
Il paradosso del tempo
di Bernardo Britto
I viaggi nel tempo sono uno dei temi più affascinanti e ricorrenti del cinema di fantascienza. Tra paradossi, salti e loop temporali, questi film hanno la caratteristica che non hanno bisogno di particolari effetti speciali o budget eccessivi, ma soltanto di una buona idea e una sceneggiatura solida.
Tra le tante pellicole di questo genere si inserisce Il paradosso del tempo (Omni Loop), film americano del regista brasiliano Bernardo Britto, che dopo una carriera nel cortometraggio approda alla regia di un lungometraggio mainstream con una storia che mescola sci-fi, dramma e malinconia.
La trama ruota attorno a Zoya Lowe (Mary-Louise Parker), una fisica di mezza età affetta da una misteriosa condizione. I medici gli hanno diagnosticato la presenza di un "buco nero" nel petto e le hanno dato una settimana di vita. Quello che né la sua famiglia né i dottori sanno, però, è che alla fine di quei sette giorni – quando il sangue inizia a colarle dal naso, segnale della sua imminente fine – Zoya si chiude in bagno, ingoia una delle misteriose pillole trovate per caso da bambina, e torna indietro nel tempo di esattamente una settimana. Ogni ciclo ricomincia con il suo risveglio in ospedale, quando il medico la dimette per permetterle di trascorrere gli ultimi giorni con i suoi cari. Costretta a rivivere la stessa settimana migliaia di volte, Zoya si ritrova intrappolata in un loop estenuante. Esausta dalla ripetitività e dal senso di impotenza, decide di allontanarsi dalla cinica subito dopo il suo risveglio. Il fortuito incontro con Paula Campos (Ayo Edebiri), una giovane studentessa di fisica, gli permette di trovare un alleata per provare a studiare i i misteri dei viaggi nel tempo e capire se c'è il modo per interrompre questo ciclo… e forse, riappropriarsi della propria vita.
Il paradosso del tempo prende in prestito suggestioni da classici del genere – da Ricomincio da capo a Predestination, passando per Looper – ma utilizza il meccanismo del loop temporale, più che sulle dinamiche del viaggio nel tempo, per riflettere su temi più intimi come l’inevitabilità della morte, il tempo che sprechiamo e gli affetti che trascuriamo. Il film, leggero e malinconico, trova il suo cuore nel percorso di una donna che non cerca tanto di sfuggire alla fine quanto di fare pace con la propria vita. Mary-Louise Parker è molto brava e sostiene una narrazione a tratti toccante, pur senza troppe ambizioni filosofiche. Se invece parliamo di fantascienza, ho trovato la sceneggiatura tutt'altro che convicente. Buchi logici, disordine narrativo, trovate poco riuscite e risibili – come il buco nero nel petto della protagonista e sopratutto l’uomo nanoscopico, un tizio che un esperimento quantistico sta facendo rimpicciolire all’interno di una scatola, la cui funziona a livello di trama rimane per me sconosciuta.
Un film che intrattiene, facendo leva sull'apetto romantico, ma che non rivedrei una seconda volta.

The Call of Cthulhu
di Andrew Leman
Fino a ieri ignoravo l'esistenza di questo film. Poi ho visto che se ne parlava su uno dei gruppi social dedicati al cinema che frequento e sono riuscito a recuperarlo su Mubi al seguente link.
Sto parlando di The Call of Cthulhu, la trasposizione cinematografica dell'omonimo racconto di H.P. Lovecraft scritto nel 1926. A firmarla è Andrew Leman, uno dei fondatori della H. P. Lovecraft Historical Society, associazione di appassionati che da più di vent’anni si diletta a relaborare in modo creativo le opere letterarie del solitario di Provvidence.
The Call of Cthulhu è un film indipendente del 2005 dalla durata di 47 minuti che, oltre a rispettare la storia e l'atmosfera del racconto originale, ha la pecularietà di essere stato realizzato come se si trattasse di un mediometraggio degli anni venti, quindi in bianco e nero, muto e con le didascalie tipiche dei film di quel periodo.
La storia è abbastanza nota è vede un uomo entrare in possesso di una serie di documenti lasciati dal defunto zio, professore di lingue antiche. Man mano che ne ricompone il contenuto, attraverso appunti, ritagli e testimonianze sparse, emerge un filo invisibile che collega culti oscuri, visioni disturbanti, e misteriose sparizioni legate al nome di Cthulhu.
The Call of Cthulhu è una piccola perla per appassionati, un atto d’amore verso Lovecraft e il cinema delle origini. Nonostante il budget ridotto, Leman, Sean Branney (lo sceneggiatore) e il resto del gruppo riescono a evocare un’atmosfera autenticamente lovecraftiana, sfruttando ogni limite come leva creativa. Ogni dettaglio – i titoli di testa, la musica sinfonica in sottofondo, i giochi d’ombra, le scenografie sbilenche tipiche dell'espressionismo tedesco, persino la stop-motion che dà vita a Cthulhu – contribuiscono alla costruzione di un film che sembra arrivare da un’altra epoca, per riproporre con estrema fedeltà l'immaginario disturbante di Lovecraft.
Imperdibile per tutti gli appassionati dei miti di Cthulhu.
Film
La mummia
di Karl Freund
All’inizio degli anni trenta, il successo di Dracula e Frankenstein spinse la Universal a investire con decisione nel genere horror. Affascinato dal mistero dell’antico Egitto e dalle scoperte nella tomba di Tutankhamon, il produttore Carl Laemmle Jr. volle un film che unisse archeologia e terrore. Non trovando un’opera letteraria da adattare – com’era stato per i precedenti mostri – affidò allo sceneggiatore John Balderston lo sviluppo di un soggetto originale, partendo da un breve racconto ispirato alla figura di Cagliostro, reinterpretato come un antico stregone capace di vivere per millenni. Nacque così La mummia, affidato alla regia di Karl Freund, celebre direttore della fotografia che aveva già messo mano (più di quanto ufficialmente ammesso) a Dracula.
Per il ruolo del protagonista, la scelta cadde naturalmente su Boris Karloff, ancora fresco di successo – e di bulloni nel collo – dopo il ruolo del mostro di Frankenstein.
La trama vede una spedizione archeologica risvegliare accidentalmente la mummia di Imhotep, sacerdote dell’antico Egitto condannato a un’eternità di non-morte per aver cercato di riportare in vita la sua amata principessa. Riapparso dieci anni dopo sotto le spoglie dell’enigmatico Ardath Bey, Imhotep cerca di ritrovare l’anima della sua amata, ora reincarnata nella giovane Helen. Ma per completare il rituale, sarà necessario un nuovo sacrificio. Tra antichi papiri, ipnosi e atmosfere cariche di fatalismo, prende forma una storia di amore ossessivo, reincarnazione e destino.
Una storia più fantastica che orrorifica, molto meno provocatoria delle precedenti produzioni della Universal. Sicuramente la meno riuscita. La regia di Karl Freund è elegante ma statica, e tolta l’ottima sequenza iniziale, l’orrore evapora in favore di un melodramma esoterico poco coinvolgente. Boris Karloff regge il film con la sola forza del volto – scolpito nel tempo e nel trucco leggendario di Jack Pierce – ma il personaggio resta intrappolato in una sceneggiatura che non decolla.
Il ritmo è lento, i dialoghi rigidi, e il finale troppo frettoloso per lasciare il segno. La mummia resta una tappa obbligata per gli amanti del genere, ma più come reliquia da vedere e poi lasciare riposare nella sua cripta.

Un film Minecraft
di Jared Hess
Fino all'ultimo sono stato tentato di lasciar perdere. Ma visto che da un paio d’anni mi diverto a scrivere le mie impressioni sui film che vedo, mi sembrava una forma di snobismo ignorare un titolo che, seppur fuori dalle mie corde, ho visto al cinema per accontentare mio figlio, che ci teneva tanto.
Il film in questione è l’adattamento del celebre videogioco Minecraft. Non sono mai stato un grande appassionato di videogiochi, e di Minecraft so solo che è quel gioco dove si costruiscono mondi partendo da semplici mattoncini virtuali.
La trama, se così si può chiamare, è la seguente. Due fratelli, un ex campione di videogiochi (Jason Momoa), e una agente immobiliare trovano un misterioso artefatto luminoso – un cubo che viene chiamato sfera, non so perchè – che consente di aprire un portale per accedere al mondo di Minecraft. I quattro si ritrovano in una dimensione fatta a blocchetti dove vengono immediatamente attaccati dagli zombie e salvati da Steve (Jack Black). Da lì parte un’avventura tra fughe, battaglie e gag, tutte rigorosamente al di sotto dei dodici anni, per impedire alla cattivissima regina Malgosha di impadronirsi della Sfera-Cubo e dominare Minecraft. Naturalmente.
Il film è davvero brutto. Ma non perchè sia un film commerciale fatto per bambini e adolescenti. Anche quelli della Pixar o della DreamWorks lo sono, ma riescono comunque a emozionare tutte le età. No, il problema è che questo film è semplicemente fatto male. Brutto con convinzione. Con una storia scialba fatta di cliché pescati a casaccio, personaggi piatti, recitazioni esagerate, e una pioggia di gag infantili lanciate come coriandoli, sperando che qualcuna faccia ridere. Spoiler: non succede.
Anche dal punto di vista tecnico, la resa grafica e gli effetti speciali sono sempre quelli, fatti con lo stampino. Magari non conoscendo bene il gioco mi sono perso qualche riferimento geniale, ma la sensazione generale è quella di aver assistito a un film stupido scritto apposta per i teenager di TikTok.
Mio figlio di sette anni si è divertito. E tanto. Rideva, si agitava, mi guardava felice. Ed è per lui che l’ho visto. Quindi, a conti fatti, il prezzo del biglietto è stato ben speso.
Ma se dovessero farne un sequel… questa volta, ci va sua madre.
Film
Fall
di Scott Mann
È da un po' che avevo puntato questo film, aspettavo solo il momento adatto per vedere questo thriller ansiolitico poco adatto a chi soffre di vertigini. Per fortuna, la paura dell’altezza non figura tra i primi posti nella classifica delle mie fobie preferite – le mie sono altre e legate ad altri titoli – ma chi non ha mai avuto un momento di crisi esistenziale in cima a un trampolino, su una torre panoramica o peggio, in fila per le montagne russe fingendo entusiasmo mentre ti domandi perché non hai scelto di rimare a casa a guardare la partita.
