
M - Il mostro di Düsseldorf
di Fritz Lang
Il regista austriaco Fritz Lang non ha solo realizzato il primo film di fantascienza della storia del cinema, Metropolis, ma ha anche gettato le fondamenta del noir e del thriller psicologico, portando sullo schermo il primo serial killer cinematografico.
A quasi un secolo dalla sua uscita, M - Il mostro di Düsseldorf è un capolavoro del cinema espressionista che ha influenzato generazioni di registi. Un classico senza tempo in cui Lang si cimenta per la prima volta con il sonoro, sfruttandolo non come semplice supporto, ma come vero e proprio elemento narrativo.
Il film, ambientato a Berlino, sembra essere stato ispirato ai crimini avvenuti a Düsseldorf nel 1925. Sebbene il regista abbia sempre negato tale collegamento, in Italia hanno pensato bene di distribuirlo con un titolo che richiama esplicitamente il caso di cronaca (nell'originale tedesco il film si intitola semplicemente M).
Il film narra la storia di Hans Beckert (Peter Lorre), un maniaco che attira, violenta e poi uccide delle bambine. La città è terrorizzata, e la polizia, messa sotto pressione dall'opinione pubblica, brancola nel buio rastrellando i bassifondi e creando difficoltà alla criminalità organizzata. Stanchi delle retate dei poliziotti, le organizzazioni criminali della città decidono di collaborare mettendosi anche loro alla caccia dell’assassino. Saranno proprio i criminali a trovarlo per primi, grazie all'aiuto di un mendicante cieco che ne riconosce il fischiettio, segnandolo con una "M" tracciata col gesso sul suo cappotto. Inseguito, braccato, e infine catturato dai criminali, Beckert viene portato di fronte a un tribunale improvvisato, dove l’assassino, fino a quel momento quasi muto, si abbandona a un monologo disperato, cercando di spiegare il tormento interiore che lo spinge a uccidere. Ma può esserci comprensione per un simile orrore?
Fritz Lang, al suo primo film sonoro, sfrutta la nuova tecnologia rivoluzionando il linguaggio cinematografico. Il suono diventa parte integrante della narrazione, come nella scena in cui il mendicante cieco riconosce il killer proprio grazie al suo fischiettio, oppure in quella iniziale, dove una filastrocca infantile cantata dai bambini preannuncia la tragedia. Nei primi dieci minuti Lang condensa un intero trattato sulla suspense visiva e sonora. Con un montaggio alternato vediamo una madre che prepara il pranzo mentre la figlia, di ritorno da scuola, si ferma a giocare in strada. La bambina fa rimbalzare una palla su un palo. Il "mostro" si avvicina, ma Lang ce lo mostra solo attraverso la sua ombra minacciosa, proiettata su un manifesto con la sua taglia. Poi, con un montaggio chirurgico, si alternano un piatto vuoto sul tavolo da pranzo, una palla che rotola nell’erba e poi si ferma, una rampa di scale deserta, la voce sempre più angosciata della madre che chiama la figlia invano. Infine, un palloncino, comprato dall'assassino, che vola via, incastrandosi nei fili della luce prima di sparire nel cielo. In poche immagini, senza bisogno di mostrarlo, Lang ci racconta l'orrore che si è compiuto.



L’intero film è costruito su un’alternanza tra forze che dovrebbero opporsi, ma finiscono per specchiarsi l’una nell’altra. La polizia e la malavita, entrambe impegnate nella caccia all’assassino, si rivelano due volti della stessa medaglia. Lang utilizza un montaggio alternato che crea parallelismi inquietanti tra le loro metodologie, fino a rendere indistinguibile chi dovrebbe rappresentare l’ordine e chi il caos. È una riflessione amara su una società in cui la giustizia ufficiale è lenta e impotente, mentre quella sommaria è feroce e inappellabile.
