
Mulholland Drive
di David Lynch
Se dovessi stilare una classifica dei miei film preferiti, Mulholland Drive occuperebbe senza esitazione il primo posto. Nutro un amore viscerale per David Lynch e una venerazione profonda per Mulholland Drive che considero un capolavoro.
Secondo una classifica della BBC che ha coinvolto 177 critici cinematografici di 36 paesi, Mulholland Drive è considerato il miglior film del ventunesimo secolo. Un film enigmatico, stratificato, che ha generato fiumi di interpretazioni, saggi, recensioni, e analisi di ogni tipo. Al di là delle parole, vedere un film di Lynch non è mai semplicemente "guardare un film". È un’esperienza. E Mulholland Drive è, forse, la sua manifestazione più sublime.
Mulholland Drive nasce nel 1999 come un progetto televisivo destinato alla ABC, concepito come pilota di una serie che avrebbe dovuto proseguire l'eredità di Twin Peaks. Nonostante l'entusiasmo iniziale, la ABC rifiutò il progetto, giudicandolo troppo oscuro, lento e confuso per il pubblico televisivo mainstream. Dopo il rifiuto, Lynch si trovò con un'opera incompleta, senza una destinazione e con nessun produttore americano disposto a finanziare il film. Fu grazie all'intervento del produttore francese Pierre Edelman e al sostegno finanziario di StudioCanal che il progetto trovò nuova vita. Lynch riscrisse e ampliò la sceneggiatura, aggiungendo nuove scene che trasformarono il pilota in un film completo. Le riprese aggiuntive si svolsero nell'ottobre del 2000, con un finanziamento di 7 milioni di dollari.
Il risultato fu un'opera che trascendeva le convenzioni narrative, mescolando realtà e sogno in un'esperienza cinematografica unica. Mulholland Drive venne presentato al Festival di Cannes nel 2001, dove Lynch vinse il premio per la miglior regia, consacrando il film come uno dei capolavori del cinema contemporaneo.
A grandi linee, la trama di Mulholland Drive è la seguente.
Una misteriosa donna (Laura Harring) scampata a un incidente d’auto lungo la celebre strada collinare di Los Angeles si rifugia, spaesata e priva di memoria, in un appartamento apparentemente disabitato. Poco dopo, nello stesso appartamento arriva Betty (Naomi Watts), un’aspirante attrice dal sorriso luminoso, appena atterrata a Hollywood con il sogno di sfondare nel cinema. Dall'incontro tra le due ragazze nasce un legame ambiguo e intenso, mentre insieme tentano di scoprire l’identità perduta di Rita (il nome adottato dalla sconosciuta) seguendo una serie di indizi che si fanno via via più oscuri.
Nel frattempo un regista hollywoodiano (Justin Theroux) viene minacciato da grotteschi e ambigui mafiosi affinche scelga l'attrice che dovrà interpretare il ruolo della protagonista del suo prossimo film. Un killer pasticcione, un uomo terrorizzato da un sogno ambientato dietro un ristorante, un cowboy enigmatico, e uno spettacolo teatrale dove tutto è finto ma sembra tremendamente reale, completano un mosaico narrativo dove i confini tra realtà e illusione si dissolvono.
Chi ama Lynch sa che non bisogna cercare un senso razionale nelle sue storie. Il suo cinema non chiede di essere capito, ma vissuto. È un’esperienza da attraversare lasciandosi trasportare dalle suggestioni, dai simboli, dai sogni che si mescolano alla realtà e all’inconscio. Eppure, tra Lost Highway, Mulholland Drive, e Inland Empire — quella che potremmo chiamare, seppur con qualche forzatura, la sua trilogia del sogno — è proprio Mulholland Drive a essere il più leggibile e comprensibile. E allora, proviamo a rimettere insieme i pezzi di questo intricato puzzle.
Da qui in avanti, inevitabilmente, partono gli spoiler.
