
Until Dawn - Fino all'alba
di David F. Sandberg
Quando si guarda un film, il giudizio è sempre figlio dell’aspettativa. Nel caso di Until Dawn, horror diretto da David F. Sandberg, le mie aspettative erano quelle di passare un oretta e mezza di intrattenimento a base di sgozzamenti, sangue e mutilazioni. E alla fine, sì, il suo compito lo ha fatto. Senza infamia e senza lode.
Tratto dall'omonimo videogioco della Sony, il film è stato oggetto di critiche da parte dei fan, che non hanno preso benissimo lo stravolgimento della storia e dei personaggi. Personalmente, non avendoci mai giocato, non entro in merito e passo oltre, raccontandovi per sommi capi la storia.
Un anno dopo la misteriosa scomparsa di sua sorella, Clover e i suoi quattro amici decidono di mettersi sulle sue tracce giungendo in una casa sperduta in mezzo al nulla che sembra essere un centro visitatori abbandonato. Sulla parete una clessidra gigante con tanto di inquietante teschio e ingranaggio che la fa girare al calar della notte. Da questo momento in poi il gruppo di ragazzi viene ucciso da un assassino mascherato, risvegliandosi però nello stesso punto, costretti a rivivere quella notte e a morire in nuovi modi a ogni ciclo.
Non c’è molto altro da aggiungere, se non che Until Dawn è un vero e proprio festival dei clichè dei film horror. L’assenza di una sceneggiatura capace di generare un minimo di tensione cerebrale è compensata solo nel vedere come una manciata di attori anonimi venga eliminata uno dopo l’altro da maniaci mascherati, demoni invisibili, streghe, zombie e scienziati pazzi. Il tutto condito da spargimenti di sangue, corpi che esplodono, una pioggia di jumpscare e gore in abbondanza, realizzati con buoni effetti pratici e una post-produzione non troppo invasiva.
Un teen-horror ludico e citazionista, senza troppe pretese, che strizza l’occhio a Quella casa nel bosco ma senza averne l’intelligenza metanarrativa né il gusto per la sovversione.

Drop
di Christopher Landon
Drop - Accetta o rifiuta è il nuovo thriller sfornato da casa Blumhouse, per la regia di Christopher Landon — sì, quello di Auguri per la tua morte e altri teen-horror che si prendono poco sul serio. Stavolta Landon prende in prestito la trama di Red Eye di Wes Craven e la trasloca in un ristorante di lusso con vista su Chicago.
La protagonista è Violet (Meghann Fahy), terapeuta e madre single che cerca di lasciarsi alle spalle un passato traumatico e un marito violento. Dopo anni di lutto, decide di rimettersi in gioco con un appuntamento galante. Lui è Henry (Brandon Sklenar), fotografo, barba scolpita, canotta casual, sguardo da pubblicità di profumo. Ma la serata prende una piega inquietante quando Violet inizia a ricevere strani meme e messaggi anonimi sul suo telefono tramite una app chiamata "DigiDrop". Questi messaggi minacciano la vita di suo figlio e di sua sorella, che lo sta accudendo a casa, e le impongono di seguire istruzioni sempre più sinistre, culminando in un ultimatum: uccidere Henry per salvare i suoi cari.
Drop è un thriller d’intrattenimento, sì, ma davvero molto basic. Talmente patinato che più che tensione, sprigiona il profumo di una rivista di moda ancora incelofanata. I due protagonisti hanno la personalità di un manichino di Zara. Lei una Barbie urban-chic con trauma annesso, lui un Ken con la canotta stirata a dovere. In mezzo, un cameriere irritante che dovrebbe – nelle intenzioni – fare da spalla comica, ma che in realtà ti fa solo desiderare che sia il primo a essere ucciso.
Il meccanismo thriller, in teoria, dovrebbe reggere l’intera durata del film. Violet che si agita, corre al bagno, si contorce per nascondere il panico, cerca di non far saltare la copertura con Henry mentre segue istruzioni via smartphone. Ma la tensione proprio non arriva, sembra un escape room mal riuscito, privo di colpi di scena che non siano prevedibili.
Insomma, Drop vorrebbe essere un thriller alla Brian De Palma con ambizioni hitchcockiane, ma finisce per assomigliare a un film anonimo da seconda serata, adatto come riempitivo da catalogo di qualche piattaforma streaming. Perfetto da guardare mentre scrolli il telefono, aspettando la fine. Se proprio non avete niente da fare e volete qualcosa che riempia il tempo senza troppe pretese, potrebbe anche intrattenervi.

The Ugly Stepsister
di Emilie Blichfeldt
Prima che la Disney le trasformasse in cartoline animate da lieto fine e canti gioiosi, le fiabe dei fratelli Grimm erano tutt'altro che rassicuranti. Incesti, mutilazioni, matricidi, vendette crudeli. I racconti popolari raccolti da Jacob e Wilhelm Grimm affondavano le radici nell'inconscio collettivo europeo, dove il bosco era davvero oscuro e le principesse raramente uscivano illese. In quelle versioni originarie, le fiabe erano strumenti di ammonimento, più che di intrattenimento, e custodivano dentro di sé un'anima profondamente gotica, a tratti disturbante.
Emilie Blichfeldt, regista e sceneggiatrice norvegese, con The Ugly Stepsister, riporta alla luce l’anima più cupa della fiaba di Cenerentola, ribaltandone il punto di vista e trasformandola in un racconto di ossessione e deformazione emotiva. Questa volta al centro della storia non c’è Cenerentola, ma Elvira, una delle sorellastre, figura marginale nella narrazione classica, qui protagonista di un incubo viscerale, fatto di rancori covati, bellezza malata e desideri corrosi.
La storia la conosciamo tutti, più o meno. In un indefinito paese nordeuropeo del XVIII secolo, Elvira (interpretata da Lea Myren) e sua sorella Alma seguono la madre Rebekka nella casa di un anziano uomo benestante con cui si è sposata nella speranza di ottenere ricchezza e privilegi. Elvira, insicura e sgraziata, si ritrova a convivere con la nuova sorellastra Agnes, la cui bellezza e grazia la rendono immediatamente favorita agli occhi di tutti. Quando il padre di Agnes muore improvvisamente, Rebekka scopre che l’uomo era in realtà privo di ricchezze. Preoccupata di essere troppo vecchia per trovare un nuovo marito facoltoso, decide allora di trasformare Elvira nella candidata ideale per conquistare il principe Julian, che ha appena annunciato un ballo a corte alla ricerca di una sposa.
Per rendere la figlia presentabile agli occhi dell’aristocrazia, Rebekka impone a Elvira un ferreo addestramento alle buone maniere, la sottopone a crudeli interventi di chirurgia estetica rudimentale e la convince a ingerire una tenia per perdere peso rapidamente. Un doloroso calvario che logora il corpo e l’identità di Elvira, alimentando dentro di lei un rancore viscerale nei confronti di Agnes, che invece sembra ottenere tutto senza sforzo, senza dover mai lottare per il proprio aspetto o talento.
