
L'Eternauta
Bruno Stagnaro
Fin da quando hanno cominciato a circolare le prime voci su un adattamento televisivo de L'Eternauta, ho provato un misto di curiosità e scetticismo. Per me – e per molti altri – si tratta di un’opera intoccabile, un capolavoro del fumetto del ventesimo secolo, non solo per il suo valore narrativo ma soprattutto per il suo peso simbolico e politico. L’idea che potesse essere trasformata in una serie Netflix, magari omologata alle solite estetiche post-apocalittiche, mi lasciava più di una perplessità.
Ho conosciuto L’Eternauta quando ero poco più di un bambino, sfogliandolo sui vecchi albi di Lancio Story che trovavo in casa. All’epoca non ne comprendevo pienamente la portata – ero ancora rapito dai supereroi colorati della Marvel, quelli pubblicati dall’Editoriale Corno – ma quelle tavole mi lasciavano addosso un senso di inquietudine e meraviglia. Solo anni dopo, in età adulta, l’ho riscoperto in volume, leggendolo per intero e rendendomi conto – anche alla luce della storia personale del suo autore e del contesto politico dell’Argentina – di quanto fosse un’opera profonda e stratificata.
Pubblicata a puntate tra il 1957 e il 1959 sulla rivista Hora Cero, L’Eternauta nasce dalla penna di Héctor Germán Oesterheld e dalle matite di Francisco Solano López. È un fumetto di fantascienza post-apocalittica, forse il capostipite dell’Historieta argentina, quella corrente fumettistica che tra gli anni cinquanta e ottanta ha prodotto opere memorabili. In quel racconto cupo e visionario, Oesterheld intercetta le tensioni politiche dell’epoca e, con inquietante preveggenza, utilizza una misteriosa invasione aliena come metafora del sorgere di un regime autoritario che annienta ogni forma di dissenso.
Diversi anni dopo la pubblicazione de L'Eternauta, l’Argentina cadde davvero sotto una feroce dittatura militare. Migliaia di oppositori furono arrestati, torturati, fatti sparire. Tra le vittime, lo stesso Oesterheld – ormai attivista politico – e le sue quattro figlie, tutte sequestrate e uccise da squadre armate.
Conoscendo questa storia, diventa impossibile leggere L’Eternauta come un semplice fumetto di genere. È un’opera che grida resistenza e che denuncia l’oppressione. Ecco allora che torno alla mia perplessità iniziale. Ha senso riproporre oggi una storia scritta più di sessant’anni fa così radicata nel suo tempo e nel suo luogo? Guardando il mondo di oggi, con i suoi nuovi autoritarismi, le guerre alle porte dell’Europa, la striscia di Gaza e il risorgere di vecchi fantasmi, la risposta sembrerebbe ovvia. Ma quanto i produttori saranno davvero capaci di interpretare questa chiave, e quanto invece si limiteranno a offrire l’ennesima distopia da catalogo?
La serie è composta da sei episodi ed è ambientata a Buonos Aires ai giorni nostri. E' una produzione argentina a tutti gli effetti, prodotta, sceneggiata e diretta da Bruno Stagnaro. Il protagonista, Juan Salvo (interpretato da Ricardo Darín), si trova a casa con un gruppo di amici quando un improvviso black-out precede una misteriosa nevicata che inizia a cadere sulla città. Ben presto si capisce che non è neve, ma una sostanza tossica capace di uccidere all’istante chiunque venga esposto. In un primo momento Juan e i suoi amici cercano di unire le forze per salvarsi e proteggersi, poi, dopo aver costruito delle rudimentali tute per potersi muovere all’esterno, nel cercare di comprendere l’origine di questa letale minaccia, scoprono che la nevicata è solo l’inizio di un’invasione aliena pianificata e stratificata.
La serie mantiene un ritmo lento e riflessivo, decisamente lontano dai canoni dell’action che siamo abituati a vedere. Ma questo, almeno per quanto mi riguarda, non mi disturba. L’atmosfera sospesa e di attesa, rispecchia bene la tensione del fumetto originale. L’elemento più interessante resta forse proprio la scelta di raccontare l’apocalisse da un punto di vista umano e intimista. Il protagonista è un uomo qualunque, un eroe per caso, in bilico fra i suoi affetti, misteriose visioni, e la necessità di sopravvivere in un mondo diventato improvvisamente ostile. La recitazione è buona, la fotografia efficace, soprattutto nei momenti in cui Buenos Aires diventa un deserto bianco, silenzioso e mortale. Anche le creature e gli effetti speciali – pur senza strafare – risultano convincenti.
Il problema principale della serie è che sembra prevedibile. Lo scenario post-apocalittico è solido, ma fatica a sorprendere. In sessant’anni abbiamo visto decine di libri, film e serie simili, e oggi la storia appare poco originale. Ci sono pochi sussulti, pochi momenti davvero memorabili. E soprattutto, manca quasi del tutto il sottotesto politico. Dove il fumetto era un grido di allarme e denuncia, qui la metafora si fa opaca, quasi assente. Rimane un messaggio di resistenza collettiva, sì, ma generico, annacquato. Non c’è il peso della storia, non c’è quel senso di urgenza che rendeva L’Eternauta così potente.
Alla fine, ci troviamo davanti a una serie ben confezionata, con buoni attori e una regia solida, ma che rischia di confondersi con tante altre produzioni simili. Una seconda stagione è già stata annunciata, e forse ci sarà spazio per approfondire meglio alcune tematiche solo accennate.
Nel frattempo, se questa serie servirà almeno a spingere qualche spettatore curioso a riscoprire il fumetto originale – recentemente ripubblicato da Panini in una bellissima edizione orizzontale – allora avrà comunque fatto qualcosa di importante.
Serie TV
Ash - Cenere mortale
di Flying Lotus
Flying Lotus, al secolo Steven Ellison, è un artista poliedrico tra i più visionari della scena contemporanea. Conosciuto soprattutto per la sua produzione musicale nel campo dell’hip hop sperimentale e dell’elettronica, Ellison ha sempre intrecciato suono e immagine, coltivando un forte legame con il linguaggio cinematografico. Dopo l’esordio dietro la macchina da presa con Kuso del 2017 e un episodio per V/H/S/99 nel 2022, torna alla regia con Ash, un horror fantascientifico che riscrive la paura nello spazio attraverso la lente distorta e allucinata del suo immaginario. Un film che fonde suggestioni videoludiche, di cui Ellison è un grande appassionato, con il retaggio di cult come Alien, Punto di non ritorno e La Cosa, trasformando l’omaggio in visione personale e contaminata.
Il film è ambientato su un pianeta remoto, noto come "Ash", dove un gruppo di giovani scienziati e ricercatori ha costruito una stazione spaziale per determinare se il luogo sia potenzialmente abitabile. Al suo risveglio, però, la protagonista Riya Ortiz (Eiza González) si ritrova circondata dai cadaveri dei suoi compagni di equipaggio, senza memoria degli eventi recenti e tormentata da visioni disturbanti e frammentarie. Mentre tenta di ricostruire l’accaduto, la stazione viene raggiunta da Brion Cargyle (Aaron Paul), un pilota solitario che sostiene di essere stato inviato in risposta a un segnale di soccorso. Costretti a collaborare per sopravvivere in un ambiente sempre più ostile e alienante, i due si troveranno immersi in un incubo in cui nulla è come sembra, dove la realtà si sfalda e il confine tra ciò che è umano e ciò che non lo è si fa sempre più sottile.
La storia si sviluppa in modo frammentato con la bella, ma poco convincente, protagonista che cerca di rimettere insieme i pezzi, guidata da flashback disturbanti e visioni psichedeliche. Alla fine il film risulta essere più allucinato che coinvolgente dove il montaggio frenetico e l’espediente dell’amnesia, più che alimentare il mistero, sembrano coprire le debolezze della sceneggiatura e abbassare la tensione.
Dal punto di vista visivo, Ash si svolge prevalentemente al buio, con un largo uso di luci colorate fluorescenti a intermittenza. Scelta stilistica affascinante, almeno per coloro che non sono fotosensibili. Flying Lotus– che compare brevemente in un flashback – non lesina sullo splatter e sul body horror, regalando nel finale un tripudio di deformazioni e mostri tentacolari che farebbe felice anche John Carpenter (e probabilmente anche qualche gamer nostalgico di Dead Space). Non essendo un grande intenditore di videogiochi, il film, sia per l'ambientazione che per la coloratissima fotografia mi ha ricordato Terrore nello spazio di Mario Bava. Un riferimento forse casuale ma che ho molto apprezzato. Bello anche il design delle tute spaziali, originale e visivamente efficace. La colonna sonora, ovviamente, è firmata dallo stesso Flying Lotus, che realizza un elettronica sospesa tra i synth cosmici di Vangelis e il minimalismo ipnotico del già citato Carpenter.
In conclusione, Ash è un film che intrattiene, visivamente interessante, e che rivela una sincera passione per la fantascienza videoludica e i B-movie vintage. Peccato che tutto questo amore finisca per strabordare, rendendo l’esperienza più derivativa che memorabile. Un bel trip, ma niente che non si sia già visto, e in alcuni casi, meglio.
Ash - Cenere mortale è attualmente disponibile su Prime Video.

The Beast (La Bête)
di Bertrand Bonello
The Beast (La Bête) di Bertrand Bonello è un film del 2023 liberamente ispirato al racconto La bestia nella giungla di Henry James, ma completamente rielaborato in chiave sci-fi e psicologico-esistenziale.
È un film complicato e straniante, che fonde melodramma, distopia e romanticismo tragico attraversando tre epoche diverse (inizio 900, 2014 e 2044).
In un futuro prossimo dominato dall’intelligenza artificiale, dove le emozioni sono considerate un ostacolo all’efficienza, Gabrielle (Léa Seydoux) è costretta a sottoporsi a un processo di purificazione per poter accedere a una vita professionale più interessante. La procedura prevede la liberazione dai traumi e dai sentimenti, ma il viaggio nella memoria si trasforma in qualcosa di più profondo, un ritorno ciclico alle sue vite passate, tutte segnate dall'amore per Louis (George MacKay) e da un’inquietudine persistente. Un presentimento che qualcosa di terribile stia per accadere, che una "bestia" voglia farle del male. Un legame misterioso li unisce e li separa, condannandoli a ritrovarsi senza mai potersi davvero appartenere. Un amore destinato a ripetersi, ma non a compiersi.
The Beast è un film molto complesso e stratificato, che mi ha disorientato e colpito. Impegnativo, decisamente, ma profondamente coinvolgente. Il film si apre con Gabrielle, un’aspirante attrice nella Los Angeles del 2014, mentre gira uno spot pubblicitario davanti a un green screen. Una sequenza ironica e significativa che sembra prendere di mira il cinema hollywoodiano contemporaneo, sempre più dipendente dalla CGI e dalla simulazione.
L’intelligenza artificiale è uno dei temi portanti del film, ma non è il solo. Bonello — che prima di questo film non conoscevo — costruisce un racconto frammentato che attraversando tre epoche (belle époque, presente e futuro) ci racconta la progressiva disumanizzazione dei sentimenti, in un mondo che li considera scarti. Nella Parigi del 1910, Gabrielle è la moglie di un imprenditore che produce bambole dal volto inespressivo, le stesse che sembrano anticipare la Gabrielle del 2044, un essere umano "purificato", svuotato di emozioni per funzionare meglio in una società ipercontrollata. La neutralità emotiva diventa un requisito per l’integrazione, come se i sentimenti e le emozioni fossero un virus da debellare.
Ma qual'è la “bestia” che dal titolo al film? La disumanizzazione? Oppure, e qui entriamo nelle mie riflessioni personali, la vera bestia è la paura di non riuscire ad amare. La paura di esporsi, di soffrire, di perdere il controllo. Una paura che ci paralizza, ci rende sterili, ci impedisce di vivere davvero. È l’incapacità di relazionarsi con semplicità, schiacciati da ansie profonde e radici difficili da estirpare. È la paura della morte, della solitudine, del rifiuto. Quel terrore cieco che alimentiamo nella nosta mente, fino a renderlo reale.
La Gabrielle del futuro è costretta a diventare un algoritmo. Le sue scelte devono essere sempre razionali, corrette, "giuste". Ma l’amore non è mai giusto. È disturbante, ingestibile, profondamente umano. Il suo rapporto con Louis è sfuggente, impossibile, fino a diventare una minaccia. Nel presente, Louis è un uomo solo e frustrato, un incel — individui che trasformano il senso di esclusione e rifiuto in risentimento, talvolta in rabbia repressa. Una figura minacciosa, che implode in violenza.