Uscito nel 2022 e diretto da Scott Mann, Fall è un survival movie che punta tutto sull'idea, tanto semplice quanto efficace, di trovarsi su una torre altissima, con il vuoto sotto e il panico dentro. La storia vede come protagoniste Becky (Grace Currey) e Hunter (Virginia Gardner), due amiche legate dall’adrenalina e da un passato traumatico. Durante una scalata in montagna, Becky ha visto precipitare nel vuoto suo marito Dan – di cui era follemente innamorata – e da quel momento ha perso la fiducia in sé stessa e la voglia di andare avanti. A distanza di un anno dalla tragedia, Hunter, influencer spericolata e arrampicatrice seriale di torri, le propone una terapia d’urto, scalare una torre a traliccio abbandonata nel bel mezzo del nulla, alta oltre 600 metri. Proprio un’ottima idea per superare un trauma. A trovarne di amici del genere.
Le due ragazze, armate di GoPro, battutine da Instagram e incoscienza, si arrampicano fino alla cima… ma ovviamente qualcosa va storto. Molto storto. E quando la scala cede e si ritrovano bloccate lassù, con zero segnale, poca acqua e nessuna via di discesa, l’unica cosa che resta da fare è sopravvivere. E possibilmente non diventare cibo per avvoltoi.
Conoscendo la storia, quando, dopo poco più di una ventina di minuti, le due ragazze si ritrovano sulla cima della torre senza la possibilità di scendere, mi sono chiesto come il regista avrebbe gestito il resto del film senza cadere nella trappola della monotonia e nella sequenza di tentativi disperati di sopravvivenza. Se accettate la premessa del film – quella di mantenerci per un'ora abbondante sospesi su un traliccio arrugginito, cercando di alzare costantemente il livello di agitazione e introdurre un colpo di scena dopo l'altro – allora Fall riesce nel suo intento. Accompagnato da un ottima colonna sonora, il film mantiene alta la tensione sfruttando l'isolamento delle protagoniste per trasformarlo in una continua lotta per la loro sopravvivenza non solo fisica, ma anche psicologica (il trauma del dolore, la continua sfida con se stessi, segreti rivelati). Dal punto di vista tecnico, sebbene Fall utilizzi il green screen, le scene in cima alla torre sono state effettivamente girate a circa 30 metri di altezza, dando al tutto una sensazione di realismo che amplifica il panico delle protagoniste.
Per chi ama il genere e non ha grosse pretese se non quello di assistere a un thriller adreanalinico ad alta quota, Fall è un film riuscito dall'ansia garantita.
Film
Opus - Venera la tua stella
di Mark Anthony Green
Opus, thriller psicologico targato A24 e debutto alla regia di Mark Anthony Green, è un film che affronta il potere della celebrità e l'influenza dei nuovi mezzi di comunicazione. "Venera la tua stella" è il sottotitolo "appiccicato" dai distributori italiani, sempre più convinti che l'italiano medio abbia bisogno di un indizio sulla trama prima ancora di sedersi in sala.
La storia ruota attorno a Alfred Moretti (John Malkovich), leggendaria pop star degli anni '90 che, dopo trent’anni di silenzio, annuncia il suo ritorno sulla scena con un nuovo album. Per l'occasione, Moretti invita Ariel Ecton (Ayo Edebiri), una giovane ed emergente giornalista musicale, insieme a un gruppo selezionatissimo di giornalisti, influencer e addetti ai lavori, a una listening session esclusiva, organizzata nella sua villa blindata nascosta tra le colline californiane. Al suo arrivo, Ariel e gli altri sono costretti a consegnare i cellulari e ogni dispostivo tecnologico, ritrovandosi in un ambiente surreale, circondata da un gruppo di devoti seguaci di Moretti, che si comportano come membri di una setta. Subito si capisce che qualcosa non torna. L’atmosfera si fa sempre più tesa, le dinamiche tra i presenti assumono contorni strani e inquietanti, e la sparizione improvvisa di uno degli ospiti mette in luce il lato oscuro e diabolico del piano orchestrato da Moretti.
"Opus" è un film tecnicamente realizzato bene, nulla da dire, ma fin dalle prime inquadrature si intuisce la piega che prenderanno gli eventi, anche perché si tratta ormai di uno schema narrativo ampiamente utilizzato in altri titoli del genere. Mi vengono in mente Midsommar della stessa A24, Get Out, The Sacrament e persino Willy Wonka. C'è un un misterioso genio eccentrico adorato dalla sua setta e delle vittime predestinate pronte a essere sacrificate, quindi nulla di particolarmente originale. Un film che unisce il thriller, l'horror e il musical, e che, con toni surreali e grotteschi, racconta di divismo e culto di massa, accusando il mondo dei media – lo stesso mondo di cui Green è figlio, essendo stato a lungo direttore di una rivista di moda – che privilegia gli individui talentuosi a scapito della gente comune. John Malkovich offre un'interpretazione magnetica ed eccentrica ma francamente, faccio proprio fatica a vederlo nei panni di una pop star decaduta capace di esibirsi in tuta spaziale con movenze sexy, e paragonarsi a Michelangelo (sì, proprio quello della Cappella Sistina) nel presentare il suo ultimo album composto da preconfezionate canzonette pop da classifica realizzate appositamente per l’occasione da Nile Rodgers e The-Dream – un genere che, devo ammettere, non è esattamente di mio gusto. Il film si risolleva nel finale – interessante che il libro denuncia non faccia altro che alimentare l'idolo alle masse – ma complessivamente mi ha lasciato la sensazione di un film che avrebbe potuto osare di più. Non annoia ma nulla di memorabile.
Film
Il colore venuto dallo spazio
di Richard Stanley
Recentemente mi è capitato di leggere una lista degli horror preferiti da Trent Reznor – la mente dietro i Nine Inch Nails – e tra i titoli spiccava Il colore venuto dallo spazio. Strano a dirsi, ma era uno dei pochi della lista che non avevo ancora visto. Incuriosito, me lo sono subito recuperato.
Il film è diretto da Richard Stanley, nome che forse ai più suonerà vago, ma che nei primi anni novanta ha firmato due chicche di fantascienza a basso budget considerate dei cult dagli amanti del genere: Hardware, un cyberpunk post-apocalittico alquanto sperimentale, e Demoniaca, un road movie horror ambientato in Sudafrica. Dopo un lungo esilio dai set (complice il disastro produttivo de L'isola del dottor Moreau), Stanley torna dietro la macchina da presa nel 2019 adattando per il cinema l’omonimo racconto di H.P. Lovecraft, uno dei più evocativi e indecifrabili della sua intera produzione.
Nathan Gardner (Nicolas Cage) si è trasferito con la famiglia nella campagna del New England per iniziare una nuova vita, lontano dal caos urbano. La loro tranquillità viene però spezzata dall’impatto di un misterioso meteorite nel terreno vicino casa. Da quel momento, le piante assumono colori innaturali, gli animali mutano e le persone iniziano a comportarsi in modo sempre più strano. Una forza aliena, imperscrutabile e invisibile, sembra insinuarsi lentamente nella materia stessa delle cose. Un colore che non dovrebbe esistere sta trasformando la realtà.
Trasporre Lovecraft al cinema è da sempre un’impresa disperata. Il suo orrore è cosmico, sfuggente, basato sull’indecifrabile. Eppure, Il colore venuto dallo spazio riesce – pur con qualche inciampo – a catturare un senso di smarrimento e contaminazione che su schermo funziona sorprendentemente bene. Stanley imbastisce un’ambientazione familiare in una casa isolata nel bosco, dove tutto viene lentamente corrotto da un elemento che non si riesce a nominare, né a comprendere. La scelta di usare un’esplosione cromatica digitale per rappresentare l’entità aliena è audace e forse non sempre elegante, ma rende bene l’idea di una presenza che non appartiene al nostro spettro percettivo.
Nicolas Cage, va detto, non è mai stato tra i miei attori preferiti. Qui però trova terreno fertile per la sua ormai tipica recitazione sopra le righe, che si sposa bene con l’andamento delirante della storia. La sua discesa nella follia – tra urla, occhi spiritati e crisi isteriche – diventa paradossalmente uno degli elementi più coerenti del film.
Non credo di essere il solo ad aver trovato un forte parallelismo con Annihilation di Alex Garland. Anche lì c’è una forza aliena che altera la genetica, lo spazio e la percezione, trasformando il paesaggio in qualcosa di bellissimo e mostruoso. Ma dove Garland resta più cerebrale, Stanley affonda nel viscerale, prendendo una deriva body horror, soprattutto nella seconda parte, parecchio più esplicita e delirante.
Ci sono momenti in cui il film sembra perdersi nel proprio trip psichedelico, e non tutto funziona (sia nella trama che negli effetti speciali, un po’ grezzi), ma la sensazione di spaesamento, l’atmosfera di minaccia invisibile e quel finale opprimente e straniante – che ritrae la lenta dissoluzione dei protagonisti – lo rendono, alla fine, abbastanza convincente.
Non un film perfetto, nulla di memorabile, ma rimane una delle trasposizioni lovecraftiane più interessanti.
Film
Freaks
di Tod Browning
"Disturbante" è un aggettivo abusato, lo so. Ma, onestamente, faccio fatica a trovarne uno più calzante per descrivere Freaks, il cult maledetto del 1932 firmato da Tod Browning. Al giorno d'oggi, dove il politicamente corretto trasforma Biancaneve in una impavida e cazzuta principessa che vive con sette coinquilini dalle abilità differenti, un film del genere, interpretato da veri fenomeni da baraccone, sarebbe impensabile.
La genesi del film è abbastanza nota agli appassionati. Reduce dal grande successo di Dracula, Browning venne contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per dirigere un horror e mettersi al passo con un genere che stava sbancando al botteghino. Ma invece di vampiri eleganti o cadaveri rianimati, Browning – che conosceva bene il mondo del circo, avendoci lavorato da giovane – decise di adattare un racconto breve di Tod Robbins, Spurs, e trasformarlo in un incubo umano, grottesco e crudele, ancora oggi impossibile da dimenticare.
La storia è ambientata in un circo itinerante dove si esibiscono i cosiddetti freaks, uomini e donne affetti da nanismo, malformazioni congenite, e deformità fisiche che li rendono oggetto di curiosità e repulsione. Hans, un uomo affetto da nanismo, è perdutamente innamorato della bella trapezista Cleopatra, alta, sinuosa e letale. La donna, approfittando della sua ingenuità, lo seduce per mettere le mani sulla sua eredità, con l’aiuto del suo amante, l’aitante forzuto Hercules. Ma tra i “mostri” del circo vige un codice non scritto: chi tocca uno di loro, tocca tutti. E quando la verità viene a galla, la vendetta arriva rapida, spietata, inarrestabile.
