Eddington
di Ari Aster
Ari Aster, autore di Hereditary, Midsommar e Beau ha paura, è ormai considerato uno dei registi più interessanti del cinema di genere contemporaneo. Fin dai primissimi anni della sua carriera aveva in mente di realizzare Eddington, con l’intento di raccontare l’America di oggi attraverso un western contemporaneo. Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film ha suscitato reazioni fortemente contrastanti. Alcuni critici hanno elogiato l’audacia politica e la volontà di usare il genere per parlare del presente, altri lo hanno definito sbilanciato, confusionario e dispersivo.
Io l’ho visto al cinema e devo dire che ancora lo devo metabolizzare... proverò a farlo scrivendo questa recensione.
Il film è ambientato durante la pandemia di Covid-19, nell’estate del 2020, in una cittadina immaginaria del Nuovo Messico chiamata Eddington, poco più di duemila abitanti. Lo sceriffo locale, Joe Cross (Joaquin Phoenix), non sembra particolarmente incline a rispettare le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria (come l’obbligo di indossare la mascherina) e finisce per scontrarsi con il sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal), uomo dagli interessi poco chiari legati alla costruzione di un gigantesco data center nei pressi della città, impegnato nella campagna per la propria rielezione. Tra i due non corre buon sangue nemmeno sul piano personale, per vecchie ruggini che riguardano la moglie dello sceriffo, Louise (Emma Stone), una donna segnata dalla depressione, che secondo la madre di quest'ultima, figura ossessiva e complottista, sarebbe stata violentata da Garcia quando erano ragazzi.
Più per rivalsa che per reale convinzione politica, Cross decide di candidarsi a sindaco contro di lui. Mentre Eddington si frantuma sotto il peso delle paure collettive, dell’isolamento, della disuguaglianza e delle proteste del movimento Black Lives Matter (seguite alla morte di George Floyd da parte della polizia), Joe Cross, ferito anche dall’abbandono della moglie, attratta da Vernon Jefferson Peak (Austin Butler), un carismatico guru a capo di una setta che accoglie vittime di abusi, inizia a covare un senso di rivalsa che presto esploderà in tutta la sua violenza.
Insomma, come si intuisce da questa sinossi (e manca tanto altro, ve lo assicuro) qui c’è davvero tanta carne al fuoco. Sono molti i protagonisti, le storie e le sottotrame che si intrecciano. Eddington non è un film complesso, come poteva esserlo Beau ha paura, ma sicuramente è molto stratificato. Aster ingloba più generi, passando dal western alla satira, dalla commedia grottesca al thriller politico-sociale, usandoli con grande abilità per costruire un affresco beffardo e minaccioso sull'America di oggi.
La pandemia di Covid-19 — primo film di un certo peso a trattare esplicitamente questo tema — è solo il punto di partenza per isolare la cittadina del Nuovo Messico in una bolla, un microcosmo dove il razzismo, le disuguaglianze, i complotti, i guru, le proteste e la disinformazione diventano specchio deformante del paese intero. È un mondo dove un senzatetto ubriaco, presunto portatore del virus, può sparire senza che nessuno si chieda che fine abbia fatto, e dove l’edificio più grande del paese è un’armeria. Un'America in miniatura, dove i social network e la manipolazione dell’informazione sono dominanti (non credo sia un caso che più di una volta compare Trump mentre il protagonista scorre le notizie sul suo cellulare). Un video su Instagram può cambiare la percezione pubblica di un evento, una fotografia può essere usata come prova per incastrare il nero di turno, e la verità diventa solo un’altra narrazione da manipolare.
Il film si divide sostanzialmente in due parti. Nella prima, Aster introduce i personaggi — quasi tutti moralmente discutibili — e imposta i temi centrali con una messa in scena dilatata, statica, fatta di dialoghi e tensioni sotterranee. È un’esposizione volutamente lenta, dove la provincia americana viene ritratta come una terra stanca, piena di frustrazioni e paranoia. Nella seconda parte, Eddington cambia tono e ritmo, la storia si trasforma in un thriller politico con tratti da western urbano, fino a culminare in un epilogo amaro e disperato. Aster spinge sull’azione e la tensione diventa tangibile, quasi fisica. Splendida, per esempio, la sequenza in cui lo sceriffo, ansimante e armato di tutto punto, si muove tra i colpi dei cecchini mentre la macchina da presa si muove intorno a lui cercando di capire dove si trovino.
Joaquin Phoenix offre un’interpretazione di grande intensità, mostrando insieme fragilità, rabbia e bisogno di riscatto. Pedro Pascal è altrettanto convincente nel ruolo del sindaco Garcia, ambiguo e viscido quanto basta. Emma Stone, invece, rimane più ai margini, diventando una pedina funzionale alle svolte narrative.
Eddington è un film ambizioso, a metà strada tra Tarantino e i fratelli Coen, che mescola satira sociale, noir e western moderno per dissacrare la società americana, prendendo in giro tanto i conservatori quanto i progressisti, i complottisti quanto i moralisti della giustizia sociale. È sicuramente un film che, per la mole di temi e sfumature, richiede più di una visione. Non credo di essere il solo ma Eddington mi ha ricordato Una battaglia dopo l’altra per la sua capacità di raccontare la crisi americana contemporanea attraverso il caos e l’ironia. Personalmente gli preferisco Anderson, ma va riconosciuto ad Aster il coraggio di essersi spinto oltre il suo territorio consueto, firmando un film d’autore ironico, feroce, e amaramente lucido. Un viaggio dentro l’America ferita e paranoica del presente, raccontata con l’occhio cinico e beffardo di chi non crede più a nessuna verità.
Film
La grande guerra
di Mario Monicelli
Recentemente mi sono accorto che molti dei film italiani del passato a cui, in un modo o nell’altro, sono legato, portano la firma di Mario Monicelli. Mi riferisco a I soliti ignoti, L’armata Brancaleone, Amici miei, ma anche a Il marchese del Grillo. Film che ho visto e rivisto in passato quando passavano in televisione, senza però rendermi conto che dietro a quelle storie tanto diverse c’era lo stesso regista.
Spulciando la sua filmografia, mi sono reso conto di non aver mai visto uno dei suoi titoli più celebrati, La grande guerra. Probabilmente perché non ho mai amato il neorealismo italiano, tantomeno i film di guerra. Ma ogni tanto, per ampliare i propri orizzonti e riscoprire le radici del nostro cinema, vale la pena uscire dalla propria comfort zone cinematografica.
Il film racconta la storia di due uomini comuni, Giovanni Busacca e Oreste Jacovacci, interpretati rispettivamente da Vittorio Gassman e Alberto Sordi, catapultati nella tragedia della Prima guerra mondiale. Diversi per indole e provenienza — uno milanese sbruffone, l’altro romano opportunista e pavido — si ritrovano arruolati nello stesso battaglione, uniti più dal desiderio di sopravvivere che da un autentico spirito patriottico.
