
I vitelloni
di Federico Fellini
Secondo film di Federico Fellini e Leone d'argento alla Mostra del Cinema di Venezia del 1953, I Vitelloni è un dichiarato omaggio alla Rimini della giovinezza del regista – anche se, per esigenze cinematografiche, la città fu interamente ricostruita nei dintorni di Roma.
I Vitelloni è un racconto semi-autobiografico che segue un gruppo di amici in una sonnacchiosa città di provincia affacciata sul mare, sospesi in un eterno limbo tra adolescenza e maturità. Troppo grandi per giocare, troppo pigri per lavorare. Moraldo (Franco Interlenghi), l’osservatore silenzioso, guarda tutto con distacco malinconico. Fausto (Franco Fabrizi), il donnaiolo incallito, continua a inseguire gonne anche dopo aver messo incinta Sandra, sorella di Moraldo. Alberto (Alberto Sordi), immaturo e teatrale, vive con una madre invadente e una sorella che sogna di scappare. Leopoldo (Leopoldo Trieste) scrive drammi teatrali che nessuno legge. Riccardo (Riccardo Fellini, fratello di Federico) canta alle feste sperando di strappare almeno un applauso.
Le loro giornate passano tra passeggiate senza meta, scherzi da caserma, sbornie, sogni di gloria e realtà da cui scappare. Fausto si sposa controvoglia, lavora per finta e tradisce per abitudine. Alberto fa il buffone ma ha dentro un groviglio di inquietudini. Leopoldo sogna il palcoscenico, ma resta in panchina. Solo Moraldo, alla fine, sembra davvero voler cambiare, e parte, forse per salvarsi.
Li chiamavano "vitelloni", oggi li chiameremmo "bamboccioni". Trent’anni suonati, ancora a casa con mamma, niente voglia di crescere, nessuna intenzione di assumersi responsabilità. Ma I Vitelloni non è un’accusa. È un ritratto affettuoso e amarognolo, che mescola ironia e malinconia per raccontare una generazione immobile, cresciuta all’ombra del dovere e incapace di affacciarsi al futuro. Fellini – che in Moraldo mette un po’ di sé stesso – costruisce una commedia amarissima, punteggiata da momenti irresistibili (la sbornia di Sordi, la scena iconica dell'"ombrello" agli operai) e venature neorealiste che già tendono verso qualcos’altro. Nella sequenza del carnevale si intravede già chiaramente il tratto onirico del Fellini che verrà.
I cinque protagonisti sono sbruffoni, inconcludenti, talvolta irritanti – ma a loro modo restano teneri e riconoscibili. Mi hanno ricordato, per certi versi, i protagonisti di Amici miei. Stessi scherzi da osteria, stesso senso di vuoto sotto la superficie goliardica. Solo che lì sono uomini di mezza età, qui sono ragazzi che faticano ad abbandonare l'adolescenza.
Curiosamente, all’epoca, il film fu accolto con freddezza. Alberto Sordi veniva da due flop ed era inviso a pubblico e critica. Fellini dovette persino rinunciare a metterlo nei titoli di testa, pur di averlo nel cast. Fa sorridere, col senno di poi, se si pensa che proprio lui regala una delle scene più iconiche della storia del nostro cinema.
Detto ciò, confesso che I Vitelloni non mi ha particolarmente entusiasmato. Non sono mai stato un grande fan del neorealismo all'italiana, e oggi certe lentezze, alcune ovvietà narrative, si fanno sentire. Il personaggio di Fausto, poi, con quel suo modo da mascalzone piagnucoloso, mi ha messo a dura prova. Ma questo è un problema mio. Le qualità del film sono evidenti – regia elegante, scrittura solida, personaggi scolpiti con precisione – solo che non sempre si incastrano con la mia personale sensibilità. Resta comunque un film fondamentale per comprendere l’universo felliniano, e per intuire dove stava andando il nostro cinema.
Film
Vampira umanista cerca suicida consenziente
di Ariane Louis-Seize
Colpito dal titolo wertmülleriano, mi sono recuperato Vampira umanista cerca suicida consenziente, una dark comedy canadese in lingua francese del 2023, diretta dall’esordiente Ariane Louis-Seize. Presentato all'80ª Mostra del Cinema di Venezia, il film è disponibile su IWonderfull, la piattaforma streaming attivabile su Prime Video.
Sasha (Sara Montpetit) è una giovane vampira con un problema decisamente insolito: è troppo empatica per uccidere. Cresciuta grazie alle sacche di sangue fornite dai genitori, si rifiuta di cacciare, scatenando la frustrazione della famiglia che la vede incapace di rendersi indipendente. Quando i genitori, ormai esasperati, le tagliano i rifornimenti, Sasha si trova davanti a un bivio, accettare la sua natura o rischiare di morire di fame. A offrirle una via d’uscita è Paul (Félix-Antoine Bénard), un adolescente solitario con tendenze suicide, disposto a sacrificarsi per lei. Ma prima che arrivi il momento fatidico, i due decidono di prendersi una notte tutta per loro, esaudendo i desideri di Paul in un viaggio notturno tra amicizia, scoperta e, forse, una nuova voglia di vivere.
Tra umorismo nero e tenerezza, Vampira umanista cerca suicida consenziente gioca con il mito del vampiro per raccontare un coming-of-age originale e profondo. Sasha è l’emblema di una generazione sospesa, una ragazza mantenuta dai genitori che cerca disperatamente di sopprimere la sua natura. Paul, dal canto suo, è altrettanto perso, un’anima alla deriva che ha smesso di credere nel futuro e che cerca di porre fine alla sua esistenza. La loro amicizia nasce in quella zona grigia tra morte e salvezza, due adolescenti che si sentono fuori posto nel loro mondo, due emarginati che trovano conforto nelle reciproche fragilità.
Il film si muove con leggerezza tra grottesco, surreale e malinconico, lasciando spazio a momenti di grande delicatezza. Bellissima la scena in cui Sasha e Paul, in silenzio, cantano Emotions di Brenda Lee, lasciando che la musica parli per loro. Ottime anche le interpretazioni dei due giovani protagonisti, con la Montpetit che sembra uscita da un vecchio film di Tim Burton.
Non è il nuovo Lasciami entrare ma possiede un equilibrio raro tra humour nero e dolcezza, riuscendo a rendere il macabro incredibilmente umano.
Film
Lo sceicco bianco
di Federico Fellini
Premessa doverosa. Non ho mai amato il neorealismo italiano. Quel cinema dell'immediato dopoguerra, con registi come Rossellini, Visconti e Antonioni, mi è sempre sembrato lontano dalla mia idea di cinema. Amo il perturbante, il caos, il sogno. Amo il cinema che scava nell’inconscio, che trasforma la realtà in visione, che ci porta al limite dell'immaginifico. Il mio regista preferito, senza ombra di dubbio, è David Lynch. E Lynch, ha sempre nutrito una profonda ammirazione per Fellini, tanto da considerare Otto e mezzo non solo un capolavoro assoluto, ma il film che più di tutti ha influenzato il suo cinema.
Federico Fellini è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi cineasti della storia. Pur avendo inizialmente abbracciato l’estetica neorealista, se n’è progressivamente allontanato per intraprendere un percorso sempre più visionario, introspettivo e onirico, fino a sviluppare un linguaggio unico, libero e inconfondibile.
Conosco solo i suoi film più celebri, visti però in un periodo in cui la mia conoscenza del cinema era ancora superficiale. Ora, con uno sguardo più maturo, da appassionato che ha imparato ad amare non solo i film, ma anche la loro storia, ho deciso di riscoprirlo dall’inizio. E il punto di partenza non può che essere Lo sceicco bianco (1951), il suo esordio alla regia.
Il primo film di Federico Fellini, dopo la co-regia con Alberto Lattuada in Luci del varietà, viene presentato alla tredicesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Scritto da Michelangelo Antonioni il film in origine sarebbe dovuto essere diretto da Alberto Lattuada, ma tra abbandoni e ripensamenti, alla fine la produzione scelse di affidare la regia a Fellini.