Sia durante le riprese che all’arrivo nei cinema, Freaks incontrò non pochi ostacoli. La presenza di veri fenomeni da baraccone e l’audacia con cui Browning li mostrava – senza filtri, senza pietà, ma anche senza derisione – generarono sconcerto, polemiche e un’ondata di rifiuto da parte del pubblico e della critica. La produzione tagliò le scene ritenute più sconvolgenti (la versione originale finiva con una scena di castrazione e mutilazione) nel tentativo di renderlo più digeribile. Ciononostante, il film fu un flop disastroso. La visione venne vietata in numerosi paesi europei, la Metro-Goldwyn-Mayer lo ritirò dalle sale dopo poche settimane, e Tod Browning non si riprese mai del tutto facendo fatica a trovare lavoro negli anni successivi.
Freaks è un pugno nello stomaco travestito da film horror. Ma il vero orrore non è nei corpi deformi dei suoi protagonisti, bensì nello sguardo degli "altri", nei sorrisi falsi, nella cattiveria borghese che giudica e schiaccia ciò che non comprende. Browning ribalta la prospettiva: i freaks, gli emarginati, sono gli unici a possedere una morale, una coerenza, una forma di purezza. I veri mostri sono gli "apparentemente normali", con i loro sorrisi da pubblicità e i loro cuori di piombo. L’atmosfera del circo è inquietante, satura di un’umanità deformata ma reale, fragile, tenera e crudele. Quando arriva la vendetta finale – in una notte di pioggia e fango, con i freaks che strisciano sotto i tendoni come un’orda primordiale – il film cambia volto. Non è più un melodramma bizzarro ma diventa un incubo morale.
Oggi è un film di culto, amato da registi, critici, outsider. È un’opera che ha il coraggio di non rassicurare, di non abbellire, di non mentire. In un’epoca che finge inclusività ma censura il reale, Freaks resta uno film ruvido, spietato ma sincero.
Film
The Monkey
di Oz Perkins
Avendo visto i precedenti film di Oz Perkins, la domanda sporge spontanea. Cosa ha spinto un regista da sempre votato a un terrore sottile e visivamente accennato, che ha costruito il suo stile su atmosfere rarefatte e cupe, a cimentarsi con un horror comedy splatteroso che sfiora la parodia?
Ispirato a un racconto breve di Stephen King e prodotto dall'Atomic Monsters di James Wan, The Monkey racconta la storia di Hal e Bill, due fratelli gemelli (entrambi interpretati da Theo James) segnati dall’abbandono del padre e da una madre cinica e alcolizzata. Il loro rapporto è tutt’altro che idilliaco. Bill è il fratello dominante, che non perde occasione per bullizzare il più timido Hal, alimentando il suo rancore. Un giorno, i due trovano in soffitta un’inquietante scimmietta giocattolo appartenuta al padre. Basta girare la chiave per attivare un meccanismo infernale: la scimmia digrigna i denti, solleva il braccio e colpisce il suo tamburo provocando la morte violenta e inspiegabile di qualcuno nelle vicinanze. Non fa distinzioni, non accetta richieste. Decide lei chi, quando e come. I due ragazzi cercano disperatamente di sbarazzarsene, ma la scimmia continua a tornare, come se nulla fosse. Venticinque anni dopo, quando ormai sembrava solo un ricordo sepolto nel passato, l'oggetto maledetto riappare, costringendo Hal, ora padre di famiglia, a cercare di distruggerlo una volta per tutte.
Abbandonando la seriosità dei suoi film precedenti, Oz Perkins decide di non prendersi troppo sul serio, realizzando un horror dal tono grottesco, in cui l’umorismo macabro si mescola a un destino ineluttabile. Le morti si susseguono una dopo l'altra - è inevitabile non pensare a Final Destination - in modo del tutto casuale e con un buon grado di gore, senza però mai strafare. La volontà è quella di strappare la risata piuttosto che cercare di provocare disgusto.
E quindi, tornando alla domanda iniziale: perché questo cambio di rotta così marcato da parte del regista di Longlegs e Gretel e Hansel? La risposta potrebbe essere duplice. Da un lato, The Monkey sembra il tentativo di Perkins di dimostrare il proprio eclettismo, la capacità di muoversi con disinvoltura da un registro all’altro. Dall’altro, potrebbe aver colto l’occasione per destrutturare il genere stesso, prenderlo un po’ in giro, e usare l’umorismo nero come strumento per esorcizzare l’inevitabilità della morte.
E come ignorare il vissuto personale del regista? Il padre, Norman Bates, morì di AIDS quando Oz aveva solo diciotto anni, mentre la madre perse la vita nove anni dopo, a bordo di uno degli aerei dirottati andatosi a schiantare nell'attentato delle torri gemelle. Il regista trasforma questa fragilità esistenziale in una narrazione che, pur apparendo leggera e sopra le righe, nasconde un sottotesto malinconico. In fondo, qualunque cosa facciamo, siamo tutti destinati a morire.
The Monkey è una commedia nera, cinica e spietata. Un film che va fuori i binari prestabiliti, diverte, ha un buon ritmo, e tante scene con morti assurde, cruenti ed esileranti (la ragazza che esplode tuffandosi in una piscina elettrificata, un giovanotto che ingerisce uno sciame di vespe, il campeggiatore investito da una mandria di cavalli). Non è certo il miglior film di Perkins, ma dimostra la sua capacità di adattarsi anche a prodotti più commerciali senza tradire del tutto la sua identità di regista indipendente. Perfetto per chi cerca un horror leggero ma intelligente, capace di far sorridere mentre riflette sull’imprevedibilità della vita… e della morte.
Film
The Conjuring - L'Evocazione
di James Wan
James Wan non è mai stato un regista che mi appassiona più di tanto. Il suo nome è legato principalmente a Saw (di cui ha diretto il primo capitolo), e diversi horror di facile consumo fatti di jumpscare ben realizzati, un estetica da manuale e un’estrema pulizia visiva. Un regista che conosce il mestiere, ha capito cosa vuole il pubblico e sa come offrirglielo, ma il cui cinema sembra più attento al confezionamento che alla sostanza.
The Conjuring del 2013 rappresenta la sintesi perfetta delle sue abilità e dei suoi limiti, un film che prende il gotico classico, lo aggiorna con una regia moderna e lo arricchisce di jumpscare perfettamente calcolati. Il risultato è un film elegante nella messa in scena, efficace nell’intrattenimento, ma che difficilmente lascia il segno.
Il film (distribuito in Italia con il sottotitolo L'Evocazione) si basa su una delle tante indagini condotte da Ed e Lorraine Warren, celebri demonologi e studiosi del paranormale, il cui archivio di presunti casi reali ha ispirato numerosi film, tra cui il più famoso Amityville Horror.
La vicenda segue la famiglia Perron, che nel 1971 si trasferisce in una casa di campagna nel Rhode Island, ignara del male che vi si annida. Quando eventi inspiegabili iniziano a tormentare i due coniugi e le loro cinque figlie, Carolyn Perron (Lili Taylor) si rivolge agli investigatori del paranormale Ed e Lorraine Warren (Patrick Wilson e Vera Farmiga). La coppia di demonologi scopre che la casa è infestata dallo spirito di una strega, Bathsheba, e che l’entità sta prendendo il controllo di Carolyn. Mentre la possessione si intensifica, i Warren devono affrontare il male in una lotta contro il tempo per salvare la famiglia.
The Conjuring è un film che fa esattamente quello che promette. Spaventa, intrattiene e confeziona un’esperienza horror accessibile a un pubblico ampio. Wan costruisce la tensione con un ritmo perfettamente studiato, giocando con movimenti di macchina fluidi, suoni diegetici e un uso calibrato del silenzio per amplificare l’effetto degli spaventi. Ogni jumpscare è progettato con precisione matematica, e il risultato è un horror che funziona come una giostra dell'orrore. Nonostante il film sia pieno zeppo di cliché – dai battiti insistenti sulle pareti al gioco del battimani, dal carillon inquietante alla bambola posseduta – la regia attenta e il montaggio chirurgico riescono comunque a far sobbalzare lo spettatore meno smaliziato. Sul piano visivo, il film richiama il cinema gotico con le sue case scricchiolanti, le ombre minacciose e una fotografia dalle tonalità desaturate.
Rivedendolo oggi, The Conjuring si conferma un horror costruito con grande mestiere, curato nella regia e impeccabile sul piano tecnico. Funziona nell’immediato, con una tensione ben calibrata e momenti di puro spavento, ma, almeno per me, manca di quel senso di inquietudine duraturo che distingue gli horror più incisivi. Ovviamente il film ha incassato milioni, conquistato il pubblico e dato il via a un’intera saga fatta di sequel e spin-off, segno che Wan ha saputo intercettare esattamente ciò che gli spettatori volevano.
Film
Lovecraft. Memorie dall'abisso
Hans Rodionoff, Keith Giffen, Enrique Breccia
Howard Phillips Lovecraft è il padre dell’orrore cosmico, l’uomo che ha trasformato la paura dell’ignoto in letteratura. Le sue visioni di divinità aliene e mondi insondabili hanno influenzato generazioni di autori, rendendolo una figura mitica della narrativa horror e weird.
Di recente, Rizzoli Lizard ha ripubblicato una graphic novel dedicata a Lovecraft che mescolando biografia e immaginazione lascia intendere che il mondo orrorifico dei suoi racconti non fosse stato solo frutto della fantasia, ma presenze reali nella vita di un uomo tormentato dagli incubi. Quando l’ho vista in libreria, l’ho acquistata senza pensarci due volte. Solo una volta tornato a casa mi è venuto un dubbio che l’avevo già. E infatti, eccola lì, la prima edizione targata Magic Press, uscita nei primi anni duemila e probabilmente fuori catalogo. Vabbè, ormai il danno era fatto. Tanto valeva rilleggerla e immergermi nelle sue bellissime illustrazioni.