Attraverso le loro disavventure, Monicelli costruisce un racconto corale che mescola ironia e dramma, restituendo la quotidianità di una guerra assurda e spietata, fatta di fame, paura e disillusione. Leone d’Oro per il miglior film al Festival di Venezia, La grande guerra non ebbe vita facile fin dalla sua produzione, venendo osteggiato da critici, giornalisti e politici perché, per la prima volta, mostrava con realismo e cinismo le reali condizioni dei soldati italiani — spesso analfabeti, male armati e peggio equipaggiati — mandati a morire in un conflitto di cui non comprendevano fino in fondo le ragioni.
Rispetto ai corrispettivi film di guerra hollywoodiani del periodo, non c’è il clima epico e celebrativo, bensì un realismo amaro e disincantato, dove i protagonisti non sono eroi ma due uomini comuni, pavidi e opportunisti, che cercano in ogni modo di scansare il pericolo e tirare a campare. Eppure, proprio loro, nel finale, finiranno per affrontare la morte con un coraggio che non hanno mai mostrato in vita.
Una pellicola dissacrante su un tema fino ad allora intoccabile, che demolisce la retorica patriottica e mette a nudo i massacri della Grande Guerra e le miserie dell’esercito italiano, stemperando il tutto con un uso intelligente e calibrato della commedia.
Tra le tante sequenze, mi ha colpito un piano sequenza in cui una fucilazione avviene sullo sfondo mentre intorno la vita del campo continua come se nulla fosse, oppure la scena del soldato ucciso perchè costretto a consegnare una lettera dal comando agli ufficilali con gli auguri di Natale e l’ordine di distribuire grappa ai reparti.
Meno necessarie, secondo me, le parti più sentimentali, quelle che coinvolgono il personaggio di Silvana Mangano, che spezzano un po’ il ritmo e la coerenza del tono generale.
La grande guerra non rientra tra i "miei" film — non è il tipo di cinema che soddisfa i miei gusti — ma ne risconosco il suo valore storico e culturale. È un film che cammina costantemente sul filo tra dramma e commedia, capace di trovare un equilibrio raro, sostenuto dall'interpretazioni straordinarie di Gassman e Sordi.
I due, insieme, restituiscono un ritratto autentico dell’Italia dell’epoca, fatto di dialetti che si intrecciano tra soldati di ogni regione, di piccoli espedienti per tirare avanti e di quella miscela di ingenuità e furbizia che, nel bene e nel male, ha sempre contraddistinto il nostro paese.
Un film che ricorda quanto la guerra, anche quando è raccontata con ironia, resti sempre una tragedia collettiva fatta di uomini qualunque.
Io e Annie
di Woody Allen
Mi sono rivisto Io e Annie di Woody Allen senza sapere che, poche ore dopo, Diane Keaton ci avrebbe lasciati. Una coincidenza singolare per un film che non è soltanto una commedia romantica, ma una dichiarazione d’amore scritta da Allen su misura per lei. In Annie Hall, la Keaton ha saputo incarnare come poche attrici la leggerezza e l’intelligenza, l’eccentricità e la vulnerabilità del mondo femminile.
Vincitore di quattro premi Oscar – miglior film, regia, sceneggiatura originale e attrice protagonista – Io e Annie è l’opera che ha consacrato Woody Allen tra i grandi del cinema americano, raccontando con ironia e malinconia il mistero delle relazioni umane: la difficoltà di amarsi senza ferirsi, di restare sinceri quando tutto si complica. Un film fortemente autobiografico per entrambi, intriso di una dolce malinconia.
Alvy Singer (Woody Allen) è un comico newyorkese brillante e nevrotico, ossessionato dall’analisi di sé e del mondo che lo circonda. Annie Hall (Diane Keaton) è una giovane donna solare, spontanea, un po’ disordinata ma piena di fascino. Si incontrano quasi per caso, si innamorano, vivono una relazione intensa fatta di entusiasmi, incomprensioni e piccole manie quotidiane.
Attraverso una narrazione frammentata, fatta di ricordi, dialoghi interiori, salti temporali e momenti surreali, Allen ricostruisce la loro storia d’amore dal punto di vista di Alvy, cercando di capire dove e perché le cose si siano incrinate. Il risultato è un racconto personale e universale allo stesso tempo, una riflessione sull’amore, la memoria e l’impossibilità di afferrare davvero ciò che ci ha resi felici.
Io e Annie segna una svolta nella carriera di Woody Allen, che abbandona le commedie surreali e farsesche degli inizi per un racconto più intimo e malinconico. È il film in cui il suo cinema diventa adulto, più introspettivo, intellettuale e nevrotico. Sono gli elementi che lo contraddistingueranno e diventeranno la cifra essenziale della seconda parte della sua carriera.
La storia d’amore tra Alvy e Annie è raccontata come un mosaico di ricordi, frammenti e riflessioni. Allen rompe continuamente la linearità del racconto, sfonda la quarta parete parlando direttamente allo spettatore, interagisce con la propria memoria, entra nei flashback e mescola realtà e immaginazione. Questo gioco metacinematografico, allora innovativo, restituisce perfettamente la confusione emotiva e la nostalgia che accompagnano ogni relazione finita. È un film che mette a nudo la fragilità dell’essere umano, incapace di razionalizzare l’arrivo dell’amore così come la sua perdita.
Diane Keaton, con la sua naturalezza e un’elegante goffaggine, dà vita a un personaggio indimenticabile. È la controparte perfetta del nevrotico Alvy, e la loro chimica, fragile e autentica, rimane una delle più sincere del cinema.
Allen alterna umorismo e malinconia con ritmo brillante, a tratti logorroico ma sempre arguto e sagace. Tra battute e riflessioni, tra pessimismo e leggerezza, parla dell’amore come di un’illusione necessaria, un’esperienza che, anche quando finisce, ci lascia qualcosa di vero. Riguardato oggi, il film conserva intatta la sua forza, quella di raccontare la solitudine e il desiderio di comprendersi, con la grazia di chi non pretende risposte ma accetta la confusione dei sentimenti. Dove anche l’amore più complicato può essere bellissimo.
The Truman Show
di Peter Weir
Peter Weir, regista che ho amato più per l'onirico Picnic ad Hanging Rock che per il celebrato L’Attimo fuggente, alla fine degli anni novanta porta sullo schermo The Truman Show, una brillante satira sul potere dei media e sulla spettacolarizzazione della vita. Un film che anticipa di qualche anno l’esplosione dei reality e segna per Jim Carrey la svolta verso il suo primo ruolo drammatico di rilievo.