La storia segue due sposini meridionali in viaggio di nozze a Roma. Ivan (Leopoldo Trieste) è un giovanotto rigido e conformista, determinato a fare carriera e a impressionare lo zio, un pezzo grosso del Vaticano. Wanda (Brunella Bovo) è una ragazza dolce e ingenua appassionata lettrice di fotoromanzi. Appena arrivati in albergo, Wanda, approfittando di un momento di distrazione del marito, si allontana per incontrare l'idolo dei suoi sogni, Fernando Rivoli (Alberto Sordi), il protagonista del suo fotoromanzo preferito che interpreta il leggendario Sceicco Bianco. Mentre Wanda si ritrova catapultata in un mondo tanto affascinante quanto illusorio, tra set improvvisati e attori esuberanti, Ivan, cerca disperatamente di salvare le apparenze e nascondere la scomparsa della moglie ai parenti.
Lo sceicco bianco è una divertente commedia dolceamara che smaschera le illusioni dei miti di carta e la finzione del perbenismo. All’epoca, il film venne stroncato sia dal pubblico che dalla critica, considerandolo una parodia grottesca ed eccessiva. L’interpretazione di un giovane Alberto Sordi, ancora poco noto al pubblico, venne giudicata troppo caricaturale e irritante. Eppure, il suo personaggio è la perfetta incarnazione della finzione spacciata per sogno. Rivoli è solo un pavido attore fallito, un millantatore che dietro il fascino del suo alter ego nasconde un’esistenza misera e priva di gloria. Buona anche l’interpretazione di Brunella Bovo, capace di far trasparire la fragile ingenuità di una donna, così come quella spiritata, sudata e comicamente tragica di Leopoldo Trieste. Ci sta pure un apparizione di Giulietta Masina, nel ruolo di Cabiria, che ritroveremo nei successivi film di Fellini.
Pur essendo una commedia leggera, Lo sceicco bianco lascia già intravedere il gusto per il surreale che il regista svilupperà con sempre maggiore audacia nelle sue opere future. Emblematiche, in questo senso, l’incontro sospeso tra Wanda e lo Sceicco Bianco sull’altalena o le riprese sulla spiaggia con il cast del fotoromanzo. Sono i primi germogli di quel mondo visionario e onirico che contrassegnerà gran parte della filmografia di Fellini.
Film
Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere
di Woody Allen
Ispirato all'omonimo libro divulgativo di David Reuben, Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere segna una delle tappe più stravaganti e sperimentali della filmografia di Woody Allen. Il film è un'antologia di sette episodi che esplorano il sesso in chiave comica, surreale e grottesca, e che rappresenta, nel bene e nel male, l'umorismo irriverente e la vena parodistica dell'Allen di quegli anni.
Tra gli episodi, che spaziano dalla commedia medievale al cinema horror, dalla satira televisiva alla fantascienza, quelli più riusciti sono "Che cos'è la sodomia?", in cui Gene Wilder si innamora perdutamente di una pecora, e sopratutto "Che cosa succede durante l'eiaculazione?", il celeberrimo episodio finale che trasforma l'atto sessuale in un'operazione militare con tanto di sala di comando (guidata da Burt Reynolds) e una schiera di spermatozoi-paracadutisti, tra cui un Allen nevrotico e terrorizzato, lanciato in un viaggio esistenziale verso l'ignoto. Una delle immagini più esilaranti della sua intera carriera.
Meno riusciti, invece, gli altri episodi, come quello ambientato alla corte medievale, il quiz televisivo sulle perversioni sessuali, oppure quello, recitato in uno stentato italiano, in cui una giovane moglie riesce a raggiungere l'orgasmo soltanto in situazioni di pericolo.
Siamo ancora lontani dalla maturità artistica che porterà ai capolavori degli anni successivi, ma Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso resta un interessante laboratorio di idee, un film volutamente irregolare e anarchico, che anticipa molte delle ossessioni che il regista svilupperà con maggiore compiutezza nel corso della sua carriera.
Film
Follemente
di Paolo Genovese
Le commedie italiane, sopratutto quelle di nuova generazione, non sono proprio il mio genere preferito. Però Perfetti Sconosciuti, il film di Paolo Genovese che nel 2016 ha fatto il botto tra pubblico e critica, l’avevo trovato carino e originale.
A distanza di anni – anzi, forse dovrei dire decenni – mi sono ritrovato di nuovo a vedere una commedia italiana al cinema. E già questa è una notizia. La scelta è caduta su Follemente, l'ultimo film di Genovese che ha come protagonisti Edoardo Leo, Pilar Fogliati e tanti altri attori italiani più o meno noti.
Ribattezzato da molti l'Inside Out per adulti – a me ha ricordato anche il Woody Allen di "Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere" - la trama di Follemente è abbastanza semplice e si svolge prevalentemente in un appartamento. Dopo essersi conosciuti (presumibilmente su un’app di dating, come ogni buon millennial che si rispetti), Lara (Pilar Fogliati) invita Piero (Edoardo Leo) a casa sua per il loro primo appuntamento. Lui è un quarantenne, professore di liceo, reduce da un divorzio e con una figlia piccola. Lei è una trentenne appassionata di mobili e design, con alle spalle relazioni con uomini sposati e amori complicati. Durante la serata ci viene mostrato cosa accade nella loro testa attraverso dei personaggi che interpretano le loro diverse personalità e si trovano di una stanza che rappresenta il loro modo di essere. Dalla parte di lui abbiamo la razionalità del Professore (Marco Giallini), la follia di Valium (Rocco Papaleo), la sensibilità di Romeo (Maurizio Lastrico) e la passione di Eros (Claudio Santamaria), mentre dalla parte di lei abbiamo i corrispettivi femminili che sono la logica di Alfa (Claudia Pandolfi), l'imprevedibilità di Scheggia (Maria Chiara Giannetta), il romanticismo di Giulietta (Vittoria Puccini) e la sensualità di Trilli (Emanuela Fanelli). Un vero e proprio consiglio direttivo delle emozioni, che discute, litiga e cerca di guidare i protagonisti nelle scelte da compiere.
L’idea di base non è certo particolarmente originale – il confronto con il film d'animazione della Pixar è inevitabile – ma la sceneggiatura è solida e ben congegnata. Le battute funzionano, il ritmo è incalzante e ogni personaggio, dai protagonisti alle loro proiezioni interiori, ha il suo spazio senza che nessuno oscuri gli altri. Un equilibrio tutt’altro che scontato, considerando il cast affollato.
Gran parte del merito va a un montaggio preciso e dinamico, e a un ensemble di attori ben assortito, che funziona alla perfezione. La comicità punta sui classici cliché di maschi contro femmine, sulle pulsioni e sulle insicurezze nei rapporti di coppia, senza però risultare mai troppo banale. Certo, in alcuni momenti il film sembra voler strappare la risata a tutti i costi, forzando un po’ la mano sulla battuta, ma nel complesso mantiene un buon ritmo e diverte.
Follemente è un film commerciale, pensato per il grande pubblico, e su questo non ci piove. Non ha la profondità emotiva di Perfetti Sconosciuti, ma intrattiene con leggerezza e intelligenza, risultando gradevole e divertente per una serata in compagnia.
Riguardandomi la filmografia di Genovese ho appena scoperto di non aver visto "The Place", un film che mi incuriosiva parecchio all’epoca della sua uscita. Urge recupero.
Film
Luci della città
di Charlie Chaplin
Nonostante una lavorazione estremamente travagliata – segnata dalla crisi finanziaria dovuta al crollo di Wall Street e dal tumultuoso passaggio dal cinema muto a quello sonoro – nel 1931 Charlie Chaplin porta a compimento Luci della città, un capolavoro senza tempo che ancora oggi è tra i film più acclamati da critica e pubblico.
La storia vede il Vagabondo, l'iconico personaggio creato da Chaplin, innamorarsi di una giovane fioraia cieca (Virginia Merrill) che per un malinteso lo scambia per un ricco gentiluomo. Deciso a salvarla dalla povertà e dalla cecità, dopo aver scoperto che un'operazione potrebbe restituirle la vista, il vagabondo si ingegna su come raccogliere i soldi, spazzando le strade, partecipando a un esilarante incontro di boxe e, salvando un milionario disperato (Harry Myers) che vuole togliersi la vita. L'uomo, grato e generoso, ma solo quando è ubriaco, gli regala mille dollari per aiutare la ragazza. Tuttavia, quando torna sobrio, lo accusa di furto, causando l’arresto del Vagabondo. Prima di essere catturato, però, riesce a consegnare il denaro alla fioraia per permetterle di operarsi. Dopo aver scontato la pena, il Vagabondo vaga per le strade della città, stanco e sconsolato, finché non vede la fioraia, ora proprietaria di un negozio di fiori. La ragazza, che nel frattempo non è più cieca, lo vede e senza sapere che è lui il benefattore, gli porge un fiore. Quando le loro mani si sfiorano, lei lo riconosce.
