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giovedì, 8 maggio 2025
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Buffalo '66

di Vincent Gallo

Buffalo '66 è un film a cui sono molto affezionato e che rivedo spesso volentieri. Sarà che l'ho visto per la prima volta in un particolare momento della mia vita, ma da allora mi è rimasto addosso. L’autore di questa pellicola è Vincent Gallo, artista poliedrico e controverso, difficile da incasellare. Attore, regista, musicista e pittore, ha costruito attorno a sé l’immagine di un personaggio sopra le righe, in costante attrito con l’industria cinematografica e, a volte, persino con il proprio pubblico. Amato e detestato con la stessa intensità, è proprio con Buffalo '66 — film del 1998 che ha scritto, diretto, prodotto, montato, musicato e interpretato — che Gallo si è consacrato come figura di culto del cinema indipendente americano. Peccato che, dopo questo esordio folgorante, abbia fatto ben poco.

Il film vede come protagonista Billy Brown, interpretato dallo stesso Vincent Gallo, che esce di prigione dopo aver scontato una condanna per un crimine che non ha commesso. Per saldare un debito di gioco, avendo perso una scommessa sulla vittoria dei Buffalo Bills al Super Bowl, è stato costretto da un allibratore senza scrupoli (Mickey Rourke) a prendersi la colpa e trascorrere cinque anni di carcere al posto del vero colpevole. Tornato a Buffalo, la sua città natale, Billy, ragazzo disadattato e nevrotico, segnato da traumi e gravi carenze affettive, contatta i genitori, a cui aveva raccontato di essere stato via per lavoro, di avere una carriera brillante e una moglie. Quando la madre insiste al telefono per incontrare la "nuora", Billy, in preda al panico, rapisce d’istinto una giovane ballerina, Layla (Christina Ricci), trovata per caso in una scuola di danza, costringendola a fingersi sua moglie per la visita a casa dei suoi genitori — con i quali, peraltro, non ha alcun tipo di rapporto reale.
Il pranzo con la madre (Anjelica Huston) e il padre (Ben Gazzara) di Billy, rivela un ambiente familiare freddo e disfunzionale. La madre, ossessionata dai Buffalo Bills, sembra più interessata alla squadra di football che al figlio, mentre il padre si comporta in modo distante, ambiguo e vagamente molesto. Nonostante l’assurdità della situazione, Layla sceglie di restare con Billy anche dopo il pranzo, forse attratta da lui, forse mossa da un impulso empatico. I due trascorrono insieme il resto della giornata — tra una sala da bowling, un ristorante e un motel — mentre Billy cova in segreto un proposito di vendetta: uccidere il giocatore della squadra dei Buffalo, Scott Wood, colpevole secondo lui di aver sbagliato di proposito il calcio decisivo che lo ha rovinato. Ignara di tutto, Layla diventa il contrappunto gentile alla rabbia trattenuta di Billy, in un viaggio che oscilla tra amarezza, tenerezza e disperazione.