The Ugly Stepsister è un body horror che strappa la storia di Cenerentola dalle mani della tradizione fiabesca e la reimmagina in un incubo fatto di chirurgia rudimentale, sangue, vomito e parassiti intestinali. Le sequenze disturbanti non sono molte, ma quando arrivano, colpiscono duro. Sono così insistite, dettagliate e viscerali che mi sono ritrovato a coprirmi gli occhi con le mani, sbirciando tra le dita, proprio come fanno i bambini, terrorizzati eppure incapaci di distogliere lo sguardo.
Una cosa però va chiarita, per chi dovesse indignarsi sostenendo che il film ha "deturpato" una fiaba innocente e romantica, va detto che quando lessi i racconti dei fratelli Grimm, fu proprio Cenerentola a colpirmi più di tutte. Soprattutto quel finale in cui la sorellastra si taglia un pezzo di piede pur di far entrare la scarpetta di vetro. Ecco, la Blichfeldt prende quell’immagine e la porta fino in fondo, senza sconti e senza pietà.
Al di là delle scene violente e dell'aspetto splatter, The Ugly Stepsister offre una riflessione tagliente sul desiderio di accettazione, sull’ossessione per la bellezza e sull’ansia di approvazione sociale. Un film che mette a nudo il legame tossico tra identità femminile e violenza estetica. In fondo, non è forse questa la struttura portante di tante fiabe tradizionali? Una ragazza qualunque che, pur di diventare bella e desiderabile agli occhi di un principe o di un ricco signorotto, si trasforma — si annulla — per ottenere una dote, un matrimonio, una salvezza. La critica di Emilie Blichfeldt aggiorna quel meccanismo con feroce lucidità, puntando il dito contro un’idea contemporanea di femminilità fatta di labbra gonfiate, zigomi scolpiti e seni rifatti. Il sogno non è più il castello, ma la villa con piscina. Non il principe, ma l’imprenditore rampante su uno yacht, immortalato in pose studiate su Instagram. Un desiderio disperato di apparire come merce di scambio, nella speranza che basti l’involucro giusto per sentirsi finalmente scelte, accettate, validate.
Davvero notevole l’esordio alla regia della Blichfeldt, qui affiancata da una fotografia elegante e da una colonna sonora elettronica che crea un interessante contrasto con l’ambientazione d’epoca. Buona pure l'interpretazione fisica e disperata di Lea Myren.
The Ugly Stepsister è sicuramente un film che non si dimentica, un'opera potente, attraversata da una feroce critica sociale. Bisogna ammettere che quando le registe decidono di colpire duro (vedi The Substance o Titane), ci vanno davvero a fondo.
Negli Stati Uniti il film è stato distribuito su Shudder, la piattaforma specializzata in horror, thriller e fantastico. In Italia, al momento, non è ancora uscito ufficialmente — ma chi sa dove cercare potrebbe trovare una versione sottotitolata.
Film
L'Eternauta
Bruno Stagnaro
Fin da quando hanno cominciato a circolare le prime voci su un adattamento televisivo de L'Eternauta, ho provato un misto di curiosità e scetticismo. Per me – e per molti altri – si tratta di un’opera intoccabile, un capolavoro del fumetto del ventesimo secolo, non solo per il suo valore narrativo ma soprattutto per il suo peso simbolico e politico. L’idea che potesse essere trasformata in una serie Netflix, magari omologata alle solite estetiche post-apocalittiche, mi lasciava più di una perplessità.
Ho conosciuto L’Eternauta quando ero poco più di un bambino, sfogliandolo sui vecchi albi di Lancio Story che trovavo in casa. All’epoca non ne comprendevo pienamente la portata – ero ancora rapito dai supereroi colorati della Marvel, quelli pubblicati dall’Editoriale Corno – ma quelle tavole mi lasciavano addosso un senso di inquietudine e meraviglia. Solo anni dopo, in età adulta, l’ho riscoperto in volume, leggendolo per intero e rendendomi conto – anche alla luce della storia personale del suo autore e del contesto politico dell’Argentina – di quanto fosse un’opera profonda e stratificata.
Pubblicata a puntate tra il 1957 e il 1959 sulla rivista Hora Cero, L’Eternauta nasce dalla penna di Héctor Germán Oesterheld e dalle matite di Francisco Solano López. È un fumetto di fantascienza post-apocalittica, forse il capostipite dell’Historieta argentina, quella corrente fumettistica che tra gli anni cinquanta e ottanta ha prodotto opere memorabili. In quel racconto cupo e visionario, Oesterheld intercetta le tensioni politiche dell’epoca e, con inquietante preveggenza, utilizza una misteriosa invasione aliena come metafora del sorgere di un regime autoritario che annienta ogni forma di dissenso.
Diversi anni dopo la pubblicazione de L'Eternauta, l’Argentina cadde davvero sotto una feroce dittatura militare. Migliaia di oppositori furono arrestati, torturati, fatti sparire. Tra le vittime, lo stesso Oesterheld – ormai attivista politico – e le sue quattro figlie, tutte sequestrate e uccise da squadre armate.
Conoscendo questa storia, diventa impossibile leggere L’Eternauta come un semplice fumetto di genere. È un’opera che grida resistenza e che denuncia l’oppressione. Ecco allora che torno alla mia perplessità iniziale. Ha senso riproporre oggi una storia scritta più di sessant’anni fa così radicata nel suo tempo e nel suo luogo? Guardando il mondo di oggi, con i suoi nuovi autoritarismi, le guerre alle porte dell’Europa, la striscia di Gaza e il risorgere di vecchi fantasmi, la risposta sembrerebbe ovvia. Ma quanto i produttori saranno davvero capaci di interpretare questa chiave, e quanto invece si limiteranno a offrire l’ennesima distopia da catalogo?
La serie è composta da sei episodi ed è ambientata a Buonos Aires ai giorni nostri. E' una produzione argentina a tutti gli effetti, prodotta, sceneggiata e diretta da Bruno Stagnaro. Il protagonista, Juan Salvo (interpretato da Ricardo Darín), si trova a casa con un gruppo di amici quando un improvviso black-out precede una misteriosa nevicata che inizia a cadere sulla città. Ben presto si capisce che non è neve, ma una sostanza tossica capace di uccidere all’istante chiunque venga esposto. In un primo momento Juan e i suoi amici cercano di unire le forze per salvarsi e proteggersi, poi, dopo aver costruito delle rudimentali tute per potersi muovere all’esterno, nel cercare di comprendere l’origine di questa letale minaccia, scoprono che la nevicata è solo l’inizio di un’invasione aliena pianificata e stratificata.
La serie mantiene un ritmo lento e riflessivo, decisamente lontano dai canoni dell’action che siamo abituati a vedere. Ma questo, almeno per quanto mi riguarda, non mi disturba. L’atmosfera sospesa e di attesa, rispecchia bene la tensione del fumetto originale. L’elemento più interessante resta forse proprio la scelta di raccontare l’apocalisse da un punto di vista umano e intimista. Il protagonista è un uomo qualunque, un eroe per caso, in bilico fra i suoi affetti, misteriose visioni, e la necessità di sopravvivere in un mondo diventato improvvisamente ostile. La recitazione è buona, la fotografia efficace, soprattutto nei momenti in cui Buenos Aires diventa un deserto bianco, silenzioso e mortale. Anche le creature e gli effetti speciali – pur senza strafare – risultano convincenti.