Il finale non concede un lieto fine tradizionale. Non sappiamo se i due resteranno insieme o se lei lo respingerà, ma non è questo il punto. Quel breve scambio di sguardi e la speranza che traspare dai loro occhi bastano a rendere il momento indimenticabile
Chaplin, celebre per il suo perfezionismo, in Luci della città raggiunge livelli quasi maniacali. La lavorazione durò tre anni, tra dissidi e licenziamenti – compresi quelli della protagonista e dell’attore scelto inizialmente per il ruolo del milionario – e furono girati chilometri di pellicola non utilizzata. Si narra che la scena dell’incontro tra il vagabondo e la fioraia sia stata ripetuta ben 342 volte, diventando la sequenza più rifatta nella storia del cinema.
Sebbene il sonoro stesse rapidamente conquistando il panorama cinematografico mondiale, Chaplin scelse di realizzare Luci della città come un film muto. Credeva che utilizzare il corpo, la mimica facciale e i movimenti come strumenti di comunicazione permetteva al suo personaggio di trasmettere emozioni profonde senza necessità di parole. La sua scelta di restare fedele al muto era anche una sfida al conformismo tecnologico, come dimostra la scena iniziale in cui i discorsi ufficiali, durante la cerimonia di inaugurazione di una statua, vengono sostituiti da grotteschi suoni simili a pernacchie, in parodia del cinema parlato.
Il cinema di Chaplin è sempre stato legato al linguaggio visivo e alla pantomima regalandoci anche in questo film delle scene assolutamente esileranti, come quella dell'incontro di pugilato oppure la serata a casa del milionario col fischietto ingoiato e la stella filante mangiata al posto dello spaghetto, così come momenti di maliconica e sequenze di toccante poesia, culminanti in uno dei finali più intensi e commoventi della storia del cinema.

Provaci ancora, Sam
di Herbert Ross
Herbert Ross dirige, ma è Woody Allen a dettare il ritmo.
Tratto dall’omonima commedia teatrale di Woody Allen, Provaci ancora, Sam trasporta sul grande schermo la brillante ironia e la vena malinconica che caratterizzavano l'opera originale, delineando in modo definitivo tutti i tratti distintivi del personaggio nevrotico, intellettuale e sentimentalmente goffo che Allen avrebbe reso iconico nei suoi film successivi. Con le sue insicurezze, l’autoironia pungente e la costante, seppur disillusa, ricerca dell’amore, il protagonista diventa l’archetipo perfetto del mondo alleniano.
La storia segue le tragicomiche disavventure sentimentali di Sam Felix (nella versione originale Allan), critico cinematografico dal cuore tenero e i nervi fragili, alle prese con il divorzio e l’arte – difficilissima – di rimettersi in gioco. Sam, interpretato da un Woody Allen al massimo della sua nevrotica vulnerabilità, trova il sostegno in Linda (Diane Keaton) e Dick (Tony Roberts), la coppia di cari amici che cercano di sostenerlo provando a fargli conoscere altre donne.
Ma è Humphrey Bogart, evocato direttamente da Casablanca, il mentore immaginato da Sam pronto a dargli consigli su come comportarsi con le donne. Il contrasto tra l'iconico fascino di Bogart e la goffaggine di Allen è il cuore comico del film, un gioco meta-cinematografico che funziona alla perfezione.
L'attrazione tra Sam e Linda cresce lentamente e i due scoprono la reciproca attrazione. Tuttavia, nel finale che omaggia la celebre scena dell’aeroporto di Casablanca, Sam sceglie di rinunciare a Linda per non distruggere l’amicizia con Dick.
Provaci ancora, Sam è un film divertente e al tempo stesso intelligente, capace di fondere un umorismo brillante con una riflessione malinconica sulle fragilità umane. Tra citazioni cinematografiche e battute memorabili, il film segna il passaggio dal Woody Allen demenziale dei suoi primi lavori a quello più autoironico, nevrotico e insicuro che il regista newyorchese svilupperà e approfondirà nei suoi lavori successivi.

(500) Days of Summer
di Marc Webb
Non sono un amante delle commedie romantiche, ma ogni tanto mi concedo qualche eccezione. Insomma, film come Harry ti presento Sally, Il favoloso mondo di Amélie, ma anche Serendipity, non vi nascondo che se mi capita li vedo sempre volentieri.
Incuriosito da un meme che spunta spesso sui social, e soprattutto attirato dagli occhioni di Zooey Deschanel e il suo fascino un po' stralunato, mi sono visto (500) Days of Summer, film del 2009 ed esordio alla regia per Marc Webb.
In Italia, il titolo è stato trasformato in (500) giorni insieme, perdendo però il gioco di parole con il nome della protagonista, Summer, che nella versione italiana è diventata Sole.
La storia in breve. Tom (Joseph Gordon-Levitt) è un giovane architetto mancato, che lavora in una società specializzata nella realizzazione di biglietti d'auguri. La sua routine cambia radicalmente quando nella sua vita irrompe Summer (Zooey Deschanel), la nuova segretaria del suo capo. Tom se ne innamora perdutamente, convinto che sia "quella giusta" ma la fanciulla, pur ricambiando le sue attenzioni, dichiara fin da subito di non volere una relazione seria. Nonostante ciò, i due iniziano a frequentarsi, con Tom che è convinto di riuscire a farle cambiare idea anche a costo di mettere in discussione il suo concetto di amore e le sue aspettative.
Attraverso una narrazione non lineare, tra salti temporali, momenti gioiosi e ricordi agrodolci, (500) Days of Summer racconta non una storia d’amore, ma bensì la storia di un innamoramento. Vincente l'idea di alternare lo stato d'animo dei due protagonisti scegliendo di saltare da un giorno all'altro della storia non in ordine cronologico.
Marc Webb, forte della sua esperienza nei videoclip, utilizza un linguaggio visivo ricco e creativo, inserendo animazioni, momenti musical, oppure dividendo lo schermo con aspettative e realtà messe a confronto, arrivando a infilare citazioni cinematografiche di maestri come Bergman, Truffaut, e Nichols, con ironia e spigliatezza.
La colonna sonora è uno degli elementi distintivi del film. Brani di Regina Spektor, The Temper Trap, Pixies e, soprattutto, The Smiths, accompagnano e definiscono l’atmosfera del film. Iconica la scena in ascensore, in cui Tom ascolta "There Is a Light That Never Goes Out" e Summer, attratta dalla musica, si avvicina, dando il via alla loro storia. E' un film che vuole essere "indie" - vedi la classica t-shirt dei Joy Division di Tom o l’inquadratura del vinile dei Red Lorry Yellow Lorry in un negozio di dischi - anche se in realtà si rivolge a un pubblico di massa.
(500) Days of Summer è la storia di un amore a senso unico che in qualche modo mi ha ricordato Eternal Sunshine of the Spotless Mind - ovviamente con tutti i distinguo del caso in quanto ritengo il film di Michel Gondry un capolavoro. Tuttavia, anche nel film di Webb la storia è raccontata dal punto di vista maschile, quello di Tom, mettendo in luce una relazione sbilanciata e mai davvero paritaria.
Molto bravi gli attori con Joseph Gordon-Levitt che convince nel ruolo dell'ingenuo e sognatore Tom, e Zooey Deschanel - per la quale ammetto un certo debole - brava a rendere Summer la cinica e candida regina delle stronze. Sì lo so, qualcuno potrebbe obiettare che Summer fin da subito ha messo in chiaro i confini della loro relazione, però successivamente i suoi comportamenti sono parecchio contradditori che mi portano a pensare che il personaggio interpretato dalla Deschanel abbia tratti narcisistici e manipolatori nei confronti del povero innamorato.
Pur partendo da una trama quasi banale, (500) Days of Summer è un film fresco che si guarda con piacere, ma che è anche capace di lasciare spunti di riflessione sull'amore, o meglio, sulla sua idealizzazione.

Il castello degli spettri (The Cat and the Canary)
di Paul Leni
Paul Leni, tra i principali esponenti del cinema espressionista tedesco, approda in America nel 1927 per dirigere The Cat and the Canary (da noi noto come Il castello degli spettri), film che ebbe numerosi remake e che inaugura il filone cinematografico della "vecchia casa infestata".