Buffalo '66 è una storia triste, malinconica e surreale. L’incontro tra due anime sole e sbandate, ambientato in una decadente provincia americana, che si consuma nell’arco di una singola giornata e si trasforma in un legame fragile e profondo, fatto di silenzi, gesti impacciati e desideri inespressi. È un film sgraziato, imperfetto, ma con un’enorme anima. Un’opera dalla bellezza sghemba, costruita su intuizioni visive personali e potenti. Vincent Gallo, al suo esordio, dal punto di vista tecnico e registico fornisce una grande prova giocando con pellicole invertite e formati inusuali che restituiscono una texture granulosa, desaturata e onirica. Le inquadrature statiche, simmetriche, spesso spiazzanti, contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa e rarefatta.
Pur non essendo dichiaratamente autobiografico, il film attinge a piene mani dalla vita di Vincent Gallo, trasformando la sua esperienza familiare e il suo disagio esistenziale nei fili della trama. Il Billy Brown interpretato da Gallo è uno schizofrenico trattenuto, figlio di due genitori anaffettivi, incapace di relazionarsi col mondo e con le donne. Vorrebbe amare, ma ha paura del contatto, del lasciarsi andare, della fiducia. Alterna crisi verbali nevrotiche a momenti di totale distanza emotiva. Come nella scena delle fototessere, dove il suo sguardo è completamente assente segnato da una profonda tristezza, oppure durante il surreale pranzo con i suoi genitori. Proprio quest'ultima scena è tra le più emblematiche del film, anche dal punto di vista registico. In un silenzio imbarazzante che a tratti diventa grottesco, si innestano flashback che raccontano l’infanzia di Billy. Il più straziante è forse quello in cui la madre gli offre dei dolcetti al cioccolato, mentre sullo schermo si apre un riquadro che mostra un flashback con il piccolo Billy con il volto gonfio, allergico proprio a quel cibo che la madre dovrebbe sapere gli fa male. 
Christina Ricci è semplicemente perfetta. La scena in cui balla il tip-tap sulle note eteree di Moonchild dei King Crimson, in una sala da bowling diventata improvvisamente deserta, è uno dei momenti più poetici e intensi del film. Ricci ha una bellezza dirompente e fuori dagli schemi, una specie di fata turchina curvy, goffa, sensuale e innocente allo stesso tempo. Una bellezza non omologata, più forte di qualsiasi retorica sull’inclusività. Il suo personaggio, Layla, di cui non sappiamo nulla, è uno specchio scomposto del protagonista. Anche lei probabilmente abbandonata, forse anch’essa in cerca di calore, si lascia trasportare in questo rapporto tossico senza mai sembrare davvero succube. C’è qualcosa in lei di teneramente squilibrato, come se la sindrome di Stoccolma si trasformasse in una forma pura, infantile, di amore incondizionato. È proprio la presenza della Ricci a dare luce e malinconia al film. I suoi silenzi, le frasi fuori luogo, gli sguardi pieni e stranianti. Rimane impressa nella memoria. Come quando, a tavola, cerca di conversare con la madre di Billy, interpretata da una glaciale e inquietante Anjelica Huston. O quando, più tardi, divide con Billy il letto di un motel in una scena sospesa tra imbarazzo, pudore e tenerezza.

Buffalo '66 è una storia d’amore assurda, astrusa, struggente e improbabile. Quasi impossibile credere che una ragazza possa accettare la violenza iniziale del protagonista, eppure il film lavora in una dimensione emotiva alternativa, dove il surreale prende il posto del plausibile. È un racconto di solitudini che si sfiorano, si riconoscono e, forse, si salvano a vicenda.
Da vecchio amante del prog-rock, oltre la già citata canzone dei King Crimson, non posso non ricordare anche Heart of the Sunrise degli Yes, che accompagna la sequenza finale nel locale a luci rosse, con i fermo immagine alla Matrix.

Sognante, poetico, a tratti angosciante, Buffalo '66 è un film profondamente malinconico, ma non disperato. Parla della fragilità, del disagio di chi si sente fuori posto in un mondo che lo ha respinto fin dall’inizio.
Un piccolo capolavoro indipendente che, ancora oggi, riesce a emozionarmi come la prima volta. Peccato che Vincent Gallo, dopo questo film, non si sia più davvero ripetuto.

Film
Drammatico
USA
1998
Retrospettiva
martedì, 18 marzo 2025
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Ring (1998)

di Hideo Nakata

All'inizio degli anni 2000, il J-Horror – l'horror giapponese – ha riscritto le regole della paura nel cinema occidentale. Non più carneficine splatter o esorcismi spettacolari, ma un terrore sottile, insinuante, fatto di presenze inquietanti, spiriti e maledizioni. 
Ring, il film del 1998 diretto da Hideo Nakata (erroneamente conosciuto come Ringu a causa di una traduzione errata su alcuni poster internazionali), nonostante l'uscita, l'anno precedente, di un altro grande esponente del genere, Cure di Kiyoshi Kurosawa, segna a tutti gli effetti la rinascita del J-Horror a livello internazionale. Il successo di The Ring, il remake americano nel 2002, ha reso il J-Horror un fenomeno globale, con il film di Nakata – che ricordiamo essere tratto dall'omonimo romanzo di Koji Suzuki – che diventa il capostipite di un'intera corrente cinematografica, generando una lunga scia di sequel, remake e imitazioni.

Le storie dell'orrore giapponese affondano le radici nel folklore e nelle leggende tradizionali. Tra le figure più ricorrenti troviamo gli yurei, fantasmi vendicativi dal volto cadaverico e dai lunghi capelli neri, ispirati alle credenze shintoiste e buddiste sulla vita dopo la morte. La vera peculiarità del J-Horror sta nella sua capacità di portare queste antiche figure nell’era moderna, fondendo tradizione e tecnologia. Videocassette maledette, telefoni cellulari, macchine fotografiche e computer diventano i nuovi vettori dell'orrore, strumenti attraverso cui il sovrannaturale si insinua nella quotidianità, trasformando oggetti comuni in portali verso l'incubo.