Il problema principale della serie è che sembra prevedibile. Lo scenario post-apocalittico è solido, ma fatica a sorprendere. In sessant’anni abbiamo visto decine di libri, film e serie simili, e oggi la storia appare poco originale. Ci sono pochi sussulti, pochi momenti davvero memorabili. E soprattutto, manca quasi del tutto il sottotesto politico. Dove il fumetto era un grido di allarme e denuncia, qui la metafora si fa opaca, quasi assente. Rimane un messaggio di resistenza collettiva, sì, ma generico, annacquato. Non c’è il peso della storia, non c’è quel senso di urgenza che rendeva L’Eternauta così potente.
Alla fine, ci troviamo davanti a una serie ben confezionata, con buoni attori e una regia solida, ma che rischia di confondersi con tante altre produzioni simili. Una seconda stagione è già stata annunciata, e forse ci sarà spazio per approfondire meglio alcune tematiche solo accennate.
Nel frattempo, se questa serie servirà almeno a spingere qualche spettatore curioso a riscoprire il fumetto originale – recentemente ripubblicato da Panini in una bellissima edizione orizzontale – allora avrà comunque fatto qualcosa di importante.
Serie TV
Ash - Cenere mortale
di Flying Lotus
Flying Lotus, al secolo Steven Ellison, è un artista poliedrico tra i più visionari della scena contemporanea. Conosciuto soprattutto per la sua produzione musicale nel campo dell’hip hop sperimentale e dell’elettronica, Ellison ha sempre intrecciato suono e immagine, coltivando un forte legame con il linguaggio cinematografico. Dopo l’esordio dietro la macchina da presa con Kuso del 2017 e un episodio per V/H/S/99 nel 2022, torna alla regia con Ash, un horror fantascientifico che riscrive la paura nello spazio attraverso la lente distorta e allucinata del suo immaginario. Un film che fonde suggestioni videoludiche, di cui Ellison è un grande appassionato, con il retaggio di cult come Alien, Punto di non ritorno e La Cosa, trasformando l’omaggio in visione personale e contaminata.
Il film è ambientato su un pianeta remoto, noto come "Ash", dove un gruppo di giovani scienziati e ricercatori ha costruito una stazione spaziale per determinare se il luogo sia potenzialmente abitabile. Al suo risveglio, però, la protagonista Riya Ortiz (Eiza González) si ritrova circondata dai cadaveri dei suoi compagni di equipaggio, senza memoria degli eventi recenti e tormentata da visioni disturbanti e frammentarie. Mentre tenta di ricostruire l’accaduto, la stazione viene raggiunta da Brion Cargyle (Aaron Paul), un pilota solitario che sostiene di essere stato inviato in risposta a un segnale di soccorso. Costretti a collaborare per sopravvivere in un ambiente sempre più ostile e alienante, i due si troveranno immersi in un incubo in cui nulla è come sembra, dove la realtà si sfalda e il confine tra ciò che è umano e ciò che non lo è si fa sempre più sottile.
La storia si sviluppa in modo frammentato con la bella, ma poco convincente, protagonista che cerca di rimettere insieme i pezzi, guidata da flashback disturbanti e visioni psichedeliche. Alla fine il film risulta essere più allucinato che coinvolgente dove il montaggio frenetico e l’espediente dell’amnesia, più che alimentare il mistero, sembrano coprire le debolezze della sceneggiatura e abbassare la tensione.
Dal punto di vista visivo, Ash si svolge prevalentemente al buio, con un largo uso di luci colorate fluorescenti a intermittenza. Scelta stilistica affascinante, almeno per coloro che non sono fotosensibili. Flying Lotus– che compare brevemente in un flashback – non lesina sullo splatter e sul body horror, regalando nel finale un tripudio di deformazioni e mostri tentacolari che farebbe felice anche John Carpenter (e probabilmente anche qualche gamer nostalgico di Dead Space). Non essendo un grande intenditore di videogiochi, il film, sia per l'ambientazione che per la coloratissima fotografia mi ha ricordato Terrore nello spazio di Mario Bava. Un riferimento forse casuale ma che ho molto apprezzato. Bello anche il design delle tute spaziali, originale e visivamente efficace. La colonna sonora, ovviamente, è firmata dallo stesso Flying Lotus, che realizza un elettronica sospesa tra i synth cosmici di Vangelis e il minimalismo ipnotico del già citato Carpenter.
In conclusione, Ash è un film che intrattiene, visivamente interessante, e che rivela una sincera passione per la fantascienza videoludica e i B-movie vintage. Peccato che tutto questo amore finisca per strabordare, rendendo l’esperienza più derivativa che memorabile. Un bel trip, ma niente che non si sia già visto, e in alcuni casi, meglio.
Ash - Cenere mortale è attualmente disponibile su Prime Video.

Adolescence
Jack Thorne, Stephen Graham, Philip Barantini
Mi sono recuperato questa serie prodotta da Netflix, tanto discussa sia per le tematiche che per la messa in scena. Adolescence è una miniserie britannica in quattro episodi che, prendendo spunto dal brutale femminicidio compiuto da un ragazzino di tredici anni, affronta temi come l’adolescenza contemporanea, la mascolinità tossica e, soprattutto, l’incomprensione degli adulti nei confronti dei giovani di oggi.
La storia si apre con l’arresto di Jamie Miller, un ragazzo di 13 anni accusato dell’omicidio di una compagna di scuola, Katie Leonard. L’intera narrazione si sviluppa in tempo reale attraverso quattro episodi – ciascuno girato in un unico piano sequenza – che seguono le fasi successive all’arresto: dall’interrogatorio alla confessione, fino alle conseguenze legali e familiari. La serie non si concentra tanto sul "come" è avvenuto il crimine, quanto sul "perché", esplorando le influenze sociali e psicologiche che hanno portato Jamie a compiere un gesto così estremo.
Adolescence offre un ritratto inquietante e realistico del mondo adolescenziale di oggi, spesso invisibile agli occhi degli adulti. Mostra come i social media e la ricerca ossessiva di approvazione e popolarità possano influenzare negativamente i giovani, contribuendo a fenomeni come il bullismo e l’isolamento. Sotto la superficie di un ragazzino tranquillo, con buoni voti e abitudini apparentemente innocue, emerge come alcune teorie misogine popolari in rete, diffuse nella comunità nota come "manosfera" e nei gruppi Incel - come quella secondo cui l'80% delle donne sceglie solo il 20% degli uomini, possono radicalizzare giovani ragazzi fragili e confusi. Una delle scene più interessanti è quella presente nel secondo episodio, ambientato quasi interamente nel liceo. Mentre l'ispettore, insieme alla sua collega, cerca di interrogare i ragazzi alla ricerca dell'arma del delitto ma soprattuto di un movente, viene avvicinato proprio da suo figlio – che frequenta la stessa scuola e a sua volta subisce bullismo – rivelando che Katie aveva pubblicamente umiliato Jamie su Instagram, definendolo un incel attraverso un codice fatto di emoticon. Questo divario generazionale, l’incapacità degli adulti di comprendere il disagio giovanile, è probabilmente il tema centrale della serie.