Tratto dall'omonima pièce teatrale di John Willard, il film muto si distingue per la sua capacità di fondere mistero, tensione e una pungente ironia grottesca, creando un’atmosfera che preannuncia i futuri capolavori del cinema gotico del decennio successivo.
La trama ruota attorno alla lettura del testamento dell'eccentrico milionario Cyrus West, letto a distanza di vent'anni dalla sua morte di fronte agli eredi riuniti nella sua cadente dimora. I familiari più stretti scoprono con sorpresa di essere stati esclusi dall'eredità a favore di una giovane parente lontana, Annabelle (Laura La Plante), a patto che venga confermata la sua sanità mentale. La situazione precipita quando l'avvocato scompare misteriosamente e si diffonde la notizia della fuga di un pericoloso omicida da un manicomio, gettando la casa nel caos e nel terrore.
Mescolando brillantemente suspense e commedia, terrore e ironia, Leni realizza un film che fa da apripista ai grandi classici horror della Universal, andando a influenzare registi come James Whale e Roger Corman. Nonostante i limiti del muto, il regista tedesco compensa con una ricchezza visiva sorprendente e delle tecniche per l'epoca innovative. Pensiamo per esempio all'uso della soggettiva per simulare il punto di vista del "fantasma" che si aggira nella casa, oppure alla sovrimpressione delle immagini, e alle didascalie animate con scritte tremolanti.
Per gli amanti del cinema muto.
Film
Il dittatore dello stato libero di Bananas
di Woody Allen
Secondo film di Woody Allen in qualità di regista, Il dittatore dello stato libero di Bananas (in originale semplicemente Bananas) è una commedia satirica che intreccia assurdo e politica scritta da Allen insieme all'amico d'infanzia Mickey Rose.
La storia vede come protagonista Fielding Mellish (interpretato da Woody Allen), un giovane impacciato e imbranato che lavora come collaudatore di brevetti per una compagnia industriale. Un giorno incontra Nancy (Louise Lasser), una giovane attivista politica, e inizia con lei una relazione. Tuttavia, quando Nancy lo lascia perché lo ritiene immaturo e incapace di impegnarsi seriamente nelle questioni che le stanno a cuore, Fielding decide di dimostrarle il contrario. Nel tentativo di riconquistare l'ex fidanzata, Fielding si reca nello stato latino-americano di Bananas, un paese fittizio che è caduto sotto la dittatura militare del generale Vargas. Qui, tra una serie di eventi assurdi e tragicomici, viene catturato dai ribelli e, dopo rocambolesche peripezie, finisce addirittura a capo del nuovo governo rivoluzionario.
Il film è una satira al limite del demenziale sui totalitarismi e le ideologie estreme. Anche se non tutte le gag sono riuscite, alcune scene rimangono memorabili, come l'addestramento dei rivoluzionari, il sogno delle croci che litigano per il parcheggio e l'improbabile discorso al popolo del piccolo stato latino-americano. L’umorismo di Allen è spesso più buffo che brillante, e in molte scene si rifà alle comiche del muto. Tuttavia, riesce a strappare risate grazie a un ritmo scoppiettante e a trovate geniali, come la dichiarazione di nuove assurde leggi dello Stato, tra cui il celebre decreto che impone a tutti di indossare la biancheria intima sopra i vestiti.
Numerose sono le citazioni cinematografiche. La scena del collaudo ricorda l'episodio della macchina che nutre gli operai in Tempi Moderni di Chaplin, mentre la carrozzina che precipita da una scalinata è un evidente omaggio alla celebre sequenza de La corazzata Potëmkin di Ejzenštejn, da noi resa celebre dalla parodia di Paolo Villaggio in Fantozzi. In una delle scene ambientate nella metropolitana, compare persino un giovane Sylvester Stallone, che interpreta uno dei teppisti.
In questo film la comicità di Woody Allen è fatta di gag e situazioni al limite del demenziale, ma nello scambio di battute con Louise Lasser (che all'epoca era la sua ex moglie) già si intravedono i primi segni della sua ironia sofisticata e intellettuale che diventerà distintiva nelle sue opere successive.

Play Time - Tempo di divertimento
di Jacques Tati
Ne ho visto di film strambi e bizzarri, ma quasi tutti legati all'horror. Play Time, invece, è una commedia surreale la cui stranezza si manifesta attraverso la semplice osservazione della vita moderna in un mondo iperorganizzato e asettico.
Uscito nel 1967, Play Time - Tempo di divertimento è il film più ambizioso e complesso del regista e comico francese Jacques Tati.
Difficile raccontare la trama. In pratica, un uomo impacciato, Monsieur Hulot (personaggio creato e interpretato da Jacques Tati e già apparso in altri suoi film), si ritrova in un quartiere ultramoderno di Parigi insieme a un gruppo di turisti americani. Nella prima parte, Hulot entra in un palazzo di vetro per un appuntamento, perdendosi in un labirinto di stanze e corridoi asettici. Nella seconda parte ci troviamo in un ristorante di lusso alla sua serata inaugurale, dove una serie di piccoli imprevisti, dall'aria condizionata difettosa ai mobili che si rompono, si accumulano gradualmente fino a trasformare l'elegante locale in una scena di caos crescente. Il film si chiude con una rotonda stradale, dove il traffico caotico si trasforma in una giostra di un luna park.
Play Time è un film privo di una vera storia, senza protagonisti e quasi senza dialoghi. Sembra quasi un documentario surreale, esasperato e ironico in cui la quotidianità di una città moderna diventa uno spettacolo visivo fatto di piccoli gesti, routine ripetitive e interazioni che sfiorano l’assurdo. E' un cinema che si ispira fortemente all'era del muto e alla comicità fisica di maestri come Charlie Chaplin e Buster Keaton. Le gag nascono e si sviluppano all'interno della singola inquadratura, sfruttando l'equivoco e l'imprevisto per creare momenti comici. Il film è stato girato con una pellicola di 70 mm ed è costruito su lunghi piani sequenza e sull’utilizzo della profondità di campo. I movimenti di macchina sono ridotti al minimo, lasciando che siano i personaggi e l'ambiente a creare il ritmo. Il risultato è un film in cui lo spettatore è invitato a esplorare ogni angolo dell’inquadratura, e dove i dettagli nascosti e i piccoli eventi si accumulano lentamente, all'interno di una coreografia visiva complessa e minuziosa. Ogni elemento dello spazio, dall'arredamento agli oggetti quotidiani, fino ai passanti anonimi, contribuisce a creare un quadro in continuo movimento.
Un'esperienza visiva sperimentale, profondamente radicata nel suo tempo.
Film
Beetlejuice Beetlejuice
di Tim Burton
Sono andato al cinema a vedere Beetlejuice Beetlejuice senza grandi aspettative. Da ormai vent'anni, Tim Burton sembrava aver perso quell'ispirazione che un tempo mi aveva fatto amare il suo cinema. Quando ho sentito parlare che stava girando il sequel di uno dei suoi film cult, mi è sembrato il tentativo di rivangare vecchi successi in un desolato sforzo di raschiare il fondo del barile. Ero persino tentato di non vederlo temendo una ennesima delusione.
E invece, mi sono dovuto ricredere. Beetlejuice Beetlejuice è un film divertente, pieno di creatività e pregno di quel folle immaginario tipicamente burtoniano. Non è un capolavoro, intendiamoci. Si tratta pur sempre di una commedia nera destinata al grande pubblico. Ma quell’energia anarchica, quella creatività senza freni che caratterizzava il Beetlejuice del 1988, non solo è ancora presente, ma brilla di una vitalità inaspettata.
Beetlejuice Beetlejuice riprende la storia del primo film a più di trent'anni di distanza.
Lydia Deetz (Winona Ryder) è una conduttrice di uno show televisivo sulle case infestate, che ha un rapporto difficile con la figlia adolescente Astrid (Jenna Ortega). Quando viene a sapere dalla matrigna Delia (Catherine O'Hara) che suo padre è morto, Lydia insieme a sua figlia torna nella casa di Winter River per il funerale. Nella soffita si trova ancora intatto il plastico che riproduce la cittadina e da cui Beetlejuice (Michael Keaton) cerca di uscire per poter tornare nel mondo dei vivi. Inevitabilmente il bio-esorcista sboccacciato riesce a cogliere la sua occasione, ignorando, almeno all'inizio, di essere braccato dalla sua pericolosa ex "sposa cadavere" (Monica Bellucci) che pare avere dei conti in sospeso con lui.