Visivamente, M eredita l'estetica dell’espressionismo tedesco, ma la rinnova con un realismo urbano che amplifica il senso di claustrofobia. Ombre allungate, angolazioni vertiginose, e vicoli soffocanti in una città che diventa un labirinto dove il male si nasconde ovunque. Lang non mostra mai la violenza ma la suggerisce con dettagli minimi ma devastanti. Il risultato è un’atmosfera opprimente e un senso di pericolo costante.
La potenza del film risiede anche nella grande interpretazione di Peter Lorre nel ruolo del mostro. Con il suo volto tondo, gli occhi sporgenti e la postura dimessa, incarna un serial killer sfuggente, quasi invisibile tra la folla. Per gran parte del film è un’ombra, un’idea più che un uomo. Ma nella scena finale, davanti al tribunale improvvisato della malavita, esplode in un monologo disperato che ribalta ogni certezza, un assassino che si dice vittima, e che diventa non più un mostro inumano, ma un essere fragile, divorato da pulsioni incontrollabili.
Alla fine, Lang non offre risposte. Chi ha il diritto di giudicare? La giustizia ufficiale, fredda e impotente, o quella sommaria della strada? M è un film che non chiude il cerchio, lasciando lo spettatore con un’eco inquietante. La caccia all’uomo si trasforma in una furia collettiva, un presagio oscuro di ciò che sarebbe accaduto nella Germania nazista, dove il bisogno di un colpevole avrebbe presto giustificato ogni abuso. Una società che non sa vedere, che abbandona gli individui ai loro demoni, è essa stessa responsabile del mostro che ha generato.
Film
L'uomo che ride (1928)
di Paul Leni
L'uomo che ride (1928) è il secondo film di Paul Leni realizzato per la Universal, dopo Il castello degli spettri. Tratto dall’omonimo romanzo di Victor Hugo, questo melodramma gotico rappresenta un perfetto connubio tra l'espressionismo tedesco e il cinema hollywoodiano, influenzando non solo i film horror/noir dei decenni successivi ma contribuendo alla nascita di un personaggio iconico come il Joker di Batman.
Ambientato nell'Inghilterra del XVII secolo, L'uomo che ride racconta la tragica storia di Gwynplaine (Conrad Veidt), un giovane nobile il cui padre viene giustiziato per ordine del malvagio re Giacomo II. Per punire l'intera linea di sangue del padre, il giovane Gwynplaine viene sfigurato con un'operazione che gli lascia un sorriso permanente e grottesco. Abbandonato al suo destino, il ragazzo trova rifugio presso un circo itinerante, dove diventa un'attrazione popolare grazie alla sua deformità. Accanto a lui c’è Dea (Mary Philbin), una giovane cieca che, nonostante la sua condizione, vede oltre l’aspetto esteriore e si innamora di lui. Quando il passato di Gwynplaine riemerge e la sua vera identità nobiliare viene rivelata, il protagonista viene condotto alla camera dei Lord per ricevere il titolo nobiliare e sposarsi con una duchessa. Tuttavia, sentendosi estraneo a quella società aristocratica che lo percepisce solo come un oggetto di derisione, Gwynplaine decide di tornare da Dea e il mondo semplice ma sincero del circo.
Attenuando l’aspetto politico del romanzo di Victor Hugo – che denunciava le ingiustizie sociali e la corruzione dell’aristocrazia – e introducendo un lieto fine per soddisfare le aspettative del pubblico dell’epoca (nel libro, infatti, i due protagonisti muoiono), L’uomo che ride è un esempio magistrale di come il cinema muto riesca a trasmettere emozioni profonde attraverso immagini e performance. La regia di Paul Leni si distingue per le scenografie elaborate e i suggestivi giochi di ombre ispirati ai capolavori dell'espressionismo tedesco, che amplifica il senso di alienazione di Gwynplaine.
Per interpretare lo sfortunato protagonista, la produzione inizialmente aveva pensato a Lon Chaney. Tuttavia, a causa dei suoi impegni in un’altra produzione, l’attore non fu disponibile. Paul Leni scelse quindi Conrad Veidt, già celebre per aver interpretato Cesare ne Il gabinetto del dottor Caligari, regalando al pubblico una performance che avrebbe segnato la storia del cinema.