Truman Burbank vive a Seahaven convinto che la sua quotidianità sia naturale. In realtà la sua vita è il set di un programma televisivo in onda ventiquattro ore su ventiquattro, e ogni persona intorno a lui è attore o comparsa. Quando piccoli indizi cominciano a incrinare la sua percezione della realtà, Truman inizia a sospettare che il mondo che conosce sia costruito e decide di cercare una via d'uscita. La progressiva presa di coscienza mette in crisi l'intero sistema che ha fondato lo spettacolo, fino allo scontro finale tra il bisogno di verità dell'individuo e la macchina mediatica che lo ha creato.
The Truman Show è un classico degli anni novanta, un vero e proprio cult di una generazione. Rivederlo oggi, a distanza di decenni, forse attenua l’effetto sorpresa, ma resta una pellicola folgorante, capace di anticipare il fenomeno dei reality show — esploso poco dopo anche in Italia con il Grande Fratello, i talent e tutto quel mare di programmi spazzatura — mescolando fantascienza e commedia, spot pubblicitario e sit-com di altri tempi. In superficie appare come un film leggero e divertente, ma sotto la patina c'è una critca tagliente verso media e società. Il confine tra libertà e illusione viene mostrato come una prigione dorata, un acquario perfetto dove tutto è costruito, un surrogato di realtà da osservare per vivere le emozioni degli altri piuttosto che affrontare le proprie.
Jim Carrey offre una prova sorprendente, liberandosi dai ruoli comici che lo avevano reso celebre per incarnare un moderno Adamo intrappolato in una sorta di Eden orwelliano, manipolato da un dio distopico interpretato da un bravissimo Ed Harris. La sua ricerca della verità passa anche attraverso il ricordo di un'Eva perduta, unica traccia autentica in un mondo di menzogne.
Oggi, immersi in reel, tiktok e video generati dall’intelligenza artificiale, il film non colpisce più con la stessa forza profetica, ma rimane uno specchio scomodo in cui guardarsi, un monito sulla fragilità della nostra libertà di spettatori e individui.
Film
I soliti ignoti
di Mario Monicelli
Mi è capitato di rivedere per l'ennesima volta I soliti ignoti di Mario Monicelli. Considerato a ragione un capolavoro del genere, nonchè la prima commedia all’italiana, I soliti ignoti è un film seminale che raccoglie l’eredità di quel realismo, che ha raccontato l'Italia povera e disillusa del dopoguerra, trasformandola in una commedia dal sorriso amaro.
Ambientata a Roma, la storia segue le vicende di un gruppo di piccoli delinquenti e giovani di strada che dopo aver ricevuto una soffiata tentano il grande colpo provando a svuotare la cassaforte del Banco dei Pegni. A guidare la banda è il pugile fallito Peppe detto “er Pantera” (Vittorio Gassman) che raduna un gruppo di improvvisati delinquenti composto dal fotografo squattrinato Tiberio (Marcello Mastroianni) alle prese con un neonato perché la moglie è in prigione, il siciliano Ferribotte (Tiberio Murgia), il vecchio e sempre affamato Capannelle (Carlo Pisacane) e il giovane Mario (Renato Salvatori), che finirà per innamorarsi della sorella di Ferribotte (Claudia Cardinale). A dispensare consigli tecnici è l’esperto scassinatore Dante Cruciani (Totò). Quello che sembra un piano ingegnoso, però, si rivela presto un’impresa tragicomica, fatta di goffaggini e imprevisti, destinata a concludersi in modo tanto disastroso quanto esilarante.
Nato come una parodia del noir francese Rififi, I soliti ignoti è una commedia che ancora oggi sembra non avere età. Tutto funziona alla perfezione: i tempi comici, la scrittura, il ritmo della regia. Monicelli riesce a mescolare momenti di puro divertimento a spunti di riflessione amara, creando quella formula che diventerà la base della commedia all’italiana.
Il cast è uno dei punti di forza. La scelta di affidare il ruolo principale a Vittorio Gassman, fino ad allora considerato solo attore drammatico, si rivela azzeccatissima. il suo personaggio è goffo, spavaldo e irresistibile. Accanto a lui troviamo un giovane Marcello Mastroianni, lontano dai ruoli sofisticati che interpreterà negli anni successivi, e un Totò in una parte breve ma fondamentale, simbolo di un passaggio dal vecchio modo di fare comicità a uno più moderno e strutturato. Senza dimenticare caratteri indimenticabili come il sempre affamato Capannelle, l’irascibile siciliano Ferribotte, il primo ruolo importante per la compianta Claudia Cardinale, nonchè la prima apparizione della Sora Lella.
Il merito va anche a una sceneggiatura impeccabile firmata da Monicelli insieme a Age, Scarpelli e Suso Cecchi D’Amico, capace di costruire personaggi che diventano veri e propri archetipi di un'Italia povera ma piena di vitalità. Non a caso il film ottenne riconoscimenti importanti, come il Nastro d’Argento e la candidatura all’Oscar nel 1959, oltre a generare due seguiti e ispirare negli anni successivi diversi remake americani.
I soliti ignoti non è solo una commedia divertente, ma il primo grande manifesto di un genere che farà scuola in tutto il mondo, quella di raccontare i nostri limiti con un sorriso, senza mai perdere l’umanità.
Film“Rubare è un mestiere impegnativo, ci vuole gente seria, mica come voi! Voi, al massimo, potete andare a lavorare!”
Il grande Lebowski
di Joel ed Ethan Coen
Un capolavoro assoluto, un cult che ha segnato la mia generazione. Uno di quei film che si citano a memoria e che rivedi ogni volta con lo stesso piacere. Insieme a Frankenstein Junior, è probabilmente uno dei miei comfort movie preferiti, la commedia a cui sono più legato. Sì, lo so, definirla semplicemente una commedia è riduttivo. In questo film convivono il pulp, il grottesco, il noir e persino il surreale. Sto parlando de Il grande Lebowski, il film del 1998 scritto e diretto da Joel ed Ethan Coen. Accolto in modo tiepido alla sua uscita, negli anni successivi è diventato un vero e proprio cult movie, capace di generare festival, citazioni infinite e persino una filosofia di vita, il "dudeismo".
Jeffrey Lebowski (Jeff Bridges), detto “Il Drugo” — The Dude in originale — non è certo un uomo d’azione. Vive a Los Angeles, si veste con vestaglie consunte, beve White Russian come fossero acqua e si accontenta di poco: «bowling, un giro in macchina e un trip d’acido quando capita». La sua vita scorre lenta, almeno finché due scagnozzi non piombano nel suo appartamento, lo scambiano per un altro Lebowski e, per sottolineare il malinteso, gli pisciano sul tappeto. Un tappeto che, come ripeterà più volte, «dava davvero un tono all'ambiente».