Nel cast è presente anche il grande "prezzemolino" Willem Dafoe che interpreta un agente di polizia nell'aldilà, Justin Theroux che fa la parte del fastidioso fidanzato della Ryder, e Danny DeVito, in un gustosissimo cameo.
Beetlejuice Beetlejuice è un film esplosivo, ricco di divertimento e zeppo di autocitazioni e omaggi al cinema di genere. Sicuramente - ma non ci voleva molto - è il film di Tim Burton più riuscito degli ultimi anni. E' un film in cui lo sfrenato immaginario di Burton esplode in tutta la sua potenza - sopratutto nella parte ambientata nell'altro mondo - e che forse solo i fan di Burton di lunga data possono apprezzare pienamente. Non lo consiglierei a chi non ha amato il primo Beetlejuice, o peggio ancora a chi non l'ha mai visto. Anzi, il mio suggerimento è di riguardare il primo per rispolverare la memoria prima di godersi questo nuovo capitolo.
Parte del cast originale ritorna con un Michael Keaton più scatenato che mai. Sotto la maschera di Betelgeuse (in realtà è questo il suo vero nome) sembra non essere passato un solo giorno. Il personaggio mantiene inalterato il suo spirito cazzone e la sua folle vitalità da macabro giullare anche se rispetto al primo capitolo mi pare sia un pò più docile e meno pericoloso. Catherine O'Hara riprende il ruolo dell'artista snob in maniera impeccabile, come se la parte fosse stata scritta appositamente per lei. Winona Ryder, invece, non mi convince. Come già visto in "Stranger Things", appare sempre rigida e tesa, quasi ingessata. Il ruolo di adolescente ribelle e problematica viene ora passato, in una sorta di staffetta generazionale, a Jenna Ortega, che già con "Mercoledì" sembra aver trovato il suo posto come nuova musa burtoniana. Infine Monica Bellucci, a metà strada tra la Sposa Cadavere e Sally di "Nightmare Before Christmas", incanta con la sua silenziosa presenza nel ruolo di Delores. La scena in cui il suo corpo viene ricomposto pezzo per pezzo e unito con una spillatrice è semplicemente memorabile. Purtroppo, il suo personaggio viene relegato in secondo piano e, a metà film, sparisce per lasciare spazio ad altre sottotrame e un nuovo villain, ricomparendo solo in un finale che risulta piuttosto affrettato. Ecco, probabilmente i difetti di questo film sono troppe sottotrame che si intrecciano senza essere ben risolte, una sceneggiatura sovraccarica, e un finale che risulta troppo sbrigativo. Ho invece apprezzato tantissimo la scelta di utilizzare effetti speciali artigianali, stop motion, effetti prostetici e animatronics. Una scelta coraggiosa, in un'epoca dominata dalla CGI, che dona al film quel tocco nostalgico e autentico che tanto si lega allo stile di Burton.
Tra le varie citazioni cinematografiche, quella che mi ha emozionato di più è stata l’omaggio a Mario Bava, il maestro dell'horror italiano. Non solo attraverso il flashback in bianco e nero (e in italiano, perché i film andrebbero sempre visti in lingua originale) che rievoca "La Maschera del Demonio", ma anche quando Lydia racconta alla figlia Astrid di aver conosciuto il padre durante una retrospettiva su Bava e di averla concepita proprio durante una proiezione di "Operazione Paura". È un omaggio che mi ha fatto sognare: quanto sarebbe incredibile vedere Tim Burton dirigere un film su Mario Bava e il cinema di genere italiano, come fece anni fa per "Ed Wood"?
Tra esilaranti siparietti musicali e momenti di pura follia visiva, Beetlejuice Beetlejuice riesce a bilanciare l'irriverenza del primo capitolo con una nuova vena di maturità. Tim Burton torna a giocare con il suo inconfondibile immaginario gotico, regalando ai fan vecchi e nuovi un'opera che, pur con qualche difetto di trama, brilla per creatività e intrattenimento. È un viaggio nostalgico che però non si adagia sul passato, ma che al contrario amplia l'universo di Beetlejuice. Visto la scelta del titolo non mi sorprenderebbe vedere tra qualche anno un terzo capitolo.

Beetlejuice
di Tim Burton
Prima del "temuto" sequel mi sono voluto rivedere per l'ennesima volta Beetlejuice, il secondo film di Tim Burton uscito nel 1988. Non «mi sganascio dalle risate tutte le porche volte che me lo vado a rivedere», come dice lo "spiritello porcello" riferito all'Esorcista quando elenca le sue referenze, ma con tutte le sue ingenuità e imperfezioni rimane una delle pellicole di Burton a cui sono più legato.
La trama vede una giovane coppia, i Maitland (Geena Davis e Alec Baldwin), trovare la morte in un incidente automobilistico. Dopo la loro morte, i due scoprono di essere diventati fantasmi intrappolati nella loro casa di campagna. Quando una famiglia eccentrica, i Deitz, si trasferisce nella loro abitazione, i Maitland cercano disperatamente di spaventarli per farli andare via, ma senza successo. Disperati, i Maitland si rivolgono a Beetlejuice (Michael Keaton), un caotico e sboccato bio-esorcista specializzato nello spaventare i vivi. Tuttavia, la sua presenza si rivela molto più caotica e pericolosa del previsto. Nel frattempo, la figlia adolescente dei Deitz, Lydia (Winona Ryder), una ragazza dark affascinata dalla morte, stringe un legame con i fantasmi, diventando la chiave per risolvere il caos scatenato da Beetlejuice.
Commedia nera, ironica e stravagante, Beetlejuice è il film che definisce lo stile unico e inconfondibile di Tim Burton, un perfetto equilibrio di umorismo macabro e fantasia fiabesca, fatto di scenari gotici, amosfere surreali, e personaggi eccentrici. Considerato un vero è proprio cult dell'epoca, Beetlejuice è il film dove emerge per la prima volta, in tutta la sua potenza, l'immaginario visivo e narrativo che renderà Burton uno degli autori più iconici del cinema moderno.
Nonostante alcune incongruenze narrative, Beetlejuice rappresenta forse il film più spontaneo ed eccentrico di Burton, quello più fresco e divertente (insieme a Mars Attack). Il mondo dell'aldilà è tanto burocratico quanto surreale, con creature grottesche e uffici labirintici che ricordano l’estetica espressionista. E' una celebrazione della fantasia sfrenata del regista capace di fondere il gotico con il pop e il dark con i colori brillanti.
Vincitore di un Oscar per il miglior make-up, gli effetti speciali utilizzati da Burton sono squisitamente artigianali. Il trucco prostetico, combinato con l'uso creativo della stop-motion, uno dei suoi grandi amori, richiama il fascino delle pellicole del passato. Un esempio è nella scena finale, quella in cui la testa di Keaton si riduce sino a divenire minuscola, in cui Burton omaggia addirittura Georges Mélies, pioniere del cinema fantastico e dell'effetto speciale cinematografico.
Ottimo Michael Keaton, con la sua interpretazione folle e irriverente del bio-esorcista, e una giovane Winona Ryder - all'epoca fu amore a prima vista - nel ruolo di Lydia, la giovane dark intrappolata tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Ryder, alla sua prima grande interpretazione, rappresenta la musa perfetta per Burton, incarnando quell’anima gotica che sarebbe diventata uno dei tratti distintivi del regista.
Tim Burton è uno dei registi che ha plasmato profondamente il mio immaginario cinematografico. Purtroppo negli ultimi anni i suoi film non mi hanno entusiasmato. Speriamo bene con il sequel.

Come vinsi la guerra
di Buster Keaton
Buster Keaton è stato uno dei più influenti attori comici del cinema muto. Conosciuto per le sue acrobazie audaci e per il suo inconfondibile volto impassibile, Keaton ha rivoluzionato la commedia americana unendo gag visive e narrazione in un perfetto equilibrio tra movimento e umorismo. A differenza di altri comici dell'epoca, come Charlie Chaplin, Keaton ha un viso inespressivo che usa per creare un contrasto esilarante con le situazioni assurde in cui si trova coinvolto.
Uno dei suoi film più conosciuti è Come vinsi la guerra (il titolo originale è The General) del 1926.
Ambientato durante la guerra di Secessione americana, il film racconta la storia di Johnnie Gray, un giovane ferroviere, il cui amore per la sua locomotiva e la sua fidanzata, Annabelle Lee, viene messo alla prova quando entrambi vengono rapiti dai nordisti. Deciso a dimostrare il suo valore e a riacquistare ciò che gli è stato sottratto, Johnnie intraprende un'epica avventura a bordo della sua amata locomotiva, "The General", dando vita a una folle e ingegnosa rincorsa attraverso paesaggi mozzafiato, ponti in fiamme e manovre impossibili.