Nonostante il trucco ideato da Jack Pierce – con il pallore spettrale e la protesi dentale che limitava l’espressività del volto – Conrad Veidt riesce a comunicare un’incredibile gamma di emozioni, trasformando Gwynplaine in un personaggio complesso e profondamente umano. I suoi occhi, malinconici e penetranti, si scontrano dolorosamente con il sorriso forzato e innaturale, creando un effetto straniante di inquietudine e compassione.
Sebbene meno noto rispetto ad altre opere del periodo, L'uomo che ride rimane una pietra miliare per il suo contributo alla nascita dell’estetica gotica e per aver ispirato generazioni di artisti, tra cui Bob Kane e Bill Finger, i creatori di uno dei villain più iconici della storia del fumetto.

Faust (1926)
di F. W. Murnau
Nel 1926 Friedrich Wilhelm Murnau realizza l'adattamento cinematografico di Faust, il capolavoro letterario di Goethe ispirato alla famosa leggenda popolare tedesca. Ultimo film realizzato da Murnau in Germania prima di trasferirsi negli Stati Uniti, Faust è un film straordinario che intreccia simbolismo, dramma ed effetti speciali d'avanguardia, tracciando un ponte ideale tra l'audacia artistica dell'espressionismo tedesco e la spettacolarità del nascente cinema hollywoodiano.
Il film si apre con Mefistofele (Emil Jannings) che scommette con l'Arcangelo Gabriele che se riuscirà a corrompere l’anima del vecchio alchimista Faust (Gösta Ekman), avrà il dominio sulla Terra. Per piegare Faust, Mefistofele diffonde la peste sulla sua città, offrendogli poi il potere di guarire i malati. Faust, disperato, accetta, ma la sua corruzione si manifesta quando respinge un malato con una croce al collo, scatenando l'ira della folla che tenta di lapidarlo. Deciso inizialmente a rescindere il patto, Faust cede nuovamente alle tentazioni del demonio, accettando la giovinezza eterna e l’amore per la dolce e innocente Gretchen (Camilla Horn). Tuttavia, le macchinazioni di Mefistofele scatenano una serie di tragedie: il fratello di Gretchen muore in duello con Faust, e la ragazza, sorpresa dalla madre in compagnia del suo amante, viene emarginata dalla comunità. Rimasta incinta, Gretchen viene accusata di infanticidio quando il suo bambino muore in una notte di gelo e viene condannata al rogo. Mentre le fiamme avvolgono Gretchen, le sue grida disperate raggiungono Faust, che dopo aver rinnegato la giovinezza, si precipita da lei, gettandosi tra le fiamme per unirsi al suo destino. In un gesto estremo d’amore, Faust annulla il patto demoniaco restituendo speranza e salvezza alla Terra.
Fin dai primi istanti, il film sorprende per la grandiosità delle sue immagini e l'uso pionieristico degli effetti speciali, che testimoniano il genio tecnico e creativo di Murnau. La fotografia di Carl Hoffmann esalta magistralmente il contrasto tra luci e ombre, amplificando il senso di drammaticità e trasportando lo spettatore in un mondo sospeso tra realtà e mito. Nella prima parte, Murnau utilizza dissolvenze, sovrapposizioni e tecniche di ripresa innovative che, combinate con le scenografie dall’estetica espressionista, conferiscono al film una straordinaria potenza visiva e narrativa.
Alcune sequenze sono autentici capolavori che lasciano senza fiato, soprattutto considerando l’epoca in cui il film è stato realizzato. Spicca in particolare la cavalcata di Mefistofele e Faust sopra le nuvole - con sotto l'incredibile e dettagliato plastico che riproduce città e vallate - realizzata con una maestria tecnica sorprendente. Indimenticabile è anche l'immagine imponente di Mefistofele che incombe gigantesco sulla cittadina devastata dalla peste, una scena che incarna alla perfezione la forza evocativa del cinema espressionista. La sequenza finale, con le grida disperate di Gretchen che attraversano paesaggi onirici per raggiungere Faust, rappresenta uno dei momenti più intensi ed emotivamente potenti dell’intera opera.