Il film si divide, sostanzialmente, in due parti. La prima è il sogno. O forse una realtà alternativa, un mondo interiore, un rifugio dell’inconscio. In questa dimensione la protagonista, Naomi Watts, è Betty, un’aspirante attrice appena arrivata a Hollywood e ospite in un appartamento elegante, ingenua ma determinata, piena di talento. È bella, luminosa, e al suo primo provino incanta tutti con una performance sbalorditiva. Incontra Rita (Laura Harring), donna misteriosa colpita da amnesia, e tra le due nasce una complicità profonda, anche sentimentale. Tutto sembra andare per il verso giusto, finché Betty apre una scatola blu — oggetto simbolico e portale — e la realtà, o qualcosa che ci somiglia, irrompe.
Da quel momento in poi tutto si ribalta. Il sogno svanisce. Betty non è più Betty, ma Diane. E Rita è Camilla. Diane è un’attrice fallita, frustrata, spezzata. Vive nell’ombra di Camilla, che invece è affermata, desiderata, sicura di sé. La loro relazione è sbilanciata, tossica, e quando Diane scopre che Camilla sta per sposare un regista (Justin Theroux), sopraffatta dalla gelosia e dal senso d’abbandono, assolda un killer per eliminarla. Ma non regge il peso del suo stesso gesto. Mentalmente devastata, trova rifugio proprio nel sogno che abbiamo visto nella prima parte, per poi — incalzata dal senso di colpa e dalla disgregazione psichica — togliersi la vita.
Mulholland Drive è un gioco a incastri, una struttura a specchio dove sogno e realtà, conscio e inconscio, desiderio e trauma si confondono, si fondono, si rincorrono. Lynch non ci fornisce una spiegazione univoca, ma dissemina indizi, frammenti, immagini ricorrenti. Non ci guida, ci abbandona dolcemente nel labirinto.
Ma Mulholland Drive è anche – forse soprattutto – una feroce, allucinata critica al sistema hollywoodiano, a quella macchina patinata e crudele che promette sogni e spesso restituisce incubi. Hollywood è una trappola emotiva, un meccanismo che plasma e distrugge, che premia l’immagine e punisce la fragilità. Betty arriva con entusiasmo e talento, ma viene risucchiata in un mondo fatto di poteri invisibili, scelte imposte, manipolazioni subdole. Adam, il regista, è costretto a cedere alle pressioni di oscuri burattinai, incapace di difendere la propria libertà creativa. Tutto è recitazione. Tutto è illusione.
E poi c’è Naomi Watts, che in questo film firma una delle prove attoriali più intense e devastanti degli ultimi decenni. Il suo coinvolgimento emotivo va oltre la finzione. Prima di Mulholland Drive, Watts faticava a emergere. Anni di rifiuti, ruoli minori, provini falliti. Era arrivata a pensare di smettere, a sfiorare l’idea del suicidio. Lynch non sceglie solo un’attrice, sceglie una ferita aperta. Una donna che ha conosciuto il lato oscuro del sogno hollywoodiano. Betty e Diane non sono solo personaggi. Sono due volti della stessa ossessione. E Naomi Watts le interpreta con una verità così disarmante da lasciare il segno per sempre.
Tralasciando la trama, il senso, la narrazione — che poi è forse l’ultima cosa che interessava davvero a Lynch — Mulholland Drive è costellato di sequenze magistrali, capaci di far accapponare la pelle.
Partiamo da una delle prime scene, tra le più inquietanti dell’intero film, quella in cui un uomo racconta a un amico di aver sognato il locale in cui si trovano. Nel sogno, dietro al ristorante, si nasconde una figura orribile, la cui sola presenza gli provoca un terrore profondo. Quando i due escono per controllare, la creatura appare davvero. L’uomo crolla a terra, sopraffatto dallo shock. Apparentemente slegata dalla trama principale, questa scena è in realtà una potente metafora, un incubo che prende corpo, o forse un sogno dentro un altro sogno. Il mostro dietro il diner è l’incarnazione dell’orrore rimosso, la parte più oscura della psiche, il prezzo da pagare per inseguire un sogno o di chi ha commissionato un omicidio. Una sequenza di meno di cinque minuti, girata in pieno giorno, che culmina con quello che potremmo definire un vero e proprio jumpscare, ma di una raffinatezza inquietante: tensione pura, orrore viscerale, senza bisogno di ombre o buio. Magistrale.
