La sceneggiatura non è priva di forzature, a tratti persino ridicole, ma il film funziona esattamente per ciò che promette: tensione, adrenalina e quel divertimento ansiolitico tipico del cinema di genere. Hassie Harrison, al suo primo ruolo di rilievo, si impone come una "final girl" carismatica e combattiva, quasi una Jennifer Lawrence in versione Rambo, con una resistenza fisica che diventa metafora della sua determinazione. Sul fronte opposto Jai Courtney, volto già noto in alcuni action-movie, dà vita a un maniaco rozzo, spietato e sottilmente ironico, risultando credibile e disturbante al tempo stesso.
Il confronto tra i due protagonisti regge l’intero film, con un continuo capovolgimento dei ruoli di predatore e preda, mentre gli squali restano sullo sfondo, più che altro come elementi naturali di un rituale di morte. Nonostante i limiti di scrittura, l’idea di intrecciare la figura del serial killer al mito degli squali funziona, regalando un thriller che, senza reinventare nulla, riesce comunque a intrattenere e inquietare.
Weapons
di Zach Cregger
Sono andato al cinema a vedere Weapons, il nuovo film scritto e diretto da Zach Cregger, lo stesso regista di Barbarian (che, ammetto, non ho ancora recuperato). Un horror che attraversa il mistery e il thriller, passando per il sovrannaturale, la tensione socio-psicologica e persino un tocco di humor nero.
La storia ruota intorno a un evento misterioso. In una tranquilla cittadina della Pennsylvania, alle 2:17 di notte, diciassette bambini della stessa classe di terza elementare si alzano dai loro letti e corrono fuori casa con le braccia spalancate, come piccoli aeroplani, fino a scomparire inghiottiti dal buio. Nessuna spiegazione, nessun indizio, solo immagini sgranate riprese da videocamere di sorveglianza e un’angoscia che si insinua in ogni famiglia del quartiere. L’unico a non sparire è Alex, un bambino taciturno e profondamente scosso per la situazione. La comunità, traumatizzata e in cerca di un colpevole, individua nella giovane maestra Justine Gandy (Julia Garner) il capro espiatorio perfetto su cui sfogare rabbia e frustrazione. L’unico deciso a scoprire la verità è Archer (Josh Brolin), padre di uno dei bambini scomparsi, che insieme a Justine, all’agente di polizia Paul (Alden Ehrenreich), al preside Marcus (Benedict Wong), a un giovane tossicodipendente (Austin Abrams) e allo stesso Alex, è protagonista di uno dei sei capitoli in cui si articola la pellicola. Sei punti di vista che, intrecciandosi e sovrapponendosi, finiscono per comporre un inquietante puzzle.
Il modo migliore per apprezzare Weapons è arrivarci sapendo il meno possibile, e per una volta il trailer non svela troppo. L’incipit è già di per sé potentissimo. Cregger ci porta in una provincia americana segnata dal male, in una storia sospesa tra un racconto alla Stephen King e una fiaba oscura dei fratelli Grimm. La scelta del titolo, il modo in cui i bambini corrono, la sequenza onirica del fucile… tutto lascia intuire che il male sia radicato nel tessuto stesso della comunità. È anche una critica sociale che riflette sulla necessità di trovare colpevoli, su come possiamo diventare armi e su come la rabbia, filtrata dal dolore, possa distorcere la verità. Una caccia alle streghe che si trasforma in metafora dell’America di oggi.
La forza di Weapons sta nella sua struttura. La storia viene raccontata di volta in volta dal punto di vista di diversi protagonisti, in un montaggio tecnicamente impeccabile. Lo spettatore è spaesato quanto i personaggi, tutti tratteggiati in modo negativo, e come loro non riesce a dare un senso a ciò che accade perché mancano pezzi fondamentali. La tensione emotiva resta alta finché il puzzle non si ricompone e l’arcano viene svelato. È qui che la tensione cala e il thriller psicologico costruito fino a quel momento, punteggiato da sequenze oniriche e qualche jump scare ben calibrato, lascia spazio a un horror soprannaturale legato alla magia. A questo punto il film cambia tono e ciò che era sottile e inquietante diventa improvvisamente surreale, grottesco e persino sopra le righe, con sfumature quasi da humor nero.
Personalmente il finale mi ha spiazzato trovandolo quasi comico nella messa in scena. Ammetto che all’uscita dalla sala ero abbastanza confuso. Ripensandoci a mente fredda, però, l’ho percepito come una scelta coraggiosa e persino originale. Perché, pur virando sul grottesco, il film non si chiude in modo positivo e tutti i protagonisti sembrano riportare ferite profonde, forse permanenti, per ciò che hanno vissuto.
Weapons funziona bene sul piano narrativo e può contare su un cast di spessore. È un film che non cerca di piacere a tutti i costi, che preferisce il rischio alla sicurezza e che colpisce per il coraggio stilistico. Una scelta consapevole, che può dividere, ma che per molti, compreso per chi scrive, è la chiave del suo fascino.
Film
Locked - In Trappola
di David Yarovesky
Locked è un action thriller americano del 2025 prodotto da Sam Raimi e diretto da David Yarovesky. Si tratta del remake di 4x4, un film argentino del 2019 che ha raccolto consensi nei festival internazionali. Non avendo visto l’originale, eviterò confronti antipatici che spesso sminuiscono la versione americana.
La storia vede come protagonista Eddie (Bill Skarsgård), un ladruncolo che vive di espedienti e che ha un disperato bisogno di soldi per recuperare il suo furgone, fermo dal meccanico. Senza di esso non può lavorare né andare a prendere sua figlia a scuola nei pochi giorni in cui gli è concesso vederla.
Nel tentativo di racimolare qualcosa, si introduce in un SUV parcheggiato in una strada tranquilla. Peccato che una volta dentro, si ritrovi prigioniero. Le portiere non si aprono, i vetri sono blindati, l’auto è insonorizzata e completamente isolata dal mondo esterno, senza alcuna copertura di rete per il cellulare. Dietro questa trappola c’è William (Anthony Hopkins), il proprietario del veicolo, un uomo deluso dalla giustizia, che ormai crede solo in quella personale e come un vendicatore solitario, ha deciso di farsi giustizia a modo suo, tormentando il povero ladruncolo con musica ad alto volume, temperature estreme, disidratazione e fame.
Locked è un thriller compatto dalla trama essenziale in cui David Yarovesky sfrutta al meglio lo spazio claustrofobico dell’abitacolo - bella la carrellata circolare che gira attorno al protagonista nello spazio angusto del SUV. Il problema è che, dopo mezz’ora, il gioco comincia a ripetersi, tra scosse elettriche, umiliazioni e dialoghi che vorrebbero essere profondi ma restano in superficie.