In tutto questo Bonello inserisce due eventi catastrofici — l’alluvione di Parigi del 1910 e un terremoto — come metafore di un’emotività repressa che, prima o poi, torna a galla in modo incontrollabile. E dove Hitchcock o Poe avrebbero messo un corvo, Bonello lascia svolazzare un piccione dentro casa, banale ma sinistro presagio di sciagura.
Notevole anche il dettaglio del QR code finale che permette di vedere i titoli di coda. Un tocco alla Black Mirror che per altro sia per le tematiche e il coinvogimento emotivo mi ha ricordato un paio tra gli episodi più riusciti. Ovviamente questo non è l’unico richiamo. Nel film ho ritrovato Eternal Sunshine of the Spotless Mind, con il tentativo di cancellare il dolore eliminando l’amore. Ma anche tantissimo Lynch. La parte ambientata a Hollywood richiama fortemente Mulholland Drive, con Gabrielle che ricorda Betty, la scena con la sensitiva al computer, il locale che sembra appartenere a un non luogo, ma in generale tutta l'amosfera e la sensazione sospesa che qualcosa di inquietante stia per accadere.
The Beast è la storia di un amore mai pienamente realizzato, che si ripete senza mai compiersi, come una condanna. Un film cerebrale, verboso, stratificato, pieno di simbolismi. Ma nonostante la durata e una certa densità, riesce a coinvolgere sempre di più, fino a un finale cinico e spietato. Un vero pugno allo stomaco.
Un film complesso e perturbante, che mi ha profondamente coinvolto perché ha toccato corde intime. Perché no, non si può amare senza emozioni. Touché.
Film
Il paradosso del tempo
di Bernardo Britto
I viaggi nel tempo sono uno dei temi più affascinanti e ricorrenti del cinema di fantascienza. Tra paradossi, salti e loop temporali, questi film hanno la caratteristica che non hanno bisogno di particolari effetti speciali o budget eccessivi, ma soltanto di una buona idea e una sceneggiatura solida.
Tra le tante pellicole di questo genere si inserisce Il paradosso del tempo (Omni Loop), film americano del regista brasiliano Bernardo Britto, che dopo una carriera nel cortometraggio approda alla regia di un lungometraggio mainstream con una storia che mescola sci-fi, dramma e malinconia.
La trama ruota attorno a Zoya Lowe (Mary-Louise Parker), una fisica di mezza età affetta da una misteriosa condizione. I medici gli hanno diagnosticato la presenza di un "buco nero" nel petto e le hanno dato una settimana di vita. Quello che né la sua famiglia né i dottori sanno, però, è che alla fine di quei sette giorni – quando il sangue inizia a colarle dal naso, segnale della sua imminente fine – Zoya si chiude in bagno, ingoia una delle misteriose pillole trovate per caso da bambina, e torna indietro nel tempo di esattamente una settimana. Ogni ciclo ricomincia con il suo risveglio in ospedale, quando il medico la dimette per permetterle di trascorrere gli ultimi giorni con i suoi cari. Costretta a rivivere la stessa settimana migliaia di volte, Zoya si ritrova intrappolata in un loop estenuante. Esausta dalla ripetitività e dal senso di impotenza, decide di allontanarsi dalla cinica subito dopo il suo risveglio. Il fortuito incontro con Paula Campos (Ayo Edebiri), una giovane studentessa di fisica, gli permette di trovare un alleata per provare a studiare i i misteri dei viaggi nel tempo e capire se c'è il modo per interrompre questo ciclo… e forse, riappropriarsi della propria vita.
Il paradosso del tempo prende in prestito suggestioni da classici del genere – da Ricomincio da capo a Predestination, passando per Looper – ma utilizza il meccanismo del loop temporale, più che sulle dinamiche del viaggio nel tempo, per riflettere sull’inevitabilità della morte, il tempo che sprechiamo e gli affetti che trascuriamo. Il film, leggero e malinconico, parla di una donna che non cerca tanto di sfuggire alla fine quanto di fare pace con la propria vita. Mary-Louise Parker è molto brava e sostiene una narrazione che vuole essere toccante per un film mainstream da seconda serata. Se invece parliamo di fantascienza, ho trovato la sceneggiatura tutt'altro che convicente. Buchi logici, disordine narrativo, trovate poco riuscite e risibili – come il buco nero nel petto della protagonista e sopratutto l’uomo nanoscopico, un tizio che un esperimento quantistico sta facendo rimpicciolire all’interno di una scatola, la cui funziona a livello di trama rimane per me sconosciuta.
Un film che intrattiene, facendo leva sull'aspetto romantico, ma dimenticabile.

Black Mirror (stagione 7)
Charlie Brooker
Black Mirror non solo è tornata, ma lo ha fatto nella sua forma migliore.
Dopo la deludente sesta stagione di un paio d’anni fa, la serie creata da Charlie Brooker torna su Netflix con sei nuovi episodi, dalla durata variabile (dai quaranta minuti all'ora e mezza), e soprattutto con un'identità ritrovata. La settima stagione abbandona le derive horror e soprannaturali degli ultimi tempi per riportare al centro la tecnologia, la società e i futuri possibili, sempre più vicini.
Il primo episodio, "Gente comune", è a mio avviso il più riuscito della stagione. La storia segue Amanda e Mike (Rashida Jones e Chris O'Dowd — sì, proprio il Roy di The IT Crowd), una coppia qualunque con il sogno di avere un figlio. Quando Amanda scopre di avere un tumore al cervello, la loro unica speranza è affidarsi a Rivermind, una compagnia in grado di rimuovere la parte malata e sostituirla con una porzione sintetica, la cui memoria è però collegata a un server remoto. L’operazione è gratuita, ma il canone mensile che la coppia è costretta a sottoscrivere si rivelerà invasivo, costoso e totalizzante. È una satira feroce contro la logica degli abbonamenti perpetui e l'illusione della gratuità. Un futuro opprimente, plausibile, angosciante nella sua verità.
"Bête Noire" è più leggero nel tono, ma non meno inquietante. Protagonista è una ricercatrice alimentare che lavora per un'azienda dolciaria e che si ritrova faccia a faccia con una sua ex compagna del liceo, appassionata di tecnologia, vittima di bullismo e oggi esperta di informatica quantistica. Ne nasce un thriller psicologico fatto di vendetta e manipolazione della memoria. È forse l’episodio più "fantascientifico" della stagione e anche uno dei più sorprendenti.
Con "Hotel Reverie", il tono cambia ancora. Una giovane attrice accetta di prendere parte a un remake immersivo di un film romantico anni ’40. La sua coscienza viene trasferita in una simulazione dove interagisce con repliche digitali dei personaggi dell'originale. Episodio elegante, malinconico, ma, a mio avviso, il meno incisivo.
"Plaything" è una piccola perla per gli appassionati di videogiochi. Peter Capaldi interpreta un critico videoludico che riceve una copia di Thronglets, un gioco simulativo con creature digitali in grado di evolversi e comunicare, in pratica un Tamagotchi portato all’estremo. Tra nostalgia anni ’90, acidi lisergici e riflessioni sull’intelligenza artificiale, l’episodio gioca (letteralmente) con l’etica del gioco e la responsabilità del giocatore.
"Eulogy" è l’episodio più emozionante. Paul Giamatti è Philip, un uomo sollecitato da una compagnia tech a contribuire a un memoriale digitale della sua ex compagna. Attraverso una tecnologia capace di rielaborare il lutto con un'intelligenza artificiale empatica, Philip affronta i suoi ricordi e scopre segreti nascosti. È un racconto struggente, dove la tecnologia non è più un mostro da temere, ma uno strumento per capire, per perdonare, per chiudere i conti con il passato.
Chiude la stagione "USS Callister: Into Infinity", primo vero sequel della serie, che riprende i personaggi dell’episodio cult della quarta stagione. L’equipaggio della USS Callister è ora un gruppo di pirati spaziali in fuga, in un universo virtuale che mescola avventura e satira sociale. È l’episodio più spettacolare, anche se meno profondo.
Non c’è più l’effetto sorpresa dei primi anni, ma Black Mirror dimostra di avere ancora molto da dire. Il ritorno all’origine, alla tecnologia come specchio oscuro dell’umanità, è evidente. Ci sono scelte discutibili, certo, e non tutti gli episodi sono allo stesso livello, ma il salto di qualità rispetto alla sesta stagione è notevole.
La serie torna a inquietare, ma con una malinconia nuova, fatta di silenzi, crepe e ferite emotive. Non è solo il futuro a spaventarci, ma le emozioni che abbiamo perso per strada. È meno futuristica, più umana. E proprio in questa fragilità ritrovata — penso a episodi come Eulogy — Black Mirror riscopre la sua anima.

Il colore venuto dallo spazio
di Richard Stanley
Recentemente mi è capitato di leggere una lista degli horror preferiti da Trent Reznor – la mente dietro i Nine Inch Nails – e tra i titoli spiccava Il colore venuto dallo spazio. Strano a dirsi, ma era uno dei pochi della lista che non avevo ancora visto. Incuriosito, me lo sono subito recuperato.
Il film è diretto da Richard Stanley, nome che forse ai più suonerà vago, ma che nei primi anni novanta ha firmato due chicche di fantascienza a basso budget considerate dei cult dagli amanti del genere: Hardware, un cyberpunk post-apocalittico alquanto sperimentale, e Demoniaca, un road movie horror ambientato in Sudafrica. Dopo un lungo esilio dai set (complice il disastro produttivo de L'isola del dottor Moreau), Stanley torna dietro la macchina da presa nel 2019 adattando per il cinema l’omonimo racconto di H.P. Lovecraft, uno dei più evocativi e indecifrabili della sua intera produzione.
Nathan Gardner (Nicolas Cage) si è trasferito con la famiglia nella campagna del New England per iniziare una nuova vita, lontano dal caos urbano. La loro tranquillità viene però spezzata dall’impatto di un misterioso meteorite nel terreno vicino casa. Da quel momento, le piante assumono colori innaturali, gli animali mutano e le persone iniziano a comportarsi in modo sempre più strano. Una forza aliena, imperscrutabile e invisibile, sembra insinuarsi lentamente nella materia stessa delle cose. Un colore che non dovrebbe esistere sta trasformando la realtà.
Trasporre Lovecraft al cinema è da sempre un’impresa disperata. Il suo orrore è cosmico, sfuggente, basato sull’indecifrabile. Eppure, Il colore venuto dallo spazio riesce – pur con qualche inciampo – a catturare un senso di smarrimento e contaminazione che su schermo funziona sorprendentemente bene. Stanley imbastisce un’ambientazione familiare in una casa isolata nel bosco, dove tutto viene lentamente corrotto da un elemento che non si riesce a nominare, né a comprendere. La scelta di usare un’esplosione cromatica digitale per rappresentare l’entità aliena è audace e forse non sempre elegante, ma rende bene l’idea di una presenza che non appartiene al nostro spettro percettivo.
Nicolas Cage, va detto, non è mai stato tra i miei attori preferiti. Qui però trova terreno fertile per la sua ormai tipica recitazione sopra le righe, che si sposa bene con l’andamento delirante della storia. La sua discesa nella follia – tra urla, occhi spiritati e crisi isteriche – diventa paradossalmente uno degli elementi più coerenti del film.
Non credo di essere il solo ad aver trovato un forte parallelismo con Annihilation di Alex Garland. Anche lì c’è una forza aliena che altera la genetica, lo spazio e la percezione, trasformando il paesaggio in qualcosa di bellissimo e mostruoso. Ma dove Garland resta più cerebrale, Stanley affonda nel viscerale, prendendo una deriva body horror, soprattutto nella seconda parte, parecchio più esplicita e delirante.
Ci sono momenti in cui il film sembra perdersi nel proprio trip psichedelico, e non tutto funziona (sia nella trama che negli effetti speciali, un po’ grezzi), ma la sensazione di spaesamento, l’atmosfera di minaccia invisibile e quel finale opprimente e straniante – che ritrae la lenta dissoluzione dei protagonisti – lo rendono, alla fine, abbastanza convincente.
Non un film perfetto, nulla di memorabile, ma rimane una delle trasposizioni lovecraftiane più interessanti.
Film
Scissione (stagione 2)
Dan Erickson, Ben Stiller
La prima stagione di Scissione (Severance in originale) è stata un colpo di fulmine. Geniale, alienante, costruita con un'intelligenza visiva e narrativa che non vedevo da anni. Erano dai tempi di Dark che una serie televisiva non mi catturava in questo modo. Per chi ancora non la conoscesse, siamo nel territorio del thriller psicologico con toni da fantascienza distopica avvolto in un'atmosfera surreale e inquietante. Un viaggio allucinato tra i corridoi bianchi e soffocanti di un ufficio di una multinazionale, dove la realtà si sdoppia e l'identità si sgretola.