Proseguiamo con la scena del cowboy, in un luogo isolato e illuminato a intermittenza — cifra stilistica inconfondibile di Lynch — in cui un personaggio dal volto impassibile pronuncia un dialogo criptico e inquietante, che sembra venire da un’altra dimensione. O con quella del caffè, in cui uno dei fratelli Castigliane (interpretato da Angelo Badalamenti, storico compositore lynchiano e autore della bellissima colonna sonora del film) siede al tavolo con i produttori e il regista del film. Beve l’espresso servito dal cameriere e, con glaciale disprezzo, lo sputa nel tovagliolo. Un gesto teatrale e volutamente disturbante, che comunica autorità, potere, e intimidazione.
Ma la scena più potente resta senza dubbio quella del Club Silencio. Le due protagoniste entrano in un teatro decadente. Sul palco, un personaggio luciferino rivela la finzione: "No hay banda… tutto è registrato". La musica, la voce, le emozioni: nulla è reale. Poi arriva la cantante Rebekah Del Rio, che canta Llorando con un’intensità straziante, prima di crollare a terra, mentre la sua voce continua a riempire il teatro. È il punto di rottura. La consapevolezza che tutto ciò che Betty ha vissuto è una costruzione mentale, un sogno artificiale per sfuggire a una realtà intollerabile. Ma è anche una riflessione meta-cinematografica sulla natura stessa del cinema: finzione capace di toccare il vero. Sublime.
Mulholland Drive, che Lynch descrisse come "una storia d’amore nella città dei sogni", è la quintessenza del suo cinema. Un profondo atto d’amore per la settima arte, ma anche un bilancio esistenziale del regista. Un film fatto di misteri, visioni oniriche, simboli nascosti, bruschi salti narrativi, venature grottesche e una tensione psicologica costante — il tutto orchestrato con un montaggio ipnotico e una tecnica impeccabile. Un capolavoro del cinema moderno.
Ho visto Mulholland Drive per la prima volta al cinema, quando uscì nel 2000. Ricordo perfettamente, all’uscita dal cinema, il senso di smarrimento, la sensazione di non aver capito nulla della storia, ma al tempo stesso di essere stato profondamente scosso, emotivamente travolto. È uno di quei rari film capaci di smuoverti dentro senza bisogno di spiegazioni. Pochi giorni dopo, sono tornato a vederlo di nuovo, sempre al cinema. Da allora, l’avrò rivisto almeno una decina di volte. E ogni volta è come se fosse la prima: cambia, si trasforma, rivela qualcosa di nuovo. Come un sogno che ti rimane addosso. Eterno e inafferrabile
Grazie maestro.

The Place
di Paolo Genovese
Dopo il successo di Perfetti Sconosciuti, il regista romano Paolo Genovese realizza nel 2017 un film insolito e per certi versi coraggioso. Adattamento della serie americana The Booth at the End, The Place è una sorta di thriller esistenziale, decisamente teatrale, basato prevalentemente su dialoghi e tensione psicologica.
Il film è ambientato tutto all’interno di un bar dove un enigmatico personaggio senza nome (Valerio Mastandrea), seduto sempre allo stesso tavolo, prende appunti su una vissuta agenda, mentre una sfilata di personaggi, si alternano, sedendosi di fronte a lui, con richieste che vanno dal disperato al delirante. Un poliziotto che cerca suo figlio (Marco Giallini), una suora che ha perso la fede (Alba Rohrwacher), un padre disperato che vuole salvare la vita del proprio bambino (Vinicio Marchioni), un meccanico che sogna una notte di sesso con una pinup da calendario (Rocco Papapaleo), una donna anziana che desidera che il marito guarisca (Giulia Lazzarini), un delinquente che vuole liberarsi del padre oppressivo (Silvio Muccino), un cieco che vorrebbe riacquistare la vista (Alessandro Borghi), una ragazza ossessionata dalla bellezza (Silvia D'Amico) e un altra che vuole riconquistare suo marito (Vittoria Puccini). Lui ascolta, prende appunti e poi propone una soluzione. Ma niente è gratis, ogni desiderio ha un prezzo e la moneta di scambio è un’azione – spesso immorale, talvolta orribile – che i personaggi dovranno compiere. Il punto non è tanto cosa vogliono, ma fino a che punto sono disposti a spingersi per ottenerlo.