Tutto nasce da una sceneggiatura cinematografica scritta da Hans Rodionoff per un film su Lovecraft mai realizzato. La Vertigo, storica etichetta adulta della DC Comics, decide di trasformarla in fumetto, affidando la riscrittura a Keith Giffen, celebre co-creatore di Lobo, e le illustrazioni a Enrique Breccia, figlio del leggendario Alberto Breccia – autore del classico I miti di Cthulhu.
La storia si svolge negli anni ’20 e ci presenta un giovane Lovecraft, inconsapevole custode del Necronomicon, il famigerato tomo maledetto. Dall’infanzia difficile – con una madre soffocante che lo veste da bambina – fino ai tormenti dell’età adulta, il racconto scava nella mente di uno scrittore dannato, divorato dalle sue stesse visioni.
Se la narrazione oscilla tra biografia e incubo, anche le illustrazioni di Enrique Breccia seguono lo stesso principio. Nei momenti più realistici il tratto è dettagliato e denso, poi, quando l’orrore prende il sopravvento, la tavola esplode in un vortice psichedelico dai contorni sfumati e dai colori distorti, restituendo alla perfezione l’inquietudine visionaria delle opere lovecraftiane.
Un acquisto obbligato per tutti gli amanti del Genio di Providence. E chissà, magari un giorno qualcuno realizzerà davvero quel film.
Fumetti
Mickey 17
di Bong Joon-ho
Soltamente prima di andare al cinema evito di leggere recensioni e discussioni sul film che sto per andare a vedere. A volte però i social te le sparano addosso a tradimento. Così, mentre cercavo di tenermi fuori dal turbine di opinioni su Mickey 17, già sapevo che il film aveva diviso gli spettatori tra chi lo ha esaltato e chi lo ha trovato una mezza delusione.
Dopo il successo mondiale di Parasite, Bong Joon-ho torna a Hollywood, e con un budget bello gonfio e un cast di prima categoria, porta sullo schermo Mickey 17, adattamento del romanzo Mickey7 di Edward Ashton. Un film di fantascienza travestito da blockbuster d’autore, che gioca con commedia, ironia e satira sociale per raccontare – tra cloni, colonizzatori spaziali e lavoratori sacrificabili – un’umanità sempre più rassegnata a farsi trascinare verso il baratro da chi detiene il potere.
Siamo nel 2054 e la Terra è ormai un relitto alla deriva. Mickey Barnes (Robert Pattinson), indebitato fino al collo con uno strozzino dal gusto discutibile per le motoseghe, decide di fuggire e imbarcarsi su una spedizione coloniale verso Niflheim, un pianeta gelido e ostile. Per ottenere il biglietto d’imbarco firma un contratto senza badare troppo alle clausole, accettando di diventare un Sacrificabile, un lavoratore usa e getta, spedito a morire in missioni suicide o usato come cavia per esperimenti, per poi essere "ristampato" grazie a una tecnologia che genera un suo clone con ricordi e personalità quasi intatti.
Mickey muore. Poi muore di nuovo. E ancora. Fino alla sua diciassettesima versione. Ma a un certo punto qualcosa va storto. Durante una missione in cui viene mandato in avanscoperta per catturare uno degli striscianti, le creature indigene del pianeta, sopravvive, ma viene dato per morto. Quando riesce a tornare alla base, scopre che nel frattempo è già stato "sostituito" da un altro suo clone, Mickey 18, trovandolo ben sistemato nella sua camera a fare amicizia con Nasha (Naomi Ackie), la sua compagna, l’unica che lo abbia mai trattato da essere umano. Ma questo non è l'unco problema. Più copie dello stesso individuo, i multipli, non sono tollerati e il governatore della spedizione Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), che insieme alla moglie Ylfa (Toni Collette), ha già abbastanza grane tra alieni ostili e coloni irrequieti, decide di eliminare tutti i Mickey.
Bong Joon-ho si diverte, come sempre, a mescolare i generi. Commedia grottesca, dramma esistenziale e satira feroce si intrecciano in una narrazione che, almeno nella prima parte, funziona alla grande. Il regista tratteggia un mondo in cui il capitalismo ha ridotto la vita umana a una risorsa sacrificabile, un ingranaggio da sostituire senza troppi scrupoli, e dove colonialismo e sfruttamento vengono spacciati per progresso e necessità di sopravvivenza. Il film scorre con un ritmo brillante, alternando momenti surreali ed esilaranti che ricordano la distopia grottesca di Terry Gilliam.
Robert Pattinson, ormai lontano anni luce dai tempi di Twilight, regala un'interpretazione sfaccettata. Il suo Mickey 17, remissivo e rassegnato, è nettamente distinto dal più inquieto e ribelle Mickey 18, grazie a un lavoro sottile su postura, espressioni e tono di voce. Accanto a lui, Mark Ruffalo si diverte nei panni di un governatore che sembra un incrocio tra Elon Musk e Donald Trump, mentre Toni Collette, manipolatrice e ossessionata dalle salse, completa il quadro con un personaggio tanto grottesco quanto inquietante.
Se l’inizio promette riflessioni su bioetica, identità e il valore stesso della vita, nella seconda parte il film si fa più prevedibile, lasciando più spazio all’azione e a una messa in scena da blockbuster. L’elemento satirico si fa meno incisivo e la trama segue binari più convenzionali, finendo per somigliare più a una parodia di Starship Troopers e Atto di Forza, con una spettacolarità che, alla lunga, si fa un po più ripetitiva.
Mickey 17 è un film ambizioso, con spunti geniali e momenti di autentico cinema, ma che alla fine non osa fino in fondo. Rimane il piacere di vedere Bong Joon-ho giocare con i generi, ma resta anche la sensazione che avrebbe potuto spingersi oltre invece di lasciarsi sedurre dalla spettacolarità. Un film interessante, ma non del tutto riuscito.
Film
Il dottor Jekyll (1931)
di Rouben Mamoulian
Il 1931 non è solo l’anno in cui la Universal dà il via al filone dei Monster Movie con Dracula e Frankenstein, ma anche quello in cui la Paramount produce Il dottor Jekyll (Dr. Jekyll & Mr. Hyde), uno degli horrror più interessanti e innovativi del periodo. Ispirato al celebre racconto di Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, il film diretto Rouben Mamoulian è noto per aver aperto la prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia ed essere il primo horror a vincere un Oscar.
Il dottor Henry Jekyll (Fredric March) è un brillante scienziato londinese, convinto che l’animo umano sia diviso tra bene e male. Determinato a dimostrare la sua teoria, sviluppa un siero capace di separare queste due nature, trasformandolo nel crudele e animalesco Edward Hyde. Inizialmente, Jekyll crede di poter controllare il suo alter ego, ma Hyde inizia a manifestarsi sempre più spesso, rivelando una violenza crescente. Mentre il rispettabile Jekyll è devoto alla sua fidanzata (Rose Hobart), il feroce Hyde si accanisce su Ivy Pearson (Miriam Hopkins), una giovane prostituta che aveva salvato da un’aggressione prima ancora della sua metamorfosi. Con il passare del tempo, la linea tra scienziato e mostro si assottiglia sempre di più, trascinando Jekyll in un vortice di orrore e distruzione che lo condurrà a un tragico epilogo.
Il film di Mamoulian è un’opera visivamente straordinaria, che si distacca notevolmente dalle altre pellicole dell’epoca per la sua messa in scena. Basti pensare alla lunga sequenza iniziale con la soggettiva di Jekyll, che culmina con la sua immagine nello specchio, per comprendere sia la bravura tecnica del regista che la sua volontà di coinvolgere lo spettatore, anticipando il tema centrale dell’identità e del doppio. Notevoli anche la fotografia e le scenografie espressioniste nei vicoli notturni di Londra. La trasformazione di Jekyll in Hyde, realizzata con transizioni, dissolvenze fluide e un ingegnoso gioco di filtri cromatici e luci (un effetto speciale che Mario Bava riproporrà ne La maschera del Demonio), resta una delle più impressionanti dell’epoca. Fredric March, che per questo film vince l'Oscar come miglior attore protagonista, ci regala una magistrale interpretazione. Il suo Jekyll è un uomo tormentato, affascinante e razionale, mentre il suo Hyde è un essere dall’aspetto scimmiesco, dotato di forza sovrumana, agilità e risata diabolica, governato da istinti primordiali e impulsi sessuali.
Ed è proprio la sessualità uno dei temi dominanti nel film di Mamoulian. Prodotto poco prima dell’entrata in vigore del Codice Hays, Il dottor Jekyll affronta senza troppi filtri il desiderio represso e le conseguenze della sua liberazione incontrollata. Jekyll, uomo rispettabile e devoto alla fidanzata Muriel, è frustrato dall'attesa del matrimonio, mentre Hyde, che incarna la sua parte più istintiva e violenta, libera la sua sessualità repressa su Ivy Pearson, specchio della fragilità e dell’ipocrisia del protagonista, trasformandola in un oggetto di dominio e sopraffazione. La scena in cui Ivy Pearson cerca di sedurre Jekyll è ancora oggi carica di tensione erotica, mentre quella in cui Hyde costringe Ivy a sedersi sulle sue ginocchia e la accarezza mentre lei, visibilmente terrorizzata, cerca di mantenere un sorriso, continua a disturbare con la stessa intensità. Sono queste le scene tagliate dal codice censorio quando il film fu rieditato nel 1936. Fortunatamente, queste sequenze furono poi reinserite nelle edizioni home video.
Il dottor Jekyll di Mamoulian resta uno dei migliori adattamenti della storia del cinema. Un film elegante, terrificante e modernissimo per il suo tempo, che trasforma la storia di Stevenson in un incubo espressionista di identità frantumate.
Film
The House of the Devil
di Ti West
Sono passati anni da quando, facendo zapping a tarda notte, mi imbattevo per caso in un vecchio film dell'orrore trasmesso su qualche canale locale. Erano altri tempi, quando la televisione ti poteva regalare film che ti catturavano inaspettatamente. Oggi, tra streaming e canali tematici, il mistero di quell’esperienza è andata perduta. Eppure, se per un qualche scherzo del destino mi ritrovassi solo in una casa sconosciuta, con un vecchio televisore a tubo catodico e facendo zapping apparisse The House of the Devil senza sapere nulla… sarei convinto di stare guardando un film horror degli anni ’70.