Spinto dall’amico Walter (John Goodman), un reduce del Vietnam incline alla collera con cui condivide, insieme all'ingenuo Donny (Steve Buscemi), la passione del bowling, il Drugo decide di chiedere un risarcimento al "Grande" Lebowski (David Huddleston), un ricco filantropo paraplegico. Ma invece di un tappeto nuovo, finirà coinvolto in una storia di rapimento che non gli appartiene, con valigette di denaro che spariscono, nichilisti tedeschi che minacciano di tagliargli "il pisello", e una galleria di personaggi uno più assurdo dell'altro. Tra sogni lisergici sulle piste da bowling, artisti concettuali, e partite che non arrivano mai a conclusione, Il grande Lebowski diventa una parabola comica e surreale su un uomo che non chiede altro che vivere in pace, sdraiato sul suo tappeto ad ascoltare le cassete con i suoni delle piste di boowling.
Partiamo dalla storia, probabilmente, per molti, il punto debole del film. I fratelli Coen prendono la struttura classica del noir hard-boiled — detective riluttante, caso di rapimento, femme fatale, soldi che passano di mano in mano — e la ribaltano in chiave comica e assurda. Più l’intreccio si ingarbuglia, più questa confusione genera la sensazione di una trama che gira a vuoto e non porta da nessuna parte. Eppure è proprio questo folle carosello di situazioni grottesche e surreali a produrre comicità, restituendo l’immagine di un mondo fuori controllo.
Ma la vera forza dirompente di questo film sono i personaggi, interpretati da attori in stato di grazia, squisitamente sopra le righe eppure coerenti nella loro follia. Il Drugo è un “cazzone” pigro, svagato, trasandato, il tipo che sembra essersi alzato dal letto da poco, e che «rispetta un regime di droghe piuttosto rigido per mantenere la mente flessibile». Evita conflitti, accetta il flusso della vita e afferma con placida ironia la sua filosofia. Ma la sua indifferenza non è passività, è una scelta deliberata per mantenere la pace e la propria serenità interiore. Jeff Bridges dà vita a un hippie degli anni novanta, senza un lavoro né ambizioni, ma con una sorprendente fierezza nel restare ai margini. Il Drugo è un anti-eroe pigro e svagato, refrattario a qualsiasi responsabilità, una specie di Homer Simpson in carne e ossa che affronta il fallimento quotidiano con noncuranza, tra un White Russian e una partita a bowling. Più che un perdente, è la caricatura vivente di chi rifiuta le logiche del successo e del consumismo, trovando nella sua indolenza una forma di libertà. Senza dubbio il miglior ruolo della carriera di Bridges, tanto da comparire stabilmente tra i cento personaggi cinematografici più amati di sempre. Accanto a lui troviamo Walter Sobchak, reduce del Vietnam nevrotico e irascibile, pronto a puntare una pistola contro chiunque non rispetti le regole del bowling — «amico mio, stai per entrare in una valle di lacrime». Vive una guerra personale senza fine, giustificando ogni sua azione come morale e riportando ogni discussione, anche la più banale, al trauma post-bellico — «Questo non è il Vietnam, è il bowling: ci sono delle regole». È un personaggio tragicomico. La sua incapacità di adattarsi al presente lo rende commovente, ma anche speventosamente inquietante. Poi c’è Donny, l’anima innocente, sempre zittito da Walter. Steve Buscemi, solitamente logorroico, qui regala un personaggio fatto di silenzi che diventa vittima tragica. Attorno a lui è nata perfino una teoria suggestiva, secondo cui Donny sarebbe morto in Vietnam e la sua presenza nel film sarebbe solo una proiezione mentale di Walter. A sostegno di questa idea viene citato il fatto che Donny e il Drugo non interagiscono quasi mai, e persino la scena delle ceneri — una delle sequenze più esilaranti di tutta la pellicola — sarebbe solo un gesto pietoso del Drugo per assecondare l’amico. Una lettura affascinante, che non fa che alimentare il culto del film.
Oltre al trio di scanzonati perdenti si muove un’intera galleria di personaggi eccentrici, a partire da Jesus Quintana (John Turturro), protagonista di una scena iconica sulle note di “Hotel California” nella versione dei Gipsy Kings; Maude Lebowski (Julianne Moore), artista concettuale e femminista, fredda e spiazzante; Jackie Treehorn (Ben Gazzara), regista porno mellifluo e manipolatore; lo “Straniero” (Sam Elliott), cowboy fuori dal tempo che con le sue bislacche gemme di saggezza tenta di dare un senso alla vicenda — «a volte sei tu che mangi l’orso e altre volte è l’orso che mangia te». Fino ai nichilisti tragicomici, musicisti falliti che hanno inciso un improbabile disco techno-pop con un’estetica alla Kraftwerk.
Un caleidoscopio di personaggi memorabili, ognuno perfettamente delineato, che arricchiscono la trama con deviazioni imprevedibili e sogni lisergici.
Se proprio bisogna trovargli un difetto, è che dopo una prima parte strepitosa e piena di invenzioni, la seconda metà perde un po’ di slancio e alcune situazioni sembrano un po' forzate, come la relazione tra il Drugo e Maude. Ma non è certo questo a rovinare l’esperienza, Il grande Lebowski è un film che si gusta per i suoi personaggi, per le scene cult, per le battute che restano incollate alla memoria. Non è tanto la trama a contare, quanto l’atmosfera che ti trascina dentro, stando al fianco di quel fancazzista di Drugo trascinato suo malgrado in un vortice di assurdità più grandi di lui. Un film che, in fondo, non ha bisogno di andare da nessuna parte per restare indimenticabile.
«L’oscurità si abbatté su Drugo, più nera del batacchio di un manzo nero in una notte senza luna nella prateria. Non c’era fine.»
Film
Fuori orario
di Martin Scorsese
Ricordo di aver visto per la prima volta Fuori orario di Martin Scorsese in un vecchio vhs. Un vero colpo di fulmine. Senza ombra di dubbio una delle mie commedie preferite di sempre.
Uscito nel 1985, Fuori orario segna una parentesi insolita nella carriera di Scorsese. Dopo il successo di film drammatici e monumentali, il regista si avventura in una black comedy surreale, fatta di equivoci grotteschi al limite dell'assurdo, ambientata in una New York notturna e labirintica. Inizialmente il film doveva essere diretto da Tim Burton — non oso immaginare agli strambi mostricciatoli che avrebbe messo in scena — ma Scorsese rimase così affascinato dalla sceneggiatura di Joseph Minion che decise di farlo suo.