Probabilmente la parte centrale del film, in particolare l’idillio tra Faust e Gretchen, e la scena in cui la zia di Gretchen tenta di sedurre Mefistofele, può apparire a tratti sopra le righe. Anche le smorfie istrioniche di Mefistofele potrebbero risultare eccessive agli occhi dello spettatore moderno. Tuttavia, va ricordato che nel cinema muto l’assenza di dialoghi richiedeva una mimica accentuata per esprimere emozioni e intenzioni, rendendo queste scelte stilistiche perfettamente comprensibili nel contesto dell’epoca.
Un plauso va anche alla colonna sonora orchestrale di Timothy Brock, scritta per la versione internazionale del film. La sua musica si sposa armoniosamente con la natura epica dell’opera, amplificandone il respiro universale e sottolineando i temi di caduta e redenzione, amore e sacrificio, nonché l’eterna lotta tra il bene e il male.
Film
Metropolis
di Fritz Lang
Capolavoro del cinema muto e primo film di fantascienza della storia del cinema (se non vogliamo contare Il viaggio nella luna di Méliès), Metropolis di Fritz Lang è un opera che a distanza di quasi un secolo mantiene intatta la sua potenza visiva e concettuale.
Uscito nel 1927, questo monumentale film di Fritz Lang, regista e sceneggiatore austriaco legato al cinema espressionista tedesco, rappresenta una delle ultime grandi opere del cinema muto. La sceneggiatura di Metropolis è stata scritta dallo stesso Fritz Lang insieme alla sua allora moglie, Thea von Harbou, basandosi su un romanzo che lei stessa ha pubblicato nel 1925. Una delle pellicole più costose mai prodotte fino a quel momento, il film ha richiesto una grande quantità di risorse economiche per realizzare gli innovati effetti speciali e costruire la città furistica in miniatura.
Le riprese di Metropolis durarono ben 17 mesi, dal 1925 al 1926, una durata eccezionale per l'epoca, e coinvolsero migliaia di comparse. Proiettato per la prima volta a Berlino nel gennaio del 1927, il film, dopo la sua anteprima, subì numerosi tagli.
Originariamente lungo più di due ore e mezza, Metropolis fu ridotto a circa 90 minuti per essere più commercialmente accettabile, con intere sottotrame e personaggi eliminati. Solo negli anni 2000, dopo la scoperta di una copia quasi completa del film in Argentina, si è riusciti a restaurare gran parte del materiale originale.
In un futuro distopico, Metropolis è una città grandiosa e stratificata, divisa tra la lussuosa superficie, dove vivono i ricchi dirigenti, e le profondità sotterranee, dove gli operai lavorano incessantemente per mantenere la città in funzione. Joh Fredersen (Alfred Abel), il padrone di Metropolis, governa con pugno di ferro, ignorando il malessere dei lavoratori. Suo figlio, Freder (Gustav Frohlich), vive una vita privilegiata fino a quando non scopre le disumane condizioni degli operai e si innamora di Maria (Brigitte Helm), una giovane donna che predica la pace e la speranza per una società più equa. Nel tentativo di soffocare qualsiasi ribellione, Fredersen si allea con lo scienziato Rotwang (Rudolf Klein-Rogge), che crea un robot capace di assumere le sembianze di Maria. Il robot viene usato per istigare il caos e distruggere i sogni di pace e armonia. Mentre la città si avvicina al collasso, Freder cerca disperatamente di fermare la rivolta e salvare sia Maria che Metropolis, riconoscendo infine che la pace può essere raggiunta solo con una riconciliazione tra il "cervello" (i dirigenti) e le "mani" (gli operai), attraverso il "cuore".