A osservare il tutto c’è la cameriera del bar (Sabrina Ferilli), incuriosita da quell’uomo che passa le giornate a parlare con chi gli siede di fronte, che a fine serata si siede al suo tavolo cercando di svelare il mistero dietro quel volto impassibile. Chi è davvero? Un emissario divino? Il diavolo in incognito? O semplicemente uno specchio della natura umana, capace solo di mostrare il peggio che si cela dentro ognuno di noi?
Il film punta tutto su un’impostazione teatrale, un cast corale, un unico spazio, pochi movimenti, tanti primi piani e dialoghi a raffica. Scelta affascinante, ma alla lunga un po’ ripetitiva. Il cinema di solito si muove, qui invece resta fermo, lasciando allo spettatore il compito di immaginare cosa accada fuori. Più che un film, sembra di leggere un romanzo.
Mastandrea è perfetto nel ruolo dell’enigmatico burattinaio, cupo, imperscrutabile, con un velo di malinconia che lo rende ancora più inquietante. Gli altri? Più che personaggi, sembrano archetipi con poco spessore. E poi alcuni proprio non li reggo, ma questo è un problema mio.
Genovese ha il merito di non essersi adagiato sul successo di Perfetti Sconosciuti, provando una strada più rischiosa e anticommerciale. Peccato che The Place non inciampi tanto sull’idea – che non è neanche originalissima – quanto sulla sua realizzazione. Tante domande, poche risposte, e nella seconda metà il film si sfilaccia con personaggi che spariscono, trame che si annodano senza sciogliersi, e un finale che non incide quanto dovrebbe.
Un’occasione mancata? Forse. Ma almeno è un tentativo di portare qualcosa di diverso nel cinema italiano.
Film
M - Il mostro di Düsseldorf
di Fritz Lang
Il regista austriaco Fritz Lang non ha solo realizzato il primo film di fantascienza della storia del cinema, Metropolis, ma ha anche gettato le fondamenta del noir e del thriller psicologico, portando sullo schermo il primo serial killer cinematografico.
A quasi un secolo dalla sua uscita, M - Il mostro di Düsseldorf è un capolavoro del cinema espressionista che ha influenzato generazioni di registi. Un classico senza tempo in cui Lang si cimenta per la prima volta con il sonoro, sfruttandolo non come semplice supporto, ma come vero e proprio elemento narrativo.
Il film, ambientato a Berlino, sembra essere stato ispirato ai crimini avvenuti a Düsseldorf nel 1925. Sebbene il regista abbia sempre negato tale collegamento, in Italia hanno pensato bene di distribuirlo con un titolo che richiama esplicitamente il caso di cronaca (nell'originale tedesco il film si intitola semplicemente M).
Il film narra la storia di Hans Beckert (Peter Lorre), un maniaco che attira, violenta e poi uccide delle bambine. La città è terrorizzata, e la polizia, messa sotto pressione dall'opinione pubblica, brancola nel buio rastrellando i bassifondi e creando difficoltà alla criminalità organizzata. Stanchi delle retate dei poliziotti, le organizzazioni criminali della città decidono di collaborare mettendosi anche loro alla caccia dell’assassino. Saranno proprio i criminali a trovarlo per primi, grazie all'aiuto di un mendicante cieco che ne riconosce il fischiettio, segnandolo con una "M" tracciata col gesso sul suo cappotto. Inseguito, braccato, e infine catturato dai criminali, Beckert viene portato di fronte a un tribunale improvvisato, dove l’assassino, fino a quel momento quasi muto, si abbandona a un monologo disperato, cercando di spiegare il tormento interiore che lo spinge a uccidere. Ma può esserci comprensione per un simile orrore?