Paul Hackett (Griffin Dunne) è un giovane impiegato intrappolato in una routine grigia e prevedibile. Una sera, dopo il lavoro, incontra in un bar una ragazza (Rosanna Arquette) con cui scambia una conversazione piacevole e ottiene il numero di telefono della sua amica, da cui è ospite. Tornato a casa, decide di raggiungerla nel quartiere di Soho, sperando di vivere un’avventura diversa dal solito e di lasciarsi alle spalle, almeno per una notte, la monotonia quotidiana. Ma quello che sembra un appuntamento innocuo si trasforma ben presto in una notte interminabile, segnata da contrattempi assurdi e incontri con personaggi eccentrici. Più Paul cerca di riprendere il controllo e tornare a casa, più si ritrova intrappolato in un vortice grottesco che lo spinge ai limiti della sopportazione.
Pur non venendo considerato tra i film più importanti di Scorsese, Fuori Orario rimane la pellicola a cui sono più affezionato. Ha quasi l’aria di un film indipendente, come se fosse l’opera prima di un regista promettente, ma Scorsese aveva già firmato capolavori come Taxi Driver e Toro Scatenato. Qui si muove su un registro diverso, realizzando una commedia noir grottesca, che si consuma nell’arco di una sola notte, dove un uomo normale si perde in una New York notturna affascinante e spettrale che si trasforma in un labirinto di vicoli ciechi, imprevisti e coincidenze paradossali che lo portano a conoscere personaggi e affrontare una serie crescente di complicazioni, fino a rendere la sua discesa sempre più surreale. Tutto sembra governato dall'imprevisto, è il caso, insieme alle sue scelte sbagliate, a trascinarlo nei guai ed è ancora il caso, beffardo e imprevedibile, a restituirlo infine alla sua normalità.
Griffin Dunne, perfetto nel ruolo del protagonista, interpreta un personaggio profondamente kafkiano — e da adolescente Kafka era tra le mie letture preferite — perseguitato da un destino tanto cinico quanto imperscrutabile, che a un certo punto esplode in strada urlando: “Perché tutto questo proprio a me? Sono un semplice programmatore di computer!”. È la battuta che meglio riassume il cuore del film, la sconfitta dell’uomo comune davanti all’assurdità del mondo.
Con un ritmo incredibile, Scorsese mette in scena un viaggio notturno dove alienazione e assurdità regnano sovrane. È un percorso iniziatico dentro il malessere e l’incomunicabilità di una città popolata da artisti, tassisti, cameriere, punk sadomaso, ladri e suicidi. Un mondo in cui i confini tra sogno e realtà si sfumano continuamente, e in cui l’inquietudine diventa così estrema da risultare esilerante. La forza del film sta proprio lì, nel perfetto equilibrio tra tensione e umorismo, tra incubo e risata.
Per certi versi, la frustrazione di Paul mi ha ricordato quella del protagonista di Brazil di Terry Gilliam — un altro dei miei film preferiti, uscito peraltro nello stesso anno. Due opere diversissime, che hanno un finale diverso ma unite dalla stessa ironia nera.
Un cult, insomma. Uno di quei film che mi rivedo sempre volentieri.
Film
Amore e guerra
di Woody Allen
Amore e guerra è l'ultimo film della prima fase cinematografica di Woody Allen, quella più leggera e demenziale, segnata da gag parodistiche, ritmo slapstick e comicità surreale. È un capitolo che chiude il periodo della commedia nosense, poco prima che Allen intraprenda una direzione più matura e sofisticata.
Il film è ambientato nella Russia del XIX secolo. Il protagonista, Boris Grushenko (Woody Allen), è un giovane codardo, intellettuale e pacifista, che si ritrova suo malgrado coinvolto nelle guerre napoleoniche. Più incline alla filosofia che alle armi, Boris attraversa situazioni paradossali che lo trasformano, suo malgrado, in protagonista di vicende epiche e grottesche. Innamorato della sua cugina Sonja (Diane Keaton), una donna brillante e pungente, dopo essere riuscito a ottenere la sua mano in matrimonio, sopravivendo sorprendentemente a un duello, Boris pur riluttante, accetta di aiutarla ad assassinare Napolene dopo che l’imperatore francese ha invaso la russia.
Tra riflessioni esistenziali e gag surreali, il film è una parodia della Russia ottocentesca e della letteratura russa, con citazioni da Dostoevskij e Tolstoj e omaggi a Ingrid Bergman o alla Corazzata Potemkin.
Apparentemente potrebbe sembrare una stramba commedia storica, ma sotto la superficie emerge l’inquietudine esistenziale del regista e la paura della morte, già evidente nel titolo originale Love and Death.
Non tutto è perfetto, alcune scene risultano ridondanti, ma il film diverte con alcune scene che restano memorabili, come il padre con la zolla in mano e i dialoghi filosofici che trasformano i capolavori dostojevskiani in gag irresistibili. Buona la cura nei costumi e nelle scenografie e brava Diane Keaton, stralunata e brillante. L'affiatamento con Allen è già palpabile e sarà destinato a maturare in Io e Annie, dove l’umorismo si intreccerà con riflessioni esistenziali e malinconiche.
La guerra lampo dei Fratelli Marx
di Leo McCarey
Tra i grandi miti dell’età d’oro della comicità hollywoodiana si citano spesso Charlie Chaplin, Stan Laurel e Oliver Hardy o Buster Keaton, ma raramente i Fratelli Marx. Li ho sempre sentiti nominare, eppure devo ammettere di conoscerli poco. Per chi, come me, è cresciuto leggendo fumetti, il personaggio di Groucho Marx è forse più familiare nella sua versione di spalla geniale di Dylan Dog che non sul grande schermo. Eppure, nonostante la fama, non avevo mai visto uno dei loro film. Ho quindi deciso di colmare questa lacuna recuperando La guerra lampo dei Fratelli Marx, uscito nel 1933 e noto anche come Zuppa d’anatra, traduzione letterale del titolo originale Duck Soup.
I Fratelli Marx sono Groucho, Harpo, Chico e Zeppo. Quattro fratelli che, tra gli anni venti e quaranta, hanno portanto dal vaudeville al cinema un umorismo caotico, surreale e critico nei confronti dell'autorità. Groucho con la sua parlantina e le battute era la lingua affilata e irriverente, Harpo il clown muto imprevedibile che comunicava solo con gesti, Chico, con il suo finto accento italiano, era il truffatore dal cuore buono, Zeppo la spalla “normale”.
La guerra lampo dei Fratelli Marx è forse il loro film più politico e beffardo, un concentrato di gag memorabili e frecciate contro il nazionalismo e l’assurdità della guerra, uscito qualche anno prima che il mondo scivolasse verso la Seconda Guerra Mondiale.