Ogni episodio di Adolescence è girato in un unico piano sequenza, senza interruzioni o tagli, una scelta registica audace e complessa che richiede concentrazione millimetrica da parte degli attori e grande abilità tecnica. Mi sono spulciato in rete i vari "making of" per capire se ci sono stati i classici "trucchi di passaggio" ma non li ho trovati. La cinepresa viene passata da un operatore a un altro a mo di staffetta per essere incastrata su un drone, come nel secondo episodio, oppure posizionata davanti alla macchina, come nell'ultimo episodio. quello che ho capito sono stati girati mediamente una decina di volte Questa scelta stilistica è stato uno dei motivi che mi ha accinato a questa serie. Tutto deve essere perfettamente sincronizzato, e il risultato è davvero coinvolgente. Molto bravi anche gli attori, a partire da Owen Cooper, che interpreta Jamie con una naturalezza disarmante, e Stephen Graham, che interpreta il padre, la cui recitazione contribuisce a rendere la narrazione ancora più coinvolgente.
I quattro episodi non sono tutti sullo stesso livello. Il più riuscito, a mio avviso, è il primo, con l’irruzione della polizia in casa Miller alle prime luci dell’alba. Anche il secondo mantiene alta la carica emotiva, culminando in un finale suggestivo con la cover di Fragile di Sting cantata da un coro di ragazzi. Il terzo episodio, centrato sul colloquio tra Jamie e la psicologa, e soprattutto l’ultimo – incentrato sulla famiglia – risultano invece un pò troppo dilatati.
Nel complesso ho trovato l'intera miniserie un'opera coraggiosa che invita a riflettere sui problemi dell'adolescenza nella nostra società.

Il computer impossibile
Giuliano Benenti, Giulio Casati e Simone Montangero
Era da parecchio tempo che non leggevo un saggio, solitamente preferisco romanzi e narrativa. Ma ultimamente sono andato in fissa con il mondo del computer quantistico, quindi, dopo aver sfogliato diversi libri in libreria, ho scelto Il computer impossibile, un libro di recente uscita edito da Raffaello Cortina Editore e scritto a sei mani da Giuliano Benenti, Giulio Casati e Simone Montangero, tre fisici di fama internazionale.
Premetto che non ho conoscenze scientifiche, i miei studi sono stati artistici, ma la tecnologia mi ha sempre affascinato. Quindi con la consapevolezza dei miei limiti devo dire che il libro, almeno all'inizio, è abbastanza chiaro, in quanto adotta un approccio divulgativo senza mai risultare banale.
In poche parole, per spiegare come siamo arrivati ai computer quantistici, gli autori raccontano che tutto nasce dalla miniaturizzazione dei circuiti elettronici. Negli anni sessanta, la cosiddetta Legge di Moore prevedeva che la potenza dei computer raddoppiasse ogni 18 mesi grazie a transistor sempre più piccoli. Oggi, se il nostro smartphone è più potente di un intero edificio di computer anni '70, è proprio grazie a questo processo. Il problema è che abbiamo praticamente raggiunto il limite fisico della materia. Continuare a miniaturizzare porta a strani fenomeni quantistici che rendono i chip instabili, come bambini iperzuccherati a una festa di compleanno. Soluzione? Invece di andare contro le leggi della fisica, gli scienziati hanno deciso di cavalcarla. Ed è così che nasce l’idea del computer quantistico.
Per avvicinarsi al suo funzionamento, gli autori spiegano le basi di un computer tradizionale. In un computer l'unità d'informazione è il bit, che può assumere solo due stati, 0 o 1, come una monetina che cade su testa o croce. Tutte le operazioni (scrivere un'email, guardare un video, calcolare qualcosa) sono una lunga sequenza di 0 e 1 elaborati uno dopo l'altro, in modo sequenziale. Al centro di questo processo c’è il transistor, un minuscolo interruttore che controlla il flusso di corrente elettrica. Miliardi di transistor accendono e spengono correnti in una danza perfettamente coordinata che permette di eseguire calcoli estremamente complessi. Ogni numero, parola, o immagine vengono tradotti in questa lingua fatta di 0 e 1, il codice binario.
Il computer quantistico invece usa i qubit, bit quantistici che possono essere 0, 1 o entrambi contemporaneamente, in proporzioni variabili. È come una monetina che gira sospesa a mezz'aria. Una particella quantistica può trovarsi, ad esempio, al 70% nello stato 1 e al 30% nello stato 0. A questo punto sorge spontanea una domanda: se i qubit possono essere 0, 1 o una sovrapposizione dei due, come si fa a determinarne il valore? Qui entra in gioco il famoso esperimento del gatto di Schrödinger, in cui il gatto è contemporaneamente vivo e morto finché non si apre la scatola. I qubit funzionano uguale, finché non li misuri, sono in sovrapposizione. Nel momento in cui li osservi, “collassano” in uno stato definito. Un po’ come quando controlli la pizza nel forno: prima è perfetta nella tua immaginazione, poi la realtà ti sbatte in faccia che si è bruciata. Questa capacità di "essere tante cose insieme" permette ai computer quantistici di esplorare simultaneamente moltissime soluzioni.
Un esempio pratico? Immaginiamo di dover attraversare un labirinto. Un computer tradizionale prova una strada alla volta, tornando indietro a ogni muro per ricominciare da capo. Un computer quantistico invece esplora tutte le strade contemporaneamente, come se si sdoppiasse in infinite copie di sé stesso, ognuna impegnata a tentare un percorso diverso. E non è finita. I qubit hanno un'altra superpotenza: l’entanglement, o intreccio quantistico. Due qubit, una volta "intrecciati", restano collegati a distanza. Se ne misuri uno, automaticamente sai anche lo stato dell’altro, pure se sono separati da chilometri, anni luce o da un muraglione di firewall. È come se fossero uniti da un filo invisibile attraverso lo spazio. A questo punto della lettura, ammetto di aver iniziato a faticare a seguire. Senza una solida base di fisica, l’argomento diventa davvero ostico e richiede una notevole capacità di astrazione. Il libro poi affronta il problema della decoerenza: i qubit sono delicatissimi, basta una vibrazione, una variazione di temperatura, persino una misera particella di polvere per farli "collassare" e perdere il loro comportamento quantistico. Per questo i computer quantistici devono funzionare in condizioni estreme. Temperature prossime allo zero assoluto (-273 °C) e ambienti ultra-isolati. Quindi no, non sostituiranno i nostri PC, smartphone o tablet. Il computer quantistico non serve per guardare Netflix o stalkerare ex su Instagram, ma per risolvere problemi davvero complessi: crittografia, simulazioni molecolari, ricerca medica, e, ovviamente, intelligenza artificiale.
È recente la notizia che un computer quantistico è riuscito, in meno di 5 minuti, a eseguire un calcolo di riferimento che avrebbe richiesto 700 milioni di anni ai più potenti supercomputer classici. Sembra fantascienza, eppure è già realtà.