Un classico senza tempo che ha definito per sempre il linguaggio della fantascienza cinematografica. Visivamente, Metropolis è una meraviglia. Un film che all'epoca era proprio difficile immaginare. L'architettura futuristica della città, con i suoi grattacieli e il traffico aereo, sono delle vere opere d'arte in movimento. Gli effetti speciali pionieristici, come l'uso dello stop-motion per animare veicoli e aerei, le sovrimpressioni ottenute direttamente in macchina e la tecnica dello Schüfftan per creare scenografie estremamente realistiche (si tratta di proiettare i modellini e i fondali dipinti, tramite un sistema di specchi inclinati a 45 gradi), sono incredibili anche a occhi moderni. Un capolavoro di tecnica cinematografica e immaginazione che ha ispirato innumerevoli opere successive che ne hanno ripreso temi, estetica e visioni distopiche. Pensiamo ad esempio a film come Blade Runner, Brazil, Guerre Stellari e il Quinto Elemento.
Metropolis è un film che esplora una serie di tematiche complesse, che rimangono rilevanti anche oggi. Le sue riflessioni spaziano dalla disuguaglianza sociale al rapporto tra uomo e macchina, passando per simbolismi religiosi e visioni distopiche del futuro. Tematiche sociali che hanno anticipato di decenni quelle descritte nel celebre romanzo 1984 di George Orwell, confermando il valore intramontabile di questa opera.
Se proprio dobbiamo trovargli dei difetti, lasciando da parte la recitazione tipicamente esagerata del cinema muto, a mio avviso il finale eccede in un romanticismo che appare forzato, retorico e quasi didascalico. La risoluzione finale, che predica la riconciliazione tra le classi attraverso il "cuore", sembra semplificare eccessivamente la complessità dei conflitti sociali e delle tensioni che il film stesso aveva magistralmente costruito. Stiamo comunque parlando di un film degli anni venti destinato al grande pubblico, quello che potremmo considerare uno dei primi blockbuster dell'epoca.
Dal 2023, Metropolis è entrato di diritto nel pubblico dominio, il che significa che può essere riprodotto liberamente anche al di fuori delle mura domestiche. Tra le numerose versioni esistenti, vi consiglio di guardare (al seguente link) quella restaurata dalla Fondazione Murnau nel 2010, della durata di 145 minuti, che restituisce gran parte del materiale originario andato perduto dopo l'uscita del film. A mio avviso è questa la versione che merita di essere vista per apprezzare l'opera nella sua completezza e integrità.
Io, come molti della mia generazione, ho scoperto Metropolis grazie alla controversa versione degli anni '80 curata da Giorgio Moroder, quella in cui l'originale colonna sonora orchestrale fu sostituita da brani pop-rock interpretati da Freddie Mercury, Pat Benatar e Bonnie Tyler. Rivedendola oggi, il risultato appare più simile a un videoclip di dubbio gusto che snatura completamente l'atmosfera originale del film. Moroder merita comunque un plauso per aver cercato di rendere il capolavoro di Fritz Lang accessibile a una nuova generazione di spettatori, ma con il senno di poi, avrei trovato più accattivante una colonna sonora realizzata dai Kraftwerk che personalmente apprezzo di più e avrebbe conferito maggiore coerenza e un fascino senza tempo all'intera operazione.
Ovviamente, queste sono solo considerazioni personali legate ai miei gusti musicali.

Il Golem - Come venne al mondo
di Paul Wegener, Carl Boese
"Il Golem - Come venne al mondo" (Der Golem, wie er in die Welt kam) è un classico del cinema espressionista tedesco, corrente artistica che ha segnato profondamente la storia del cinema con capolavori quali "Il gabinetto del Dottor Caligari" e "Nosferatu".
Liberamente tratto dal romanzo di Gustav Meyrink del 1915 che riadatta il mito del Golem del folklore ebraico, il film ha una storia assai particolare dal momento che non è il primo a essere stato realizzato da Paul Wegener. Appassionato di storie fantastiche e mitiche, Wegener, attore, regista e sceneggiatore, realizzò una serie di film interpretando personalmente la creatura leggendaria del Golem. Il primo film, co-diretto con Henrik Galeen, è del 1915 e narra la storia di un antiquario che scopre e riporta in vita la creatura di fango, scatenando il caos. Nonostante il grande successo la pellicola è andata perduta. Due anni più tardi, ci riprovò con "Il Golem e la Danzatrice", un film dai toni più comici rispetto al precedente. Anche di questo film non è rimasto traccia. Infine nel 1920, insieme al regista Carl Boese, realizzò "Il Golem - Come venne al mondo", film che racconta la creazione del Golem da parte del rabbino Löw (potremmo considerarlo il primo prequel della storia del cinema). Questa è l'unica pellicola sopravissuta fino ai giorni nostri ed è, ovviamente, quella che ho visto.