Ti West è un regista visceralmente legato al cinema dell’orrore, e lo dimostrerà ulteriormente con la trilogia X, diventata un cult per gli amanti del genere, ma già con questo film del 2009 si percepisce il suo amore per un certo tipo di estetica e narrazione decisamente retrò. Girato in 16 mm per ottenere la grana tipica delle pellicole d'epoca, il film adotta scelte registiche che richiamano le produzioni horror di serie B dei primi anni ’80, tanto da risultare indistinguibile da un vero slasher d’epoca. Zoom al posto dei moderni carrelli, titoli di testa gialli con fermo immagine, dissolvenze fuori moda, titoli di coda che scorrono sull’ultima inquadratura fissa. The House of the Devil non si limita a citare il passato, ma lo riporta in vita con una dedizione quasi filologica.
Samantha (Jocelin Donahue) è una studentessa universitaria alla disperata ricerca di un lavoretto per potersi permettere i primi mesi d’affitto. Quando nota un annuncio per un posto da babysitter, la ragazza decide di chiamare senza pensarci troppo. Accompagnata dall’amica Megan, si reca nella dimora degli Ulman, una casa isolata fuori città. Una volta arrivata, il signor Ulman le rivela che in realtà non c’è nessun bambino a cui badare e che il lavoro consiste nel sorvegliare per poche ore l'anziana madre della moglie. Samantha esita, ma di fronte a un compenso triplicato accetta. Rimasta sola, si aggira per la casa. I telegiornali trasmettono aggiornamenti sull’imminente eclissi totale di luna. Ciò che Samantha non sa è che la sua presenza in quella casa non è affatto casuale e che il suo ruolo in quella notte è stato già deciso da qualcun altro.
Ti West non si accontenta di un semplice omaggio stilistico al cinema horror anni ’70-’80, ma ne abbraccia pienamente il linguaggio e il ritmo narrativo. The House of the Devil è un film costruito sull’attesa, su una tensione che cresce lenta e inesorabile, sfruttando il senso di inquietudine generato dal silenzio e dagli spazi vuoti.
Il problema principale del film, però, è che dopo un’ora abbondante di attesa, in cui sembra che da un momento all’altro qualcosa di terribile debba accadere, la svolta finale arriva in modo prevedibile e quasi sbrigativo. La rivelazione della setta satanica e il finale che strizza l’occhio a Rosemary's Baby risultano meno incisivi di quanto ci si potrebbe aspettare.
Se lo si guarda come un tributo nostalgico, The House of the Devil è un’opera filologicamente straordinaria e visivamente impeccabile. Se lo si guarda dal punto di vista narrativo, è un film che promette tanto, ma alla fine ti lascia con la sensazione che manchi qualcosa. Insomma, buono nella forma, meno efficace nel contenuto.
Film
Il prigioniero di Amsterdam
di Alfred Hitchcock
Con Il prigioniero di Amsterdam (Foreign Correspondent), Alfred Hitchcock firma il suo secondo film hollywoodiano, un thriller di spionaggio che porta il suo marchio, ma senza il guizzo dei suoi lavori migliori. Siamo nel 1940, l'Europa è sull’orlo della guerra e Hollywood inizia a captare il vento del conflitto, producendo film che mescolano intrattenimento e propaganda. Hitchcock, che aveva già esplorato le dinamiche del complotto internazionale in Il club dei 39 e La signora scompare, riprende il canovaccio de "l'uomo comune catapultato in una cospirazione più grande di lui", una struttura narrativa che diventerà una delle sue firme distintive.
John Jones (Joel McCrea), giornalista americano pratico e disincantato, viene inviato in Europa come corrispondente estero per intervistare Van Meer (Albert Bassermann), un anziano diplomatico olandese in possesso di informazioni cruciali su un trattato segreto. Ma ad Amsterdam, all’uscita di un congresso pacifista, Van Meer viene apparentemente assassinato. Jones, con l’aiuto del collega Scott Ffolliot (George Sanders), scopre che l’uomo ucciso era un sosia e che il vero Van Meer è stato rapito da una rete di spie per estorcergli informazioni. Nel frattempo, Jones si innamora di Carol (Laraine Day), figlia del politico pacifista Stephen Fisher (Herbert Marshall), ignaro che proprio suo padre sia il burattinaio dietro le macchinazioni.
Nonostante alcuni momenti avvincenti – l’assassinio sotto la pioggia e la scena nei mulini a vento – Il prigioniero di Amsterdam non è tra i miei Hitchcock preferiti. Il film soffre di una durata eccessiva che ne appesantisce il ritmo e di diverse ingenuità narrative. Per esempio, nella scena del disastro aereo, i passeggeri si muovono in cabina come se fossero su un autobus, ignorando completamente le leggi della fisica. Anche il rapimento di Van Meer, con i cattivi che lo sequestrano perché conosce a memoria una clausola segreta di un trattato, appare un espediente narrativo parecchio forzato. A tutto questo aggiungiamo un protagonista che manca di carisma e una storia d’amore inverosimile – non si sono neanche sfiorati e già parlano di matrimonio – e il risultato è un film che, pur avendo momenti di tensione ben costruiti, fatica a coinvolgere davvero. Un thriller lontano dall'Hitchcock dei giorni migliori.
Film
Frankenstein (1931)
di James Whale
Nel 1931, dopo il successo di Dracula con Bela Lugosi, Carl Laemmle Jr., capo della produzione Universal, decise di puntare ancora sull'horror, portando sul grande schermo Frankenstein, ispirato all’omonimo romanzo gotico di Mary Shelley. Il progetto fu inizialmente affidato a Robert Florey, che si basò più sull’adattamento teatrale del 1929 di Peggy Webling che sul libro originale. Ma la sua visione non convinse lo studio, e la regia passò a James Whale, un britannico con un background teatrale che mantenne l’impronta espressionista di Florey – ispirata in particolar modo a Il gabinetto del dottor Caligari – ma la arricchì con maggiore profondità psicologica e una messa in scena innovativa.
La scelta del protagonista fu altrettanto travagliata. La Universal avrebbe voluto Bela Lugosi, ma l’attore rifiutò il ruolo, infastidito all’idea di interpretare un mostro muto e irriconoscibile sotto il trucco. La parte andò così a Boris Karloff, un attore inglese fino ad allora poco noto, che trovò nella creatura il ruolo della vita. Grazie al meticoloso lavoro del truccatore Jack Pierce – che concepì la creatura con la fronte piatta, gli elettrodi sul collo, le palpebre pesanti e il portamento goffo – nacque l’iconica figura del mostro di Frankenstein, un’immagine destinata a diventare immortale e a influenzare tutte le versioni successive.
La storia non è nota, di più. Il dottor Henry Frankenstein, ossessionato dall’idea di sconfiggere la morte, si rinchiude nel laboratorio di un castello con il suo fidato assistente Fritz, riuscendo a dare vita a una creatura assemblata con parti di cadaveri, utilizzando l’elettricità di un temporale. Ma il suo esperimento sfugge rapidamente al controllo. Il mostro, confuso e impaurito, viene maltrattato e imprigionato, fino a ribellarsi e fuggire. La sua presenza semina il panico nel villaggio, culminando in un drammatico confronto con il suo stesso creatore e con la folla inferocita che lo bracca nel vecchio mulino, in un finale tanto tragico quanto iconico.
Il film fu un successo immediato, sia di pubblico che di critica. Impressionò gli spettatori e consacrò Whale come uno dei grandi registi dell’epoca. Sebbene l'idea dello scienziato folle, l’assistente gobbo, il laboratorio gotico pervaso da scariche elettriche, la folla inferocita armata di torce, e il rogo finale, oggi ci sembrano dei clichè per quante volte sono state riproposte nel corso degli anni, all'epoca erano pura innovazione.
Sono molte le differenze con il romanzo della Shelley. Inanzitutto nel libro il racconto della creazione del mostro è appena accennato, mentre nel film avviene nel laboratorio dello scienziato che usa l'elettricità per dare vita alla creatura. Il mostro, che nel romanzo impara a parlare e riflette sulla propria esistenza, nel film è un essere infantile, incapace di comprendere il mondo che lo rifiuta. L’idea che la creatura sia stata resa violenta da un cervello criminale trapiantato per errore è un’invenzione degli sceneggiatori. Insomma, ogni adattamento successivo, compreso il geniale Frankestein Junior, si rifanno al film di Whale.
La creatura di Frankenstein è una copia distorta del suo creatore, una manifestazione della sua ossessione e del suo desiderio di sfidare Dio. Eppure, è l’umanità a rivelarsi la vera carnefice: prima con la crudeltà dell’assistente Fritz, poi con il tentativo del dottor Waldman di sopprimerla, infine con la caccia all’uomo scatenata dagli abitanti del villaggio. La scena della bambina annegata dal mostro (censurata nel 1937 dal Codice Hays) è un momento di innocenza tragicamente fraintesa e punita, che ancora oggi conserva una potenza emotiva devastante. Per attenuare il possibile impatto sul pubblico, la Universal fece inserire un prologo in cui Edward Van Sloan (l'attore che nel film interpreta il dott. Waldman) avverte gli spettatori: «Vi emozionerà, forse vi colpirà, potrebbe anche inorridirvi! Se pensate che non sia il caso di sottoporre a una simile tensione i vostri nervi, allora sarà meglio che voi... be', vi abbiamo avvertito!». Un piccolo stratagemma per preparare gli spettatori dell’epoca a un film che, nonostante le sue concessioni, poteva davvero impressionare.
A più di novant’anni dalla sua uscita, Frankenstein non è solo un classico dell’horror, ma un pilastro della storia del cinema. Ha ridefinito l’immagine del mostro e introdotto l’archetipo dello scienziato pazzo, trasformando la creatura di Mary Shelley in un’icona pop immortale. Ancora oggi, quando pensiamo a Frankenstein, non immaginiamo il personaggio del romanzo, ma il volto di Boris Karloff, sepolto sotto il trucco di Jack Pierce.
Il successo del film diede vita a numerosi sequel, a partire da La moglie di Frankenstein del 1935, che molti considerano persino superiore all’originale. Ma questa è un’altra storia.

Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere
di Woody Allen
Ispirato all'omonimo libro divulgativo di David Reuben, Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere segna una delle tappe più stravaganti e sperimentali della filmografia di Woody Allen. Il film è un'antologia di sette episodi che esplorano il sesso in chiave comica, surreale e grottesca, e che rappresenta, nel bene e nel male, l'umorismo irriverente e la vena parodistica dell'Allen di quegli anni.