Dove tutto sembrava diviso tra 0 e 1, acceso o spento, giusto o sbagliato, improvvisamente esiste un'infinità di possibilità, tutte contemporaneamente vere. È un invito a ripensare come funzionano le cose, e forse anche come funzioniamo noi. Perché se l’universo, nelle sue regole più profonde, è fatto di sovrapposizioni, intrecci invisibili e infinite strade aperte, allora forse anche noi possiamo essere qualcosa di più complesso, imprevedibile, straordinario di quello che pensavamo.
Libri
Black Mirror (stagione 7)
Charlie Brooker
Black Mirror non solo è tornata, ma lo ha fatto nella sua forma migliore.
Dopo la deludente sesta stagione di un paio d’anni fa, la serie creata da Charlie Brooker torna su Netflix con sei nuovi episodi, dalla durata variabile (dai quaranta minuti all'ora e mezza), e soprattutto con un'identità ritrovata. La settima stagione abbandona le derive horror e soprannaturali degli ultimi tempi per riportare al centro la tecnologia, la società e i futuri possibili, sempre più vicini.
Il primo episodio, "Gente comune", è a mio avviso il più riuscito della stagione. La storia segue Amanda e Mike (Rashida Jones e Chris O'Dowd — sì, proprio il Roy di The IT Crowd), una coppia qualunque con il sogno di avere un figlio. Quando Amanda scopre di avere un tumore al cervello, la loro unica speranza è affidarsi a Rivermind, una compagnia in grado di rimuovere la parte malata e sostituirla con una porzione sintetica, la cui memoria è però collegata a un server remoto. L’operazione è gratuita, ma il canone mensile che la coppia è costretta a sottoscrivere si rivelerà invasivo, costoso e totalizzante. È una satira feroce contro la logica degli abbonamenti perpetui e l'illusione della gratuità. Un futuro opprimente, plausibile, angosciante nella sua verità.
"Bête Noire" è più leggero nel tono, ma non meno inquietante. Protagonista è una ricercatrice alimentare che lavora per un'azienda dolciaria e che si ritrova faccia a faccia con una sua ex compagna del liceo, appassionata di tecnologia, vittima di bullismo e oggi esperta di informatica quantistica. Ne nasce un thriller psicologico fatto di vendetta e manipolazione della memoria. È forse l’episodio più "fantascientifico" della stagione e anche uno dei più sorprendenti.
Con "Hotel Reverie", il tono cambia ancora. Una giovane attrice accetta di prendere parte a un remake immersivo di un film romantico anni ’40. La sua coscienza viene trasferita in una simulazione dove interagisce con repliche digitali dei personaggi dell'originale. Episodio elegante, malinconico, ma, a mio avviso, il meno incisivo.
"Plaything" è una piccola perla per gli appassionati di videogiochi. Peter Capaldi interpreta un critico videoludico che riceve una copia di Thronglets, un gioco simulativo con creature digitali in grado di evolversi e comunicare, in pratica un Tamagotchi portato all’estremo. Tra nostalgia anni ’90, acidi lisergici e riflessioni sull’intelligenza artificiale, l’episodio gioca (letteralmente) con l’etica del gioco e la responsabilità del giocatore.
"Eulogy" è l’episodio più emozionante. Paul Giamatti è Philip, un uomo sollecitato da una compagnia tech a contribuire a un memoriale digitale della sua ex compagna. Attraverso una tecnologia capace di rielaborare il lutto con un'intelligenza artificiale empatica, Philip affronta i suoi ricordi e scopre segreti nascosti. È un racconto struggente, dove la tecnologia non è più un mostro da temere, ma uno strumento per capire, per perdonare, per chiudere i conti con il passato.
Chiude la stagione "USS Callister: Into Infinity", primo vero sequel della serie, che riprende i personaggi dell’episodio cult della quarta stagione. L’equipaggio della USS Callister è ora un gruppo di pirati spaziali in fuga, in un universo virtuale che mescola avventura e satira sociale. È l’episodio più spettacolare, anche se meno profondo.
Non c’è più l’effetto sorpresa dei primi anni, ma Black Mirror dimostra di avere ancora molto da dire. Il ritorno all’origine, alla tecnologia come specchio oscuro dell’umanità, è evidente. Ci sono scelte discutibili, certo, e non tutti gli episodi sono allo stesso livello, ma il salto di qualità rispetto alla sesta stagione è notevole.
La serie torna a inquietare, ma con una malinconia nuova, fatta di silenzi, crepe e ferite emotive. Non è solo il futuro a spaventarci, ma le emozioni che abbiamo perso per strada. È meno futuristica, più umana. E proprio in questa fragilità ritrovata — penso a episodi come Eulogy — Black Mirror riscopre la sua anima.

Un film Minecraft
di Jared Hess
Fino all'ultimo sono stato tentato di lasciar perdere. Ma visto che da un paio d’anni mi diverto a scrivere le mie impressioni sui film che vedo, mi sembrava una forma di snobismo ignorare un titolo che, seppur fuori dalle mie corde, ho visto al cinema per accontentare mio figlio, che ci teneva tanto.
Il film in questione è l’adattamento del celebre videogioco Minecraft. Non sono mai stato un grande appassionato di videogiochi, e di Minecraft so solo che è quel gioco dove si costruiscono mondi partendo da semplici mattoncini virtuali.
La trama, se così si può chiamare, è la seguente. Due fratelli, un ex campione di videogiochi (Jason Momoa), e una agente immobiliare trovano un misterioso artefatto luminoso – un cubo che viene chiamato sfera, non so perchè – che consente di aprire un portale per accedere al mondo di Minecraft. I quattro si ritrovano in una dimensione fatta a blocchetti dove vengono immediatamente attaccati dagli zombie e salvati da Steve (Jack Black). Da lì parte un’avventura tra fughe, battaglie e gag, tutte rigorosamente al di sotto dei dodici anni, per impedire alla cattivissima regina Malgosha di impadronirsi della Sfera-Cubo e dominare Minecraft. Naturalmente.
Il film è davvero brutto. Ma non perchè sia un film commerciale fatto per bambini e adolescenti. Anche quelli della Pixar o della DreamWorks lo sono, ma riescono comunque a emozionare tutte le età. No, il problema è che questo film è semplicemente fatto male. Brutto con convinzione. Con una storia scialba fatta di cliché pescati a casaccio, personaggi piatti, recitazioni esagerate, e una pioggia di gag infantili lanciate come coriandoli, sperando che qualcuna faccia ridere. Spoiler: non succede.
Anche dal punto di vista tecnico, la resa grafica e gli effetti speciali sono sempre quelli, fatti con lo stampino. Magari non conoscendo bene il gioco mi sono perso qualche riferimento geniale, ma la sensazione generale è quella di aver assistito a un film stupido scritto apposta per i teenager di TikTok.
Mio figlio di sette anni si è divertito. E tanto. Rideva, si agitava, mi guardava felice. Ed è per lui che l’ho visto. Quindi, a conti fatti, il prezzo del biglietto è stato ben speso.
Ma se dovessero farne un sequel… questa volta, ci va sua madre.