La storia è ormai ben nota. La giornalista Reiko Asakawa sta indagando sulla misteriosa morte della nipote e di alcuni suoi amici, deceduti in circostanze inspiegabili. Le sue ricerche la portano a scoprire una leggenda metropolitana che si sta diffondendo tra gli adolescenti: chiunque guardi una certa videocassetta riceve subito dopo una telefonata che annuncia la sua morte entro una settimana. Decisa a scoprire la verità, Reiko si reca nello stesso luogo in cui la nipote e i suoi amici hanno trascorso l’ultima notte e lì trova la videocassetta. La guarda. Sullo schermo scorrono immagini inquietanti e apparentemente scollegate: una donna che si pettina davanti a uno specchio, un pozzo abbandonato, strani simboli privi di logica. Terminata la visione, il telefono squilla e capisce di essere anche lei vittima della maledizione.  Disperata, chiede aiuto al suo ex marito, Ryuji, un professore di psicologia che, pur dimostrandosi scettico, le chiede una copia della videocassetta per analizzarla e aiutarla a risolvere il mistero. Le indagini conducono i due sull’isola di Oshima, dove anni prima vivevano la sensitiva Shizuko e sua figlia Sadako, una bambina dotata di spaventosi poteri paranormali, segnata da un destino tragico. La situazione precipita quando anche il figlioletto di Reiko, Yoichi, inconsapevole del pericolo, guarda la videocassetta venendo colpito dalla maledizione.

Sadako, il fantasma vestito di bianco dai lunghi capelli che le coprono il volto, che striscia fuori dallo schermo del televisore, è diventata una delle figure più spaventose e riconoscibili dell’horror moderno. La sua maledizione è un contagio che si propaga come un virus, alimentandosi della paura stessa delle sue vittime. Guardare il video significa diventare testimoni della sua sofferenza e, di conseguenza, condannarsi a condividere la rabbia di chi è stato sepolto vivo in un pozzo e abbandonato a una morte solitaria. L’unico modo per sopravvivere? Diffondere la maledizione, farla proliferare. Una metafora brutale e cinica che può essere letta in molti modi: dalla necessità umana di tramandare il proprio dolore alla riflessione sul ruolo dei media nel diffondere ansie collettive.

A livello visivo e narrativo, Ring non si affida alle classiche meccaniche da jumpscare. Nakata costruisce un’atmosfera opprimente, fatta di silenzi, inquadrature dilatate, dettagli che insinuano disagio. È un horror che si comporta come un thriller investigativo, in cui l’orrore emerge lentamente, fino a diventare inevitabile in un finale che presenta una delle sequenze più iconiche della storia recente del genere.

Dal punto di vista personale, la mia esperienza con Ring è stata influenzata dal fatto di aver visto prima il remake americano del 2002, diretto da Gore Verbinski. Il film di Nakata è arrivato in Italia solo l'anno successivo, in DVD, spinto dal successo ottenuto dal rifacimento americano. Pur non amando l’abitudine hollywoodiana di acquistare i diritti di un film straniero per rifarlo su misura del proprio pubblico, devo ammettere che The Ring, quello americano, mi ha terrorizzato molto più dell’originale, forse perché lo vidi per primo, al cinema, senza alcuna idea di cosa aspettarmi. Il ritmo più serrato, la fotografia cupa e alcune scene di puro orrore mi sono rimaste impresse nella memoria. È stato proprio grazie al remake che ho scoperto il film di Nakata, mi sono letto il romanzo di Suzuki e ho iniziato ad appassionarmi all’horror giapponese. Tornando al film di Nakata, e rivendendolo oggi a distanza di anni, sebbene sia evidente il low budget e una fotografia molto televisiva, ho apprezzato la costruzione lenta e la capacità di insinuare inquietudine senza affidarsi agli spaventi facili. Ring non è un horror costruito sull’effetto sorpresa, ma sulla tensione psicologica, sull'invisibile che si insinua nella quotidianità, lasciando che l’orrore si manifesti in modo sottile e inesorabile.

L’influenza di Ring è stata immensa. Ha generato un filone di horror giapponesi con spiriti vendicativi (da Ju-On a Dark Water), ha avuto sequel, prequel, rifacimenti coreani e americani, fino a ibridi come Sadako vs Kayako. 
È un cult, non solo per il J-Horror, ma per il cinema dell’orrore in generale. Un film che ha ridefinito l’idea stessa di paura, dimostrando che l’orrore più efficace è quello che si insinua nella mente dello spettatore.

Film
Horror
giappone
1998
Retrospettiva

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