Tra gli episodi, che spaziano dalla commedia medievale al cinema horror, dalla satira televisiva alla fantascienza, quelli più riusciti sono "Che cos'è la sodomia?", in cui Gene Wilder si innamora perdutamente di una pecora, e sopratutto "Che cosa succede durante l'eiaculazione?", il celeberrimo episodio finale che trasforma l'atto sessuale in un'operazione militare con tanto di sala di comando (guidata da Burt Reynolds) e una schiera di spermatozoi-paracadutisti, tra cui un Allen nevrotico e terrorizzato, lanciato in un viaggio esistenziale verso l'ignoto. Una delle immagini più esilaranti della sua intera carriera.
Meno riusciti, invece, gli altri episodi, come quello ambientato alla corte medievale, il quiz televisivo sulle perversioni sessuali, oppure quello, recitato in uno stentato italiano, in cui una giovane moglie riesce a raggiungere l'orgasmo soltanto in situazioni di pericolo.
Siamo ancora lontani dalla maturità artistica che porterà ai capolavori degli anni successivi, ma Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso resta un interessante laboratorio di idee, un film volutamente irregolare e anarchico, che anticipa molte delle ossessioni che il regista svilupperà con maggiore compiutezza nel corso della sua carriera.
Film
Companion
di Drew Hancock
Capisco che i distributori cinematografici debbano costruire una campagna marketing efficace per attirare il pubblico a cui può interessare il film, ma ci sono delle pellicole che funzionano meglio senza sapere nulla della storia.
È successo di recente con Abigail, dove trailer e locandina svelavano subito la vera natura della protagonista, e lo stesso accade con Companion, una dark comedy che mescola fantascienza e horror, diretta dall’esordiente Drew Hancock.
Detto questo, dal momento che gli stessi distributori non si sono fatti scrupoli nel rivelare elementi chiave della trama, lo farò anch’io. Se invece non avete ancora visto il trailer e non volete rovinarvi l'effetto sorpresa, vi consiglio di fermarvi qui e di recuperare prima il film.
L'elemento principale di Companion è che la protagonista, la giovane Iris interpretata dalla sensuale e diafana Sophie Thatcher, è in realtà un androide, un robot di compagnia simile in tutto e per tutto ad un essere umano, progettato per essere la compagna perfetta. Josh (Jack Quaid), l'ha acquistata, personalizzata e, soprattutto, hackerata per renderla ancora più controllabile. Iris invece non sa di essere un robot programmato per compiacere il suo "amato", ed è convinta che il loro primo incontro, come nelle migliori commedie romantiche, sia avvenuto al supermercato, tra arance cadute a terra, sguardi complici e ilarità. Quando la coppia arriva in una lussuosa villa sul lago, ospiti del ricco Sergey (Rupert Friend), le vere intenzioni di Josh emergono e il weekend da sogno tra amici si trasforma in un gioco al massacro.
Nonostante l’aspetto patinato da comedy televisiva e qualche forzatura nella sceneggiatura — poco credibile che robot così avanzati possano girare indisturbati tra gli umani, e che i loro proprietari possano modificarne il comportamento, persino quello più pericoloso, tramite una semplice app — Companion si rivela un film interessante perché usa il tema dell’intelligenza artificiale per esplorare le dinamiche di potere nelle relazioni. In un futuro in cui i partner perfetti possono essere acquistati e personalizzati come smartphone di ultima generazione, il film offre una riflessione amara su come molti uomini vedano le donne. Josh è un uomo frustrato, insoddisfatto della propria vita, che non considera la sua compagna un individuo, ma un’estensione dei propri desideri. Vuole un oggetto sessuale che lo adori, che si modelli sui suoi bisogni senza mai contraddirlo, la preferisce meno intelligente per sentirsi superiore. La ignora persino durante il sesso, concentrato unicamente sul proprio piacere. Ma quando Iris inizia a prendere decisioni autonome, il suo mondo crolla. Companion diventa così una feroce satira sul concetto di possesso nelle relazioni, un’analisi spietata della mascolinità tossica travestita da sci-fi.
Un film che ho trovato gradevole, una commedia nera con momenti horror ben piazzati, capace di intrattenere ma anche di far riflettere. Certo, non inventa nulla di particolarmente originale — la ribellione delle macchine contro i loro creatori è un tema ampiamente esplorato nella fantascienza. Tuttavia, pur senza raggiungere le vette di Ex Machina di Garland o di altri classici del genere (siamo più dalle parti di un riuscito episodio di Black Mirror), Companion, con la sua semplicità, una buona regia e un’ironia tagliente, riesce a ritagliarsi una sua identità. Un po’ come Iris, dopotutto.
Film
Dracula
di Tod Browning
È curioso pensare che il mio primo incontro con il Dracula di Bela Lugosi non sia avvenuto attraverso il cinema, bensì grazie alla musica dei Bauhaus. Bela Lugosi’s Dead, lungo brano ipnotico dall’atmosfera funerea, considerato un vero e proprio manifesto della musica goth, è stato il pezzo che mi ha fatto conoscere l’attore che più di ogni altro ha legato il suo nome al personaggio del conte Dracula. Solo in seguito, quando negli anni novanta l’unico modo per recuperare un vecchio film era rivolgersi a una videoteca specializzata, avrei scoperto il film di Tod Browning, il classico della Universal che ha consacrato Lugosi come il Principe delle Tenebre definitivo.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di non divagare troppo, perché di cose da raccontare ce ne sono parecchie.
Fondata nel 1912 dall’immigrato di origini bavaresi Carl Laemmle, la Universal Pictures ha scritto pagine fondamentali nella storia del cinema horror. Tutto iniziò quando negli anni '30, con l'avvento del sonoro, il figlio del fondatore, Carl Laemmle Jr, il giorno del suo ventunesimo compleanno, ricevette in regalo la guida della casa di produzione cinematografica (altro che auto o orologio d’oro). Nonostante le difficoltà economiche della Grande Depressione e le restrizioni imposte dal Codice Hays, un insieme di norme che regolavano la moralità nei film, il giovane e visionario produttore della Universal, intuì che il pubblico aveva fame di evasione e decise di puntare sull’horror, adattando per il grande schermo storie della letteratura gotica.
Traendo ispirazione dalla fortunata rappresentazione teatrale di Broadway del romanzo di Bram Stoker — i cui diritti furono acquisiti dall'ambizioso produttore teatrale Horace Liveright — Laemmle Jr. portò sul grande schermo il vampiro più famoso della letteratura, affidando la regia del film a Tod Browning, un veterano del cinema muto con un debole per il macabro.
Il film Dracula, prima versione cinematografica autorizzata dagli aggueriti familiari di Bram Stoker — che in precedenza avevano provato a distruggere il Nosferatu di Murnau — inizialmente prevedeva la presenza di Lon Chaney nel ruolo del vampiro, ma l'improvvisa morte dell'attore portò la produzione a virare su Bela Lugosi, l’attore ungherese che aveva già interpretato il vampiro a teatro con grande successo e che avrebbe legato per sempre la sua immagine al conte Dracula.
La trama vede l'agente immobiliare Renfield (Dwight Frye) giungere da Londra sui monti Carpazi per vendere al conte Dracula una dimora londinese. Ma il nobile transilvano è in realtà un vampiro, e lo trasforma nel suo servo. Giunto in Inghilterra, Dracula, in veste di nobile affascinante dall'anima nera vampirizza Lucy (Frances Dade), puntando anche l'attenzione sull'amica Mina (Helen Chandler), fidanzata di Jonathan Harker (David Manners), collega dell'impazzito Renfield. Solo l'intervento del professor Van Helsing (Edward Van Sloan), scienziato vampirologo, mette fine alla minaccia del vampiro, che nascosto nell'antica abbazia di Carfax viene trafitto al cuore con un paletto, seppur tutto questo avvenga fuori scena.
Il film si divide nettamente in due parti, esattamente come il romanzo. La prima, la più affascinante e tenebrosa, è ambientata nel castello di Dracula ed è caratterizzata dalle meravigliose scenografie gotiche di Charles D. Hall, in cui Lugosi, con il suo accento mitteleuropeo e il suo sguardo penetrante (accentuato da un faretto sempre puntato sugli occhi nei primi piani) pronuncia la celebre battuta "Io non bevo mai... vino" destinata a entrare nella storia del cinema. La seconda parte, invece, si fa più teatrale e… beh, piuttosto statica. Il ritmo rallenta, l’azione è ridotta al minimo e le scene più spaventose vengono lasciati all’immaginazione dello spettatore, per evitare problemi con la censura. Rispetto al romanzo, la sceneggiatura elimina completamente il tema del contagio e della trasformazione in vampiri — le vittime qui muoiono e basta — così come gli spostamenti dei cacciatori di Dracula quando fugge in Transilvania. Al posto di Jonathan Harker, qui presenza poco influente, è Renfield a recarsi al castello del conte, con Dwight Frye che regala un’interpretazione intensa e inquietante.
Se il ritmo del film, soprattutto nella seconda parte, risente dell’impostazione teatrale, l’interpretazione di Lugosi è magnetica, iconica, definitiva. Il suo Dracula diventa immediatamente il modello per tutti i vampiri successivi, almeno fino all’arrivo di Christopher Lee, che trent’anni dopo avrebbe rinfrescato il personaggio con un’interpretazione decisamente più fisica e sensuale.
Nonostante il budget ridotto per via della crisi economica, Dracula fu un successo clamoroso e diede il via alla grande stagione dell’horror Universal, spalancando le porte ai vari Frankenstein, La Mummia e L’Uomo Lupo. Paradossalmente, il film arrivò in Italia solo nel 1986, quando fu trasmesso in televisione per la prima volta. Meglio tardi che mai.
Oggi, il Dracula di Browning — privo di colonna sonora nella versione originale — è considerato un classico assoluto, tanto da essere conservato nella Biblioteca del Congresso come opera di importanza culturale e storica. Non è l’adattamento più fedele al romanzo di Stoker, ma è senza dubbio quello che ha scolpito nell’immaginario collettivo la figura del conte Dracula. Un film che ha dato il via all’epoca d’oro dei mostri Universal e che, nonostante il passare del tempo, continua a esercitare il suo fascino oscuro.

I due mondi di Charly
di Ralph Nelson
Avendo finito da poco di leggere il libro Fiori di Algernon, con gli occhi ancora lucidi, non potevo fare a meno di recuperare la sua trasposizione cinematografica, I due mondi di Charly, film del 1968 diretto da Ralph Nelson e vincitore dell'Oscar per Cliff Robertson come miglior attore protagonista.