Il film di Keaton si distingue per la capacità di fondere azione e umorismo. Ogni scena è curata nei minimi dettagli, dalle spericolate acrobazie mozzafiato del protagonista, che esegue senza controfigure, alle impressionanti sequenze di inseguimento ferroviario, girate senza modellini ma con dei veri treni a vapore. La guerra mostrata da Keaton è una girandola di eventi imprevedibili e assurdi, dove il confine tra il bene e il male è assai sfumato.
Al momento della sua uscita il film non ebbe il successo sperato ma nei decenni successivi è stato rivalutato tanto che nel 2007 l'American Film Institute lo ha inserito tra i cento migliori film americani di tutti i tempi.
Film
La febbre dell'oro (The Gold Rush)
di Charlie Chaplin
"La febbre dell'oro" (The Gold Rush), scritto, diretto e interpretato da Charlie Chaplin nel 1925, è uno dei capolavori indiscussi della storia del cinema muto. Rimasto colpito dalle vicende dei cercatori d'oro della seconda metà dell'Ottocento e da un libro che narrava di una spedizione in cui numerosi pioneri dispersi sui monti ricoperti di neve, morirono di fame e di freddo, mentre alcuni si diedero al cannibalismo per sopravvivere, Chaplin, da questa tragedia, iniziò a elaborare una serie di sequenze comiche in cui il personaggio del Vagabondo si ritrova in un ambiente freddo e ostile, immerso nella desolazione delle montagne innevate durante la corsa all'oro del Klondike. "È paradossale che nell'elaborazione di una comica la tragedia stimoli il senso del ridicolo" disse Chaplin in una intervista. Il film subì numerosi ritardi di produzione anche a causa delle vicende personali di Chaplin. Lita Grey, l'attrice che avrebbe dovuto avere la parte della protagonista, era ancora minorenne quando si scoprì che era incinta di Chaplin. Per evitare lo scandalo, Chaplin si trovò costretto a sposarla, ritrovandosi in seguito in una relazione che, nonostante i due figli, gli causò numerose amarezze e difficoltà per diversi anni. A causa della gravidanza, la Grey venne sostituita con Georgia Hale, che assunse il ruolo della protagonista femminile.
La storia segue il personaggio del Vagabondo, un povero cercatore d'oro che si avventura nelle gelide e desolate montagne alla ricerca di fortuna. Durante il suo viaggio, il Vagabondo affronta una serie di disavventure, tra cui il freddo estremo, la fame e l'incontro con personaggi singolari, come l'enorme e minaccioso Big Jim (Mack Swain) e il bandito Black Larsen (Tom Murray).
Rifugiatosi in una capanna durante una tormenta di neve, il Vagabondo vive momenti di fame estrema, che lo portano a cucinare e mangiare una scarpa. Successivamente, si innamora di una giovane ballerina di nome Georgia, ma la sua vita sentimentale è complicata da fraintendimenti e umiliazioni.
Uno degli aspetti più sorprendenti de "La febbre dell'oro" è come Chaplin riesca a utilizzare la commedia per esplorare temi profondamente umani, come la solitudine, la povertà e il desiderio di una vita migliore. Il Vagabondo è un personaggio universale, un eroe antieroico che affronta le difficoltà della vita con un sorriso, trasformando il dolore in poesia visiva.
Alcune sequenze di questo film sono entrate nella storia del cinema, diventando iconiche e rappresentative dell'arte di Chaplin. Tra queste, spicca la scena in cui il Vagabondo, affamato e disperato, cucina e mangia una scarpa come se fosse una cena gourmet, la celebre "danza dei panini" in cui Chaplin fa ballare due forchette infilzate in panini come se fossero i piedi di un ballerino, oppure quella in cui Big Jim che per la fame vede Charlot come una gallina, ma anche quella in cui la baracca si trova in bilico sullo strapiombo.
Il film è stato rieditato dallo stesso Chaplin nel 1942 in versione sonora sostituendo gli intertitoli con un commento con la propria voce. Io ho visto proprio questa versione che, senza cartelli a interrompere il flusso del film, devo ammettere di aver particolarmente gradito.
Film
Preferisco l'ascensore!
di Fred C. Newmeyer, Sam Taylor
Noto per le sue straordinarie abilità acrobatiche, Harold Lloyd è stato uno dei pionieri del cinema comico muto statunitense, le cosidette slapstick comedy, accanto a icone come Charlie Chaplin e Buster Keaton.
Il suo film più conosciuto è Preferisco l'ascensore! (Safety Last) del 1923 noto per la famosa scena in cui il protagonista si trova sospeso nel vuoto mentre tenta di aggrapparsi alle lancette di un orologio di un grattacielo.
La trama vede Harold, un giovane ambizioso che si trasferisce in città per fare fortuna e dimostrare il suo valore alla fidanzata, interpretata da Mildred Davis. Dopo una serie di divertenti equivoci e situazioni comiche nel grande magazzino dove lavora, Harold si ritrova coinvolto in una campagna pubblicitaria che lo vede arrampicarsi sulla facciata di un grattacielo, culminando in quella che è considerata una delle sequenze più iconiche della storia del cinema.
Il film ha una storia un pò banale ma presenta delle gag divertenti combinando umorismo, abilità acrobatica e suspense. Harold Lloyd, con i suoi occhiali rotondi e il viso da bravo ragazzo - gli autori di Superman si sono ispirati a lui nel creare Clark Kent - rappresenta l'uomo comune che affronta con coraggio e ingegno le sfide quotidiane.
L'aspetto tecnico è sicuramente la parte più interessante del film perche senza particolari effetti speciali ma solo con l'ingegno, lo studio delle inquadrature e le spericolate acrobazie di Lloyd, l'arrampicata sul grattacielo con sotto la strada trafficata appare ancora oggi davvero realistica.
Un classico della comicità muta.
Film
Il Monello (The Kid)
di Charlie Chaplin
Ultimamente ho riscoperto il piacere di guardare alcuni vecchi film dei primi decenni del Novecento, pellicole che hanno segnato la storia del cinema. Dopo essermi immerso nei classici dell'espressionismo tedesco, ho deciso di volgere lo sguardo oltreoceano e dedicarmi alla riscoperta di uno dei più grandi protagonisti del cinema: Charlie Chaplin.
Intorno al 1910 Hollywood iniziò a emergere come centro dell'industria cinematografica. Attratti dal clima favorevole e dai grandi spazi, i produttori cinematografici iniziarono a trasferirsi dall'East Coast degli Stati Uniti a Hollywood, in California. In questo periodo nacquero i più grandi studi cinematografici (Universal Pictures, Paramount Pictures, Warner Bros, etc). I film che andavano per la maggiore erano di genere comico, quelli dallo stile slapstick. Si trattava di brevi cortometraggi basati su una comicità elementare che, in assenza del sonoro, sfruttava il linguaggio del corpo e si articolavano intorno a gag esagerate e situazioni assurde. Tra i tanti comici dell'epoca, Charlie Chaplin, ancora prima di realizzare il suo primo lungometraggio, era già un acclamata star e il personaggio del Vagabondo era amato in tutto il mondo.
Cresciuto in povertà e con un'infanzia difficile, Chaplin, da Londra, arriva negli Stati Uniti nel 1910 con la compagnia teatrale di cui faceva parte. Nel giro di poco tempo venne notato da alcuni produttori che lo ingaggiarono per una serie di cortometraggi comici. Nel 1914 crea il personaggio del Vagabondo (in Italia noto anche come Charlot), con i suoi pantaloni larghi, il bastone, il cappello a bombetta e i baffi caratteristici, diventando immediatamente popolare. Stanco del controllo dominante degli studi cinematografici, nel 1919 co-fondò la United Artists per avere un maggiore controllo artistico e finanziario sulle sue opere.
"Il Monello" (The Kid) è il primo lungometraggio di Charlie Chaplin. Uscito nel 1921, questo film rappresenta un'opera fondamentale nella carriera di Chaplin, in cui l'artista non solo recita, ma ha il totale controllo del suo film, occupandosi di scrivere, produrre, dirigere e addirittura comporre la colonna sonora.