Creata da Dan Erickson e prodotta da Ben Stiller (che dirige anche alcuni episodi), la serie si svolge negli uffici della misteriosa Lumon Industries, un'azienda biotech gestita dalla famiglia Eagan – legata a una sorta di ideologia pseudo-religiosa basata sugli insegnamenti di Kier Eagan, il suo fondatore – la quale ha sviluppato un congegno che permette, tramite intervento neurologico, di dividere la coscienza dei dipendenti in due esistenze separate: una dedicata esclusivamente al lavoro (innie) e l’altra alla vita privata (outie). Quando si è in ufficio, non si ricorda nulla del mondo esterno, quando si esce dall'uffico, il lavoro scompare dalla memoria. Nel corso della prima stagione, abbiamo visto i dipendenti del Macrodata Refinement, le versioni innie di Mark (Adam Scott), Helly (Britt Lower), Irving (John Turturro) e Dylan (Zach Cherry), mettere in discussione il capo del dipartimento Harmony Cobe (Patricia Arquette) e il loro supervisore Milchick (Seth Milchick) iniziando a indagare sulla natura del loro lavoro e sul passato della Lumon. Nel finale, gli innies riescono temporaneamente a "risvegliarsi" nel mondo esterno, scoprendo che Helly è la figlia di Jame Eagan (Michael Siberry) CEO della Lumon, mentre Mark realizza che sua moglie, Gemma (Dichen Lachman), che credeva morta, è ancora viva… e lavora per la Lumon. Peccato che, prima di poter fare qualcosa, il sistema venga resettato.
La seconda stagione - che arriva a tre anni dalla prima a causa dello sciopero di Hollywood nel 2023 - si apre con l'interno di Mark che torna a lavorare per la Lumon dopo quello che è stata chiamata la "Rivolta di Macrodata". Sono trascorsi cinque mesi e ora il suo supervisore è Huang, una bambina che si è sottoposta alla scissione, mentre Milchick è il capo del dipartimento dopo l'allontanamento di Cobel dalla Lumon Industries. Inizialemente Mark trova nuovi colleghi, ma dopo aver manifestato il desiderio di licenziarsi, il giorno dopo ritrova Helly, Irving e Dylan come se nulla fosse cambiato. A loro confessa di aver scoperto che sua moglie è viva, probabilmente prigioniera alla Lumon, e sente il dovere di salvarla. Helly, senza rivelare la sua vera identità, decide di aiutarlo. Solo che Mark, ormai, si è innamorato di lei e non prova più nulla per la moglie del suo esterno.
Questo in sintesi l'incipit della seconda stagione di Scissione. Raccontare cosa avviene nei successivi episodi (in tutto sono dieci), oltre a essere complicato, avrebbe poco senso. Posso solo dire che la serie non perde il suo fascino surreale, contorto e alienante, con quelle scenografie minimal e asettiche che ormai sono il marchio di fabbrica di Scissione. Tra gli episodi che mi hanno più coinvolto, il quarto (La valle del dolore), ambientato nella foresta, il settimo (Il Bardo Chikhai), quello incentrato su Gemma, che contiene una delle sequenze più suggestive, rivelatrici e inquietanti della stagione, e ovviamente il finale (Cold Harbor), che apre nuovi scenari per la terza stagione.
Il fascino di questa serie è il modo in cui gioca sull’identità. Gli innie, pur costretti a un’esistenza frammentata, sembrano più umani dei loro outie. Helly, ad esempio, o persino Dylan, che la stessa moglie preferisce rispetto alla sua versione esterna. Resta ancora il mistero sul vero scopo della Lumon: la scissione serve solo a dividere vita privata e lavoro, o è un modo per cancellare la sofferenza e le emozioni che ci rendono umani? Il fermo immagine dell'ultimo episodio della stagione sembra suggerire che, nonostante tutto, l’amore riesca a trascendere la scissione.
Apple TV+ ha rinnovato ufficialmente Scissione per una terza stagione che speriamo, questa volta, non tardi troppo ad arrivare.
Serie TV
Mickey 17
di Bong Joon-ho
Soltamente prima di andare al cinema evito di leggere recensioni e discussioni sul film che sto per andare a vedere. A volte però i social te le sparano addosso a tradimento. Così, mentre cercavo di tenermi fuori dal turbine di opinioni su Mickey 17, già sapevo che il film aveva diviso gli spettatori tra chi lo ha esaltato e chi lo ha trovato una mezza delusione.
Dopo il successo mondiale di Parasite, Bong Joon-ho torna a Hollywood, e con un budget bello gonfio e un cast di prima categoria, porta sullo schermo Mickey 17, adattamento del romanzo Mickey7 di Edward Ashton. Un film di fantascienza travestito da blockbuster d’autore, che gioca con commedia, ironia e satira sociale per raccontare – tra cloni, colonizzatori spaziali e lavoratori sacrificabili – un’umanità sempre più rassegnata a farsi trascinare verso il baratro da chi detiene il potere.
Siamo nel 2054 e la Terra è ormai un relitto alla deriva. Mickey Barnes (Robert Pattinson), indebitato fino al collo con uno strozzino dal gusto discutibile per le motoseghe, decide di fuggire e imbarcarsi su una spedizione coloniale verso Niflheim, un pianeta gelido e ostile. Per ottenere il biglietto d’imbarco firma un contratto senza badare troppo alle clausole, accettando di diventare un Sacrificabile, un lavoratore usa e getta, spedito a morire in missioni suicide o usato come cavia per esperimenti, per poi essere "ristampato" grazie a una tecnologia che genera un suo clone con ricordi e personalità quasi intatti.
Mickey muore. Poi muore di nuovo. E ancora. Fino alla sua diciassettesima versione. Ma a un certo punto qualcosa va storto. Durante una missione in cui viene mandato in avanscoperta per catturare uno degli striscianti, le creature indigene del pianeta, sopravvive, ma viene dato per morto. Quando riesce a tornare alla base, scopre che nel frattempo è già stato "sostituito" da un altro suo clone, Mickey 18, trovandolo ben sistemato nella sua camera a fare amicizia con Nasha (Naomi Ackie), la sua compagna, l’unica che lo abbia mai trattato da essere umano. Ma questo non è l'unco problema. Più copie dello stesso individuo, i multipli, non sono tollerati e il governatore della spedizione Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), che insieme alla moglie Ylfa (Toni Collette), ha già abbastanza grane tra alieni ostili e coloni irrequieti, decide di eliminare tutti i Mickey.
Bong Joon-ho si diverte, come sempre, a mescolare i generi. Commedia grottesca, dramma esistenziale e satira feroce si intrecciano in una narrazione che, almeno nella prima parte, funziona alla grande. Il regista tratteggia un mondo in cui il capitalismo ha ridotto la vita umana a una risorsa sacrificabile, un ingranaggio da sostituire senza troppi scrupoli, e dove colonialismo e sfruttamento vengono spacciati per progresso e necessità di sopravvivenza. Il film scorre con un ritmo brillante, alternando momenti surreali ed esilaranti che ricordano la distopia grottesca di Terry Gilliam.
Robert Pattinson, ormai lontano anni luce dai tempi di Twilight, regala un'interpretazione sfaccettata. Il suo Mickey 17, remissivo e rassegnato, è nettamente distinto dal più inquieto e ribelle Mickey 18, grazie a un lavoro sottile su postura, espressioni e tono di voce. Accanto a lui, Mark Ruffalo si diverte nei panni di un governatore che sembra un incrocio tra Elon Musk e Donald Trump, mentre Toni Collette, manipolatrice e ossessionata dalle salse, completa il quadro con un personaggio tanto grottesco quanto inquietante.
Se l’inizio promette riflessioni su bioetica, identità e il valore stesso della vita, nella seconda parte il film si fa più prevedibile, lasciando più spazio all’azione e a una messa in scena da blockbuster. L’elemento satirico si fa meno incisivo e la trama segue binari più convenzionali, finendo per somigliare più a una parodia di Starship Troopers e Atto di Forza, con una spettacolarità che, alla lunga, si fa un po più ripetitiva.
Mickey 17 è un film ambizioso, con spunti geniali e momenti di autentico cinema, ma che alla fine non osa fino in fondo. Rimane il piacere di vedere Bong Joon-ho giocare con i generi, ma resta anche la sensazione che avrebbe potuto spingersi oltre invece di lasciarsi sedurre dalla spettacolarità. Un film interessante, ma non del tutto riuscito.
Film
The Host
di Bong Joon-ho
Noto per il pluripremiato Parasite, Bong Joon-ho è un regista eclettico capace di mescolare i generi e passare con estrema disinvoltura dal thriller noir di Memorie di un assassino alla fantascienza distopica di Snowpiercer. Nel 2006 con The Host Joon-ho ci offre la sua personale rilettura del genere kaiju – i film di mostri giganti alla Godzilla – con una combinazione di commedia grottesca e dramma familiare, mettendo al centro della storia dei protagonisti che sono tutto tranne che eroi perfetti e vincenti.
Tutto inizia in un laboratorio in Corea, dove uno scienziato americano ordina a un assistente coreano di versare nel lavandino litri e litri di formaldeide. Il risultato? Anni dopo, dalle acque del fiume Han emerge una creatura mostruosa che inizia a compiere una strage tra le persone che si trovano sulla riva. Prima di dileguarsi nelle acque del fiume la creatura si porta via alcune persone, tra cui una bambina, Hyun-seo, trascinandole nelle fogne. Mentre il governo isola la zona temendo un'epidemia, il padre della bambina, Gang-du (Song Kang-ho), un fannullone maldestro che gestisce un chiosco sulle rive del fiume, insieme a suo padre e i suoi due fratelli – un laureato depresso e una campionessa di tiro con l'arco priva di autostima – si lanciano tutti insieme in una missione disperata per salvarla. Senza piani, senza risorse, solo con la convinzione che nessuno tranne loro ci proverà.
The Host passa dal dramma alla comicità, dalla tensione horror alla critica sociale, senza mai perdere il ritmo. Oltre alla tematica del virus e della paranoia collettiva, che anticipa in modo inquietante le paure che il mondo avrebbe vissuto anni dopo con la pandemia, il cuore del film è la famiglia protagonista. Sono disorganizzati, litigiosi, spesso ridicoli. Eppure, proprio per questo sono umanissimi. Si muovono in una corsa folle e disperata per salvare una bambina, sapendo che le probabilità di fallire sono altissime, ma non hanno altra scelta. Non sono eroi, ma c'è un affiatamento umano nelle loro azioni che si oppone all'indifferenza delle autorità, pronte a isolare e manipolare la crisi senza ascoltare nessuno.
Dal punto di vista visivo, The Host tiene testa ai blockbuster americani. Il mostro ci viene mostrato fin da subito con una CGI efficace, e le scene d’azione sono spettacolari senza mai risultare gratuite. Gli effetti speciali servono sempre la storia, mai il contrario.
Un monster movie atipico, grottesco, ma incredibilmente emozionante.
Film
Crimes of the Future (1970)
di David Cronenberg
David Cronenberg è uno dei registi che più hanno segnato la mia passione per il cinema. Maestro indiscusso del body horror, ed esploratore instancabile delle mutazioni del corpo, il suo cinema è un virus che ha contaminato l’immaginario collettivo con visioni disturbanti e indelebili.
Nato a Toronto nel 1943, Cronenberg cresce in un ambiente stimolante – il padre era scrittore e giornalista – e si appassiona fin da piccolo alla letteratura, l'arte e la fantascienza. Durante gli anni universitari, scopre il cinema indipendente e inizia a sperimentare, girando i suoi primi cortometraggi a basso budget, Transfer (1966) e From the Drain (1967), dove già emergono i primi germogli del suo universo tematico.
Nel 1969 realizza il suo primo lungometraggio, Stereo, e l'anno successivo gira con un budget inesistente e un piglio sperimentale, Crimes of the Future, un film in cui sono già presenti tutte le ossessioni cronenberghiane come il contagio, la mutazione, la sessualità, e la tecnologia. È il manifesto primordiale di una poetica che, film dopo film, diventerà inconfondibile.
Siamo nel 1997. O meglio, in una sua versione distorta e post-apocalittica. La popolazione femminile del pianeta è stata spazzata via da un virus scaturito dall’uso incontrollato di prodotti cosmetici, un’infezione che prende il nome dal suo “creatore involontario”, il dermatologo Antoine Rouge. Nel mezzo di questa catastrofe, il suo ex pupillo, Adrian Tripod (Ronald Mlodzik), si aggira in un mondo senza femmine adulte nel quale i maschi mimano la gravidanza sviluppando nuovi organi che vengono successivamente amputati dai loro corpi.