Fritz Lang, al suo primo film sonoro, sfrutta la nuova tecnologia rivoluzionando il linguaggio cinematografico. Il suono diventa parte integrante della narrazione, come nella scena in cui il mendicante cieco riconosce il killer proprio grazie al suo fischiettio, oppure in quella iniziale, dove una filastrocca infantile cantata dai bambini preannuncia la tragedia. Nei primi dieci minuti Lang condensa un intero trattato sulla suspense visiva e sonora. Con un montaggio alternato vediamo una madre che prepara il pranzo mentre la figlia, di ritorno da scuola, si ferma a giocare in strada. La bambina fa rimbalzare una palla su un palo. Il "mostro" si avvicina, ma Lang ce lo mostra solo attraverso la sua ombra minacciosa, proiettata su un manifesto con la sua taglia. Poi, con un montaggio chirurgico, si alternano un piatto vuoto sul tavolo da pranzo, una palla che rotola nell’erba e poi si ferma, una rampa di scale deserta, la voce sempre più angosciata della madre che chiama la figlia invano. Infine, un palloncino, comprato dall'assassino, che vola via, incastrandosi nei fili della luce prima di sparire nel cielo. In poche immagini, senza bisogno di mostrarlo, Lang ci racconta l'orrore che si è compiuto.



L’intero film è costruito su un’alternanza tra forze che dovrebbero opporsi, ma finiscono per specchiarsi l’una nell’altra. La polizia e la malavita, entrambe impegnate nella caccia all’assassino, si rivelano due volti della stessa medaglia. Lang utilizza un montaggio alternato che crea parallelismi inquietanti tra le loro metodologie, fino a rendere indistinguibile chi dovrebbe rappresentare l’ordine e chi il caos. È una riflessione amara su una società in cui la giustizia ufficiale è lenta e impotente, mentre quella sommaria è feroce e inappellabile.
Visivamente, M eredita l'estetica dell’espressionismo tedesco, ma la rinnova con un realismo urbano che amplifica il senso di claustrofobia. Ombre allungate, angolazioni vertiginose, e vicoli soffocanti in una città che diventa un labirinto dove il male si nasconde ovunque. Lang non mostra mai la violenza ma la suggerisce con dettagli minimi ma devastanti. Il risultato è un’atmosfera opprimente e un senso di pericolo costante.
La potenza del film risiede anche nella grande interpretazione di Peter Lorre nel ruolo del mostro. Con il suo volto tondo, gli occhi sporgenti e la postura dimessa, incarna un serial killer sfuggente, quasi invisibile tra la folla. Per gran parte del film è un’ombra, un’idea più che un uomo. Ma nella scena finale, davanti al tribunale improvvisato della malavita, esplode in un monologo disperato che ribalta ogni certezza, un assassino che si dice vittima, e che diventa non più un mostro inumano, ma un essere fragile, divorato da pulsioni incontrollabili.
Alla fine, Lang non offre risposte. Chi ha il diritto di giudicare? La giustizia ufficiale, fredda e impotente, o quella sommaria della strada? M è un film che non chiude il cerchio, lasciando lo spettatore con un’eco inquietante. La caccia all’uomo si trasforma in una furia collettiva, un presagio oscuro di ciò che sarebbe accaduto nella Germania nazista, dove il bisogno di un colpevole avrebbe presto giustificato ogni abuso. Una società che non sa vedere, che abbandona gli individui ai loro demoni, è essa stessa responsabile del mostro che ha generato.
Film
La fiera delle illusioni - Nightmare Alley
di Guillermo Del Toro
Guillermo del Toro ha sempre avuto un talento innato per il fantastico, per quelle fiabe oscure popolate di mostri, creature inquietanti e illusioni seducenti. Ma cosa succede quando abbandona il sovrannaturale per addentrarsi nei meandri più torbidi dell’animo umano? La Fiera delle Illusioni è un noir in abito d’epoca, un racconto di ascesa e caduta che brilla nelle immagini ma inciampa nella sua stessa prevedibilità.