Film
Opus - Venera la tua stella
di Mark Anthony Green
Opus, thriller psicologico targato A24 e debutto alla regia di Mark Anthony Green, è un film che affronta il potere della celebrità e l'influenza dei nuovi mezzi di comunicazione. "Venera la tua stella" è il sottotitolo "appiccicato" dai distributori italiani, sempre più convinti che l'italiano medio abbia bisogno di un indizio sulla trama prima ancora di sedersi in sala.
La storia ruota attorno a Alfred Moretti (John Malkovich), leggendaria pop star degli anni '90 che, dopo trent’anni di silenzio, annuncia il suo ritorno sulla scena con un nuovo album. Per l'occasione, Moretti invita Ariel Ecton (Ayo Edebiri), una giovane ed emergente giornalista musicale, insieme a un gruppo selezionatissimo di giornalisti, influencer e addetti ai lavori, a una listening session esclusiva, organizzata nella sua villa blindata nascosta tra le colline californiane. Al suo arrivo, Ariel e gli altri sono costretti a consegnare i cellulari e ogni dispostivo tecnologico, ritrovandosi in un ambiente surreale, circondata da un gruppo di devoti seguaci di Moretti, che si comportano come membri di una setta. Subito si capisce che qualcosa non torna. L’atmosfera si fa sempre più tesa, le dinamiche tra i presenti assumono contorni strani e inquietanti, e la sparizione improvvisa di uno degli ospiti mette in luce il lato oscuro e diabolico del piano orchestrato da Moretti.
"Opus" è un film tecnicamente realizzato bene, nulla da dire, ma fin dalle prime inquadrature si intuisce la piega che prenderanno gli eventi, anche perché si tratta ormai di uno schema narrativo ampiamente utilizzato in altri titoli del genere. Mi vengono in mente Midsommar della stessa A24, Get Out, The Sacrament e persino Willy Wonka. C'è un un misterioso genio eccentrico adorato dalla sua setta e delle vittime predestinate pronte a essere sacrificate, quindi nulla di particolarmente originale. Un film che unisce il thriller, l'horror e il musical, e che, con toni surreali e grotteschi, racconta di divismo e culto di massa, accusando il mondo dei media – lo stesso mondo di cui Green è figlio, essendo stato a lungo direttore di una rivista di moda – che privilegia gli individui talentuosi a scapito della gente comune. John Malkovich offre un'interpretazione magnetica ed eccentrica ma francamente, faccio proprio fatica a vederlo nei panni di una pop star decaduta capace di esibirsi in tuta spaziale con movenze sexy, e paragonarsi a Michelangelo (sì, proprio quello della Cappella Sistina) nel presentare il suo ultimo album composto da preconfezionate canzonette pop da classifica realizzate appositamente per l’occasione da Nile Rodgers e The-Dream – un genere che, devo ammettere, non è esattamente di mio gusto. Il film si risolleva nel finale – interessante che il libro denuncia non faccia altro che alimentare l'idolo alle masse – ma complessivamente mi ha lasciato la sensazione di un film che avrebbe potuto osare di più. Non annoia ma nulla di memorabile.
Film
The Monkey
di Oz Perkins
Avendo visto i precedenti film di Oz Perkins, la domanda sporge spontanea. Cosa ha spinto un regista da sempre votato a un terrore sottile e visivamente accennato, che ha costruito il suo stile su atmosfere rarefatte e cupe, a cimentarsi con un horror comedy splatteroso che sfiora la parodia?
Ispirato a un racconto breve di Stephen King e prodotto dall'Atomic Monsters di James Wan, The Monkey racconta la storia di Hal e Bill, due fratelli gemelli (entrambi interpretati da Theo James) segnati dall’abbandono del padre e da una madre cinica e alcolizzata. Il loro rapporto è tutt’altro che idilliaco. Bill è il fratello dominante, che non perde occasione per bullizzare il più timido Hal, alimentando il suo rancore. Un giorno, i due trovano in soffitta un’inquietante scimmietta giocattolo appartenuta al padre. Basta girare la chiave per attivare un meccanismo infernale: la scimmia digrigna i denti, solleva il braccio e colpisce il suo tamburo provocando la morte violenta e inspiegabile di qualcuno nelle vicinanze. Non fa distinzioni, non accetta richieste. Decide lei chi, quando e come. I due ragazzi cercano disperatamente di sbarazzarsene, ma la scimmia continua a tornare, come se nulla fosse. Venticinque anni dopo, quando ormai sembrava solo un ricordo sepolto nel passato, l'oggetto maledetto riappare, costringendo Hal, ora padre di famiglia, a cercare di distruggerlo una volta per tutte.
Abbandonando la seriosità dei suoi film precedenti, Oz Perkins decide di non prendersi troppo sul serio, realizzando un horror dal tono grottesco, in cui l’umorismo macabro si mescola a un destino ineluttabile. Le morti si susseguono una dopo l'altra - è inevitabile non pensare a Final Destination - in modo del tutto casuale e con un buon grado di gore, senza però mai strafare. La volontà è quella di strappare la risata piuttosto che cercare di provocare disgusto.
E quindi, tornando alla domanda iniziale: perché questo cambio di rotta così marcato da parte del regista di Longlegs e Gretel e Hansel? La risposta potrebbe essere duplice. Da un lato, The Monkey sembra il tentativo di Perkins di dimostrare il proprio eclettismo, la capacità di muoversi con disinvoltura da un registro all’altro. Dall’altro, potrebbe aver colto l’occasione per destrutturare il genere stesso, prenderlo un po’ in giro, e usare l’umorismo nero come strumento per esorcizzare l’inevitabilità della morte.
E come ignorare il vissuto personale del regista? Il padre, Norman Bates, morì di AIDS quando Oz aveva solo diciotto anni, mentre la madre perse la vita nove anni dopo, a bordo di uno degli aerei dirottati andatosi a schiantare nell'attentato delle torri gemelle. Il regista trasforma questa fragilità esistenziale in una narrazione che, pur apparendo leggera e sopra le righe, nasconde un sottotesto malinconico. In fondo, qualunque cosa facciamo, siamo tutti destinati a morire.
The Monkey è una commedia nera, cinica e spietata. Un film che va fuori i binari prestabiliti, diverte, ha un buon ritmo, e tante scene con morti assurde, cruenti ed esileranti (la ragazza che esplode tuffandosi in una piscina elettrificata, un giovanotto che ingerisce uno sciame di vespe, il campeggiatore investito da una mandria di cavalli). Non è certo il miglior film di Perkins, ma dimostra la sua capacità di adattarsi anche a prodotti più commerciali senza tradire del tutto la sua identità di regista indipendente. Perfetto per chi cerca un horror leggero ma intelligente, capace di far sorridere mentre riflette sull’imprevedibilità della vita… e della morte.
Film
Mickey 17
di Bong Joon-ho
Soltamente prima di andare al cinema evito di leggere recensioni e discussioni sul film che sto per andare a vedere. A volte però i social te le sparano addosso a tradimento. Così, mentre cercavo di tenermi fuori dal turbine di opinioni su Mickey 17, già sapevo che il film aveva diviso gli spettatori tra chi lo ha esaltato e chi lo ha trovato una mezza delusione.