Vedere Crimes of the Future non è stato facile. E' come sfogliare un quaderno di schizzi di un artista che sta ancora affinando il suo tratto. Cronenberg sperimenta senza filtri, facendo di necessità virtù. Girato quasi interamente all'interno di un edificio brutalista e senza audio in presa diretta – a causa del forte rumore della videocamera – il film è privo di dialoghi e suoni ambientali, con una voce fuori campo aggiunta in post-produzione. La voce di Tripod diventa così un elemento straniante, un diario di viaggio in un mondo malato, interrotto solo da rumori sintetici e disturbanti che sostituiscono una colonna sonora inesistente.
Il visionario futuro distopico raccontato da Cronenberg è reso attraverso simboli e concetti repulsivi come malattia, sessualità deviata, feticismo e pedofilia che, anche se non vengono tradotti in immagini esplicite, non sono meno disturbanti.
Certo, il film è grezzo, a tratti faticoso, con un minimalismo che può risultare respingente. È un'opera che consiglio solo ai cultori del regista canadese. Ma è affascinante proprio perché è Cronenberg allo stato puro, senza compromessi, che anticipa Il demone sotto la pelle e tutto il body horror che verrà. Qui non ci sono ancora le esplosioni di teste di Scanners o la carne che diventa metallo di Videodrome, ma c’è già il seme di tutto.
Se Cronenberg è un virus, Crimes of the Future è il primo contagio.

Companion
di Drew Hancock
Capisco che i distributori cinematografici debbano costruire una campagna marketing efficace per attirare il pubblico a cui può interessare il film, ma ci sono delle pellicole che funzionano meglio senza sapere nulla della storia.
È successo di recente con Abigail, dove trailer e locandina svelavano subito la vera natura della protagonista, e lo stesso accade con Companion, una dark comedy che mescola fantascienza e horror, diretta dall’esordiente Drew Hancock.
Detto questo, dal momento che gli stessi distributori non si sono fatti scrupoli nel rivelare elementi chiave della trama, lo farò anch’io. Se invece non avete ancora visto il trailer e non volete rovinarvi l'effetto sorpresa, vi consiglio di fermarvi qui e di recuperare prima il film.
L'elemento principale di Companion è che la protagonista, la giovane Iris interpretata dalla sensuale e diafana Sophie Thatcher, è in realtà un androide, un robot di compagnia simile in tutto e per tutto ad un essere umano, progettato per essere la compagna perfetta. Josh (Jack Quaid), l'ha acquistata, personalizzata e, soprattutto, hackerata per renderla ancora più controllabile. Iris invece non sa di essere un robot programmato per compiacere il suo "amato", ed è convinta che il loro primo incontro, come nelle migliori commedie romantiche, sia avvenuto al supermercato, tra arance cadute a terra, sguardi complici e ilarità. Quando la coppia arriva in una lussuosa villa sul lago, ospiti del ricco Sergey (Rupert Friend), le vere intenzioni di Josh emergono e il weekend da sogno tra amici si trasforma in un gioco al massacro.
Nonostante l’aspetto patinato da comedy televisiva e qualche forzatura nella sceneggiatura — poco credibile che robot così avanzati possano girare indisturbati tra gli umani, e che i loro proprietari possano modificarne il comportamento, persino quello più pericoloso, tramite una semplice app — Companion si rivela un film interessante perché usa il tema dell’intelligenza artificiale per esplorare le dinamiche di potere nelle relazioni. In un futuro in cui i partner perfetti possono essere acquistati e personalizzati come smartphone di ultima generazione, il film offre una riflessione amara su come molti uomini vedano le donne. Josh è un uomo frustrato, insoddisfatto della propria vita, che non considera la sua compagna un individuo, ma un’estensione dei propri desideri. Vuole un oggetto sessuale che lo adori, che si modelli sui suoi bisogni senza mai contraddirlo, la preferisce meno intelligente per sentirsi superiore. La ignora persino durante il sesso, concentrato unicamente sul proprio piacere. Ma quando Iris inizia a prendere decisioni autonome, il suo mondo crolla. Companion diventa così una feroce satira sul concetto di possesso nelle relazioni, un’analisi spietata della mascolinità tossica travestita da sci-fi.
Un film che ho trovato gradevole, una commedia nera con momenti horror ben piazzati, capace di intrattenere ma anche di far riflettere. Certo, non inventa nulla di particolarmente originale — la ribellione delle macchine contro i loro creatori è un tema ampiamente esplorato nella fantascienza. Tuttavia, pur senza raggiungere le vette di Ex Machina di Garland o di altri classici del genere (siamo più dalle parti di un riuscito episodio di Black Mirror), Companion, con la sua semplicità, una buona regia e un’ironia tagliente, riesce a ritagliarsi una sua identità. Un po’ come Iris, dopotutto.
Film
Fiori per Algernon
Daniel Keyes
Non conoscevo Fiori per Algernon. Eppure è in circolazione da più di mezzo secolo, ha vinto numerosi premi, ispirato adattamenti cinematografici e viene spesso definito un romanzo di fantascienza – anche se trovo questa etichetta riduttiva, quasi fuorviante. Mi è stato regalato e, una volta terminata la lettura, ho sentito il bisogno di ringraziare chi mi ha fatto scoprire questo gioiello.
Il libro è stato scritto da Daniel Keyes, psicologo e docente statunitense impegnato nel sostegno a ragazzi con difficoltà di apprendimento. Pubblicato nel 1966, nato inizialmente come racconto breve, il libro è una sorta di moderno Frankenstein che ti porta a una profonda riflessione e ti lascia addosso una malinconia difficile da scrollarti di dosso.
La storia è quella di Charlie Gordon, un uomo di circa trent'anni con disabilità intellettiva che lavora in una panetteria e sogna di essere "normale". I suoi desideri sono semplici: essere accettato, avere amici, capire il mondo come gli altri. Quando gli viene offerta la possibilità di sottoporsi a un intervento sperimentale che promette di aumentare il suo quoziente intellettivo – un'operazione già testata con successo su Algernon, un topo da laboratorio – Charlie accetta senza esitazione. Dopo l'operazione, le sue capacità mentali crescono rapidamente, trasformandolo in un genio. Tuttavia neanche il nuovo, sempre più elevato quoziente intellettivo aiuta il protagonista ad ottenere l’amicizia che desiderava. Al contrario, la consapevolezza di ciò che è stato non fanno altro che esaperare il suo isolamento, accentuato dal fatto che ora l’uomo capisce e ricorda episodi del passato, prima da lui incompresi.
Il romanzo è narrato attraverso i rapporti di progresso scritti dal protagonista, una sorta di diario che riflette la sua trasformazione. All'inizio i resoconti sono pieni di errori grammaticali e ingenuità, ma dopo l'esperimento la scrittura si fa più precisa, complessa ed emotiva. Charlie non solo comprende il mondo con occhi nuovi, ma lo analizza, lo scompone, lo giudica. Il problema è che la sua intelligenza, che lo porta a superare i suoi stessi creatori, non va di pari passo alla sua emotività. La consapevolezza che le persone che considerava amici ridevano di lui, lo sfruttavano, lo compativano, gli stessi genitori che non l'hanno mai accettato, ora si rivela con una lucidità dolorosa. E, anziché sentirsi più vicino agli altri, Charlie si ritrova più solo che mai.
Quando Algernon inizia a mostrare i primi segni di regressione, Charlie capisce che il suo destino è segnato. La presa di coscienza della propria inevitabile discesa, la consapevolezza che l’intelligenza sta sfumando, fino a regredire ad un livello ancora inferiore rispetto a quello originaria, è il momento più straziante e commovente del romanzo.
Fiori per Algernon è un libro che illumina e ferisce con la stessa intensità. Una storia che lascia il segno e che consiglio vivamente. Peccato per la copertina di questa edizione. Davvero brutta.
Il libro di Keyes ha avuto un adattamento cinematografico intitolato I due mondi di Charlie, film del 1968 diretto da Ralph Nelson.
Libri
Vivarium
di Lorcan Finnegan
Quando ho letto la trama di questo film, mi sono detto ecco un altra storia in cui i protagonisti finiscono in una cittadina, in questo caso un quartiere di periferia, da cui non riescono a uscire perchè ogni strada li riporta al punto di partenza. Da Wayward Pines a From, da Dark City a The Truman Show, il tema della "città-trappola" è stato esplorato numerose volte e in molteplici varianti.
Vivarium, però, non è solo un film di fantascienza claustrofobico, ma una metafora feroce sulla routine, la famiglia e l’incubo del conformismo. Diretto dall’irlandese Lorcan Finnegan, questo thriller esistenziale e surreale prende il concetto della casa perfetta e lo trasforma in un incubo senza uscita. Un'opera che sembra rubata a una puntata de I confini della realtà, – episodio 30 della quinta stagione – ma che scava più a fondo, affontando temi come la disumanizzazione della quotidianità, il peso delle aspettative sociali e la famiglia come trappola evolutiva.
Gemma (Imogen Poots) e Tom (Jesse Eisenberg), una giovane coppia alla ricerca di una casa in cui andare a vivere, si rivolgono a uno strambo e inquietante agente immobiliare (Jonathan Aris) che li conduce nel quartiere residenziale di Yonder, un complesso di recente costruzione, ancora disabitato, composto da una schiera di villette tutte uguali. Il quartiere è avvolto da un silenzio innaturale, il cielo è irreale, e tutto sembra artificioso. Accompagnati dall'agente immobiliare, la coppia entra nella villetta numero nove ma appena visitano il giardino sul retro, l'uomo inspiegabilmente sparisce. I due ragazzi risalgono in macchina per andare via, ma per quanto girino e rigirino, tutte le strade finiscono sempre per ricondurli allo stesso punto, davanti alla villetta numero 9. Trascorrono i giorni e i tentativi disperati di lasciare il posto si trasformano presto in rassegnazione, finché una mattina trovano davanti alla porta una scatola con dentro un neonato e un messaggio che invita i due poveri ragazzi ad accudire il bambino se vogliono riconquistare la libertà.
Vivarium è un film che si presta a una duplice lettura.
Da una parte abbiamo quella prettamente fantascientifica che ci fa intendere [spoiler on] che i due protagonisti siano stati rapiti da una civiltà aliena, o comunque da delle creature parassitarie, che li tengono in un vivarium - termine usato dagli antichi romani per indicare un allevamento - affinchè possano crescere la propria progenie, destinata a rimpiazzare gli esseri umani [spoiler off]. Naturalmente, è solo una mia interpretazione, perché il film non da molte spiegazioni e risposte chiare.
Dall'altra, il film ha un significato allegorico, Il quartiere-labirinto diventa il simbolo della vita moderna, del sogno borghese preconfezionato che si trasforma in una prigione. La coppia di protagonisti è vittima di un sistema che li ha incasellati nel ruolo di genitori senza via di fuga. Il bambino non è solo un figlio indesiderato, ma l’incarnazione della pressione sociale: crescere una creatura che non si comprende, che non restituisce amore, che si nutre della tua energia e che ti scarica, gettandoti in una fossa, quando non sei più necessario.
A livello estetico, il film è un gioiello. Le scenografie riportano ai quadri di Magritte e Hopper, mentre la fotografia dai colori pastello trasforma la perfezione di Yonder in un inferno sterile. Vivarium è un horror esistenziale che parla di routine, di alienazione, dell’orrore della prevedibilità. Ed è proprio questa assenza di una via d’uscita a renderlo così disturbante.
Certo, il film non è perfetto. Nella seconda metà la ripetitività rischia di smorzare l’impatto, e chi cerca una narrazione più dinamica potrebbe trovarlo frustrante. Tuttavia è un film che non si dimentica, che scava dentro di noi, come Tom con la sua buca infinita. E, una volta finito, lascia solo una certezza che non c’è via di fuga dal sistema.
Disturbante, claustrofobico, essenziale. Un Black Mirror ancora più crudele.

Silo (stagione 1-2)
Graham Yost
Fino a qualche tempo fa ero un divoratore di serie TV. Negli ultimi tempi, però, ho iniziato a recuperare i grandi classici del cinema e a riscoprire vecchi capolavori - senza mai trascurare i miei amati horror e i weird movie - diventando molto più selettivo nel dedicare il mio tempo libero alle serie televisive. Spesso le trovo eccessivamente dilatate, mi annoiano, e finisco per abbandonarle dopo poche puntate. Finalmente, dopo diversi mesi, complice la presenza di un ospite in casa (che ha gentilmente insistito), sono riuscito a portare a termine non una, ma ben due stagioni di una serie.
Sto parlando di Silo, la serie sci-fi di Apple TV+ che ha appena chiuso la sua seconda stagione.