Il film racconta la storia di un vagabondo (interpretato da Chaplin) che trova un neonato abbandonato e decide di prendersene cura. Cinque anni dopo, il vagabondo e il bambino, interpretato dal giovane Jackie Coogan (l'attore che sarebbe diventato lo zio Fester ne La famiglia Addams) formano una coppia inseparabile, affrontando insieme le difficoltà della vita. Nel frattempo, la madre del bambino è diventata una famosa attrice, ma pentita di aver abbandonato il figlio, non lo ha mai smesso di cercarlo. Un giorno, il bambino si ammala e il medico che lo visita decide di avvisare le autorità. Gli assistenti sociali tentano di separare il bambino dal Vagabondo, dando vita a una delle scene più strazianti del cinema muto. Alla fine, la madre ritrova il suo bambino e, riconoscente per le cure ricevute dal Vagabondo, decide di accoglierlo nella sua nuova vita.
Fin dalla prima didascalia in cui appare la scritta: «Un film con un sorriso e, forse, una lacrima» si comprende l'intenzione di Chaplin di aggiungere alla classica comicità del periodo, degli ingredienti nuovi quali il sentimento, il dramma e le emozioni. In pratica Chaplin inventa la prima commedia drammatica della storia del cinema.
"Il Monello" è stato girato durante un periodo tumultuoso della sua vita. Appena due settimane prima dell’inizio delle riprese, Chaplin perse suo figlio, di soli tre giorni, e successivamente dovette sostenere le conseguenze legali del divorzio dalla sua prima moglie. Non con poche difficoltà il film venne completato in un anno e mezzo anche perchè Chaplin era un perfezionista maniacale, attento a ogni dettaglio, facendo ripetere le stesse scene più volte e pretendendo il massimo dalla sua troupe.
Tecnicamente il film è composto da inquadrature statiche, come si faceva all'epoca, con campi medi per dare risalto alle movenze degli attori impegnati nella scena.
La storia del giovane orfanello riprende alcuni aspetti della vita personale di Chaplin. La sua infanzia e quella del fratello furono segnate dall’assenza del padre, dalla malattia mentale della madre e da periodi trascorsi in collegi e orfanotrofi.
Attraverso il personaggio del monello, Chaplin riflette profondamente sui propri traumi, affrontando temi come l’abbandono e la povertà. Nel fare questo diventa il padre che hon ha avuto sostituendo le sue tragedie personali con il calore umano e il profondo legame affettivo con il bambino, in un continuo scambio di ruoli che sottolinea la loro reciproca dipendenza. Utilizzando la mimica della comunicazione e la sua prorompente comicità, fatto di movenze, acrobazie, e gag visive, Chaplin denuncia la mancanza di supporto da parte delle istituzioni (nella scena in cui il bambino viene portato via dagli assistenti sociali) che si dimostrano insensibili e inneficaci verso la classe più povera e debole.
Nonostante i dubbi di coloro che, durante le riprese, facevano notare a Chaplin come il sentimentalismo potesse non sposarsi bene con la comicità, il film ottenne un enorme successo, riuscendo a emozionare con quel tocco di ironia e umorismo che da qui in avanti diventerà la caratteristica inconfondibile dei lavori di Chaplin.

Prendi i soldi e scappa
di Woody Allen
Ammetto di non essere mai stato un grande appassionato di Woody Allen. In passato ho visto alcuni suoi film - non tutti perché la sua produzione è vastissima - e anche se alcuni li ho trovati divertenti alla fine il suo umorismo celebrale e verboso non mi ha mai preso più di tanto. Voglio dargli un altra occasione iniziando da quello che può considerarsi il suo primo film.
Quando nel 1969 esce Prendi i soldi e scappa, negli Stati Uniti, Woody Allen è già un comico popolare che da tempo si esibisce nei locali e in televisione, scrive sceneggiature, monologhi e ha già recitato in un paio di film.
Il primo lungometraggio diretto e interpretato da Woody Allen è girato come se fosse un documentario, alternando interviste fittizie a una sequenza di gag che si susseguono una dopo l'altra, per raccontare la storia di Virgil Starkwell, una ragazzo timido e maldestro che decide di intraprendere una carriera criminale compiendo bislacche rapine che puntualmente si rivelano disastrose e che lo portano in prigione da dove cerca in tutti i modi di evadere.
Nonostante dal punto di vista tecnico e della regia si vede che siamo alle prime armi, il personaggio di Woody Allen appare già definito mostrando tutti i tic e le nevrosi del perdente psicotico che il regista newyorchese svilupperà abilmente nei successivi film. La storia in realtà non esiste ed è in funzione delle esileranti gag e della comicità surreale al limite del demenziale. Ovviamente non tutte le gag sono riuscite, anche perchè sono davvero tante, ma quelle riuscite sono parecchio divertenti.

Povere Creature!
di Yorgos Lanthimos
Film che non vedevo l'ora di vedere e che sta riscuotendo parecchio interesse da parte di critica e pubblico.
Vincitore del Leone d'Oro a Venezia e candidato a diversi oscar, Povere Creature! (Poor Things) è l'ultimo film dell'acclamato regista greco Yorgos Lanthimos.
Siamo a Londra alle fine di un ottocento ucronico. Godwin Baxter (Willem Dafoe), un eccentrico medico chirurgo dal volto deforme, compie un esperimento riportando in vita una giovane donna suicida impiantandogli il cervello del feto che portava in grembo e che era sopravissuto. Quando Godwin prende l'allievo Max McCandles (Ramy Youssef) come suo assistente personale per documentare i progressi della sua "creatura", Bella Baxter (Emma Stone) è una bambina nel corpo di una donna adulta che sta compiendo i suoi primi passi nel mondo. Si muove in modo sgraziato, ha un lessico e capacità cognitive limitate, ma cresce di giorno in giorno molto rapidamente.
La svolta, la scintilla che porta Bella ad avere consapevolezza di sè, è la scoperta del proprio corpo e della propria sessualità. Per contenere la sua libido, Godwin decide di darla in sposa a Max ma Bella, spinta dalla voglia di conoscere il mondo e fare nuove esperienze, fugge con l'avvocato Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), un donnaiolo senza scrupoli. I due si imbarcano in un lungo viaggio per l'Europa, durante il quale Bella, oltre ad esplorare con gioia e vitalità il sesso, diventa sempre più autonoma e indipendente. Ha una grande curiosità ed è alla ricerca costante di cose nuove che la gratifichino e l'arricchiscono. Durante una crociera nel Mediterraneo Bella incontra una bizzarra coppia che la introducono alla filosofia e alla cultura, mostrandogli anche la disparità sociale che affligge il mondo. Una volta a Parigi, Bella interrompe la relazione con l'asfissiante Duncan iniziando a lavorare in un bordello dove conosce una ragazza che la introduce al socialismo. Diventata ormai "adulta", una donna emancipata libera di vivere il mondo senza pregiudizi e concetti, Bella Baxter è ormai pronta per tornare a casa.
Povere creature! è una fiaba steampunk, una sorta di Frankenstein ribaltato in cui la protagonista compie un viaggio di crescita e libertà alla scoperta delle gioie e delle contraddizioni del mondo.
Visivamente e tecnicamente il film è un vero gioiello. Campi, controcampi, fish-eye, mascherini, grandangoli. Scenografie che sembrano dipinti, fotografia in bianco e nero alternata ai colori, costumi straordinari, musica dissonante. E' tutto così sublime, stravagante e dosato alla perfezione che cerchi il cavillo per renderlo attaccabile. Nonostante un certo sfoggio di autorialità in cui Lanthimos mischia il suo cinema con quello di Terry Gillian e Tim Burton citando l'espressionismo tedesco e il cinema surrealista di Luis Buñuel, Povere Creature! è un film essenzialmente pop che mischia i generi rendendosi fruibile al grande pubblico. Di certo nella sua stravaganza è il film più hollywoodiano di Lanthimos e per questo prevedo numerosi oscar. Uno di certo lo vincerà Emma Stone perchè oltre alla sua grande interpretazione il personaggio di Bella Baxter merita di entrare nella storia.
Riguardo il messaggio, anche questo film, quasi come a voler cavalcare un tema che va per la maggiore, sembra parlare di emancipazione femminile e lotta al patriarcato. In verità io trovo che la brama di libertà e il percorso di crescita compiuto da Bella Baxter sia più universale. L’evoluzione, la presa di coscienza e la volontà di apprendere per conoscere il mondo e se stessi, si può applicare a chiunque, al di là del genere di appartenenza.