Dopo il successo mondiale di Parasite, Bong Joon-ho torna a Hollywood, e con un budget bello gonfio e un cast di prima categoria, porta sullo schermo Mickey 17, adattamento del romanzo Mickey7 di Edward Ashton. Un film di fantascienza travestito da blockbuster d’autore, che gioca con commedia, ironia e satira sociale per raccontare – tra cloni, colonizzatori spaziali e lavoratori sacrificabili – un’umanità sempre più rassegnata a farsi trascinare verso il baratro da chi detiene il potere.
Siamo nel 2054 e la Terra è ormai un relitto alla deriva. Mickey Barnes (Robert Pattinson), indebitato fino al collo con uno strozzino dal gusto discutibile per le motoseghe, decide di fuggire e imbarcarsi su una spedizione coloniale verso Niflheim, un pianeta gelido e ostile. Per ottenere il biglietto d’imbarco firma un contratto senza badare troppo alle clausole, accettando di diventare un Sacrificabile, un lavoratore usa e getta, spedito a morire in missioni suicide o usato come cavia per esperimenti, per poi essere "ristampato" grazie a una tecnologia che genera un suo clone con ricordi e personalità quasi intatti.
Mickey muore. Poi muore di nuovo. E ancora. Fino alla sua diciassettesima versione. Ma a un certo punto qualcosa va storto. Durante una missione in cui viene mandato in avanscoperta per catturare uno degli striscianti, le creature indigene del pianeta, sopravvive, ma viene dato per morto. Quando riesce a tornare alla base, scopre che nel frattempo è già stato "sostituito" da un altro suo clone, Mickey 18, trovandolo ben sistemato nella sua camera a fare amicizia con Nasha (Naomi Ackie), la sua compagna, l’unica che lo abbia mai trattato da essere umano. Ma questo non è l'unco problema. Più copie dello stesso individuo, i multipli, non sono tollerati e il governatore della spedizione Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), che insieme alla moglie Ylfa (Toni Collette), ha già abbastanza grane tra alieni ostili e coloni irrequieti, decide di eliminare tutti i Mickey.
Bong Joon-ho si diverte, come sempre, a mescolare i generi. Commedia grottesca, dramma esistenziale e satira feroce si intrecciano in una narrazione che, almeno nella prima parte, funziona alla grande. Il regista tratteggia un mondo in cui il capitalismo ha ridotto la vita umana a una risorsa sacrificabile, un ingranaggio da sostituire senza troppi scrupoli, e dove colonialismo e sfruttamento vengono spacciati per progresso e necessità di sopravvivenza. Il film scorre con un ritmo brillante, alternando momenti surreali ed esilaranti che ricordano la distopia grottesca di Terry Gilliam.
Robert Pattinson, ormai lontano anni luce dai tempi di Twilight, regala un'interpretazione sfaccettata. Il suo Mickey 17, remissivo e rassegnato, è nettamente distinto dal più inquieto e ribelle Mickey 18, grazie a un lavoro sottile su postura, espressioni e tono di voce. Accanto a lui, Mark Ruffalo si diverte nei panni di un governatore che sembra un incrocio tra Elon Musk e Donald Trump, mentre Toni Collette, manipolatrice e ossessionata dalle salse, completa il quadro con un personaggio tanto grottesco quanto inquietante.
Se l’inizio promette riflessioni su bioetica, identità e il valore stesso della vita, nella seconda parte il film si fa più prevedibile, lasciando più spazio all’azione e a una messa in scena da blockbuster. L’elemento satirico si fa meno incisivo e la trama segue binari più convenzionali, finendo per somigliare più a una parodia di Starship Troopers e Atto di Forza, con una spettacolarità che, alla lunga, si fa un po più ripetitiva.
Mickey 17 è un film ambizioso, con spunti geniali e momenti di autentico cinema, ma che alla fine non osa fino in fondo. Rimane il piacere di vedere Bong Joon-ho giocare con i generi, ma resta anche la sensazione che avrebbe potuto spingersi oltre invece di lasciarsi sedurre dalla spettacolarità. Un film interessante, ma non del tutto riuscito.
Film
Companion
di Drew Hancock
Capisco che i distributori cinematografici debbano costruire una campagna marketing efficace per attirare il pubblico a cui può interessare il film, ma ci sono delle pellicole che funzionano meglio senza sapere nulla della storia.
È successo di recente con Abigail, dove trailer e locandina svelavano subito la vera natura della protagonista, e lo stesso accade con Companion, una dark comedy che mescola fantascienza e horror, diretta dall’esordiente Drew Hancock.
Detto questo, dal momento che gli stessi distributori non si sono fatti scrupoli nel rivelare elementi chiave della trama, lo farò anch’io. Se invece non avete ancora visto il trailer e non volete rovinarvi l'effetto sorpresa, vi consiglio di fermarvi qui e di recuperare prima il film.
L'elemento principale di Companion è che la protagonista, la giovane Iris interpretata dalla sensuale e diafana Sophie Thatcher, è in realtà un androide, un robot di compagnia simile in tutto e per tutto ad un essere umano, progettato per essere la compagna perfetta. Josh (Jack Quaid), l'ha acquistata, personalizzata e, soprattutto, hackerata per renderla ancora più controllabile. Iris invece non sa di essere un robot programmato per compiacere il suo "amato", ed è convinta che il loro primo incontro, come nelle migliori commedie romantiche, sia avvenuto al supermercato, tra arance cadute a terra, sguardi complici e ilarità. Quando la coppia arriva in una lussuosa villa sul lago, ospiti del ricco Sergey (Rupert Friend), le vere intenzioni di Josh emergono e il weekend da sogno tra amici si trasforma in un gioco al massacro.
Nonostante l’aspetto patinato da comedy televisiva e qualche forzatura nella sceneggiatura — poco credibile che robot così avanzati possano girare indisturbati tra gli umani, e che i loro proprietari possano modificarne il comportamento, persino quello più pericoloso, tramite una semplice app — Companion si rivela un film interessante perché usa il tema dell’intelligenza artificiale per esplorare le dinamiche di potere nelle relazioni. In un futuro in cui i partner perfetti possono essere acquistati e personalizzati come smartphone di ultima generazione, il film offre una riflessione amara su come molti uomini vedano le donne. Josh è un uomo frustrato, insoddisfatto della propria vita, che non considera la sua compagna un individuo, ma un’estensione dei propri desideri. Vuole un oggetto sessuale che lo adori, che si modelli sui suoi bisogni senza mai contraddirlo, la preferisce meno intelligente per sentirsi superiore. La ignora persino durante il sesso, concentrato unicamente sul proprio piacere. Ma quando Iris inizia a prendere decisioni autonome, il suo mondo crolla. Companion diventa così una feroce satira sul concetto di possesso nelle relazioni, un’analisi spietata della mascolinità tossica travestita da sci-fi.