Creata da Graham Yost e tratta dai romanzi di Hugh Howey, Silo è ambientata in un futuro distopico, dove da centinaia di anni, una comunità di persone vive in un gigantesco silo sotteraneo, ignorando cosa abbia reso la superficie terrestre tossica e inabitabile. Con i suoi oltre cento piani, il silo è una città verticalmente organizzata, strutturata a livello piramidale e governata da leggi inflessibili che regolano ogni aspetto della vita quotidiana. Il fatto di essere una società fortemente gerarchizzata, con i meccanici che si occupano dei lavori più duri collocati in basso, e quelli del reparto IT, i giudiziari e le diverse autorità che governano il silo, nei piani più alti, porta a inevitabili e periodici conflitti e tensioni. Dopo la morte dello sceriffo - uscito all'esterno convinto che il mondo sia vivibile e che le immagini dei monitor che mostrano una terra desolata siano finte - Juliette Nichols (Rebecca Ferguson), caposquadra del reparto meccanico, viene inspiegabilmente promossa a capo delle forze di sicurezza. Investita di un nuovo potere e decisa a scoprire cosa si nasconde dietro ai segreti, i misteri, e le incongruenze che aleggiano sul silo, Juliette, donna determinata e dalla forte tempra, si scontra con il Sindaco e capo dell'IT Bernard Holland (Tim Robbins), che insieme Robert Sims, il temibile capo dei Giudiziari, sembra coinvolto in un complotto per nascondere la verità.
Silo si rifà alle grandi opere distopiche come 1984, Il mondo nuovo e Fahrenheit 451, usando un futuro inquietante per parlare del presente. La scenografia rétrofuturistica, con il suo fascino claustrofobico, i toni scuri dell’ocra e del marrone e una fotografia cupa, contribuisce a creare un’atmosfera opprimente, ma visivamente affascinante.
Apple TV+ ci ha abituati a produzioni di alta qualità, e Silo non è da meno: una regia solida, un cast eccellente (Rebecca Ferguson e Tim Robbins su tutti), e una scrittura che bilancia bene politica, rivolte sociali e misteri. Tuttavia, il ritmo non è sempre impeccabile. La narrazione si dilunga inutilmente nella parte centrale di entrambe le stagioni, con episodi che aggiungono poco alla storia e rischiano di annoiare. Un peccato, perché il materiale è ricco di spunti interessanti e i personaggi sono ben caratterizzati.
La prima stagione introduce l'ambiente distopico del silo sotterraneo diventando quasi una detective-story, mentre la seconda amplia la visione, presentando nuovi personaggi e svelando una società sempre più complessa. Il finale della seconda stagione non solo lascia molte domande aperte, ma ci porta indietro nel tempo, mostrando un frammento dei giorni pre-apocalittici e suggerendo che nella terza stagione scopriremo cosa ha portato alla distruzione del pianeta e alla creazione dei silos.
Se amate i misteri distopici con una vena politica e una buona dose di tensione, Silo è sicuramente una serie da tenere d’occhio. Non è perfetta, ma è avvincente, ben realizzata e pone le basi per un’esplorazione ancora più profonda nella prossima stagione. La terza (e quarta) sono già state confermate, e non vedo l’ora di scoprire cosa ci riserveranno.
Serie TV
The Animal Kingdom
di Thomas Cailley
The Animal Kingdom è un film francese del 2023 diretto da Thomas Cailley, che mescola elementi di fantascienza, fantasy e dramma esplorando temi legati all'identità e all'accettazione.
La trama si svolge in un futuro prossimo in cui una misteriosa "malattia" trasforma gradualmente gli esseri umani in animali antropomorfi. Il protagonista, François (interpretato da Romain Duris), intraprende un viaggio con il figlio sedicenne Émile (Paul Kircher) per seguire la moglie, anch'essa vittima di questa trasformazione, nel centro specializzato nel sud-ovest della Francia dove verrà ricoverata. Durante il tragitto la donna, in seguito a un incidente stradale, fugge insieme ad altre “creature”, iniziando a vagare nei boschi e a vivere la sua vita animale. François e suo figlio, affiancati da una volitiva poliziotta (Adèle Exarchopoulos) si mettono alla sua ricerca, ma proprio durante le loro esplorazioni Émile inizia a mostrare i primi segni di mutazione.
The Animal Kingdom è un racconto di formazione e trasformazione, ma sopratutto di accettazione. Una favola fantastica che vede protagonisti un padre e un figlio costretti a confrontarsi con la sfida emotiva di adattarsi a un mondo che non solo è intollerante verso ciò che è diverso, ma che fatica ad accettare una realtà in trasformazione. I "mutanti" non sono i supereroi degli X-Men, ma individui che perdono la loro umanità – sia sociale che comportamentale – per abbracciare la natura e i loro istinti animaleschi. La loro trasformazione avviene gradualmente. Spuntano artigli al posto delle unghie, canini al posto dei denti, ali al posto degli arti superiori, e lentamente si perde le abilità umane, come pedalare la bicicletta, scrivere e comunicare verbalmente, fin quando anche il linguaggio scompare venendo sostituito dal verso dell'animale di cui stanno assumendo le fattezze.
Il film beneficia di un'ottima recitazione da parte dei protagonisti, con Duris e Kircher che offrono performance convincenti e ricche di sfumature. Peccato che il personaggio della poliziotta, che inizialmente sembrava poter avere un ruolo più centrale, venga poi lasciato in secondo piano, con il suo sviluppo che sfuma senza un vero senso. La tensione narrativa è ben dosata, senza il ritmo frenetico che spesso caratterizza il cinema americano, e gli effetti speciali, che combinano il trucco prostetico con la CGI, sono gestiti con eleganza e discrezione.
Seppur non apportando nulla di particolarmente innovativo a livello di trama e contenuti, The Animal Kingdom si rivela un buon film, distinguendosi per la sua abilità nel combinare l'intimità di un rapporto generazionale con una profonda riflessione sulle dinamiche di adattamento in un mondo in continua evoluzione.
Film
Coherence
di James Ward Byrkit
Di recente mi è capitato di vedere un video che elencava i 75 migliori film di fantascienza. Più che la classifica in sé, ciò che davvero mi interessava era scoprire titoli sconosciuti. Tra questi, mi sono imbattuto in Coherence, un film del 2013 diretto da James Ward Byrkit.
Girato con un budget ridottissimo – letteralmente nella casa del regista, al suo esordio dietro la macchina da presa – Coherence è arrivato in Italia direttamente sul mercato home video, accompagnato dal sottotitolo Oltre lo spazio tempo. Nonostante i mezzi limitati, il film riesce a creare un’atmosfera e una tensione intrigante, dimostrando come l'ingegno possa supplire alla mancanza di risorse.
La trama si sviluppa quasi interamente all’interno di una casa, dove otto amici si riuniscono per una cena proprio la sera in cui una cometa transita pericolosamente vicino alla Terra. Quella che inizia come una normale serata tra brindisi e conversazioni, prende presto una piega inquietante: i cellulari si rompono senza motivo, internet e le linee telefoniche cessano di funzionare, e un blackout avvolge l’intero quartiere. In cerca di aiuto i protagonisti si avventurano verso l’unica casa con la luce rimasta accesa ma quando sbirciano dalle finestre trovano al suo interno loro stessi.
Coherence attinge a piene mani dalle teorie del multiverso e della meccanica quantistica, tirando inevitabilmente in ballo il gatto di Schrödinger – quello che, poveretto, non si sa mai se è vivo o morto. Il film si sviluppa come un puzzle mentale denso e volutamente caotico, dove i personaggi si perdono nelle loro stesse versioni alternative, trascinati in un vortice di paranoia e confusione crescente. L’idea di base è senza dubbio affascinante, e l’intreccio narrativo stimola la riflessione sulle infinite possibilità offerte da un universo frammentato in realtà parallele.
Eppure, qualche nodo non torna del tutto. La scelta di utilizzare la camera a mano – un po’ alla Lars von Trier dei tempi Dogma – si rivela più fastidiosa che immersiva, mentre la recitazione improvvisata tende spesso a scivolare nel caos, con toni urlati che non aiutano a mantenere il filo (e il doppiaggio italiano non aiuta di certo). Inoltre, il legame tra il passaggio della cometa e gli eventi straordinari che ne scaturiscono appare un po' forzato, riuscendo a essere poco credibile.
Detto questo, Coherence resta un film che merita una visione, se non altro per l’audacia dell’idea e il coraggio di sperimentare con risorse minime. Scherzando, potremmo definirlo una versione sci-fi di Perfetti Sconosciuti che si è persa in un episodio surreale di Ai confini della realtà. Un’esperienza intrigante, imperfetta, ma assolutamente da provare.
Film
2001: Odissea nello spazio
di Stanley Kubrick
Breve premessa. Parlare di 2001: Odissea nello spazio è un po’ come recensire la Bibbia, la Cappella Sistina o la Divina Commedia. Tutto è stato già detto, analizzato, scomposto e ricomposto in ogni dettaglio possibile. Critici, studiosi e appassionati hanno passato oltre mezzo secolo a scrivere libri, articoli e trattati su questo film, trasformandolo in un’opera di culto dal fascino quasi mistico. Quindi, perchè in maniera vagamente masochista mi preparo ad aggiungere un granello di sabbia a questa montagna di critica cinematografica? Beh, recentemente l'ho rivisto, e da un po' di tempo ho preso l’abitudine di riversare su queste pagine le mie impressioni sui film (e non solo) che vedo.
2001: Odissea nello spazio è considerato uno dei più grandi capolavori della storia del cinema. Un'opera complessa e affascinante che ha rivoluzionato il linguaggio cinematografico, ridefinendo il concetto di fantascienza sul grande schermo.
Diretto da Stanley Kubrick, regista al tempo già acclamato per "Lolita e "Il dottor Stranamore", il film non è solo un racconto visivo straordinario, ma anche una profonda riflessione filosofica sull'evoluzione umana, l'intelligenza artificiale e il nostro posto nell'universo. La sua portata epica, gli effetti speciali innovativi e l'iconica colonna sonora lo hanno reso un punto di riferimento, influenzando generazioni di registi e spettatori.
Realizzato in collaborazione con lo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke – autore del romanzo omonimo sviluppato parallelamente alla sceneggiatura – 2001: Odissea nello spazio esce nelle sale cinematografiche nel 1968, poco più di un anno prima dello storico allunaggio dell’Apollo 11, anticipando visioni del futuro che avrebbero influenzato profondamente l’immaginario collettivo.
Diviso in quattro atti, in un arco temporale che si estende dall’alba dell’umanità al futuro, il film si apre nella preistoria, dove un misterioso monolite nero appare tra un gruppo di ominidi, innescando un salto evolutivo che li porterà a utilizzare delle ossa umane come strumenti. Millenni dopo, nel 2001, un monolite simile viene trovato sepolto sulla Luna, trasmettendo un segnale verso Giove. Per indagare il mistero, viene lanciata la missione spaziale Discovery One, con a bordo due astronauti, David Bowman e Frank Poole, supportati da HAL 9000, un’intelligenza artificiale avanzata. Tuttavia, HAL inizia a manifestare comportamenti anomali, mettendo in pericolo la missione e l'equipaggio e costringendo Bowman a confrontarsi con l'intelligenza artificiale ribelle.
La storia culmina in un viaggio psichedelico verso l'ignoto, dove Bowman attraversa lo spazio e il tempo per approdare a una misteriosa trasformazione, suggerendo un nuovo stadio dell’evoluzione umana.
A fronte di un budget considerevole per l'epoca, il film venne inizialmente accolto negativamente dalla critica che lo definì ipnotico ma immensamente noioso. Il pubblico invece si divise, tra gli adulti che non riuscirono a comprenderlo e il pubblico più giovane impressionato dalla sua potenza visiva. Ancora oggi 2001: Odissea nello spazio continua a stupire e a lasciare interdetti per la sua complessità e unicità.
Il film di Stanley Kubrick è un'esperienza che affronta temi universali e ci guida in una riflessione sull’evoluzione umana, il progresso tecnologico e il mistero dell’esistenza, ponendo domande che si perdono nell'infinito dell'universo. Realizzato come se fosse un documentario, privo di azione e povero di dialoghi, il film è un viaggio sensoriale che ha nell'aspetto visivo, e nell'uso rivoluzionario della musica classica come colonna sonora, il suo punto di forza assoluto.
Nel realizzare gli effetti speciali, Kubrick e il supervisore Douglas Trumbull hanno sviluppato tecniche pionieristiche, collaborando con esperti scientifici per garantire il massimo realismo. Ogni dettaglio fu studiato con una cura maniacale, dalla totale assenza di suoni nello spazio alle leggi della fisica rigorosamente rispettate nel movimento delle astronavi e delle stazioni spaziali, realizzate e ispirate a prototipi della NASA, con un'attenzione alla progettazione che rispecchiava le possibili evoluzioni future della tecnologia spaziale (visto gli effetti speciali così straordinari per l'epoca in rete gira la bislacca storia che l'allunaggio del 1969 sia in realtà una messa in scena realizzato dallo stesso Kubrik).