Skarsgård se la cava benissimo – nonostante indossi una felpa rosa mentre cerca di passare inosservato aggirandosi furtivo tra le macchine di un parcheggio – e regge da solo quasi tutto il film, riuscendo a farci sentire l’ansia e la frustrazione del suo personaggio. Hopkins, invece, ci mette solo la voce, entrando in scena solo nel finale sfoggiando il suo carisma.
Il film accenna a temi come divisioni sociali, giustizia e privilegio, ma lo fa in modo piuttosto superficiale, preferendo la tensione al contenuto. In definitiva, Locked è un thriller ben confezionato, girato bene, veloce, teso il giusto, che si guarda senza noia, ma poco altro. Insomma, ideale per chi cerca un thriller d’intrattenimento senza troppe pretese.
28 anni dopo
di Danny Boyle
Se fosse uscito tra cinque anni sarebbe stato perfetto. Ma tant’è.
Accantonando le mie ossessioni compulsive legata alla simmetria temporale, Danny Boyle torna nel 2025 con 28 anni dopo, nuovo capitolo della saga horror-post apocalittica iniziata con 28 giorni dopo nel 2002 - e poi proseguita con 28 settimane dopo nel 2007.
Quasi trent’anni dopo da quando il virus della rabbia ha trasformato gli infetti in zombie assassini, l’Inghilterra si trova ancora in quarantena. Il resto del mondo, temendo la diffusione, ha circondato l’isola e sigillato ogni contatto, lasciando i sopravvissuti a gestirsi da soli.
La vicenda si apre su una comunità isolata su una piccola isola, senza elettricità o altre comodità moderne, collegata alla terraferma da una striscia di terra accessibile solo con la bassa marea. Qui vive Jamie (Aaron Taylor-Johnson) con la moglie Isla (Jodie Comer) – affetta da una malattia impossibile da diagnosticare a causa dell’assenza di dottori – e il figlio dodicenne Spike (Alfie Williams). Per Jamie è giunto il momento che suo figlio diventi adulto e, in una sorte di rituale di iniziazione celebrato da tutta la comunità, decide di portarlo con sè, verso la terraferma, armato di arco e frecce, per insegnargli a cacciare e uccidere gli infetti.
28 anni dopo nasce come primo capitolo di una nuova trilogia. Boyle torna alla regia, affiancato alla sceneggiatura da Alex Garland, ricomponendo la coppia che aveva dato vita al film originale.
Gli infetti – che non sono zombie nel senso classico, ma umani trasformati dal virus della rabbia in creature iperaggressive – si sono evoluti. Oltre ai classici corridori, ora ci sono i “lenti”, deformi e striscianti, e gli “Alpha”, forti, intelligenti e in grado di organizzarsi, guidare e persino riprodursi.
Il vero protagonista del film è Spike, interpretato con intensità dal giovane Williams, probabilmente destinato a guidare l’intera trilogia. Il film segue due suoi viaggi fuori dall’isola. Il primo, con il padre, è una sorta di battesimo del fuoco che pare più un’esibizione di virilità paterna che un vero insegnamento. Il secondo, con la madre, è un percorso più intimo, alla ricerca di un medico in grado di salvarla. Il vaggio con il padre è dominato dall’azione – da segnalare l’intensa scena della fuga sull’isolotto inseguiti da un Alfa – mentre il secondo è più riflessivo, e porta Spike a confrontarsi con una realtà molto più complessa e difficile da accettare quale la mortalità delle persone che amiamo.
Partiamo dalle cose che mi sono piaciute.
La fotografia predilige paesaggi rurali e spazi aperti, evitando le ambientazioni urbane e regalando dei panorami mozzafiato.
Ho apprezzato anche la parte con il montaggio alternato tra l’addestramento dei bambini e immagini d’archivio militari, accompagnate dalla lettura del poema Boots di Rudyard Kipling.
Tra i personaggi secondari spicca il Dr. Kelson, interpretato da Ralph Fiennes, figura carismatica e ambigua che richiama il colonnello Kurtz di Apocalypse Now: isolato, ossessionato dalla memoria, circondato da una torre di teschi che sembra un monumento alla follia.
Toccante anche il rapporto tra Spike e la madre, percorso da una dolcezza trattenuta che esplode nel finale. Il tema della morte attraversa il film e trova espressione nella frase latina che lo accompagna: memento mori.
L’isolamento della Gran Bretagna potrebbe far pensare a una metafora sulla Brexit, ma se il riferimento esiste, rimane in superficie e non trova vero sviluppo.
Nota di merito, infine, alla colonna sonora firmata dagli Young Fathers che dona al film un'identità sonora netta e accativante.
Veniamo a cosa non mi è piaciuto.
Alcune scelte narrative io le ho trovato parecchie forzate o poco credibili.
L’episodio dell’infetta che partorisce e accetta di essere aiutata da Isla, ad esempio, mi ha lasciato perplesso. Pure il fatto che la neonata sembra miracolosamente immune, rimane un mistero, ma magari verrà spiegato nei successivi episodi. Sono inezie, me ne rendo conto, ma anche la già citata torre di teschi, per quanto suggestiva, così come è composta da migliaia di teschi appoggiati uno sull’altro, mi fa pensare che al primo temporale viene tutto giù.
E il finale, chiaramente pensato per lasciare aperta la strada ai sequel, l'ho trovato parecchio pacchiano e spiazzante. Insomma, non mi invoglia per niente a vedere il suo seguito.
28 anni dopo è un film che ha momenti intensi e scelte discutibili. Vediamo se il mondo riaperto da Boyle e Garland avrà ancora qualcosa da dire.
Film
I Fantastici Quattro - Gli inizi
di Matt Shakman
Da lettore di vecchia data dei Fantastici Quattro — fin dai tempi degli albi Corno, tanto per intenderci — ho sempre pensato che portare questi personaggi al cinema — dopo i due film degli anni 2000 e il disastroso reboot del 2015 — fosse una sfida quasi impossibile. Non per mancanza di potenziale, ma perché troppo legati a un immaginario d’avventura e meraviglia ormai distante dal tono cupo e disilluso del cinema supereroistico moderno.
Con I Fantastici Quattro – Gli inizi, i Marvel Studios provano a ricominciare da capo. E, sorprendentemente, lo fanno guardando (quasi) nella direzione giusta. Diretto da Matt Shakman (Wandavision), il film è ambientato in un universo alternativo, Terra 828 — omaggio alla data di nascita di Jack Kirby, cocreatore insieme a Stan Lee deI Fantastici Quattro. La spiegazione che viene data all’assenza storica del gruppo nel MCU - ricordiamo che nei fumetti i Fantastici Quattro sono stati i primi supereroi della Silver Age della Marvel - è semplicemente che si sono sempre trovati in un altra dimensione, un mondo retrofuturista ispirato agli anni sessanta, dove la squadra è già attiva da anni e acclamata come simbolo dell’America che sogna il futuro.