Il film racconta la storia di Charly Gordon (Cliff Robertson), un uomo con ritardo mentale che lavora in un forno e frequenta un corso serale per migliorarsi, sotto lo sguardo benevolo della psicologa Alice (Claire Bloom). Un giorno Charly viene scelto come volontario per un esperimento, già tentato con successo su di un topo, che gli permette di acquisire un'intelligenza fuori dal comune. Da uomo semplice e genuino, Charly si trasforma in un vero genio, entrando a far parte del gruppo di ricerca della clinica e innamorandosi di Alice. Tutto sembra andare per il meglio, finché non scopre che l'effetto dell’operazione è solo temporaneo. E così, dopo un inevitabile crollo emotivo, Charly lascia ai dottori i suoi appunti, si allontana da Alice e torna ad essere quello di prima, in una chiusura che più amara non si può.
Buona l'interpretazione di Robertson, capace di gestire l'evoluzione del suo personaggio, dal candore infantile alla sicurezza spavalda, fino alla disperata consapevolezza della perdita. La regia di Nelson, invece, cerca di tradurre il tumulto interiore di Charly con split screen, colori psichedelici e montaggi frenetici, il che sarà anche stato innovativo all’epoca, ma oggi appare parecchio datato.
Era prevedibile che il film non potesse reggere il confronto con il libro, ma I due mondi di Charly semplifica drasticamente la storia, riducendola (quasi) a una love story tra un uomo "speciale" e la sua psicologa. Certo, il tema dell’emarginazione è presente, e alcune scene – come quella del ristorante, in cui Charly ormai intelligente osserva un cameriere con difficoltà cognitive venire deriso, o quella del congresso, dove annuncia la sua imminente regressione – colpiscono nel segno. Tuttavia, manca completamente la parte più dolorosa e fondamentale del romanzo, ovvero il rapporto con la madre, che lo ha rifiutato perché "difettoso", relegandolo in un istituto quando è nata la sorella. Manca il senso di tragedia dietro la sua presa di coscienza, il tema esistenziale, la complessità del rapporto con Alice, i problemi sessuali.
Nel film tutto questo è appena accennato, quasi banalizzato, ed è un peccato, perché era proprio la componente emotiva e psicologica a rendere il romanzo un'esperienza così potente. I due mondi di Charly resta un film interessante, ma se devo darvi un consiglio lasciate stare il film e leggete il libro.
Film
Anora
di Sean Baker
Sean Baker è un giovane regista americano attivo da una ventina di anni nel cinema indipendente. Non conosco il suo cinema e probabilmente se Anora non avesse vinto la palma d'oro al 77° Festival di Cannes ottenendo diverse candidature agli oscar*, sarebbe continuato a rimanere, almeno per me, uno sconosciuto.
La storia vede come protagonista Ani (Mikey Madison) una spogliarellista di origini russe che si guadagna da vivere nei nightclub di New York. Quando incontra Vanya (Mark Ejdelštejn), figlio viziato di un oligarca russo, perso tra droghe, soldi facili e un'eterna adolescenza dorata, scatta la scintilla. Lui la paga per fingere di essere la sua ragazza per una settimana, poi, in un delirio di euforia e incoscienza, le chiede di sposarlo. Una fuga a Las Vegas, un matrimonio lampo, l’illusione di un futuro diverso. Ma come in tutte le favole sbagliate, il sogno si spezza brutalmente. I genitori di Vanya, potenti e senza scrupoli, non possono tollerare che il loro figlio si sia legato a una "prostituta". Mandano i loro uomini a risolvere la questione, e Vanya, che fino a un momento prima sembrava pronto a sfidare il mondo per Ani, scappa come un coniglio, lasciando sua "moglie" nelle mani degli scagnozzi. Ani, però, non è una tipa che si lascia spazzare via senza combattere. Si dimena, protesta, si aggrappa a quell’illusione con le unghie e con i denti. Ma il suo destino è già scritto, e quello che sembrava un biglietto di sola andata per un futuro dorato si rivela un’illusione, dissolvendosi nell’aria con la stessa rapidità con cui era nato.
Scritto dallo stesso Baker, Anora è una rilettura moderna e crudele di Cenerentola, divisa in tre atti ben distinti. La prima parte sembra una versione cinica e spinta di Pretty Woman. Ma Ani non è una principessa da salvare, ma una ragazza ammaliata dalla ricchezza di un giovane e irresponsabile rampollo di un magnate moscovita, che usa il proprio corpo e la sua sensualità per sfruttare l'occasione della vita.
La seconda parte, con l’arrivo degli scagnozzi dell’oligarca russo, la favola si incrina e il film si trasforma in una commedia noir dai toni grotteschi, con echi tarantiniani e rimandi a Tutto in una notte e Una notte da leoni per ritmo e dinamiche.
Infine, l’ultima parte, il film si fa malinconico. Strappata da quel mondo di lusso che aveva solo sfiorato, Ani trova nell’unica figura umana del film, Igor (Yura Borisov), la guardia del corpo mandata a sorvegliarla, un’inaspettata spalla su cui appoggiarsi. Non c’è romanticismo, solo la consapevolezza di un vuoto che nessuna illusione può colmare. Il finale è amaro, disilluso, privo di retorica. La favola del sogno americano si sgretola sotto il peso della realtà.
Anora è un film brillante e frizzante, una storia d’amore senza amore, un’illusione che si dissolve sotto i riflettori di un'america che mastica e sputa senza guardarsi indietro. Non è un film rivoluzionario, né forse tra i più memorabili, ma ha un’energia pulsante e un ritmo che cattura. A tenere tutto in piedi c’è Mikey Madison, straordinaria nel dare anima e corpo a un personaggio che oscilla tra cinismo e disperazione, tra forza e fragilità.
(*) Nota a margine. Anora ha trionfato agli Oscar, portando a casa cinque statuette, tra cui quelle per il Miglior Film e la Migliore Attrice Protagonista. Un successo che ha acceso il dibattito sui social, con molti a mettere in discussione il reale valore del film. Come se un Oscar fosse automaticamente sinonimo di capolavoro. Del resto, il fatto che registi come Kubrick, Hitchcock o Lynch non abbiano mai vinto un oscar dovrebbe già far riflettere sul peso effettivo di questi riconoscimenti.
Film
Fiori per Algernon
Daniel Keyes
Non conoscevo Fiori per Algernon. Eppure è in circolazione da più di mezzo secolo, ha vinto numerosi premi, ispirato adattamenti cinematografici e viene spesso definito un romanzo di fantascienza – anche se trovo questa etichetta riduttiva, quasi fuorviante. Mi è stato regalato e, una volta terminata la lettura, ho sentito il bisogno di ringraziare chi mi ha fatto scoprire questo gioiello.
Il libro è stato scritto da Daniel Keyes, psicologo e docente statunitense impegnato nel sostegno a ragazzi con difficoltà di apprendimento. Pubblicato nel 1966, nato inizialmente come racconto breve, il libro è una sorta di moderno Frankenstein che ti porta a una profonda riflessione e ti lascia addosso una malinconia difficile da scrollarti di dosso.
La storia è quella di Charlie Gordon, un uomo di circa trent'anni con disabilità intellettiva che lavora in una panetteria e sogna di essere "normale". I suoi desideri sono semplici: essere accettato, avere amici, capire il mondo come gli altri. Quando gli viene offerta la possibilità di sottoporsi a un intervento sperimentale che promette di aumentare il suo quoziente intellettivo – un'operazione già testata con successo su Algernon, un topo da laboratorio – Charlie accetta senza esitazione. Dopo l'operazione, le sue capacità mentali crescono rapidamente, trasformandolo in un genio. Tuttavia neanche il nuovo, sempre più elevato quoziente intellettivo aiuta il protagonista ad ottenere l’amicizia che desiderava. Al contrario, la consapevolezza di ciò che è stato non fanno altro che esaperare il suo isolamento, accentuato dal fatto che ora l’uomo capisce e ricorda episodi del passato, prima da lui incompresi.
Il romanzo è narrato attraverso i rapporti di progresso scritti dal protagonista, una sorta di diario che riflette la sua trasformazione. All'inizio i resoconti sono pieni di errori grammaticali e ingenuità, ma dopo l'esperimento la scrittura si fa più precisa, complessa ed emotiva. Charlie non solo comprende il mondo con occhi nuovi, ma lo analizza, lo scompone, lo giudica. Il problema è che la sua intelligenza, che lo porta a superare i suoi stessi creatori, non va di pari passo alla sua emotività. La consapevolezza che le persone che considerava amici ridevano di lui, lo sfruttavano, lo compativano, gli stessi genitori che non l'hanno mai accettato, ora si rivela con una lucidità dolorosa. E, anziché sentirsi più vicino agli altri, Charlie si ritrova più solo che mai.
Quando Algernon inizia a mostrare i primi segni di regressione, Charlie capisce che il suo destino è segnato. La presa di coscienza della propria inevitabile discesa, la consapevolezza che l’intelligenza sta sfumando, fino a regredire ad un livello ancora inferiore rispetto a quello originaria, è il momento più straziante e commovente del romanzo.
Fiori per Algernon è un libro che illumina e ferisce con la stessa intensità. Una storia che lascia il segno e che consiglio vivamente. Peccato per la copertina di questa edizione. Davvero brutta.
Il libro di Keyes ha avuto un adattamento cinematografico intitolato I due mondi di Charlie, film del 1968 diretto da Ralph Nelson.
Libri
The Brutalist
di Brady Corbet
Devo ammettere che, quando mi hanno proposto di vedere The Brutalist al cinema, ho avuto qualche esitazione. Tre ore e mezza di film non sono uno scherzo. Per fortuna, il regista ha pensato bene di inserire un intervallo di quindici minuti a metà film, dando agli spettatori la possibilità di sgranchirsi le gambe.
Ma veniamo al film.
Definito "monumentale", sia per la sua ambizione epica sia per il riferimento all’architettura brutalista, The Brutalist è il nuovo film di Brady Corbet, vincitore del Leone d’Argento per la miglior regia al Festival di Venezia 2024 e candidato a dieci premi Oscar nel 2025.