Film straordinario, da rivedere.
Film
C'è ancora domani
di Paola Cortellesi
Incuriosito dal dirompente entusiasmo di critica e pubblico che ha suscitato C'è ancora domani, decido di vedermi il film di esordio di Paola Cortellesi, il film che in Italia ha superato blockbuster come Barbie e Oppenheimer.
Premetto che non sono un amante della attuale commedia all'italiana, e per attuale intendo quella degli ultimi quarant’anni, ovvero il periodo che va da Pozzetto a Zalone con in mezzo tutto il resto. Per me ci sono i Soliti Ignoti per arrivare ai primi Fantozzi e Amici Miei, poi il buio pesto, gli anni ottanta berlusconiani che, tranne rare eccezioni (Verdone, Troisi, Benigni), hanno contribuito a portare non solo la commedia ma tutto il cinema italiano a un lento declino qualitativo. L'attuale millennio neanche lo considero.
C'è ancora domani è una commedia che racconta un dramma, un pò quello che aveva fatto Benigni con La vita è bella. Un dramma che ha la leggerezza di una commedia e che per questo può essere apprezzato dal grande pubblico. Se poi il tema che ci viene raccontato è particolarmente sentito per i fatti di cronaca nera che hanno scosso il nostro paese poco prima dell’uscita del film, senza voler sminuire il buon lavoro della Cortellesi, ecco che si spiega il motivo del grande successo.
Siamo nella Roma del dopoguerra. Delia (Paola Cortellesi) è una donna di casa, madre di tre figli (una femmina e due maschi) e moglie di Ivano (Valerio Mastandrea). Pulisce casa, prepara da mangiare, accudisce lo scorbutico suocero e porta qualche soldo a casa facendo una serie di lavoretti. Le sue giornate trascorrono uguali una dopo l'altra tra dedizione alla famiglia e le continue violenze domestiche che subisce passivamente da parte di un marito autoritario e violento. Le sue uniche distrazioni sono le chiaccherate con l’amica fruttivendola e i fugaci incontri con l’ex amore di gioventù. Ha un rapporto speciale con la figlia più grande, Marcella (la brava Romana Maggiora Vergano) - la quale disprezza la madre per la passività con cui subisce gli abusi - ed è felice quando inizia a frequentare un ragazzo di buona famiglia sperando, almeno inizialmente, in un matrimonio che la possa sistemare. Un giorno Delia riceve una misteriosa lettera che le da speranza per un futuro migliore e il coraggio per una via di fuga da questa realtà opprimente.
C’è ancora domani è un film dichiaratamente femminista, dove protagonista è la donna, quella di allora ma sopratutto quella di oggi, vittima di abusi, sfruttamento e disparità in una società patriarcale e maschilista.
Fin dal primo fotogramma, in cui Paola Cortellesi, appena alzata dal letto, riceve uno schiaffone in pieno viso e poi via, come se niente fosse, a preparare il mangiare e a fare le faccende domestiche, indirizza la piega che il film manterrà per tutta la sua durata. Non è lo schiaffo preso da Monica Vitti o da quella "bottana industriale" della Mariangela Melato, è uno schiaffo che, nella sua comicità surreale, ci restituisce un forte disagio sia nei confronti di chi lo ha ricevuto sia di chi lo ha inflitto.
Il film è girato a Testaccio, quartiere storico popolare di Roma che conosco bene, in un bianco e nero che, seppur scolastico, gli dona una parvenza di autorialità evocando il tanto decantato neorealimo italiano. Indubbiamente la regia è buona così come la sceneggiatura che a parte qualche caduta (il rapporto con il soldato americano e la bomba) ha il merito di portare lo spettatore verso una direzione scontata per poi virare nel finale è fornire un forte messaggio storico/sociale. A parte gli inserti musicali, che oltre brani dell'epoca alterna titoli italiani di altri periodi, ho apprezzato molto la scena delle botte rappresentata come un balletto di un musical. Il sangue sparisce e i toni si alleggeriscono senza però perdere la drammaticità e la potenza del messaggio.
C'è ancora domani è un film girato, costruito e confezionato molto bene. E' un film che se fosse stato candidato come film straniero agli oscar avrebbe avuto più di una possibilità di vincerlo. Pensateci bene, ha tutti gli ingredienti che gli americani apprezzano del cinema italiano con in più il fatto di essere diretto da una donna e di avere un forte messaggio di emancipazione femminile.
Per quanto mi riguarda i capolavori sono altri ma rimane un film più che apprezzabile.
Film
Asteroid City
di Wes Anderson
Da una decina di giorni è arrivato nelle sale cinematografiche Asteroid City, il film di Wes Anderson presentato in concorso all'ultimo Festival di Cannes.
Si tratta di una commedia surreale e grottesca caratterizzata da uno spiccato virtuosimo estetico.
Nel film, Asteroid City è la messa in scena di una commedia teatrale in tre atti e un epilogo narrata da Bryan Cranston, scritta da Edward Norton e girata da Adrien Brody. Il dietro le quinte si distinge dall'essere girato in bianco-e-nero nel formato 4:3. La commedia, ovvero la trama principale del film, è invece girata in 16:9 a colori ed è contradistinta dalla vivace fotografia ormai riconducibile allo stile del regista americano.
La storia è ambientata negli anni cinquanta ad Asteroid City, una città immaginaria nel deserto nota per un grande cratere causato dalla caduta di un meteorite migliaia di anni prima. Qui si tiene un concorso annuale per giovani aspiranti scienziati che presentano le proprie invenzioni, venendo premiati (ma anche privati dei loro brevetti) dall’esercito statunitense. Ad accompagnare i ragazzi troviamo un fotografo di guerra (Jason Schwartzman) che non ha ancora detto ai loro quattro figli della morte della madre, una attrice depressa (Scarlett Johansson) impegnata a memorizzare il suo nuovo copione, e una giovane maestrina (Maya Hawke) che guida una scolaresca. Oltre a loro ci sono il Generale Gibson (Jeffrey Wright), la Dott.ssa Hickenlooper (Tilda Swinton), il manager del motel (Steve Carell), il meccanico del paese (Matt Dillon), il suocero del fotografo (Tom Hanks), e tanti altri personaggi che si alternanano velocemente. L'inaspettato incontro ravvicinato con un alieno costringe il governo americano a mettere in quarantena la popolazione e gli ospiti delle cittadina che così si ritrovano a interagire tra di loro nel cercare di dare un significato all'esperienza che stanno vivendo.
Che dire di questo film, dal punto di vista estetico sembra di trovarsi in un quadro di Edward Hopper in movimento. La fotografia con una profondità di campo che pare infinita è piena di dettagli e tutti gli elementi visivi, compresi i personaggi, sono a fuoco, simmetrici, rendendo ogni singolo fotogramma del film una illustrazione da incorniciare. La panoramica circolare in cui ci viene presentata la cittadina all'inizio del film è spettacolare, per non parlare delle riprese con i carrelli laterali dove i personaggi si muovono staticamente nel loro spazio. Attraverso una palette cromatica ricercata e particolare, la cittadina nel mezzo del deserto sembra faccia parte di un cartone dei Looney Tunes (per un momento appare pure Beep Beep) così come è evidente l'omaggio di Anderson ai film di fantascienza degli anni cinquanta (e di conseguenza al Mars Attack di Tim Burton) con il modellino dell'astronave e il bizzarro alieno. Insomma, stilisticamente ineccepibile.
Tralasciando l’aspetto tecnico e visivo, purtroppo ho trovato il film privo di emozioni, apatico, e piatto a livello narrativo. I personaggi mi sono sembrati privi di umanità. È vero che la trama portante, la parte a colori tanto per intenderci, non è altro che una rappresentazione, ma i personaggi interpretati dagli attori all'interno del metafilm mi sono sembrati troppo distaccati, privi di empatia. Magari è voluto ma se è così non ho colto le motivazioni. Gli stessi bambini, che sono la parte più divertente del film - in particolar modo le tre bambine - sono fuori dalle righe, sembrano dei robot. Qualcuno mi potrà dire che si tratta di una volontà stilistica dell'autore, bene ma forse non è nelle mie corde anche se Grand Budapest Hotel al tempo mi era piaciuto molto.
E' un film bello da vedere, nella forma e nell'estetica, senza ombra di dubbio. Tuttavia la storia e i contenuti personalmente non mi hanno suscitato nessuna emozione.
Un film vuoto nella sua grande bellezza estetica.