Di seguito la sinossi del film. Nello stato immaginario di Freedonia, sull’orlo del fallimento, la facoltosa signora Teasdale accetta di concedere un prestito solo se alla guida del paese verrà nominato Rufus T. Firefly (Groucho Marx). Il nuovo presidente, eccentrico e imprevedibile, scatena subito il caos. Intanto la confinante Sylvania invia due spie, Chicolini (Chico Marx) e Pinky (Harpo Marx), per destabilizzare il governo, ma i loro piani si ribaltano in situazioni sempre più assurde. Tra equivoci, gag e dialoghi fulminanti, la tensione degenera fino a una guerra tanto ridicola quanto irresistibile.
La guerra lampo dei Fratelli Marx è un concentrato di satira, follia e nonsense che smaschera l’assurdità della guerra e dei giochi di potere. Pur potendo sembrare datato, conserva un fascino retrò che richiama l’operetta teatrale. Per coglierne appieno la verve sarebbe ideale vederlo in lingua originale, poiché molte battute di Groucho si basano su doppi sensi che nella traduzione si perdono. Memorabile la scena dello specchio, da sola vale mezzo film. La pellicola irride gli stati totalitari e non sorprende che negli anni trenta sia stata proibita in Italia e Germania. Da noi arrivò solo nel 1972, direttamente in televisione, con un doppiaggio realizzato per l’occasione. Rivedendolo oggi si percepisce chiaramente quanto registi come Woody Allen (soprattutto per Groucho) e Mel Brooks gli siano debitori. Negli anni Novanta l’American Film Institute lo ha inserito tra i migliori cento film statunitensi di sempre.
Film
Idiocracy
di Mike Judge
Prima di parlare di Idiocracy serve una premessa. Negli anni ottanta lo psicologo neozelandese James R. Flynn notò che, dai primi del novecento fino a quel periodo, il quoziente intellettivo medio della popolazione era cresciuto costantemente, il cosiddetto "effetto Flynn". Negli ultimi decenni (soprattutto dal 1990-2000 in poi) questo trend si è fermato e ha iniziato a scendere. In poche parole, la Generazione Z — secondo alcuni studi — risulta in media meno intelligente di chi l’ha preceduta.
I colpevoli? Una scuola meno efficace, stili di vita meno sani, stimoli rapidi e continui, meno lettura e più social. Diciamocelo, passare ore a scorrere reel su Instagram o TikTok, o affidarsi all’intelligenza artificiale per avere risposte senza sbattersi a cercarle, non aiuta certo a tenere il cervello allenato.
Idiocracy, commedia fantascientifica scritta e diretta da Mike Judge, all’uscita passò quasi inosservata. Col tempo, però, è diventata un piccolo cult perché — forse senza nemmeno volerlo — anticipa di vent’anni la piega che sta prendendo il nostro futuro, prevedendo con ironia (e un po’ di terrore) l’involuzione del popolo occidentale.
Nel 2005 Joe Bauers (Luke Wilson), soldato scelto per la sua assoluta mediocrità, e Rita (Maya Rudolph), prostituta braccata dal suo pappone, vengono selezionati per un esperimento di ibernazione. L’intenzione era di tenerli addormentati per un anno, ma qualcosa va storto e i due si risvegliano 500 anni dopo. La Terra non è più quella di una volta, le persone più intelligenti hanno avuto pochi o nessun figlio, mentre quelle meno brillanti si sono riprodotte senza freni. Il risultato è che il quoziente intellettivo medio è precipitato, la cultura è scomparsa e la società è dominata da pubblicità invadenti, fast food, intrattenimento becero e decisioni assurde (come innaffiare i campi con una bibita energetica). In questo caos, Joe e Rita si ritrovano paradossalmente a essere le menti più brillanti del pianeta cercando di sopravvivere in un mondo popolato e governato da deficenti.
Partendo dal detto “la madre degli imbecilli è sempre incinta”, il film si apre come un finto documentario che illustra come, anno dopo anno, l’umanità sia diventata sempre meno sveglia, perchè più una persona è stupida più tende a riprodursi.
Diciamo la verità, tolto il contesto, non è che la trama sia così particolarmente avvincente. Inoltre, appare evidente che il film, all'epoca, non stava cercando di immaginare il futuro, ma sfruttare un mondo distopico popolato da deficenti per realizzare una commedia demenziale. Nessuna satira politica alla Michael Moore, per intenderci. Il problema è che, rivisto oggi, quello scenario appare meno assurdo di quanto sembrasse vent’anni fa. Certo, il futuro di Idiocracy è volutamente esagerato, ma ci trovi dentro elementi inquietantemente familiari: politici-showman incapaci di risolvere perfino le emergenze più banali (vedi la gestione dei rifiuti), multinazionali che manipolano il mercato e la comunicazione, cittadini incollati a programmi TV idioti (oggi basta sostituire lo schermo della TV con quello dello smartphone), pubblicità ovunque, cibo spazzatura a ogni angolo, un linguaggio impoverito fino a diventare puro slang e, come ciliegina, un presidente degli Stati Uniti volgare e sopra le righe che insulta senza freni. Vi ricorda qualcuno?
Dal punto di vista tecnico, Idiocracy è un film onesto ma modesto. Colpisce per le scenografie colorate e fantasiose, quasi da cartoon, e per personaggi volutamente ridotti a caricature. Non ci sono battute davvero memorabili e il finale edulcorato risulta un po’ imbarazzante, ma il ritmo c’è e il lato demenziale funziona. La vera forza del film sta nel suo effetto a posteriori: quello che vent’anni fa sembrava un’esagerazione comica oggi assomiglia, in modo preoccupante, a un’anteprima del presente.
Secretary
di Steven Shainberg
Molto prima che Cinquanta sfumature di grigio trasformasse il BDSM in una moda da romanzo rosa fintamente trasgressivo, agli inizi degli anni duemila esce Secretary, film diretto da Steven Shainberg, che racconta una relazione sadomasochistica con ironia e sorprendente delicatezza. Un film che parla di sottomissione e controllo non come deriva patologica, ma come possibile forma d’intimità, equilibrio e riscatto personale.
Lee Holloway (Maggie Gyllenhaal) è una giovane donna fragile, con tendenze autolesionistiche, appena uscita da un ospedale psichiatrico e tornata a vivere con la sua disfunzionale famiglia nei sobborghi americani. Dopo un corso da dattilografa, trova lavoro nello studio legale dell’eccentrico avvocato E. Edward Grey (James Spader). Il loro rapporto professionale si trasforma presto in qualcosa di più complesso, una dinamica di dominazione e sottomissione che, tra punizioni, carezze e lettere battute a macchina, aiuta entrambi a confrontarsi con le proprie nevrosi, a disinnescarle e – forse – a guarire.