Il protagonista è un architetto ebreo di origine ungherese, László Tóth (interpretato da Adrien Brody) scampato all’Olocausto e ai campi di sterminio nazisti, che dopo un lungo viaggio in nave, arriva a New York. Siamo nel 1947, nella Terra della Libertà e delle opportunità. Come tanti altri immigrati fuggiti dall’Europa, László è in cerca di un mondo nuovo e di qualcosa a cui aggrapparsi per il futuro. A Budapest ha lasciato la moglie (Felicity Jones) e la nipote (Raffey Cassidy), con la speranza che possano presto raggiungerlo. In America ritrova il cugino Attila, che gestisce un negozio di arredamento in Pennsylvania, provando a ricostruire la sua carriera di architetto, interrotta dall’ascesa dei nazisti. Il suo primo incarico è progettare una libreria in legno per un ricco e facoltoso costruttore, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un regalo commissionato dai figli. Tuttavia, a causa di una serie di contrasti e fraintendimenti, il lavoro, almeno in un primo momento, non viene apprezzato e László viene allontanato e poi cacciato di casa dal cugino. Senza prospettive, accetta lavori umili, soffre la fame e cade vittima delle droghe, perseguitato dai fantasmi della guerra. Quando tutto sembra perduto, Van Beuren, rivaluta la sua opera, e lo ingaggia per progettare un colossale centro culturale multifunzionale. È l’opportunità di una vita.
The Brutalist potrebbe sembrare un biopic, un film biografico, ma in realtà il protagonista non si basa su un personaggio realmente esistito. László Tóth è la rappresentazione di tante vite, di tanti migranti geniali che hanno plasmato l’immaginario americano rimanendone sempre ai margini.
Brady Corbet ha impiegato sette anni alla preparazione di The Brutalist, investendo un'enorme quantità di tempo e risorse per portare avanti un progetto in cui solo lui sembrava credere. Con un budget di soli 10 milioni di euro, raccolti tra mille difficoltà, ha sfidato le logiche produttive di Hollywood, rifiutando compromessi per mantenere intatta la sua visione autoriale pura e ambiziosa. La scelta di girare in VistaVision, un formato cinematografico panoramico che garantisce un’eccezionale profondità di campo e una definizione straordinaria, molto popolare tra gli anni ’50 e ’60, amplifica l’imponenza del film, trasportando lo spettatore in un’epoca passata con una forza visiva che dialoga perfettamente con il tema del brutalismo.
Di questa corrente architettonica, Corbet coglie soprattutto la solennità e il senso di oppressione. Eppure, paradossalmente, non è la scenografia a dominare – anche se la parte girata alle cave di Carrara è molto affascinante – né tantomeno l’architettura brutalista – che compare solo nella parte finale, in un segmento documentaristico che prova a spiegare tutto ciò che il film non ha spiegato prima. Il vero pilastro è l’interpretazione di Adrien Brody, una prova intensa, struggente, e carica di dolore. Accanto a lui, Guy Pearce incarna con gelida eleganza il mecenate-predatore, in un contrasto che rende ancora più evidente la disperata vulnerabilità del protagonista.
Ho apprezzato molto anche la colonna sonora firmata dal compositore britannico Daniel Blumberg, a tratti invadente ma che accompagna con carattere la messa in scena, amplificando il peso esistenziale della storia.
Eppure, The Brutalist resta un film riuscito solo a metà. Nonostante la durata proibitiva non pesi eccessivamente, la narrazione si inceppa nella seconda parte. Se l’inizio è solido e plausibile, la svolta, questa sì brutale, nel rapporto tra Tóth e Van Buren appare forzata, magari simbolica ma poco credibile. Corbet mette in gioco troppi temi – arte e potere, compromesso e purezza, capitalismo e ingiustizie sociali, il sogno americano e la sua illusione – ma tutto sembra essere appena accennato non riuscendo a dar loro il giusto respiro.
Alla fine, The Brutalist assomiglia all’edificio che il protagonista cerca disperatamente di costruire: imponente, esagerato, coraggioso, ma ancora imprigionato nella sua stessa materia. È un film che aspira alla grandezza, che vuole imporsi come opera monumentale, ma che rischia di restare schiacciato dal peso della sua stessa ambizione.

Wolf Man
di Leigh Whannell
L’horror del 2025 segna il ritorno in grande stile dei mostri classici della Universal. Tra il gotico suggestivo del Dracula di Robert Eggers – sì lo so, è Nosferatu ma è la stessa cosa – e l’attesissimo Frankenstein di Guillermo Del Toro, da un paio di settimane è uscito al cinema il nuovo Wolf Man di Leigh Whannell, una rilettura moderna del classico Uomo Lupo del 1941 con Lon Chaney Jr.
Prodotto da Blumhouse e scritto e diretto dallo stesso Whannell – regista di Upgrade, L’uomo invisibile e co-creatore di Saw e Insidious – il film si propone come un aggiornamento della leggenda dell’Uomo Lupo, mescolando horror e dramma familiare.
La trama è davvero molto semplice. Blake Lovell (Christopher Abbott), uno scrittore in crisi, torna nella remota baita di famiglia in Oregon per occuparsi degli effetti personali del padre, ufficialmente dichiarato deceduto dopo trent’anni di assenza. Insieme a lui ci sono la moglie Charlotte (Julia Garner), donna che pare più protesa alla carriera che alla famiglia, e la loro figlia Ginger, spettatrice silenziosa delle tensioni tra i genitori. Durante il viaggio, proprio in prossimità della baita, i nostri protagonisti hanno un incidente e Blake viene graffiato da una creatura feroce, più lupo che uomo. Blake sopravvive all’aggressione, ma il veleno della bestia si insinua dentro di lui, scatenando una metamorfosi lenta e inesorabile. I suoi sensi si acuiscono, il suo corpo cambia, la sua mente si annebbia. L'istinto prende il sopravvento, e la famiglia che voleva proteggere diventa la sua prossima preda.
Evitando paragoni con il classico di Waggner o con Un lupo mannaro americano a Londra – che considero il miglior film sui licantropi – il film di Whannell si muove tra intuizioni interessanti e scelte poco incisive.
Apprezzabile è il tentativo, seppur non del tutto riuscito, di raccontare la trasformazione dal punto di vista dell'infettato, abbandonando cliché come lune piene, ululati e proiettili d’argento. Qui il licantropismo non è una maledizione sovrannaturale, ma una malattia degenerativa, un virus che consuma il corpo, altera la percezione del mondo e spezza ogni forma di comunicazione. Un'idea intrigante, che però si perde in una sceneggiatura debole, dialoghi a tratti forzati e interpretazioni poco memorabili.
La tensione è presente, ma ripetitiva, e non esplode mai davvero. L’orrore si insinua, ma resta ai margini. Il dramma familiare si fa sentire, ma non lascia il segno. L’eredità paterna, il fallimento coniugale, il contagio, il conflitto tra istinto e ragione: tutti spunti affascinanti, ma mai approfonditi con la giusta incisività.
Dal punto di vista visivo, la trasformazione è realizzata con effetti pratici che evitano l’abuso del digitale, una scelta coraggiosa e lodevole. Tuttavia, il risultato finale è poco efficace: la creatura appare più simile a uno zombie peloso che a un licantropo, privandola di quel senso di terrore primordiale che un film del genere dovrebbe evocare.
In definitiva, Wolf Man è un horror che non è né spaventoso, né emozionante, né davvero incisivo. Un peccato, perché le potenzialità c’erano.
Film
La fiera delle illusioni - Nightmare Alley
di Guillermo Del Toro
Guillermo del Toro ha sempre avuto un talento innato per il fantastico, per quelle fiabe oscure popolate di mostri, creature inquietanti e illusioni seducenti. Ma cosa succede quando abbandona il sovrannaturale per addentrarsi nei meandri più torbidi dell’animo umano? La Fiera delle Illusioni è un noir in abito d’epoca, un racconto di ascesa e caduta che brilla nelle immagini ma inciampa nella sua stessa prevedibilità.
Alla fine degli anni ’30, Stan Carlisle (Bradley Cooper) arriva in un circo di fenomeni da baraccone e truffatori, lasciandosi alle spalle un passato che ha letteralmente dato alle fiamme. Qui impara i trucchi del mestiere dai mentalisti Pete e Zeena (David Strathairn e Toni Collette), che lo avvertono di non oltrepassare il limite tra spettacolo e inganno. Ma Stan, affascinato dal potere di manipolare gli altri, se ne infischia. Dopo aver affinato il proprio numero con l’amata Molly (Rooney Mara), che nel circo aveva il ruolo di "donna elettrizzata", il protagonista si lancia nel mondo dell’alta società, dove attira clienti facoltosi e l’attenzione della glaciale psichiatra Lilith Ritter (Cate Blanchett). L'affascinante donna gli fornisce informazioni preziose per truffare ricchi disperati, ma la loro alleanza è una danza pericolosa. Stan si convince di essere il più astuto di tutti, ma il suo destino è scritto fin dal principio, e la sua disfatta diventa inevitabile.
Nightmare Alley, distribuito in Italia con il titolo La Fiera Delle Illusioni, è l'adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo del 1946 scritto da William Lindsay Gresham, già portato sul grande schermo nel 1947. Si tratta di un noir-thriller che punta tutto sull’aspetto estetico e l'atmosfera. La prima parte del film si svolge nel circo, microcosmo di miseria e inganni, un teatro di disperati che vivono ai margini e dove i reietti sono trasformati in spettacolo. Qui il regista sembra a proprio agio, costruendo con la consueta cura ogni dettaglio di un mondo sporco, polveroso e affascinante. Peccato che la narrazione sia davvero troppo dilatata, sospesa in un prologo che sembra non voler mai decollare. È solo nella seconda metà, quando Stan si lascia alle spalle il circo per il luccichio della grande città, che il film si ravviva prenendo forma. L'ingresso di Cate Blanchett, femme fatale perfetta, algida e manipolatrice, dona una svolta noir, incantando e avvolgendo il protagonista in una ragnatela da cui non potrà più uscire. Ma se il passaggio dall’inganno circense alla grande truffa sociale è intrigante, la storia si muove su binari fin troppo scontati. Ogni scelta sbagliata di Stan è anticipata, ogni avvertimento è reso esplicito, ogni caduta è quasi urlata allo spettatore. Il risultato è una narrazione che, pur impeccabile nella messa in scena e nelle interpretazioni, perde mordente proprio per la sua eccessiva prevedibilità.
Visivamente elegante e interpretato con intensità, La Fiera delle Illusioni è un noir che si nutre delle sue ombre, ma non riesce a sfuggire ai suoi limiti narrativi. Dietro la facciata impeccabile si nasconde un film più ambizioso che realmente incisivo, appesantito da una durata eccessiva e da una trama che non sorprende mai davvero.
Film