Per comprendere appieno il realismo e l'accuratezza tecnica di Kubrick, basta mettere a confronto le cabine utilizzate per l'ibernazione degli astronauti in 2001: Odissea nello spazio con quelle utilizzate ne "Il pianeta delle scimmie", film uscito nello stesso anno. Nel film di Kubrick le strutture e le tecnologie sembrano verosimili, scientificamente plausibili, quelle utilizzate da Schaffner appaiono invece datate e improbabili. La differenza sta nell'approccio alla scienza e nella cura nei dettagli: Kubrick voleva che il suo film non solo fosse visivamente affascinante, ma anche scientificamente coerente, spingendo il confine della tecnologia cinematografica e creando un'esperienza che sembrava guardare veramente al futuro.
2001: Odissea nello spazio non è solo un capolavoro cinematografico, ma anche un’opera visionaria che ha saputo anticipare alcune delle tecnologie che oggi fanno parte della nostra quotidianità. Pensiamo solo ad HAL 9000, l’intelligenza artificiale che gestisce ogni aspetto della missione spaziale. Con la sua voce calma e rassicurante, HAL è un assistente apparentemente perfetto, ma la sua ribellione al controllo umano solleva interrogativi profondi sul rapporto tra uomo e macchina. Interrogativi più che mai attuali in un’epoca in cui l'intelligenza artificiale è sempre più presenta nella nostra vita.
2001: Odissea nello spazio è un'opera complessa e affascinante, un film incredibilmente lento e dilatato, capace di spiazzare anche lo spettatore di oggi, ormai viziato da ritmi narrativi rapidi e lineari. Più che un film, è un'esperienza sensoriale e contemplativa che richiede una totale immersione – quasi una sospensione del tempo – per essere apprezzata a fondo. Se oggi questa natura meditativa può sembrare ostica, figuriamoci cosa poteva pensare il pubblico del 1968, abituato a un cinema decisamente più convenzionale. Kubrick, invece di darci facili risposte o spiegazioni, ci lascia soli di fronte a immagini maestose e simboli enigmatici, invitandoci a riflettere su domande che non hanno risposta.
Questo approccio, decisamente fuori dal comune e distante dalle aspettative dell'epoca, ha reso il film un'esperienza decisamente divisiva: per alcuni incomprensibile e noioso, per altri una vera e propria rivelazione. Ma è proprio in questa ambivalenza che si nasconde la sua grandezza. 2001: Odissea nello spazio non è un film che punta a piacere a tutti, né ha l'intenzione di farlo. È un'opera che sfida, interroga e lascia un segno profondo, spingendoci a guardare con occhi nuovi il mistero dell'universo e dell'esistenza. E se alla fine non avremo tutte le risposte, pazienza: forse è proprio questo il suo segreto.

Il pianeta delle scimmie (1968)
di Franklin J. Schaffner
Ricordo ancora nitidamente la prima volta che vidi Il pianeta delle scimmie da bambino, in una calda estate in cui mia madre aveva avuto la brillante idea di portare la televisione fuori sul balcone. L'aria era ferma, afosa, ma io ero ipnotizzato dallo schermo. Quando arrivò la scena finale, rimasi talmente colpito, che quell'immagine - quei pochi secondi - mi si stamparono nella mente per sempre.
Il pianeta delle scimmie è un film del 1968 diretto da Franklin J. Schaffner e liberamente ispirato al romanzo di Pierre Boulle. Considerato uno dei capisaldi della fantascienza, il film ottenne un enorme successo di pubblico, vincendo un Oscar speciale per il trucco e gli effetti speciali e generando nel corso degli anni un ampio universo espanso di sequel, serie TV, cartoni animati, fumetti e videogiochi. Nel 2001, Tim Burton ne realizzò un remake che inaugurò una nuova serie di reboot, mantenendo vivo l'interesse per questo classico intramontabile.
La trama è nota. Un gruppo di astronauti americani atterra su un pianeta sconosciuto dopo un viaggio nello spazio durato diciotto mesi. Viaggiando a una velocità prossima a quella della luce sulla Terra sono trascorsi millenni. Il comandante Taylor (Charlton Heston) e i suoi compagni si trovano in un mondo dominato da scimmie evolute e intelligenti, che hanno costruito una civiltà complessa e vedono gli umani come esseri primitivi e inferiori. Catturato e trattato come una cavia, Taylor riesce a dimostrare la sua intelligenza a due scimpanzé scienziati, Cornelius e Zira, che lo aiutano a fuggire. Durante la fuga, Taylor scopre che quel pianeta non è altro che la Terra stessa, devastata da un'antica guerra nucleare e ridotta a un mondo preistorico.
Realizzato nel pieno della Guerra Fredda, il film è una denuncia contro le possibili conseguenze di un terzo conflitto mondiale, immaginando un futuro distopico in cui le scimmie hanno sostituito gli uomini come specie dominante. Certo, rivedendolo oggi, qualche dettaglio sembra un po' datato. La recitazione, per esempio, risulta un tantino pomposa e il fatto che nel 3978 le scimmie parlino un perfetto inglese del ventesimo secolo, appare davvero inverosimile. Ma al netto di queste ingenuità tipiche dell'epoca, il make-up delle scimmie è ancora sorprendente e la regia offre momenti dinamici, specie nell'atterraggio dell'astronave e nella fuga di Taylor inseguito dalle scimmie. Tra le scene migliori, l'inizio con gli astronauti che si aggirano in un deserto desolato, e la parte finale in cui Taylor e Nova (Linda Harrison) si allontanano a cavallo verso un futuro ignoto. Ma è il colpo di scena finale a rendere questo film memorabile: la Statua della Libertà semisepolta nella sabbia è un'immagine potente e indimenticabile, che chiude il film con una riflessione cupa e amarissima sul destino dell'umanità in uno dei più iconici epiloghi di sempre.
Film
La macchina del tempo
H.G. Wells
Affascinato dalle copertine di Antonello Silverini realizzate per la collana Piccola biblioteca del fantastico edita da Fanucci, ho acquistato quattro romanzi di H.G. Wells, uno dei più importanti scrittori di fantascienza, che ha ispirato generazioni di autori e registi.
Ho iniziato con La macchina del tempo, il primo romanzo di Wells, pubblicato nel 1895.
In un’epoca in cui il progresso tecnologico avanzava rapidamente e la società iniziava a interrogarsi sulle infinite possibilità aperte dalle nuove scoperte, Wells immagina uno scienziato, il cui nome rimane anonimo, che costruisce una macchina capace di viaggiare nel tempo. La sua prima avventura lo porta oltre l’anno 800.000, dove, invece di trovare una società avanzata, scopre un mondo abitato da due razze umane: gli Eloi, esseri fragili e delicati che vivono in superficie, immersi in una vita apparentemente idilliaca ma priva di significato, e i Morlock, creature inquietanti e primitive che abitano nel sottosuolo, brutali ma dotati di una forza che manca agli Eloi. Questa divisione tra Eloi e Morlock non è casuale: Wells la utilizza per costruire una critica arguta alla società del suo tempo. Gli Eloi rappresentano la classe nobiliare decadente, mentre i Morlock incarnano la classe operaia, sfruttata al punto da essere diventata mostruosa e vendicativa verso i suoi antichi padroni.
Questo scenario distopico suggerisce una visione di involuzione dell’umanità piuttosto che di progresso, e la narrazione si fa ancora più inquietante quando il Viaggiatore si spinge ancora più avanti, verso un futuro in cui la vita sulla Terra è praticamente estinta e il pianeta è ridotto a un paesaggio desolato e ostile. Questa visione cupa del futuro estremo chiude perfettamente il messaggio di Wells, che invita i lettori a riflettere sui rischi del progresso incontrollato, sulle implicazioni etiche delle scelte umane e sul destino dell’umanità stessa. La macchina del tempo, da semplice invenzione scientifica, si trasforma in uno strumento per esplorare paure e inquietudini, incubi e dilemmi eterni dell’essere umano.
Nonostante sia stato scritto più di un secolo fa, La macchina del tempo non solo introduce il concetto di viaggio temporale, ispirando opere di letteratura e cinema, ma si rivela ancora attualissimo, un’opera fondamentale per chiunque ami la fantascienza.
Libri
Metropolis
di Fritz Lang
Capolavoro del cinema muto e primo film di fantascienza della storia del cinema (se non vogliamo contare Il viaggio nella luna di Méliès), Metropolis di Fritz Lang è un opera che a distanza di quasi un secolo mantiene intatta la sua potenza visiva e concettuale.
Uscito nel 1927, questo monumentale film di Fritz Lang, regista e sceneggiatore austriaco legato al cinema espressionista tedesco, rappresenta una delle ultime grandi opere del cinema muto. La sceneggiatura di Metropolis è stata scritta dallo stesso Fritz Lang insieme alla sua allora moglie, Thea von Harbou, basandosi su un romanzo che lei stessa ha pubblicato nel 1925. Una delle pellicole più costose mai prodotte fino a quel momento, il film ha richiesto una grande quantità di risorse economiche per realizzare gli innovati effetti speciali e costruire la città furistica in miniatura.
Le riprese di Metropolis durarono ben 17 mesi, dal 1925 al 1926, una durata eccezionale per l'epoca, e coinvolsero migliaia di comparse. Proiettato per la prima volta a Berlino nel gennaio del 1927, il film, dopo la sua anteprima, subì numerosi tagli.
Originariamente lungo più di due ore e mezza, Metropolis fu ridotto a circa 90 minuti per essere più commercialmente accettabile, con intere sottotrame e personaggi eliminati. Solo negli anni 2000, dopo la scoperta di una copia quasi completa del film in Argentina, si è riusciti a restaurare gran parte del materiale originale.
In un futuro distopico, Metropolis è una città grandiosa e stratificata, divisa tra la lussuosa superficie, dove vivono i ricchi dirigenti, e le profondità sotterranee, dove gli operai lavorano incessantemente per mantenere la città in funzione. Joh Fredersen (Alfred Abel), il padrone di Metropolis, governa con pugno di ferro, ignorando il malessere dei lavoratori. Suo figlio, Freder (Gustav Frohlich), vive una vita privilegiata fino a quando non scopre le disumane condizioni degli operai e si innamora di Maria (Brigitte Helm), una giovane donna che predica la pace e la speranza per una società più equa. Nel tentativo di soffocare qualsiasi ribellione, Fredersen si allea con lo scienziato Rotwang (Rudolf Klein-Rogge), che crea un robot capace di assumere le sembianze di Maria. Il robot viene usato per istigare il caos e distruggere i sogni di pace e armonia. Mentre la città si avvicina al collasso, Freder cerca disperatamente di fermare la rivolta e salvare sia Maria che Metropolis, riconoscendo infine che la pace può essere raggiunta solo con una riconciliazione tra il "cervello" (i dirigenti) e le "mani" (gli operai), attraverso il "cuore".



Un classico senza tempo che ha definito per sempre il linguaggio della fantascienza cinematografica. Visivamente, Metropolis è una meraviglia. Un film che all'epoca era proprio difficile immaginare. L'architettura futuristica della città, con i suoi grattacieli e il traffico aereo, sono delle vere opere d'arte in movimento. Gli effetti speciali pionieristici, come l'uso dello stop-motion per animare veicoli e aerei, le sovrimpressioni ottenute direttamente in macchina e la tecnica dello Schüfftan per creare scenografie estremamente realistiche (si tratta di proiettare i modellini e i fondali dipinti, tramite un sistema di specchi inclinati a 45 gradi), sono incredibili anche a occhi moderni. Un capolavoro di tecnica cinematografica e immaginazione che ha ispirato innumerevoli opere successive che ne hanno ripreso temi, estetica e visioni distopiche. Pensiamo ad esempio a film come Blade Runner, Brazil, Guerre Stellari e il Quinto Elemento.
Metropolis è un film che esplora una serie di tematiche complesse, che rimangono rilevanti anche oggi. Le sue riflessioni spaziano dalla disuguaglianza sociale al rapporto tra uomo e macchina, passando per simbolismi religiosi e visioni distopiche del futuro. Tematiche sociali che hanno anticipato di decenni quelle descritte nel celebre romanzo 1984 di George Orwell, confermando il valore intramontabile di questa opera.
Se proprio dobbiamo trovargli dei difetti, lasciando da parte la recitazione tipicamente esagerata del cinema muto, a mio avviso il finale eccede in un romanticismo che appare forzato, retorico e quasi didascalico. La risoluzione finale, che predica la riconciliazione tra le classi attraverso il "cuore", sembra semplificare eccessivamente la complessità dei conflitti sociali e delle tensioni che il film stesso aveva magistralmente costruito. Stiamo comunque parlando di un film degli anni venti destinato al grande pubblico, quello che potremmo considerare uno dei primi blockbuster dell'epoca.