Tratto da un racconto breve di Mary Gaitskill, Secretary è una commedia nera che esplora i territori ambigui delle relazioni, del potere e della dipendenza emotiva. Parla di perversioni sessuali e dinamiche tossiche, ma lo fa con leggerezza, ironia, e un tocco grottesco che a tratti sfiora il surreale. In mezzo a tutto questo, però, resta soprattutto una storia d’amore. Strana, deviata, ma pur sempre d’amore.
Lee è timida e dimessa, entra nello studio legale con l’aria da cerbiatta spaurita e si ritrova presto coinvolta in un gioco sadomasochista fatto di errori battuti apposta a macchina, posture di obbedienza e punizioni simboliche. Ma non è una vittima: è lei ad accettare il gioco, ad assecondarlo e infine a guidarlo. Nella sottomissione scopre una forma di piacere che dà finalmente un senso alla sua inquietudine.
Grey, invece, è un uomo ossessivo e represso, che cerca di soffocare i propri impulsi attraverso l’ordine e l’isolamento. Quando cede al desiderio, lo fa con esitazione e senso di colpa. Sarà proprio Lee, la parte "debole", a sfidarlo, ad aspettarlo, a salvarlo. In un ribaltamento sottile e potente, la segretaria obbediente diventa protagonista attiva di una relazione che si costruisce fuori dagli schemi, ma su basi molto reali: il riconoscersi, il scegliersi, l’accettarsi.
Maggie Gyllenhaal è brava a interpretare una ragazza all’inizio fragile e impacciata, poi sempre più consapevole, seducente, padrona di sé. Spader è altrettanto convincente nel ruolo dell’uomo che esercita il controllo ma ne è, in fondo, vittima.
Se uscisse oggi, Secretary sarebbe un film divisivo. Travolto da critiche e accuse di misoginia, abuso di potere e rappresentazione tossica del maschile. Una relazione tra un uomo potente e la sua dipendente sottomessa? Inaccettabile nell’era del #MeToo. Poco importa che Lee sia consenziente. Per molti sembrerebbe solo un altro caso di patriarcato travestito da romance alternativo.
Eppure Secretary non parla di abuso. Parla di libertà. Di due persone che, nel dolore e nel desiderio, trovano una forma d’equilibrio possibile. Scomoda, certo. Ma profondamente umana.
Il dormiglione
di Woody Allen
Il dormiglione (Sleeper, in originale) è uno dei titoli più divertenti della prima fase creativa di Woody Allen, quella in cui il regista era ancora fortemente ispirato dalla slapstick comedy più esuberante, ispirato alla comicità visiva e fisica di maestri come Buster Keaton e Charlie Chaplin. Co-sceneggiato con il fido Marshall Brickman, il film è una parodia fantascientifica che prende in giro i cliché distopici e futuribili del genere, con leggerezza anarchica e ritmo sincopato.
Woody Allen interpreta un vegetariano suonatore di jazz che, dopo esser stato ricoverato per una semplice ulcera, viene ibernato negli anni '70 e risvegliato due secoli dopo in un futuro ipertecnologico e totalitario. L’America del 2173 è governata da un regime oppressivo che controlla ogni aspetto della vita dei cittadini, e il nostro protagonista — del tutto spaesato — si ritrova suo malgrado coinvolto in una rivolta sotterranea contro il sistema. Travestimenti improbabili, robot servizievoli, cibo in pillole e marchingegni per il piacere sessuale sono solo alcune delle tappe assurde di questa fuga surreale, durante la quale l’uomo finirà per innamorarsi di Luna (Diane Keaton), un’artista svampita che vive immersa in un mondo finto e anestetizzato.
Prima ancora della psicanalisi e delle nevrosi da salotto, Woody Allen affida tutto al corpo, al nonsense, alla mimica più sfrenata, inanellando una dopo l'altra gag deliranti e situazioni paradossali. La trama? Un puro pretesto. Un filo conduttore labile, utile solo a tenere insieme una giostra di trovate comiche, travestimenti improbabili e improvvise virate nel surreale.
Eppure, sotto la superficie scanzonata, si intravede una satira politica ben più consapevole di quanto sembri. Il film riprende lo spirito dissacrante di Bananas, ma lo proietta avanti nel tempo, verso un futuro distopico che è in realtà lo specchio deformante del presente. Il potere è sempre più astratto, la società sempre più omologata, il benessere sempre più finto. Allen guarda al domani con il cinismo disilluso degli anni ’70, servendosi di una narrazione anarchica e caotica proprio per ridicolizzare ogni forma di controllo.
Visivamente, Il dormiglione è una festa retrofuturista: architetture sinuose, design curvilineo, plastica ovunque, oggetti di scena che sembrano usciti da un sogno psichedelico sponsorizzato dalla NASA. E a dare ritmo a tutto c’è la colonna sonora jazzata, brillante, eseguita dallo stesso Allen al clarinetto insieme alla sua band: un tappeto sonoro ironico e svagato, perfettamente funzionale al tono generale.
Il dormiglione non sarà il suo film più riuscito, ma resta una commedia vivace e piena di inventiva, che — se la si prende per quello che è — può ancora divertire con la sua leggerezza anarchica e quel sorriso da cartoon anni trenta incollato in faccia al futuro.
Film
Linoleum
di Colin West
Un razzo in giardino, una replica di sé che irrompe nella quotidianità, un universo che si piega lentamente su se stesso. Linoleum è un film che fonde con intelligenza commedia surreale, dramma familiare e fantascienza. Colin West, regista e sceneggiatore, firma una pellicola bizzarra e particolare, tanto intima quanto ambiziosa, che merita un posto nelle orbite degli spettatori più curiosi.
Cameron Edwin (Jim Gaffigan) è il pacato conduttore di un programma scientifico per bambini, ormai dimenticato e relegato a orari improbabili. La sua vita sembra sgretolarsi giorno dopo giorno: il matrimonio con Erin (Rhea Seehorn) è in crisi, il rapporto con la figlia Nora (Katelyn Nacon) si logora tra silenzi e distanze, il lavoro non offre alcuna gratificazione. Finché un satellite non precipita nel suo cortile. Da quel momento, Cameron decide di costruire un razzo nel garage, convinto che l’unico modo per ritrovare sé stesso sia quello di diventare un astronauta e raggiungere le stelle.