Reed Richards (Pedro Pascal), Sue Storm (Vanessa Kirby), Ben Grimm (Ebon Moss-Bachrach) e Johnny Storm (Joseph Quinn) sono gli eroi di una nazione che li celebra come icone pop. L’incidente spaziale che ha cambiato per sempre le loro vite ci viene raccontato solo attraverso immagini d’archivio trasmesse in TV, come un frammento di storia diventato leggenda. La squadra sembra compatta, Reed e Sue aspettano un figlio, finché qualcosa non incrina l’equilibrio. Una figura argentata attraversa il cielo annunciando agli abitanti della Terra che il loro pianeta è destinato a scomparire. È Silver Surfer (Julia Garner), messaggera di un’entità cosmica che non conosce pietà né redenzione. Si chiama Galactus, il Divoratore dei Mondi. E ha fame.
Senza ombra di dubbio l'estetica e la riproposizione di quel senso di meraviglia tipica dei fumetti degli anni sessanta è la parte più riuscita. Il cast e la rappresentazione dei personaggi mi ha lasciato qualche perplessità. Il personaggio di Sue interpretata da Vanessa Kirby spicca notevolmente su tutti mettendo in ombra gli altri. La Torcia Umana funziona, mentre la Cosa, probabilmente uno dei personaggi più interessanti nel fumetto, viene lasciata un pò ai margini. Pedro Pascal nei panni di Reed Richards, invece, non mi ha convinto per niente. Il personaggio, che dovrebbe incarnare il supergenio razionale e visionario, appare spesso spaesato, cupo, quasi fuori contesto. Più che il leader della squadra, sembra un uomo in piena crisi di mezza età, confuso di fronte a una gravidanza imminente e a responsabilità che non riesce a gestire.
Tra i villain, l’Uomo Talpa è poco più di un siparietto grottesco, mentre Silver Surfer (Shalla-Bal nei fumetti, quindi non una scelta “woke” come alcuni hanno commentato) risulta affascinante ma poco approfondita. Galactus, invece, è una presenza potente, maestosa, fedele allo spirito originale senza scadere nel ridicolo. Impresa non scontata.
Alcune scelte narrative, come [spoiler] nascondere la Terra in un altro universo [/spoiler], richiedono una certa sospensione dell’incredulità, ma per chi conosce i fumetti sa perfettamente che sono coerenti con lo spirito ingenuo dei comics anni sessanta.
Per il resto gli effetti speciali sono buoni, la regia è funzionale, la colonna sonora di Giacchino risalta propotentemente il tutto. A mancare è la profondita e la caratterizzazione dei personaggi. La sensazione che la pellicola sia stato sottoposta a vari tagli in fase di montaggio e postproduzione è molto forte. Non è un film memorabile, probabilmente poco più che sufficiente, ma tra i prodotti recenti del MCU, dicono che sia uno dei più godibili (gli ultimi della Marvel, quelli della fase 5 per intenderci, non li ho visti perchè non mi attiravano per niente). Meno ambizioso del Superman di Gunn, ma più coerente nel suo voler omaggiare con affetto l’epoca d’oro Marvel. Un film che non rilancia davvero il franchise, ma almeno riaccende — timidamente — la scintilla.
Bring Her Back - Torna da me
di Danny e Michael Philippou
A distanza di tre anni dal successo ottenuto con Talk to me tornano i fratelli Philippou con un nuovo horror. Prodotto sempre dalla A24, Bring Her Back - Torna da me, abbandona le possessioni adolescenziali affrontando il tema del lutto e dell'ossessione.
La storia ruota attorno a due fratelli, Piper (Sora Wong) e Andy (Billy Barratt). Piper è una ragazzina ipovedente che riesce a distinguere solo luci e forme sfocate, ma questo non le impedisce di essere curiosa e piena di vitalità. Andy, protettivo nei suoi confronti, porta dentro di sé le ferite di un passato difficile. Alla morte del padre, i due vengono affidati a Laura (Sally Hawkins), una nuova madre adottiva che vive in una casa isolata di campagna insieme a un altro bambino, Oliver (Jonah Wren Phillips), un ragazzino muto, calvo e dal comportamento inquietante. Col passare dei giorni, Piper e Andy scoprono che la casa è circondata da un misterioso cerchio di gesso bianco, e che Laura, segnata dalla perdita della figlia Cathy, sembra nascondere un oscuro segreto.
Bring Her Back è un horror che punta tutto sulla tensione psicologica. I Philippou evitano i colpi di scena facili e preferiscono costruire l’inquietudine scena dopo scena, senza mai dare una visione chiara e completa. L’atmosfera è disturbante, sospesa, con influenze da folk horror, rituali oscuri e found footage che accentuano il senso di spaesamento. Le sequenze più estreme sfiorano lo splatter, ma sono sempre funzionali e ben realizzate, grazie a ottimi effetti pratici. Il cuore del film, però, è la prova di Sally Hawkins, magnetica nel ruolo di una madre adottiva fragile e disturbata, sospesa tra tenerezza e follia.
La trama lascia diversi interrogativi – il rituale, ad esempio, è spiegato in modo confuso con la protagonista che sembra apprenderlo da vecchie videocassette come se stesse vedendo un tutorial su YouTube – ma sul piano emotivo e visivo resta potente. Un horror che colpisce per l’intensità del suo disagio. Sicuramente l'ho preferito al sopravvalutato Talk to Me.
Superman (2025)
di James Gunn
Ho un rapporto piuttosto contrastato con i cinecomic. Da vecchio nerd appassionato e collezionista di fumetti, in principio li amavo. Poi è arrivata una crisi di rigetto. Hanno cominciato a stancarmi, a sembrarmi tutti uguali, e ho finito per detestarli.
Superman, tra l’altro, non è mai stato il mio supereroe preferito. Se restiamo in casa DC Comics, il mio cuore è sempre appartenuto a Batman. Eppure Superman, forse perché è stato il primo supereroe della storia dei fumetti moderni, resta il supereroe per antonomasia. Un’icona culturale globale, riconoscibile ovunque, come la Coca-Cola o il volto di Marilyn Monroe.
Sul grande schermo, almeno per quelli della generazione X, Superman ha il volto inconfondibile di Christopher Reeve. Le versioni più recenti firmate da Zack Snyder non mi hanno lasciato molto. Ma oggi c’è James Gunn, regista capace di mescolare ironia, azione, empatia e visione pop. È a lui che la Warner ha affidato non solo il reboot di Superman, ma l’intero rilancio dell’universo DC. Questo Superman è il primo passo.
Spinto dalla curiosità — e anche da mio figlio, che con l’incanto tipico dell’infanzia sta iniziando a lasciarsi alle spalle i cartoni per scoprire un altro tipo di racconto — sono tornato in sala.