Dal 2023, Metropolis è entrato di diritto nel pubblico dominio, il che significa che può essere riprodotto liberamente anche al di fuori delle mura domestiche. Tra le numerose versioni esistenti, vi consiglio di guardare (al seguente link) quella restaurata dalla Fondazione Murnau nel 2010, della durata di 145 minuti, che restituisce gran parte del materiale originario andato perduto dopo l'uscita del film. A mio avviso è questa la versione che merita di essere vista per apprezzare l'opera nella sua completezza e integrità.
Io, come molti della mia generazione, ho scoperto Metropolis grazie alla controversa versione degli anni '80 curata da Giorgio Moroder, quella in cui l'originale colonna sonora orchestrale fu sostituita da brani pop-rock interpretati da Freddie Mercury, Pat Benatar e Bonnie Tyler. Rivedendola oggi, il risultato appare più simile a un videoclip di dubbio gusto che snatura completamente l'atmosfera originale del film. Moroder merita comunque un plauso per aver cercato di rendere il capolavoro di Fritz Lang accessibile a una nuova generazione di spettatori, ma con il senno di poi, avrei trovato più accattivante una colonna sonora realizzata dai Kraftwerk che personalmente apprezzo di più e avrebbe conferito maggiore coerenza e un fascino senza tempo all'intera operazione.
Ovviamente, queste sono solo considerazioni personali legate ai miei gusti musicali.

Alien: Romulus
di Fede Álvarez
Alien: Romulus diretto da Fede Álvarez è il settimo capitolo della lunga saga di Alien iniziata con il primo, straordinario Alien del 1979.
Narrativamente parlando la storia si colloca tra "Alien" e "Aliens - Scontro finale" e vede come protagonista la giovane orfana Rain (Cailee Spaeny) che insieme a Andy (David Jonsson), un androide malfunzionante che considera una sorta di fratello, si trova su un pianeta avvolto da un'oscurità perenne dove si estrae minerali e i lavoratori vengono sfruttati dalla Weyland-Yutani, la compagnia che amministra le colonie umane al di fuori del sistema solare. Stanca di questa vita senza futuro, Rain accetta la proposta del suo ex fidanzato Tyler e insieme alla sorella incinta Kay, il cugino Bjorn e la sua fidanzata Navarro salgono sul relitto di una stazione spaziale entrata in orbita attorno al pianeta per recupare delle capsule di stasi criogeniche che gli consentirebbero di raggiungere il pianetà abitabile più vicino. La stazione spaziale, divisa nei moduli speculari Romulus e Remus, si rivela essere un centro di ricerca sperimentale al cui interno si trovano numerosi facehugger ibernati che, ovviamente, vengono inavvertitamente risvegliati generando gli xenoformi che iniziano a braccare i nostri sprovveduti protagonisti.
Il film parte bene, quanto meno nella prima mezz'ora, ma poi diventa una sorta di remake citazionista dei primi due Alien che sembra essere stato concepito da una parte per soddisfare i fan storici della saga, dall'altra per "acchiappare" un pubblico più giovane, con l'intenzione di rivitalizzare il franchise mantenendo tutti gli elementi che lo hanno reso celebre e così garantire un ricambio generazionale. Tutto avviene come dovrebbe andare in un film di Alien anche a costo di replicare intere sequenze di scene già viste - tanto per farvi un esempio tra mille, l'intimo della Ripley viene sostituito dai piedi nudi della protagonista perchè è così che si deve affrontare l'alieno nella scena finale - perdendo la logica e le motivazioni di una storia priva di credibilità e quindi anche di tensione proprio perchè sappiamo già cosa accadrà nella scena successiva.
E' come andare sul tunnel dell'orrore e rivivere le esperienze del passato che però avendole già vissute non fanno più paura. Un vero peccato, perché dal punto di vista stilistico, il film ha una ottima regia, una buona fotografia, scenografie retrò di grande impatto e un buon uso di effetti speciali tradizionali - animatroni e make-up prostetico al posto della CGI - che evidenzia ancor di più l'occasione sprecata.
Avevo apprezzato la deriva "filosofica" di Prometheus e Covenant che, nonostante non siano riusciti pienamente, stavano tentando di creare qualcosa di nuovo e originale ma capisco che il pubblico preferisca vedere uno slasher movie in cui il mostro insegue carne da macello nei corridoi claustrofobici di una astronave nello spazio riproponendo pedissequamente tutti i momenti cult della saga di Alien.
Film
Operazione diabolica (Seconds)
di John Frankenheimer
"Seconds" è un thriller psicologico del 1966 diretto da John Frankenheimer. Adattamento dell'omonimo romanzo di David Ely pubblicato nel 1963, il film in italiano è conosciuto con l'infelice titolo di "Operazione Diabolica" mentre il libro da cui è tratto è stato pubblicato in Italia con il titolo "Istituto di bella morte". Tra i due titoli non si sa quale sia peggio.
Il film racconta la storia di Arthur Hamilton, un uomo di mezz'età insoddisfatto della sua vita e del suo lavoro, che viene contattato da un misteriosa organizzazione che gli offre la possibilità di una nuova vita sotto falsa identità. Hamilton accetta, passando attraverso una serie di operazioni chirurgiche e trasformazioni che lo rendono fisicamente giovane e diverso. Con il nuovo volto, Arthur assume l’identità di Tony Wilson, pittore di Malibu ritrovandosi a vivere una vita completamente diversa. Tuttavia, la sua nuova vita si rivela ben presto un incubo, portandolo a confrontarsi con le conseguenze delle sue scelte e con la fragilità della propria identità.
"Seconds" è un film poco conosciuto ma particolare che solleva interrogativi sul desiderio di evasione e sull'opportunità di ricominciare una nuova vita. Un fanta thriller che offre una riflessione disturbante sui temi dell'identità e del cambiamento, girato in bianco e nero con uno stile psichedelico e onirico. Il film è caratterizzato da angolazioni bizzarre, scenografie angolari e un uso audace della luce e dell'ombra che, fin dai titoli di testa (realizzati dal grafico Saul Bass), contribuiscono a creare un'atmosfera di disorientamento e inquietudine, riflettendo l'angoscia interiore del protagonista. Tra prospettive impossibili - vedi la scena del presunto stupro - e deformazioni surrealistiche, il film, sopratutto nella prima parte, mi ha ricordato un incubo Lynchano, evocando quella stessa atmosfera disturbante presente nelle sue opere. Peccato che nel mezzo, ovvero nella sequenza della festa pagana hippie o nell'ubriacatura durante il ricevimento nella casa di Malibù, secondo me si esagera nei tempi e nella sostanza diventando tutto troppo eccessivo. Il film si riprende nel finale con un colpo di scena, magari prevedibile, ma ben assestato. Buona la prova dell'attore Rock Hudson, che qui interpreta la nuova identità del protagonista, in un ruolo assai diverso da quello a cui il pubblico era abituato a vederlo, così come quella di John Randolph che interpreta Hamilton prima dell'operazione.
Film
Alien
di Ridley Scott
Ero poco più di un bambino quando mi portarono a vedere Alien al cinema. A metà film, durante l'iconica scena del torace squartato dall'alieno, mi dovettero portare fuori dalla sala terrorizzato e in lacrime. A ripensarci mi pare assurdo che all'epoca un film del genere non sia stato vietato ai minori in Italia.
Alien di Ridley Scott è il film che ha ridefinito i generi della fantascienza e dell'horror, potremmo definirlo il primo fanta-horror moderno, una vera e propria pietra miliare nonché un modello per le produzioni cinematografiche successive.
Partiamo dall'inizio.
La genesi del film risale alla metà degli anni settanta quando lo scrittore Dan O’Bannon, da sempre appassionato di fantascienza e horror, dopo aver lavorato nel film "Dark Star" di John Carpenter venne contattato da Alejandro Jodorowsky per la realizzazione di "Dune". Il progetto fallì miseramente ma da questa esperienza O'Bannon ebbe modo di conoscere numerosi artisti tra cui Moebius, Chris Foss e sopratutto HR Giger e le sue inquietanti opere. Tornato a casa, O'Bannon si rimise al lavoro e, prendendo spunto da racconti di fantascienza e vecchi film degli anni sessanta, insieme all'amico Ronald Shusett scrisse la prima sceneggiatura di Alien. Inizialmente lo script venne rifiutato da tutte le principali case di produzione cinematografiche, ma poi finì nelle mani del regista Walter Hill che, apportando alcune modifiche e aggiungendo il personaggio dell'androide Ash, lo propose ai vertici della 20th Century Fox che era in cerca di una altra storia ambientata nello spazio dopo il successo di "Guerre Stellari". Quelli della Fox avrebbero voluto lo stesso Hill alla regia ma il regista, già impegnato su "I Guerrieri della Notte", preferì dedicarsi solo alla produzione. La regia ricadde sul giovane Ridley Scott, reduce da "I duellanti", il quale abbracciò il progetto con entusiasmo disegnando un dettagliato storyboard che fece lievitare non di poco il budget previsto per il film. H.R Giger venne ingaggiato per le scenografie del film e la realizzazione dello xenomorfo mentre Carlo Rambaldi si occupò degli effetti speciali. Non volendo un cast affermato, dopo una serie di provini, il ruolo di Ripley, ovvero la protagonista, venne affidato a Sigourney Weaver. Le riprese durarono tre mesi e furono tese ed estenuanti. In un set che riproduceva con estremo realismo i claustrofobici corridoi dell'astronave, gli attori vennero sottoposti a una costante pressione per ricreare disagio e tensione. Si narra che nella scena in cui spunta fuori lo xenomorfo gli attori non sapessero bene cosa stava per accadere in modo da rendere più autentico il loro sgomento.
Il film uscì negli Stati Uniti nel maggio del 1979 e a fronte degli 11 milioni spesi ne incassò 185 di milioni nel mondo creando un vero e proprio franchise, fra sequel, prequel e spin-off.
La storia di base è abbastanza semplice e prende spunto da diversi romanzi di fantascienza e film del passato (tra questi il "Mostro dell'astronave" del 1958 ma anche il nostro "Terrore nello spazio" di Mario Bava).
Nel 2122 l'equipaggio di una nave spaziale da trasporto, la Nostromo, viene risvegliato dall'ibernazione durante il viaggio di ritorno verso la terra per indagare riguardo un misterioso messaggio proveniente da un vicino pianeta. Alcuni membri dell'equipaggio scendono sul pianeta scoprendo una enorme astronave aliena abbandonata e all'interno un gran numero di strane uova. Uno dei componenti dell'equipaggio, Kane (interpretato da John Hurt), viene attaccato da una creatura che gli si attacca al suo volto. Rientrati sulla Nostromo, la creatura si stacca da Kane da solo e viene ritrovato privo di vita. Tutto sembra tornato alla normalità quando, durante un pasto, un mostruoso alieno (lo "xenomorfo") fuoriesce violentemente dal torace di Kane, uccidendolo, per poi fuggire via all'interno dell'astronave. La creatura aliena cresce rapidamente, diventando una macchina assassina che caccia l'equipaggio uno a uno. Alla fine sarà la protagonista, Ellen Ripley (Sigourney Weaver), rimasta da sola insieme al gatto Jones, a dover affrontare da sola il mostruoso alieno in un crescendo di tensione e terrore.
Siamo di fronte a uno dei capolavori della fantascienza, un film dotato di una tensione claustrofobica che a distanza di anni non perde il suo impatto viscerale. Alien è uno slasher ambientato in un astronave nello spazio che riprende, non si sa se volutamente oppure in modo inconsapevole, le dinamiche di "Halloween" di John Carpenter uscito un anno prima. La Nostromo è un astronave sporca, buia, a tratti respingente, che anticipa quell'atmosfera cyperpunk degli anni ottanta e che Ridley Scott avrà modo di sviluppare meglio in "Blade Runner", il capolavoro indiscusso della fantascienza.
Un altra pecularietà di "Alien" è quella di presentare un'eroina femminile, sostituendo il tradizionale eroe maschile con una figura forte e indipendente, che sfida e sovverte gli stereotipi di genere del cinema dell'epoca. Questo ribaltameno di ruoli, in cui i personaggi maschili sono messi in una posizione di vulnerabilità mentre la figura della donna, quantomeno della protagonista, emerge come una figura forte e risoluta capace di combattere l'alieno e sopravvivere, appare ancora più evidente nella fatidica scena dello stupro orale di "facehugger" con tanto di inseminazione e gravidanza forzata che da lì a poco porterà al violento parto mortale. La potenza di questa scena non sta tanto nella violenza ma per il fatto che l'alieno utilizza il corpo di un uomo come incubatrice, un processo che è profondamente disturbante e che richiama sia le paure ancestrali della perdita del controllo sul proprio corpo, quanto la paura di perdere quel dominio patriarcale in una società che, da tradizioni cinematografiche, vorrebbe l’eroe maschile avere sempre il comando e il controllo della situazione.