La storia si svolge nel ghetto ebraico di Praga nel XV secolo, dove il rabbino Löw crea una figura di argilla conosciuta come il Golem per proteggere la comunità ebraica dalle persecuzioni. Utilizzando antichi incantesimi e la magia cabalistica, il rabbino riesce a dare vita al Golem, una creatura dall'aspetto imponente e terrificante, con l'intento di difendere il suo popolo. Tuttavia, quando la figlia del rabbino (Lyda Salmonova) lo respinge, il Golem sfugge al controllo del suo creatore, portando a conseguenze inaspettate e tragiche.
Il film si contradistingue per la grande tecnica (la scena dell'evocazione di Astaroh così come le scene con la folla sono magistrali), le originali scenografie di Hans Poelzig (che ricostruisce Praga con vicoli distorti e un groviglio di case allungate) e la suggestiva fotografia di Karl Freund (che utilizzando giochi di luce e ombra enfatizza il dramma e il mistero della storia). Quest'ultimo, dopo che avrà prestato la sue capacità in un capolavoro come "Metropolis" di Lang, insieme a tanti altri registi e tecnici tedeschi, approderà negli Stati Uniti contribuendo non poco al cinema horror americano della Universal. Non è un caso che il tema del mostro che si ribella al suo creatore presente nel Golem verrà esplorato e ampliato nel "Frankenstein" di Whale. Paul Wegener, invece, si dedicò esclusivanente alla recitazione preferendo abbandonare il personaggio del Golem. Pare che l'attore tedesco di si sia così immedesimato nella parte del gigante di argilla che quando tornò nei vicoli di Praga la gente si scansava spaventandosi della sua imponente presenza.
Film
Il gabinetto del Dottor Caligari
di Robert Wiene
Il Gabinetto del Dottor Caligari diretto da Robert Wiene nel 1920, è considerato un capolavoro assoluto del cinema espressionista tedesco e una pietra miliare nella storia del cinema horror. Stiamo parlando di un opera immensa e imprescindibile che ogni cinefilo che si rispetti dovrebbe vedere almeno una volta nella propria vita.
Il film racconta la storia di Francis, che narra a un uomo anziano gli inquietanti eventi avvenuti nella cittadina tedesca di Holstenwall. Durante la fiera che si tiene ogni anno in città, un losco e ambiguo personaggio chiamato il Dottor Caligari (Werner Krauss) esibisce al pubblico il suo sonnambulo Cesare (Conrad Veidt), un giovane emaciato dal volto pallido capace, una volta svegliato, di rivelare il passato e il futuro di qualsiasi persona. Francis e un suo amico assistono allo spettacolo durante il quale Cesare predice all'amico di Francis che morirà entro il mattino seguente, fatto che poi accade. Da quel momento la cittadina tedesca è sconvolta da una serie di misteriosi delitti perpetuati proprio dall'inquietante sonnambulo controllato da Caligari. Quest'ultimo si scoprirà essere il direttore di un ospedale psichiatrico che si diletta a eseguire esperimenti sui propri pazienti utilizzando delle tecniche ipnotiche. Non tutto però è come sembra e un colpo di scena nel finale rivela che gli eventi potrebbero essere il frutto della mente disturbata del narratore.