La storia la conosciamo tutti, ed è forse proprio per questo che Gunn decide di saltare le origini del personaggio ed entrare subito nel vivo dell’azione. Superman (David Corenswet) è già attivo da tre anni, in un mondo affollato di metaumani, mostri e tecnologie avanzatissime. Dopo essere intervenuto nel conflitto tra Boravia e Jarhanpur, viene sconfitto da una gigantesca creatura meccanizzata e salvato dal supercane Krypto, che lo trascina nella Fortezza della Solitudine.
Dietro l’attacco c’è Lex Luthor (Nicholas Hoult), magnate spregiudicato che manipola la verità per i propri scopi, diffondendo l’idea che Superman sia stato inviato sulla Terra non per proteggerla, ma per dominarla. Mentre Lois Lane (Rachel Brosnahan) e Jimmy Olsen (Skyler Gisondo) cercano di fare luce sulla verità, una squadra di metaumani – la Justice Gang, composta da Mr. Terrific (Edi Gathegi), Hawkgirl (Isabela Merced) e Lanterna Verde (Nathan Fillion) – cerca di capire da che parte stare.
Il Superman di Gunn è lontano dall’eroe infallibile e muscolare a cui siamo abituati. È vulnerabile, idealista, perfino goffo con quel costume retrò. Non incarna l’America, ma l’umanità intera. Forse è proprio per questo che viene visto con sospetto, come un corpo estraneo, un immigrato, un alieno in tutti i sensi. Lex Luthor — qui un tecno-capitalista modellato su Elon Musk — non solo guida una campagna diffamatoria per screditarlo, (utilizzando un esercito di scimmie addestrate per generare commenti e hashtag di odio contro di lui), ma fornisce l'aiuto militare e tecnologico alla Bovaria e al suo sanguinario dittatore. Inutile giraci intorno, il conflitto tra Boravia e Jarhanpur, più che la guerra tra Russia e Ucraina, richiama con forza la situazione israelo-palestinese, con Superman che sceglie di schierarsi con i più deboli. Che un blockbuster hollywoodiano prenda una posizione così chiara è raro. Gunn lo fa senza retorica, lasciando parlare le immagini e i personaggi.
Ma Superman è anche — e soprattutto — una giostra visiva travolgente. Un film pieno di colori, azione, mostri colossali, battaglie epiche e distruzioni spettacolari. Bellissimo il piano sequenza dell’assalto di Mr. Terrific a una base militare.
È probabilmente il film più "marveliano" della DC. Un cinecomic pop, accessibile, ricco di idee, ma con una propria identità. Ogni personaggio è trattato con attenzione. Finalmente abbiamo una Lois Lane pensante: Rachel Brosnahan è perfetta nel ruolo, audace, pragmatica, mai in ombra. Memorabile la scena in cui chiede un’intervista a Superman e lui, impacciato, finisce quasi per “prenderle” dalla donna che ama.
Lex Luthor è un villain semplice ma efficace, radicato nel nostro presente. Ossessionato dal potere, dall’immagine, da una tecnologia usata come mezzo di controllo, senza scrupoli etici.
Anche i personaggi secondari trovano tutti un momento di rilievo. Qualcuno sfiora la macchietta — come la spasimante di Jimmy Olsen che gli passa informazioni in cambio di attenzioni — ma in un racconto così ampio sono dettagli trascurabili.
Superman non è un film perfetto, alcune situazioni si ripetono, certi passaggi sono ridondanti. Ma è un cinecomic riuscito, che diverte, emoziona e fa riflettere. Parla di identità, appartenenza, famiglia. E di un alieno che, paradossalmente, si rivela più umano degli umani.
James Gunn ha fatto centro. È riuscito a restituire anima e attualità a un simbolo che sembrava ormai superato.
The Sick Man Of Europe
The Sick Man Of Europe
Erano mesi che non postavo una recensione su un disco. Il problema è, almeno nel campo delle novità, che non c'era nulla che attirasse più di tanto la mia attenzione. In quest’epoca di playlist, streaming e marasma di proposte mordi e fuggi, è sempre più difficile rimanere colpiti da qualcosa.
A ridestare il mio interesse ci pensa questo gruppo londinese, The Sick Man Of Europe, il cui album, che porta lo stesso nome, è uscito proprio in questi giorni, anticipato nelle ultime settimane da una manciata di singoli.
The Sick Man of Europe è un termine storicamente associato all’Impero Ottomano, ma che oggi torna utile per descrivere lo stato confusionale del Regno Unito post-Brexit. E la musica di questo disco sembra partite proprio da lì, da un'Europa senza bussola, iperconnessa e disumanizzata.
Il trio – semisconosciuto, avvolto da un alone di mistero, nessuna intervista, pochissime informazioni, solo qualche apparizione live in piccoli club – arriva con un debutto che suona sintetico, minimale, monocromatico, ossessivo nella forma, radicale nel contenuto.
Le influenze sono dichiarate e nobili, una sorta di Joy Division in chiave elettronica con influenze krautrock alla Neu!. Pattern elettronici gelidi e ripetitivi, costruiti su drum machine e tastiere analogiche su cui una voce distaccata, spettrale e filtrata parla del malessere dell’epoca digitale, dell’identità umana, dell’alienazione tecnologica, e della ricerca di un significato nel mondo moderno. A che punto diventiamo obsoleti?
Sono i temi dei primi due brani, Obsolete e Transactional, dal ritmo incalzante e ripetitivo. Sanguine si prende nove minuti per mappare ansie geopolitiche e futuri possibili, mentre Profane Not Profound inchioda l’ascoltatore con un ritornello brutale: "We eat, we bite, we shit. The modern world makes me sick. Let’s destroy it. Si continua con la penetrante Movement, e la meno interessante Acidity Regulator. Chiude tutto I’m Alive, l’unico spiraglio di affermazione vitale in un disco che sembra scritto dentro un server che ha appena acquisito autocoscienza. È la luce fredda di un neon rotto. Ma è luce.
The Sick Man Of Europe è un disco fuori dal tempo, claustrofobico, rigido, a tratti impenetrabile. Ma se si accetta il suo codice, è uno di quei dischi che ti si pianta dentro il cranio. Al momento è il mio disco dell'anno.
https://thesickmanofeurope.bandcamp.com/album/the-sick-man-of-europe
Musica
I Peccatori (Sinners)
di Ryan Coogler
Fin dalla sua uscita al cinema, I Peccatori, il film di Ryan Coogler, regista noto per Creed e Black Panther, ha fatto parlare di sè, raccogliendo consensi positivi tra pubblico e critica.