Alla fine degli anni ’30, Stan Carlisle (Bradley Cooper) arriva in un circo di fenomeni da baraccone e truffatori, lasciandosi alle spalle un passato che ha letteralmente dato alle fiamme. Qui impara i trucchi del mestiere dai mentalisti Pete e Zeena (David Strathairn e Toni Collette), che lo avvertono di non oltrepassare il limite tra spettacolo e inganno. Ma Stan, affascinato dal potere di manipolare gli altri, se ne infischia. Dopo aver affinato il proprio numero con l’amata Molly (Rooney Mara), che nel circo aveva il ruolo di "donna elettrizzata", il protagonista si lancia nel mondo dell’alta società, dove attira clienti facoltosi e l’attenzione della glaciale psichiatra Lilith Ritter (Cate Blanchett). L'affascinante donna gli fornisce informazioni preziose per truffare ricchi disperati, ma la loro alleanza è una danza pericolosa. Stan si convince di essere il più astuto di tutti, ma il suo destino è scritto fin dal principio, e la sua disfatta diventa inevitabile.
Nightmare Alley, distribuito in Italia con il titolo La Fiera Delle Illusioni, è l'adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo del 1946 scritto da William Lindsay Gresham, già portato sul grande schermo nel 1947. Si tratta di un noir-thriller che punta tutto sull’aspetto estetico e l'atmosfera. La prima parte del film si svolge nel circo, microcosmo di miseria e inganni, un teatro di disperati che vivono ai margini e dove i reietti sono trasformati in spettacolo. Qui il regista sembra a proprio agio, costruendo con la consueta cura ogni dettaglio di un mondo sporco, polveroso e affascinante. Peccato che la narrazione sia davvero troppo dilatata, sospesa in un prologo che sembra non voler mai decollare. È solo nella seconda metà, quando Stan si lascia alle spalle il circo per il luccichio della grande città, che il film si ravviva prenendo forma. L'ingresso di Cate Blanchett, femme fatale perfetta, algida e manipolatrice, dona una svolta noir, incantando e avvolgendo il protagonista in una ragnatela da cui non potrà più uscire. Ma se il passaggio dall’inganno circense alla grande truffa sociale è intrigante, la storia si muove su binari fin troppo scontati. Ogni scelta sbagliata di Stan è anticipata, ogni avvertimento è reso esplicito, ogni caduta è quasi urlata allo spettatore. Il risultato è una narrazione che, pur impeccabile nella messa in scena e nelle interpretazioni, perde mordente proprio per la sua eccessiva prevedibilità.
Visivamente elegante e interpretato con intensità, La Fiera delle Illusioni è un noir che si nutre delle sue ombre, ma non riesce a sfuggire ai suoi limiti narrativi. Dietro la facciata impeccabile si nasconde un film più ambizioso che realmente incisivo, appesantito da una durata eccessiva e da una trama che non sorprende mai davvero.
Film
Decision to leave
di Park Chan-wook
Premiato per la migliore regia al Festival di Cannes 2022, Decision to leave è un intricato noir sentimentale del talentuoso regista sudcoreano Park Chan-wook, l'autore di Mr. Vendetta, Old Boy, Lady Vendetta e tanto altro.
La trama si concentra su Jang Hae-jun (magistralmente interpretato da Park Hae-il), un detective sposato che soffre di insonnia e che si ritrova a indagare sulla morte di un uomo precipitato da una montagna durante una scalata. La principale sospettata è la vedova Seo-Rae (Tang Wei), una misteriosa donna di origini cinesi che presenta sul corpo dei graffi e delle contusioni. Nel corso dell'indagine, fatto da interrogazioni caratterizzate da delle incomprensioni linguistiche/culturali e dai continui e prolungati appostamenti, Hae-jun sviluppa una sorta di attrazione ossessiva per Hae-jun che lo portano a mettere in dubbio il suo senso del dovere e a spezzare la sua integrità morale.