La pellicola di Wiene dopo più di un secolo conserva intatto il suo fascino visivo. Probabilmente, insieme alla forte ambiguità della storia, è proprio l'estetica uno degli elementi più distintivi di questo film. Le scenografie distorte, gli angoli acuti e le ombre pronunciate creano un'atmosfera surreale e onirica, che riflette il tumulto psicologico dei personaggi, il cui trucco pesante e la loro forte gesticolazione, amplifica quel senso di inquietudine e mistero che pervade l'intera pellicola. Manifesto dello stile espressionista che nella Germania degli anni venti del secolo scorso si sviluppò come reazione alle turbolenze sociali e politiche dell'epoca, il film esplora i temi della paranoia, dell'alienazione e della manipolazione mentale e può essere visto come una metafora della sottomissione cieca del popolo tedesco all'autorità. Alcuni critici vedono nel personaggio del Dottor Caligari una rappresentazione del potere dittatoriale che stava avanzando e che da lì a poco avrebbe preso il potere con le conseguenze che tutti conosciamo.
Tralasciando l'aspetto politico quello che più colpisce di questa pellicola è la sua forza visionaria. Le scene sono come dei quadri bidimensionali in cui i personaggi si muovono in una scenografia deformata, spigolosa e irreale all'interno di stanze e ambienti dalle finestre oblique e oggetti sproporzionati oppure in esterni dalla prospettiva falsata e dall'architettura innaturale e contorta. Nel film realtà e apparenza, verità e inganno si intrecciano al punto da non diventare più distinguibili e la scenografia non fa altro che esprimere in modo magistrale il mondo interiore di un folle.



Film visionario e terribilmente attuale che, nonostante sia stato realizzato oltre un secolo fa, è riuscito a influenzare profondamente il cinema moderno, definendo nuovi standard narrativi e stilistici e aprendo la strada al genere horror psicologico e gotico. Il sonnambulo di Wiene, ad esempio - personaggio tragico e affascinante dall'estetica dark post-punk (movimento che si svilupperà sessant'anni più tardi) - è stato un evidente fonte di ispirazione per Tim Burton nel creare il suo Edward Mani di Forbice.
Il "gabinetto del Dottor Caligari" è del 1920, quindi è un film muto e in bianco e nero, che nel corso degli anni è stato più volte restaurato. Si può recuperare - anche su YouTube - in diverse versioni colorate o con differenti colonne sonore. Per chi non lo ha ancora visto e non è avvezzo ai film d'epoca consiglio di sgombrare la mente e con pazienza di immedesimarsi al contesto storico e culturale del periodo. Tenete conto che le espressioni facciali e il linguaggio del corpo degli attori era molto più pronunciato rispetto ai film sonori e questa forte caratterizzazione ai giorni d'oggi potrebbe risultare quasi ridicola.
Mente aperta e attenzione ai particolari e all'estetica.

Nosferatu
di F. W. Murnau
Aspettando Eggers mi sono voluto rivedere il Nosferatu di Murneau.
Capolavoro dell’espressionismo tedesco, liberamente ispirato al romanzo "Dracula" di Bram Stroker, il film viene proiettato per la prima volta a Berlino nel 1922, e presenta uno dei primi vampiri della storia del cinema.
Negli ultimi decenni il film è stato più volte restaurato, con l’aggiunta di qualche sequenza in più e una nuova colonna sonora - il film è muto e i dialoghi avvengono con le didascalie. Attualmente su YouTube si può apprezzare sia la versione in bianco e nero che quella virata in diversi toni di colore. Io mi sono visto quest'ultima che è quella orginale dell'epoca.