Mississippi, 1932. Due fratelli gemelli, Smoke e Stack (entrambi interpretati da Michael B. Jordan), tornano nella loro terra d’origine dopo un passato burrascoso nei bassifondi di Chicago. Con in tasca le lezioni imparate tra racket e notti violente, acquistano una vecchia segheria con l’intenzione di trasformarla in un juke joint, un locale notturno dove la comunità nera possa ballare, bere, ascoltare musica e dimenticare, per qualche ora, le fatiche nei campi di cotone. A unirsi alla loro impresa c’è Sammie, detto Preacher Boy (Miles Caton), un giovane chitarrista blues, capace di evocare qualcosa di più grande della musica stessa. Insieme a lui, amici, parenti e vecchi complici si danno da fare per aprire il locale la sera stessa dell’arrivo dei gemelli. Tutto sembra pronto per una notte di festa, sudore e redenzione — ma qualcosa, nell’aria densa del Delta, annuncia che la vera oscurità non arriva mai bussando alla porta.
Sinners mi ha ricordato, e non poco, Dal tramonto all’alba. Stessa struttura narrativa, con due parti nettamente distinte e la virata all'horror vampiresco nel finale. Nessuno spoiler, Coogler non gioca sull’effetto sorpresa, anzi si intuisce già dalla prima scena la direzione che prenderà il film. Lo stesso predicatore mette in guardia il figlio sul potere oscuro della musica, richiamando le leggende legate alla nascita del blues e al patto col diavolo.
Restando nel gioco delle affinità cinematografiche, la prima parte de I Peccatori richiama, almeno come tematiche, Mississippi Burning, con la sua atmosfera tesa, il razzismo, il Ku Klux Klan, polvere, sudore e rabbia repressa. Vengono presentati i personaggi, introdotto il contesto storico, e reso palpabile il clima culturale e politico dell’America del sud degli anni '30. Poi, nella seconda metà, il film cambia pelle e si trasforma in un assedio alla John Carpenter, un western notturno e furibondo, dove i vampiri emergono da ogni angolo e l’istinto di sopravvivenza diventa l’unica legge.
Ma il cuore del film, il suo nucleo pulsante, è la musica. Il blues, nella sua dimensione sacra e viscerale, è il vero centro gravitazionale della narrazione. In opposizione a esso, la musica dei "bianchi" – quella irlandese, filtrata dai non-morti – diventa un controcanto sinistro, una filastrocca stregata che sembra arrivare da un’altra epoca, e da un altro mondo.
E' proprio alla musica è legata una delle sequenze più riuscite del film, quella ambientata nel juke joint, quando la serata si accende, l’alcol scorre a fiumi, i corpi sudano, danzano, si stringono. Nell’aria si respira un’euforia febbrile, carica di desiderio e carnalità. In un lungo piano sequenza – autentico momento di cinema visionario – la musica squarcia il tempo, si connette passato, presente e futuro, mette in contatto i personaggi con i loro antenati e con chi erediterà la loro storia. Corpi separati da generazioni si muovono al ritmo di una stessa pulsione, in una sinfonia che fonde strumenti, culture, sangue e memoria.
Certo, I Peccatori non è un film perfetto. Non so se sia davvero "l’horror dell’anno", come si legge in giro. Anche perchè secondo me è proprio la seconda parte, quella più horror, la più debole e priva di tensione. Anche la caratterizzazione dei vampiri bianchi come puro simbolo oppressivo, certi momenti didascalici, suonano un po' prevedibili. Ma resta un film audace, che osa fondere folklore, storia afroamericana e horror gotico senza puntare tutto sull’action. Coogler, forte di un budget solido, mette in scena un’ambientazione curata, una fotografia evocativa – quei campi di cotone sotto cieli infuocati sono puro spettacolo – e una regia consapevole dei propri mezzi.
Michael B. Jordan, nel doppio ruolo dei gemelli Smoke e Stack, non mi ha particolarmente entusiasmato. La sua performance è solida ma poco sfaccettata, e se non fosse per il cappello, spesso i due personaggi risulterebbero indistinguibili. Ma il film regge, anzi avvolge. Due ore e un quarto di horror blues caldo e viscerale, con una coda finale che prosegue anche dopo i titoli, lasciandoti addosso il sapore di un’idea di cinema popolare, contaminato, e profondamente fisico. E sì, mi è piaciuto.
Until Dawn - Fino all'alba
di David F. Sandberg
Quando si guarda un film, il giudizio è sempre figlio dell’aspettativa. Nel caso di Until Dawn, horror diretto da David F. Sandberg, le mie aspettative erano quelle di passare un oretta e mezza di intrattenimento a base di sgozzamenti, sangue e mutilazioni. E alla fine, sì, il suo compito lo ha fatto. Senza infamia e senza lode.
Tratto dall'omonimo videogioco della Sony, il film è stato oggetto di critiche da parte dei fan, che non hanno preso benissimo lo stravolgimento della storia e dei personaggi. Personalmente, non avendoci mai giocato, non entro in merito e passo oltre, raccontandovi per sommi capi la storia.
Un anno dopo la misteriosa scomparsa di sua sorella, Clover e i suoi quattro amici decidono di mettersi sulle sue tracce giungendo in una casa sperduta in mezzo al nulla che sembra essere un centro visitatori abbandonato. Sulla parete una clessidra gigante con tanto di inquietante teschio e ingranaggio che la fa girare al calar della notte. Da questo momento in poi il gruppo di ragazzi viene ucciso da un assassino mascherato, risvegliandosi però nello stesso punto, costretti a rivivere quella notte e a morire in nuovi modi a ogni ciclo.
Non c’è molto altro da aggiungere, se non che Until Dawn è un vero e proprio festival dei clichè dei film horror. L’assenza di una sceneggiatura capace di generare un minimo di tensione cerebrale è compensata solo nel vedere come una manciata di attori anonimi venga eliminata uno dopo l’altro da maniaci mascherati, demoni invisibili, streghe, zombie e scienziati pazzi. Il tutto condito da spargimenti di sangue, corpi che esplodono, una pioggia di jumpscare e gore in abbondanza, realizzati con buoni effetti pratici e una post-produzione non troppo invasiva.
Un teen-horror ludico e citazionista, senza troppe pretese, che strizza l’occhio a Quella casa nel bosco ma senza averne l’intelligenza metanarrativa né il gusto per la sovversione.
Drop
di Christopher Landon
Drop - Accetta o rifiuta è il nuovo thriller sfornato da casa Blumhouse, per la regia di Christopher Landon — sì, quello di Auguri per la tua morte e altri teen-horror che si prendono poco sul serio. Stavolta Landon prende in prestito la trama di Red Eye di Wes Craven e la trasloca in un ristorante di lusso con vista su Chicago.