Il film di Ridley Scott è ricco di elementi sessuali che si intrecciano con la sua trama e la sua atmosfera inquietante. Il design dello xenomorfo, creato da H.R. Giger, con la sua testa allungata e la bocca interna che emerge da quella principale, evoca immagini falliche e richiama al contempo la figura di una vagina dentata. Questo simbolismo è ulteriormente amplificato dall'ambientazione: il pianeta e l'astronave, con i loro corridoi sempre più stretti, richiamano un utero opprimente e soffocante, che accentua il senso di intrappolamento.
Una scena particolarmente significativa è quella in cui Ash, l'androide, tenta di uccidere Ripley infilando con forza una rivista pornografica arrotolata nella sua bocca. Questo atto, più che un semplice tentativo di omicidio, assume la connotazione di uno stupro orale, un atto di dominazione sessuale che cerca di ricondurre la donna al suo ruolo tradizionale di genere. Ironico e disturbante è il fatto che questo atto sia perpetrato da un androide asessuato, che vede nello xenomorfo la creatura perfetta, un simbolo della purezza "non offuscato da coscienza, rimorsi, o illusioni di moralità". Infine c'è lei, Ellen Ripley, la più grande eroina cinematografica di sempre, che nella scena finale, indossando solo delle mutandine e una canottiera, affronta l'alieno in uno scontro che unisce tensione ed erotismo. Una immagine entrata nel nostro immaginario che non solo conclude la narrazione con una nota di potenza e resistenza, ma sottolinea anche come "Alien" abbia saputo sfidare le convenzioni del genere, lasciando un'impronta duratura nel cinema e nella cultura popolare.

Membrana
Chi Ta-wei
Pubblicato a Taiwan nel 1995, "Membrana" è un romanzo di fantascienza cyberpunk che tratta temi queer e transgender scritto da Chi Ta-wei, uno scrittore taiwanese abbastanza popolare in patria. Il libro è stato pubblicato in Italia solo nel 2022 dalla Add editore nella sua collana Asia che si distingue per le originali copertine di Lucrezia Viperina.
Anno 2100. A causa dei cambiamenti climatici provocati dall'inquinamento e dal riscaldamento globale, l'umanità è stata costretta a ritirarsi nelle profondità dell'oceano per ripararsi dai raggi ultravioletti del sole diventati ormai letali. L'incredibile sviluppo tecnologico ha permesso di costruire delle metropoli sottomarine e tutte le nazioni della Terra (compreso le multinazionali che controllano sempre di più l'economia mondiale) hanno ricevuto una parte di fondale in base alla loro forza economica. In superficie sono rimasti solo i grandi monumenti del passato, i condannati a morte, e gli androidi che svolgono quei lavori necessari ma diventati impossibili da eseguire dagli umani.
In questo contesto, nella città di "T", troviamo Momo, giovane e rinomata estetista specializzata nella cura della pelle. L'estetismo è una professione importante in questa società, in quanto la pelle umana, sott'acqua, ha maggiore bisogno di cure e protezione e coloro che lavorano in questo campo vengono considerate delle vere e proprie star. Nonostante la notorietà, Momo è una ragazza introversa che non ama le relazioni e vive isolata nel suo appartamento/studio con un cane regalatogli da una sua affezionata cliente. Nel suo lavoro di estetista, Momo impiega la M-Skin, una membrana che viene applicata sulla pelle e che, una volta staccata e collegata a uno speciale scanner, gli permette di vivere le emozioni e gli stimoli sensoriali vissuti dai suoi clienti. Un giorno Momo viene a sapere che sua madre, una dirigente di una grande multinazionale editoriale, la vuole incontrare. Momo non la vede da vent'anni, ovvero da quando all'età di dieci anni, per salvarsi da una grave malattia, affrontò una operazione invasiva in cui cambiò il sesso. Ora è arrivato il momento di sapere perchè la madre si è inspiegabilmente allontanata da lei, rifacendosi viva proprio alla vigilia del suo trentesimo compleanno.
Il romanzo pur essendo breve (siamo sulle centocinquanta pagine) risulta abbastanza complesso. Non tanto per la sua scrittura, il libro in finale è molto scorrevole, quanto per i numerosi argomenti trattati che si sovrappongono l'uno sull'altro. Nel mondo post apocalttico immaginato da Chi Ta-wei la tecnologia ha permesso di fabbricare degli androidi che vengono usati, oltre per i lavori più duri, anche come pezzi di ricambio per sostituire gli organi compromessi degli umani. Nel romanzo, il punto di vista è quello di Momo la quale ci descrive il periodo in cui venne ricoverata in una asettica clinica a causa di una grave malattia. Durante questa lunga degenza, la nostra protagonista è stata privata di ogni contatto fisico. La sua unica compagna era un androide simile a lei chiamata Andy con cui entró in simbiosi diventando la sua migliore amica. Il giorno dopo l'operazione Momo diventa una bambina ma al suo risveglio non c'è più Andy dando la colpa alla madre che da quel momento in poi si allontana da lei. Il doppio trauma dell'abbandono svilupperà in lei l'odio verso la persona che l'ha messa al mondo e la diffidenza nei confronti del prossimo.
"Membrana" è un libro a strati, in cui la realtà, almeno quella della protagonista, non è quella che sembra. È un romanzo esistenziale, molto intimo, con un finale estremamente malinconico e coinvolgente. Sono tanti i temi trattati, come la difficoltà relazionale, il concetto di identità, il controllo audiovisivo, e come i nostri sensi possano essere ingannati dalla tecnologia. Sono temi così attuali che sorprende siano presenti in un romanzo di fantascienza scritto quasi trent'anni fa. L'unico elemento che appare invecchiato sono le tecnologie usate nel libro (email, scanner, discolibri, ecc.), che oggi ci sembrano datate. Tuttavia, questo non infastidisce particolarmente, poiché è un aspetto comune nei libri di fantascienza del passato.
Il romanzo di Chi Ta-wei contiene numerosi riferimenti letterari e citazioni cinematografiche. A un certo punto viene menzionato anche Pier Paolo Pasolini, l'ultimo nome che mi sarei aspettato di trovare in un romanzo di fantascienza taiwanese. Il libro è definito "queer", ma a mio avviso non è il tema predominante, o quantomeno le sue implicazioni vengono date per scontate e non sono particolarmente evidenziate. Di certo, la presenza maschile in questo libro è quasi del tutto assente e la stessa protagonista, che nasce maschio dopo essere stata concepita in vitreo da due donne, accetta senza problemi la sostituzione dei genitali quando viene operata per motivi di salute, come se fosse sempre stata femmina.
In conclusione, "Membrana" di Chi Ta-wei è un romanzo di fantascienza che può essere apprezzato anche da chi non ama il genere. È un libro da leggere tutto d'un fiato, con un inaspettato colpo di scena nel finale.
Libri
Flatlandia
Edwin A. Abbott
Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni di Edwin A. Abbott è un libro insolito. Difficile catalogarlo in un genere, volendo potremmo definirlo un opera di fantascienza distopica che fonde matematica, satira sociale e fantasia. Ciò che più sorprende è che questo libro è stato scritto nel 1884. L'autore è uno scrittore, teologo e pedagogo britannico, rettore e docente di materie scientifiche di un importante scuola londinese.
La storia si svolge a Flatlandia, un mondo bidimensionale in cui gli abitanti sono forme geometriche che vivono su un piano e percepiscono la realtà in sole due dimensioni. La società di Flatlandia è rigorosamente gerarchica, dove la forma e il numero dei lati di un individuo determinano il suo status sociale. Le donne sono linee rette e rappresentano lo scalino più basso della società. A causa della loro forma appuntita, le donne sono considerate pericolose e se vogliono camminare in un luogo pubblico, hanno l'obbligo di muovere ininterrottamente la loro parte posteriore, da sinistra a destra, per rendersi visibili. Gli abitanti di Flatlandia, muovendosi su un piano, non si vedono come forme geometriche bensì come delle linee, quindi una donna vista frontalmente o da dietro appare come un punto impercettibile. Per quanto riguarda i maschi, i triangoli isosceli sono gli operai e i soldati, i triangoli equilateri sono la classe borghese, i quadrati e i pentagoni sono i professionisti, mentre gli esagoni fanno parte dell'aristocrazia. Una volta raggiunto un numero di lati che rende il poligono indistinguibile dal cerchio, si accede all'ordine sacerdotale, la classe più alta. In questo mondo ogni nascituro acquisisce un lato in più rispetto al padre, in modo tale che ogni generazione salga di un gradino nell'ordine sociale. Questa regola non vale per gli isosceli, perché non hanno i lati uguali, per le donne, che sono delle linee rette, e per i poligoni irregolari, considerati dei veri e propri reietti da eliminare. Nella prima parte del libro ci viene descritto il mondo di Flatlandia e le sue regole attraverso la voce del narratore, A. Square, un quadrato che nelle pagine iniziali troviamo in prigione. Nella seconda parte prosegue il racconto del nostro protagonista che, attraverso dei sogni rivelatori, scopre l'esistenza di diverse realtà. Il primo mondo con cui viene a contatto è un universo di un unica dimensione, Linelandia, popolato da punti in movimento su una retta e governato da un re che rifiuta il racconto del quadrato non riuscendo a comprendere un mondo a due dimensioni. Successivamente A. Square riceve la visita di una sfera proveniente da Spacelandia, un mondo tridimensionale. La sfera, che a Flatlandia appare come un cerchio di dimensioni variabili - la sua ampiezza dipende dalla intersecazione del piano - cerca di spiegargli l'esistenza della terza dimensione ma per A. Square il concetto risulta incomprensibile. Per fargli capire meglio, la sfera trascina il quadrato a Spacelandia e così il nostro protagonista non solo ha la possibilità di vedere la sfera in tutta la sua interezza, ma ha modo di osservare il suo mondo per la prima volta dall'alto. Dopo aver acquisito tutte le informazioni relative a Spacelandia, A. Square ipotizza dell'esistenza di un universo a quattro o a più dimensioni che la sfera ovviamente non può percepire in quanto vive in un universo di tre dimensioni. La sfera si spazientisce e, stufa dei vaneggiamenti del quadrato, lo rispedisce a Flatlandia. Tornato a casa A. Square inizia a mettere in discussione le norme e le limitazioni della sua società, e tacciato per un eretico alla fine viene imprigionato a vita.
Flatlandia di Abbott² (il suo nome completo è Edwin Abbott Abbott perchè i suoi genitori avevano lo stesso cognome essendo cugini - così tanto per rendere il tutto ancora più incasinato) ha diverse chiavi di lettura. Da una parte abbiamo una critica sottile ma potente della rigida struttura sociale vittoriana dell'epoca di Abbott. La descrizione della società di Flatlandia, con le sue rigide gerarchie basate sulla forma geometrica, serve come metafora per le classi sociali e le discriminazioni basate su genere e nascita. Le donne, rappresentate come semplici linee, sono confinate in ruoli strettamente limitati, evidenziando la condizione delle donne nell'epoca vittoriana.
L'altro tema è quello più strettamente filosofico ed esistenziale espresso nella seconda parte che è quella che ho più apprezzato. Flatlandia, oltre a essere un trattato di geometria comprensibile a tutti, invita il lettore a riflettere su temi più ampi come la percezione della realtà, la limitazione della conoscenza umana e la possibilità di mondi e dimensioni oltre la nostra comprensione. Ciò che noi vediamo e chiamiamo realtà è limitata dalla percezione dei nostri sensi e potrebbe non coincidere con un mondo che per noi è del tutto incomprensibile. Affascinante se pensiamo che quando è stato pubblicato il libro per la prima volta Albert Einstein aveva appena sei anni.
Sebbene sia stato scritto nel 1884, il libro risulta parecchio attuale nell'esplorare i limiti della conoscenza umana e le possibilità oltre di essa. Certo, non aspettatevi azione, caratterizzazione dei personaggi o coinvolgimento emotivo. Chi è abituato a leggere romanzi contemporanei potrebbe rimanere deluso. Flatlandia è più un saggio con le sembianze di un racconto.
Nel corso degli anni sono stati fatti diversi adattamenti cinematografici del libro di Abbott. Il primo è un cortometraggio italiano girato in stop-motion da Michele Emmer nel 1982 mentre l'ultimo è un cortometraggio d'animazione del 2007 diretto da Jeffrey Travis. Entrambi si trovano su Youtube. Gli ho dato un'occhiata ma non mi sono sembrati particolarmente attrattivi. Decisamente meglio il libro.
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