Il film omaggia il cinema di Hitchcock, richiamando in particolare La donna che visse due volte. L'ossessione del protagonista nei confronti della femme fatale sospettata dell'omicidio del marito (e successivamente di un secondo marito) viene descritta da Park Chan-wook in modo del tutto personale, mescolando generi e stili con grande maestria tecnica. Un montaggio quasi sperimentale e una regia impeccabile su una storia dotata di una buona dose di ironia e di una profonda intensità emotiva che racconta un amore struggente destinato alla tragedia.
Un film dallo stile unico e innovativo ma che forse necessita di una seconda visione. Probabilmente il fatto di averlo visto in seconda serata, quindi un pò assonnato, il montaggio serrato, e una trama un pò articolata, sopratutto nella seconda parte, mi ha fatto perdere qualche passaggio lasciandomi un pò di confusione. Lo vorrei rivedere perchè dal punto di vista stilistico è un vero gioiello.

Copenhagen Cowboy
Nicolas Wending Refn
Nicolas Winding Refn è un regista che si ama o si odia.
Io adoro molto la sua estetica visiva ma capisco le motivazioni di coloro che lo trovano pretenzioso e poco accessibile. Il suo stile estremamente stilizzato, con lunghe sequenze silenziose e una cura dell'immagine che spesso sacrifica la narrazione, per molti può risultare alienante, almeno per chi cerca un racconto più tradizionale o immediato. In effetti, Refn non è interessato a raccontare storie convenzionali, il suo cinema è più una sorta di esperienza sensoriale, una discesa nell'atmosfera e nel simbolismo. Coloro che non lo apprezzano lo accusano di mettere la forma sopra la sostanza, ma per me è proprio questa audacia visiva e narrativa che lo rende unico e affascinante.
Copenhagen Cowboy è la sua seconda serie televisiva dopo Too Old to Die Young. Si può vederla su Netflix.
Protagonista è una ragazza di nome Miu, una sorta di eroina in tuta monoespressiva che viene venduta e usata come amuleto perchè in grado di conferire fortuna a chi gli sta vicino.
Ambientata nel sottobosco criminale di Copenaghen, la serie può sembrare molto criptica e di difficile lettura (in particolar modo i primi episodi) discostandosi completamente dai canoni classici delle serie tv. I ritmi lenti e ipnotici non appartengono al mondo delle produzioni commerciali e, proprio per questo, affascinano chi riesce a sintonizzarsi sulla stessa frequenza. Non ci sono facili risposte, non ci sono dialoghi esplicativi, ma un mondo opprimente e alienante che si svela piano, come se fosse un sogno dal quale non ci si può svegliare. Memorabili le inquadrature a 360°. Bellissima la fotografia e la colonna sonora.
Alla fine della serie (6 episodi), Copenhagen Cowboy non offre una chiusura tradizionale. La sensazione è quella che potrebbe esserci una seconda stagione. Staremo a vedere.

Drive
di Nicolas Wending Refn
Drive del 2011 è il film che ha fatto conoscere Nicolas Wending Refn al grande pubblico e che gli ha fatto vincere nello stesso anno il premio come miglior regia al festival di Cannes.
Basato sull'omonimo romanzo noir di James Sallis, Drive vede come protagonista uno stunt-man che lavora nel cinema (Ryan Gosling) che per racimolare qualche soldo, occasionalmente fa il pilota ad alcuni rapinatori di banche durante i loro colpi. Il "driver" - il protagonista non viene mai chiamato per nome - è un tipo schivo e taciturno la cui vita, per certi versi monotona, viene scossa dall'incontro di una donna (Carey Mulligan), madre di un bambino e sposata con un tizio uscito da poco di galera. I due diventano amici finendo invischiati in un pericoloso giro mafioso.
Drive è un action movie decisamente particolare in cui i ritmi adrenalitici tipici del genere rallentano improvvisamente dando spazio a lunghe sequenze che vanno in sottrazione. Potremmo definirlo un Blockbuster d'autore con alcune scene memorabili (tra queste c'è sicuramente quella dell'ascensore).
La regia di Refn è asciutta e dettagliata con delle inquadrature geometricamente perfette ed equilibrate. Ottima fotografia così come la colonna sonora elettronica affidata a Cliff Martinez. Un noir americano con uno stile tutto europeo.