La protagonista è Violet (Meghann Fahy), terapeuta e madre single che cerca di lasciarsi alle spalle un passato traumatico e un marito violento. Dopo anni di lutto, decide di rimettersi in gioco con un appuntamento galante. Lui è Henry (Brandon Sklenar), fotografo, barba scolpita, canotta casual, sguardo da pubblicità di profumo. Ma la serata prende una piega inquietante quando Violet inizia a ricevere strani meme e messaggi anonimi sul suo telefono tramite una app chiamata "DigiDrop". Questi messaggi minacciano la vita di suo figlio e di sua sorella, che lo sta accudendo a casa, e le impongono di seguire istruzioni sempre più sinistre, culminando in un ultimatum: uccidere Henry per salvare i suoi cari.
Drop è un thriller d’intrattenimento, sì, ma davvero molto basic. Talmente patinato che più che tensione, sprigiona il profumo di una rivista di moda ancora incelofanata. I due protagonisti hanno la personalità di un manichino di Zara. Lei una Barbie urban-chic con trauma annesso, lui un Ken con la canotta stirata a dovere. In mezzo, un cameriere irritante che dovrebbe – nelle intenzioni – fare da spalla comica, ma che in realtà ti fa solo desiderare che sia il primo a essere ucciso.
Il meccanismo thriller, in teoria, dovrebbe reggere l’intera durata del film. Violet che si agita, corre al bagno, si contorce per nascondere il panico, cerca di non far saltare la copertura con Henry mentre segue istruzioni via smartphone. Ma la tensione proprio non arriva, sembra un escape room mal riuscito, privo di colpi di scena che non siano prevedibili.
Insomma, Drop vorrebbe essere un thriller alla Brian De Palma con ambizioni hitchcockiane, ma finisce per assomigliare a un film anonimo da seconda serata, adatto come riempitivo da catalogo di qualche piattaforma streaming. Perfetto da guardare mentre scrolli il telefono, aspettando la fine. Se proprio non avete niente da fare e volete qualcosa che riempia il tempo senza troppe pretese, potrebbe anche intrattenervi.
The Ugly Stepsister
di Emilie Blichfeldt
Prima che la Disney le trasformasse in cartoline animate da lieto fine e canti gioiosi, le fiabe dei fratelli Grimm erano tutt'altro che rassicuranti. Incesti, mutilazioni, matricidi, vendette crudeli. I racconti popolari raccolti da Jacob e Wilhelm Grimm affondavano le radici nell'inconscio collettivo europeo, dove il bosco era davvero oscuro e le principesse raramente uscivano illese. In quelle versioni originarie, le fiabe erano strumenti di ammonimento, più che di intrattenimento, e custodivano dentro di sé un'anima profondamente gotica, a tratti disturbante.
Emilie Blichfeldt, regista e sceneggiatrice norvegese, con The Ugly Stepsister, riporta alla luce l’anima più cupa della fiaba di Cenerentola, ribaltandone il punto di vista e trasformandola in un racconto di ossessione e deformazione emotiva. Questa volta al centro della storia non c’è Cenerentola, ma Elvira, una delle sorellastre, figura marginale nella narrazione classica, qui protagonista di un incubo viscerale, fatto di rancori covati, bellezza malata e desideri corrosi.
La storia la conosciamo tutti, più o meno. In un indefinito paese nordeuropeo del XVIII secolo, Elvira (interpretata da Lea Myren) e sua sorella Alma seguono la madre Rebekka nella casa di un anziano uomo benestante con cui si è sposata nella speranza di ottenere ricchezza e privilegi. Elvira, insicura e sgraziata, si ritrova a convivere con la nuova sorellastra Agnes, la cui bellezza e grazia la rendono immediatamente favorita agli occhi di tutti. Quando il padre di Agnes muore improvvisamente, Rebekka scopre che l’uomo era in realtà privo di ricchezze. Preoccupata di essere troppo vecchia per trovare un nuovo marito facoltoso, decide allora di trasformare Elvira nella candidata ideale per conquistare il principe Julian, che ha appena annunciato un ballo a corte alla ricerca di una sposa.
Per rendere la figlia presentabile agli occhi dell’aristocrazia, Rebekka impone a Elvira un ferreo addestramento alle buone maniere, la sottopone a crudeli interventi di chirurgia estetica rudimentale e la convince a ingerire una tenia per perdere peso rapidamente. Un doloroso calvario che logora il corpo e l’identità di Elvira, alimentando dentro di lei un rancore viscerale nei confronti di Agnes, che invece sembra ottenere tutto senza sforzo, senza dover mai lottare per il proprio aspetto o talento.
The Ugly Stepsister è un body horror che strappa la storia di Cenerentola dalle mani della tradizione fiabesca e la reimmagina in un incubo fatto di chirurgia rudimentale, sangue, vomito e parassiti intestinali. Le sequenze disturbanti non sono molte, ma quando arrivano, colpiscono duro. Sono così insistite, dettagliate e viscerali che mi sono ritrovato a coprirmi gli occhi con le mani, sbirciando tra le dita, proprio come fanno i bambini, terrorizzati eppure incapaci di distogliere lo sguardo.
Una cosa però va chiarita, per chi dovesse indignarsi sostenendo che il film ha "deturpato" una fiaba innocente e romantica, va detto che quando lessi i racconti dei fratelli Grimm, fu proprio Cenerentola a colpirmi più di tutte. Soprattutto quel finale in cui la sorellastra si taglia un pezzo di piede pur di far entrare la scarpetta di vetro. Ecco, la Blichfeldt prende quell’immagine e la porta fino in fondo, senza sconti e senza pietà.
Al di là delle scene violente e dell'aspetto splatter, The Ugly Stepsister offre una riflessione tagliente sul desiderio di accettazione, sull’ossessione per la bellezza e sull’ansia di approvazione sociale. Un film che mette a nudo il legame tossico tra identità femminile e violenza estetica. In fondo, non è forse questa la struttura portante di tante fiabe tradizionali? Una ragazza qualunque che, pur di diventare bella e desiderabile agli occhi di un principe o di un ricco signorotto, si trasforma — si annulla — per ottenere una dote, un matrimonio, una salvezza. La critica di Emilie Blichfeldt aggiorna quel meccanismo con feroce lucidità, puntando il dito contro un’idea contemporanea di femminilità fatta di labbra gonfiate, zigomi scolpiti e seni rifatti. Il sogno non è più il castello, ma la villa con piscina. Non il principe, ma l’imprenditore rampante su uno yacht, immortalato in pose studiate su Instagram. Un desiderio disperato di apparire come merce di scambio, nella speranza che basti l’involucro giusto per sentirsi finalmente scelte, accettate, validate.
Davvero notevole l’esordio alla regia della Blichfeldt, qui affiancata da una fotografia elegante e da una colonna sonora elettronica che crea un interessante contrasto con l’ambientazione d’epoca. Buona pure l'interpretazione fisica e disperata di Lea Myren.
The Ugly Stepsister è sicuramente un film che non si dimentica, un'opera potente, attraversata da una feroce critica sociale. Bisogna ammettere che quando le registe decidono di colpire duro (vedi The Substance o Titane), ci vanno davvero a fondo.