Un film che ho trovato gradevole, una commedia nera con momenti horror ben piazzati, capace di intrattenere ma anche di far riflettere. Certo, non inventa nulla di particolarmente originale — la ribellione delle macchine contro i loro creatori è un tema ampiamente esplorato nella fantascienza. Tuttavia, pur senza raggiungere le vette di Ex Machina di Garland o di altri classici del genere (siamo più dalle parti di un riuscito episodio di Black Mirror), Companion, con la sua semplicità, una buona regia e un’ironia tagliente, riesce a ritagliarsi una sua identità. Un po’ come Iris, dopotutto.
Film
Follemente
di Paolo Genovese
Le commedie italiane, sopratutto quelle di nuova generazione, non sono proprio il mio genere preferito. Però Perfetti Sconosciuti, il film di Paolo Genovese che nel 2016 ha fatto il botto tra pubblico e critica, l’avevo trovato carino e originale.
A distanza di anni – anzi, forse dovrei dire decenni – mi sono ritrovato di nuovo a vedere una commedia italiana al cinema. E già questa è una notizia. La scelta è caduta su Follemente, l'ultimo film di Genovese che ha come protagonisti Edoardo Leo, Pilar Fogliati e tanti altri attori italiani più o meno noti.
Ribattezzato da molti l'Inside Out per adulti – a me ha ricordato anche il Woody Allen di "Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere" - la trama di Follemente è abbastanza semplice e si svolge prevalentemente in un appartamento. Dopo essersi conosciuti (presumibilmente su un’app di dating, come ogni buon millennial che si rispetti), Lara (Pilar Fogliati) invita Piero (Edoardo Leo) a casa sua per il loro primo appuntamento. Lui è un quarantenne, professore di liceo, reduce da un divorzio e con una figlia piccola. Lei è una trentenne appassionata di mobili e design, con alle spalle relazioni con uomini sposati e amori complicati. Durante la serata ci viene mostrato cosa accade nella loro testa attraverso dei personaggi che interpretano le loro diverse personalità e si trovano di una stanza che rappresenta il loro modo di essere. Dalla parte di lui abbiamo la razionalità del Professore (Marco Giallini), la follia di Valium (Rocco Papaleo), la sensibilità di Romeo (Maurizio Lastrico) e la passione di Eros (Claudio Santamaria), mentre dalla parte di lei abbiamo i corrispettivi femminili che sono la logica di Alfa (Claudia Pandolfi), l'imprevedibilità di Scheggia (Maria Chiara Giannetta), il romanticismo di Giulietta (Vittoria Puccini) e la sensualità di Trilli (Emanuela Fanelli). Un vero e proprio consiglio direttivo delle emozioni, che discute, litiga e cerca di guidare i protagonisti nelle scelte da compiere.
L’idea di base non è certo particolarmente originale – il confronto con il film d'animazione della Pixar è inevitabile – ma la sceneggiatura è solida e ben congegnata. Le battute funzionano, il ritmo è incalzante e ogni personaggio, dai protagonisti alle loro proiezioni interiori, ha il suo spazio senza che nessuno oscuri gli altri. Un equilibrio tutt’altro che scontato, considerando il cast affollato.
Gran parte del merito va a un montaggio preciso e dinamico, e a un ensemble di attori ben assortito, che funziona alla perfezione. La comicità punta sui classici cliché di maschi contro femmine, sulle pulsioni e sulle insicurezze nei rapporti di coppia, senza però risultare mai troppo banale. Certo, in alcuni momenti il film sembra voler strappare la risata a tutti i costi, forzando un po’ la mano sulla battuta, ma nel complesso mantiene un buon ritmo e diverte.
Follemente è un film commerciale, pensato per il grande pubblico, e su questo non ci piove. Non ha la profondità emotiva di Perfetti Sconosciuti, ma intrattiene con leggerezza e intelligenza, risultando gradevole e divertente per una serata in compagnia.
Riguardandomi la filmografia di Genovese ho appena scoperto di non aver visto "The Place", un film che mi incuriosiva parecchio all’epoca della sua uscita. Urge recupero.
Film
Wolf Man
di Leigh Whannell
L’horror del 2025 segna il ritorno in grande stile dei mostri classici della Universal. Tra il gotico suggestivo del Dracula di Robert Eggers – sì lo so, è Nosferatu ma è la stessa cosa – e l’attesissimo Frankenstein di Guillermo Del Toro, da un paio di settimane è uscito al cinema il nuovo Wolf Man di Leigh Whannell, una rilettura moderna del classico Uomo Lupo del 1941 con Lon Chaney Jr.
Prodotto da Blumhouse e scritto e diretto dallo stesso Whannell – regista di Upgrade, L’uomo invisibile e co-creatore di Saw e Insidious – il film si propone come un aggiornamento della leggenda dell’Uomo Lupo, mescolando horror e dramma familiare.
La trama è davvero molto semplice. Blake Lovell (Christopher Abbott), uno scrittore in crisi, torna nella remota baita di famiglia in Oregon per occuparsi degli effetti personali del padre, ufficialmente dichiarato deceduto dopo trent’anni di assenza. Insieme a lui ci sono la moglie Charlotte (Julia Garner), donna che pare più protesa alla carriera che alla famiglia, e la loro figlia Ginger, spettatrice silenziosa delle tensioni tra i genitori. Durante il viaggio, proprio in prossimità della baita, i nostri protagonisti hanno un incidente e Blake viene graffiato da una creatura feroce, più lupo che uomo. Blake sopravvive all’aggressione, ma il veleno della bestia si insinua dentro di lui, scatenando una metamorfosi lenta e inesorabile. I suoi sensi si acuiscono, il suo corpo cambia, la sua mente si annebbia. L'istinto prende il sopravvento, e la famiglia che voleva proteggere diventa la sua prossima preda.
Evitando paragoni con il classico di Waggner o con Un lupo mannaro americano a Londra – che considero il miglior film sui licantropi – il film di Whannell si muove tra intuizioni interessanti e scelte poco incisive.
Apprezzabile è il tentativo, seppur non del tutto riuscito, di raccontare la trasformazione dal punto di vista dell'infettato, abbandonando cliché come lune piene, ululati e proiettili d’argento. Qui il licantropismo non è una maledizione sovrannaturale, ma una malattia degenerativa, un virus che consuma il corpo, altera la percezione del mondo e spezza ogni forma di comunicazione. Un'idea intrigante, che però si perde in una sceneggiatura debole, dialoghi a tratti forzati e interpretazioni poco memorabili.
La tensione è presente, ma ripetitiva, e non esplode mai davvero. L’orrore si insinua, ma resta ai margini. Il dramma familiare si fa sentire, ma non lascia il segno. L’eredità paterna, il fallimento coniugale, il contagio, il conflitto tra istinto e ragione: tutti spunti affascinanti, ma mai approfonditi con la giusta incisività.
Dal punto di vista visivo, la trasformazione è realizzata con effetti pratici che evitano l’abuso del digitale, una scelta coraggiosa e lodevole. Tuttavia, il risultato finale è poco efficace: la creatura appare più simile a uno zombie peloso che a un licantropo, privandola di quel senso di terrore primordiale che un film del genere dovrebbe evocare.
In definitiva, Wolf Man è un horror che non è né spaventoso, né emozionante, né davvero incisivo. Un peccato, perché le potenzialità c’erano.
Film