Figura chiave nella realizzazione del film è stato Albin Grau, eclettico artista affascinato dall'occulto e dal soprannaturale, che aveva aperto una piccola casa di produzione cinematografica tedesca, la Prana-Film, con l'intenzione di realizzare un film su Dracula, il romanzo di Stroker scritto venticinque anni prima. Nonostante non avesse ottenuto i diritti, Grau insieme al regista Friedrich Wilhelm Murnau - che aveva già realizzato una manciata di film ed era anche lui ammaliato dalla figura del vampiro - decise comunque di realizzare un film sul romanzo di Stroker, cambiando i nomi dei personaggi, le ambientazioni e alcune parti della trama. Così, il conte Dracula divenne il conte Orlok, Jonathan Harker divenne Thomas Hutter e invece della Transilvania e Londra la storia venne ambientata nei Carpazi e a Wisborg, città portuale tedesca immaginaria. Inoltre venne eliminato il personaggio del cacciatore di vampiri Van Helsing mentre la presenza di Nosferatu venne associata a una epidemia di peste propagata dai topi che accompagnano il vampiro al suo arrivo in città. Tutto inutile. A seguito dell'enorme successo del film alla sua uscita, nel 1925 la vedova di Stoker intentò un processo per plagio e violazione dei diritti, vinse la causa e con il risarcimento mandò in banca rotta la neonata casa di produzione ottenendo la distruzione di tutte le copie del film. Fortunatamente una o più copie finirono nelle mani di collezionisti e archivi cinematografici evitando in questo modo la scomparsa di questo capolavoro del cinema surrealista tedesco. La vedova di Stoker avrebbe poi venduto i diritti del romanzo per uno spettacolo teatrale negli Stati Uniti riadattato poi nel film Dracula del 1931 con Bela Lugosi nel ruolo del vampiro. Ma questa è un altra storia.
Nel film di Murnau il ruolo del Conte Orlok venne affidato a Max Schreck, un attore teatrale dell'epoca, che a causa del suo comportamento sul set e il fatto che il suo nome tradotto sia "Massimo Terrore" ha alimentato la leggenda che si trattasse di un vero e proprio vampiro - nel 2000 è stato girato un film chiamato L'ombra del Vampiro che parla proprio di questa bislacca diceria. Un altra credenza narra che Max Schreck non prese mai parte al film e che a interpretare il conte Orlok fosse Murnau stesso. Tralasciando questi curiosi aneddoti la performance dell'attore rimane straordinaria e indimenticabile. La sua presenza sullo schermo è tanto inquietante quanto magnetica. La sua figura ricorda quella di un pipistrello, calvo con i denti da roditore, le orecchie lunghe e le unghie arcuate, mentre i suoi movimenti rigidi e sospetti, incarnanano alla perfezione il terrore e il fascino del personaggio, contribuendo in modo significativo all'impatto emotivo del film. Nosferatu è animalesco, repulsivo, e disperato. E' un vampiro che si allontana nettamente dalla figura "romantica" e affascinante del conte Dracula. Condannato a una mortalità sempre uguale a se stessa, Nosferatu esprime l'angosciante disperazione della sua infinita solitudine.

Una delle caratteristiche più distintive del film di Murneau è la sua atmosfera cupa e inquietante, creata attraverso un uso innovativo dell'illuminazione, delle ombre e della fotografia. Utilizzando la scenografia realizzata da Grau (quest'ultimo autore anche dei costumi, degli storyboard e del materiale promozionale - è sua l'illustrazione qui sopra) Murnau enfatizza l'aspetto gotico della storia, creando un'ambientazione surreale e spettrale. Rispetto ad altri film espressionisti dell'epoca, uno fra tutti Il gabinetto del dottor Caligari, Murneau non deforma la realtà ma evoca la paura e il terrore attraverso il paesaggio, la natura e il mondo animale (un lupo che spaventa i cavalli, un insetto catturato da una pianta carnivora) oppure utilizzando la tecnica dello stop motion per dare al vampiro dei movimenti innaturali (l'arrivo della carrozza guidata dallo stesso Orlok oppure la scena in cui il vampiro carica le bare sul carro) che oggi possono sembrare espedienti ridicoli ma che all'epoca risultavano assai inquietanti.
La sequenza in cui l'ombra del vampiro si distorce sulle pareti (o sulle persone) e le sue mani sembrano prolungarsi è forse una delle scene più rappresentative del film di Murnau. Senza ombra di dubbio (scusate il voluto gioco di parole) il Nosferatu di Murnau rimane uno dei più grandi capolavori della settima arte che, nonostante gli evidenti segni del tempo, continua da oltre un secolo a ispirare registi e appassionati di cinema horror.