Negli Stati Uniti il film è stato distribuito su Shudder, la piattaforma specializzata in horror, thriller e fantastico. In Italia, al momento, non è ancora uscito ufficialmente — ma chi sa dove cercare potrebbe trovare una versione sottotitolata.
Film
L'Eternauta
Bruno Stagnaro
Fin da quando hanno cominciato a circolare le prime voci su un adattamento televisivo de L'Eternauta, ho provato un misto di curiosità e scetticismo. Per me – e per molti altri – si tratta di un’opera intoccabile, un capolavoro del fumetto del ventesimo secolo, non solo per il suo valore narrativo ma soprattutto per il suo peso simbolico e politico. L’idea che potesse essere trasformata in una serie Netflix, magari omologata alle solite estetiche post-apocalittiche, mi lasciava più di una perplessità.
Ho conosciuto L’Eternauta quando ero poco più di un bambino, sfogliandolo sui vecchi albi di Lancio Story che trovavo in casa. All’epoca non ne comprendevo pienamente la portata – ero ancora rapito dai supereroi colorati della Marvel, quelli pubblicati dall’Editoriale Corno – ma quelle tavole mi lasciavano addosso un senso di inquietudine e meraviglia. Solo anni dopo, in età adulta, l’ho riscoperto in volume, leggendolo per intero e rendendomi conto – anche alla luce della storia personale del suo autore e del contesto politico dell’Argentina – di quanto fosse un’opera profonda e stratificata.
Pubblicata a puntate tra il 1957 e il 1959 sulla rivista Hora Cero, L’Eternauta nasce dalla penna di Héctor Germán Oesterheld e dalle matite di Francisco Solano López. È un fumetto di fantascienza post-apocalittica, forse il capostipite dell’Historieta argentina, quella corrente fumettistica che tra gli anni cinquanta e ottanta ha prodotto opere memorabili. In quel racconto cupo e visionario, Oesterheld intercetta le tensioni politiche dell’epoca e, con inquietante preveggenza, utilizza una misteriosa invasione aliena come metafora del sorgere di un regime autoritario che annienta ogni forma di dissenso.
Diversi anni dopo la pubblicazione de L'Eternauta, l’Argentina cadde davvero sotto una feroce dittatura militare. Migliaia di oppositori furono arrestati, torturati, fatti sparire. Tra le vittime, lo stesso Oesterheld – ormai attivista politico – e le sue quattro figlie, tutte sequestrate e uccise da squadre armate.
Conoscendo questa storia, diventa impossibile leggere L’Eternauta come un semplice fumetto di genere. È un’opera che grida resistenza e che denuncia l’oppressione. Ecco allora che torno alla mia perplessità iniziale. Ha senso riproporre oggi una storia scritta più di sessant’anni fa così radicata nel suo tempo e nel suo luogo? Guardando il mondo di oggi, con i suoi nuovi autoritarismi, le guerre alle porte dell’Europa, la striscia di Gaza e il risorgere di vecchi fantasmi, la risposta sembrerebbe ovvia. Ma quanto i produttori saranno davvero capaci di interpretare questa chiave, e quanto invece si limiteranno a offrire l’ennesima distopia da catalogo?
La serie è composta da sei episodi ed è ambientata a Buonos Aires ai giorni nostri. E' una produzione argentina a tutti gli effetti, prodotta, sceneggiata e diretta da Bruno Stagnaro. Il protagonista, Juan Salvo (interpretato da Ricardo Darín), si trova a casa con un gruppo di amici quando un improvviso black-out precede una misteriosa nevicata che inizia a cadere sulla città. Ben presto si capisce che non è neve, ma una sostanza tossica capace di uccidere all’istante chiunque venga esposto. In un primo momento Juan e i suoi amici cercano di unire le forze per salvarsi e proteggersi, poi, dopo aver costruito delle rudimentali tute per potersi muovere all’esterno, nel cercare di comprendere l’origine di questa letale minaccia, scoprono che la nevicata è solo l’inizio di un’invasione aliena pianificata e stratificata.
La serie mantiene un ritmo lento e riflessivo, decisamente lontano dai canoni dell’action che siamo abituati a vedere. Ma questo, almeno per quanto mi riguarda, non mi disturba. L’atmosfera sospesa e di attesa, rispecchia bene la tensione del fumetto originale. L’elemento più interessante resta forse proprio la scelta di raccontare l’apocalisse da un punto di vista umano e intimista. Il protagonista è un uomo qualunque, un eroe per caso, in bilico fra i suoi affetti, misteriose visioni, e la necessità di sopravvivere in un mondo diventato improvvisamente ostile. La recitazione è buona, la fotografia efficace, soprattutto nei momenti in cui Buenos Aires diventa un deserto bianco, silenzioso e mortale. Anche le creature e gli effetti speciali – pur senza strafare – risultano convincenti.
Il problema principale della serie è che sembra prevedibile. Lo scenario post-apocalittico è solido, ma fatica a sorprendere. In sessant’anni abbiamo visto decine di libri, film e serie simili, e oggi la storia appare poco originale. Ci sono pochi sussulti, pochi momenti davvero memorabili. E soprattutto, manca quasi del tutto il sottotesto politico. Dove il fumetto era un grido di allarme e denuncia, qui la metafora si fa opaca, quasi assente. Rimane un messaggio di resistenza collettiva, sì, ma generico, annacquato. Non c’è il peso della storia, non c’è quel senso di urgenza che rendeva L’Eternauta così potente.
Alla fine, ci troviamo davanti a una serie ben confezionata, con buoni attori e una regia solida, ma che rischia di confondersi con tante altre produzioni simili. Una seconda stagione è già stata annunciata, e forse ci sarà spazio per approfondire meglio alcune tematiche solo accennate.
Nel frattempo, se questa serie servirà almeno a spingere qualche spettatore curioso a riscoprire il fumetto originale – recentemente ripubblicato da Panini in una bellissima edizione orizzontale – allora avrà comunque fatto qualcosa di importante.
Serie TV
Ash - Cenere mortale
di Flying Lotus
Flying Lotus, al secolo Steven Ellison, è un artista poliedrico tra i più visionari della scena contemporanea. Conosciuto soprattutto per la sua produzione musicale nel campo dell’hip hop sperimentale e dell’elettronica, Ellison ha sempre intrecciato suono e immagine, coltivando un forte legame con il linguaggio cinematografico. Dopo l’esordio dietro la macchina da presa con Kuso del 2017 e un episodio per V/H/S/99 nel 2022, torna alla regia con Ash, un horror fantascientifico che riscrive la paura nello spazio attraverso la lente distorta e allucinata del suo immaginario. Un film che fonde suggestioni videoludiche, di cui Ellison è un grande appassionato, con il retaggio di cult come Alien, Punto di non ritorno e La Cosa, trasformando l’omaggio in visione personale e contaminata.
Il film è ambientato su un pianeta remoto, noto come "Ash", dove un gruppo di giovani scienziati e ricercatori ha costruito una stazione spaziale per determinare se il luogo sia potenzialmente abitabile. Al suo risveglio, però, la protagonista Riya Ortiz (Eiza González) si ritrova circondata dai cadaveri dei suoi compagni di equipaggio, senza memoria degli eventi recenti e tormentata da visioni disturbanti e frammentarie. Mentre tenta di ricostruire l’accaduto, la stazione viene raggiunta da Brion Cargyle (Aaron Paul), un pilota solitario che sostiene di essere stato inviato in risposta a un segnale di soccorso. Costretti a collaborare per sopravvivere in un ambiente sempre più ostile e alienante, i due si troveranno immersi in un incubo in cui nulla è come sembra, dove la realtà si sfalda e il confine tra ciò che è umano e ciò che non lo è si fa sempre più sottile.
La storia si sviluppa in modo frammentato con la bella, ma poco convincente, protagonista che cerca di rimettere insieme i pezzi, guidata da flashback disturbanti e visioni psichedeliche. Alla fine il film risulta essere più allucinato che coinvolgente dove il montaggio frenetico e l’espediente dell’amnesia, più che alimentare il mistero, sembrano coprire le debolezze della sceneggiatura e abbassare la tensione.
Dal punto di vista visivo, Ash si svolge prevalentemente al buio, con un largo uso di luci colorate fluorescenti a intermittenza. Scelta stilistica affascinante, almeno per coloro che non sono fotosensibili. Flying Lotus– che compare brevemente in un flashback – non lesina sullo splatter e sul body horror, regalando nel finale un tripudio di deformazioni e mostri tentacolari che farebbe felice anche John Carpenter (e probabilmente anche qualche gamer nostalgico di Dead Space). Non essendo un grande intenditore di videogiochi, il film, sia per l'ambientazione che per la coloratissima fotografia mi ha ricordato Terrore nello spazio di Mario Bava. Un riferimento forse casuale ma che ho molto apprezzato. Bello anche il design delle tute spaziali, originale e visivamente efficace. La colonna sonora, ovviamente, è firmata dallo stesso Flying Lotus, che realizza un elettronica sospesa tra i synth cosmici di Vangelis e il minimalismo ipnotico del già citato Carpenter.
In conclusione, Ash è un film che intrattiene, visivamente interessante, e che rivela una sincera passione per la fantascienza videoludica e i B-movie vintage. Peccato che tutto questo amore finisca per strabordare, rendendo l’esperienza più derivativa che memorabile. Un bel trip, ma niente che non si sia già visto, e in alcuni casi, meglio.
Ash - Cenere mortale è attualmente disponibile su Prime Video.
Adolescence
Jack Thorne, Stephen Graham, Philip Barantini
Mi sono recuperato questa serie prodotta da Netflix, tanto discussa sia per le tematiche che per la messa in scena. Adolescence è una miniserie britannica in quattro episodi che, prendendo spunto dal brutale femminicidio compiuto da un ragazzino di tredici anni, affronta temi come l’adolescenza contemporanea, la mascolinità tossica e, soprattutto, l’incomprensione degli adulti nei confronti dei giovani di oggi.
La storia si apre con l’arresto di Jamie Miller, un ragazzo di 13 anni accusato dell’omicidio di una compagna di scuola, Katie Leonard. L’intera narrazione si sviluppa in tempo reale attraverso quattro episodi – ciascuno girato in un unico piano sequenza – che seguono le fasi successive all’arresto: dall’interrogatorio alla confessione, fino alle conseguenze legali e familiari. La serie non si concentra tanto sul "come" è avvenuto il crimine, quanto sul "perché", esplorando le influenze sociali e psicologiche che hanno portato Jamie a compiere un gesto così estremo.
Adolescence offre un ritratto inquietante e realistico del mondo adolescenziale di oggi, spesso invisibile agli occhi degli adulti. Mostra come i social media e la ricerca ossessiva di approvazione e popolarità possano influenzare negativamente i giovani, contribuendo a fenomeni come il bullismo e l’isolamento. Sotto la superficie di un ragazzino tranquillo, con buoni voti e abitudini apparentemente innocue, emerge come alcune teorie misogine popolari in rete, diffuse nella comunità nota come "manosfera" e nei gruppi Incel - come quella secondo cui l'80% delle donne sceglie solo il 20% degli uomini, possono radicalizzare giovani ragazzi fragili e confusi. Una delle scene più interessanti è quella presente nel secondo episodio, ambientato quasi interamente nel liceo. Mentre l'ispettore, insieme alla sua collega, cerca di interrogare i ragazzi alla ricerca dell'arma del delitto ma soprattuto di un movente, viene avvicinato proprio da suo figlio – che frequenta la stessa scuola e a sua volta subisce bullismo – rivelando che Katie aveva pubblicamente umiliato Jamie su Instagram, definendolo un incel attraverso un codice fatto di emoticon. Questo divario generazionale, l’incapacità degli adulti di comprendere il disagio giovanile, è probabilmente il tema centrale della serie.
Ogni episodio di Adolescence è girato in un unico piano sequenza, senza interruzioni o tagli, una scelta registica audace e complessa che richiede concentrazione millimetrica da parte degli attori e grande abilità tecnica. Mi sono spulciato in rete i vari "making of" per capire se ci sono stati i classici "trucchi di passaggio" ma non li ho trovati. La cinepresa viene passata da un operatore a un altro a mo di staffetta per essere incastrata su un drone, come nel secondo episodio, oppure posizionata davanti alla macchina, come nell'ultimo episodio. quello che ho capito sono stati girati mediamente una decina di volte Questa scelta stilistica è stato uno dei motivi che mi ha accinato a questa serie. Tutto deve essere perfettamente sincronizzato, e il risultato è davvero coinvolgente. Molto bravi anche gli attori, a partire da Owen Cooper, che interpreta Jamie con una naturalezza disarmante, e Stephen Graham, che interpreta il padre, la cui recitazione contribuisce a rendere la narrazione ancora più coinvolgente.
I quattro episodi non sono tutti sullo stesso livello. Il più riuscito, a mio avviso, è il primo, con l’irruzione della polizia in casa Miller alle prime luci dell’alba. Anche il secondo mantiene alta la carica emotiva, culminando in un finale suggestivo con la cover di Fragile di Sting cantata da un coro di ragazzi. Il terzo episodio, centrato sul colloquio tra Jamie e la psicologa, e soprattutto l’ultimo – incentrato sulla famiglia – risultano invece un pò troppo dilatati.
Nel complesso ho trovato l'intera miniserie un'opera coraggiosa che invita a riflettere sui problemi dell'adolescenza nella nostra società.