Linoleum è un film indipendente che in parte potrebbe ricordare – con le dovute cautele – titoli come Sto pensando di finirla qui o Donnie Darko. Colin West costruisce un mondo che sembra familiare ma sfugge continuamente tra le dita, disseminando lungo la narrazione piccoli elementi anomali che inizialmente paiono marginali, ma che con il progredire della storia acquisiscono un significato sempre più profondo. Dietro le riflessioni su carriere mancate, rimpianti mai risolti e una storia d’amore adolescenziale, si insinua lentamente l’impressione che ci sia qualcosa di più. Un velo. Un codice nascosto sotto la superficie.
Ci vogliono oltre settanta minuti per iniziare a intuire davvero dove stia andando a parare il film, probabilmente troppi, ed è qui che si concentra uno dei suoi limiti più evidenti. Molte delle intuizioni più riuscite sono concentrate negli ultimi dieci minuti, quando realtà e fantasia finalmente si fondono e quella normalità punteggiata di stranezze trova un senso compiuto. È un finale che getta una luce nuova su tutto ciò che abbiamo visto fino a quel momento, e che invita, quasi obbliga, a rivedere il film con occhi diversi.
Io personalmente avrei preferito che il film abbracciasse il suo lato più weird fin dall’inizio, lasciandosi andare fin da subito a quella deriva surreale che poi, quando arriva, risulta un pò tardiva.
Linoleum è un film che non riesce a decollare davvero, ma che ha il coraggio di puntare in alto. E anche solo per questo, merita di essere visto.
Film
Auguri per la tua morte
di Christopher Landon
Ogni tanto ci sta un film leggero, di intrattenimento e da vedere senza troppi pensieri.
È il caso di Auguri per la tua morte, in originale Happy Death Day, film del 2017 diretto da Christopher Landon e prodotto dalla Blumhouse, casa specializzata in horror a basso budget ma ad alto rendimento, soprattutto tra il pubblico più giovane.
Il film è una commedia horror travestita da teen-slasher, una sorta di Ricomincio da capo con la maschera di Scream e un coltello in mano. Il paragone con il cult con Bill Murray non è casuale, dal momento che viene persino citato nel finale.
Certo, l’idea del loop temporale e della giornata che si ripete all’infinito non è nuova — anzi, ormai è quasi un sottogenere a sé — ma Landon decide di affrontarla con leggerezza, strizzando l’occhio più al pubblico adolescenziale che agli appassionati di paradossi spazio-temporali.
Tree Gelbman (Jessica Rothe) è una studentessa universitaria superficiale, arrogante, e tutto sommato insopportabile. Si sveglia, con i postumi di una sbornia, nel letto di uno sconosciuto il giorno del suo compleanno. Ma la vera sorpresa arriva quando, a fine giornata, viene brutalmente uccisa da un assassino mascherato solo per risvegliarsi, di nuovo, nello stesso letto, lo stesso giorno. Intrappolata in un loop temporale che la costringe a rivivere continuamente la stessa giornata, Tree si ritrova a dover indagare su chi sia il suo killer e come interrompere questo loop, e magari diventare una persona migliore.
Auguri per la tua morte è uno di quei film che ti guardi volentieri quando hai voglia di spegnere il cervello e farti due risate, magari con un gelato o una birra ghiacciata, visto le temperature. È un teen movie ben confezionato, dura il giusto, e riesce a intrattenere senza mai annoiare, nonostante racconti, letteralmente, sempre la stessa giornata.
C'è parecchia commedia, anche bella scema a tratti, ma funziona, perché il film non si prende mai troppo sul serio. La componente horror c’è, ma è ammorbidita, niente sangue, niente scene splatter, si intuisce ma non si vede, insomma, tutto rimane su un tono leggero, quasi da horror per neofiti. L’aspetto slasher viene contaminato da un’ironia costante, che affiora ogni volta che la protagonista si ritrova a morire in modo diverso, quasi come se ogni morte fosse una gag da cartone animato. A tenere insieme il tutto è Jessica Rothe, sorprendente per carisma, mimica facciale e perfetti tempi comici. Regge il film praticamente da sola, e riesce a rendere simpatico un personaggio che inizialmente sembra pensato per essere detestabile. Senza di lei il film sarebbe probabilmente affondato già alla seconda morte.
È chiaro che si tratta di un prodotto pensato per un pubblico giovane, con tutti gli stereotipi del caso: college, feste, belle facce, battutine, drammi da dormitorio. Però se lo prendi per quello che è – un horrorino pop da sabato sera, più spensierato che spaventoso – alla fine te lo godi. Certo, non ti cambia la vita… ma di sicuro non te la rovina.
Hanno fatto anche un sequel.
Il castello maledetto
di James Whale
Il castello maledetto, diretto da James Whale nel 1932 per la Universal, è un gioiello gotico mascherato da horror, in realtà più vicino a una commedia dallo spiccato humour nero. Nonostante il titolo italiano faccia pensare a torri e manieri infestati, il film si svolge in una vecchia casa isolata, abitata da personaggi grotteschi.
Durante una notte di tempesta, un gruppo di viaggiatori — una coppia sposata, il loro amico e un esploratore burbero — cerca rifugio in una magione sperduta tra le colline del Galles. L’abitazione appartiene ai Femm, una famiglia tanto decadente quanto bislacca, composta da un uomo e sua sorella, Horace e Rebecca Femm (Ernest Thesiger ed Eva Moore), il loro anziano padre Sir Roderick (Elspeth Dudgeon) e un domestico deforme, muto e ubriacone interpretato da Boris Karloff. Mentre la pioggia cade incessantemente e la luce va e viene, arrivano altri due ospiti inattesi a movimentare la serata. Inizialmente tutto sembra procedere per il meglio, ma con il calare delle tenebre, la casa rivela i suoi segreti.
Pur rifacendosi a Il castello degli spettri di Paul Leni, Il castello maledetto trova una sua identità costruendo un’atmosfera tanto gotica quanto grottesca. A colpire non sono tanto i brividi — che quasi non ci sono — quanto l’ambientazione: un temporale incessante, luci tremolanti, candele, ombre che si allungano sui muri e inquadrature oblique che sfiorano l’espressionismo. È un horror d’atmosfera più che di tensione, dove l’inquietudine si insinua silenziosa e non esplode mai davvero, lasciando spazio a un’ironia macabra e sottilissima.
James Whale si diverte a prendere in giro le regole classiche del genere horror, codificandole in uno stile visivo che negli anni a venire influenzerà registi come Mario Bava e Roger Corman, e ispirerà film cult come The Rocky Horror Picture Show, Frankenstein Junior e perfino La famiglia Addams (oltre al maggiordomo interpretato da Karloff che sembra un prototipo di Lurch, troviamo anche "mano"). Momenti come il monologo delirante di Rebecca Femm, riflessa e deformata dagli specchi, restano impressi più per il loro effetto straniante che per una reale tensione narrativa.
Accolto con freddezza alla sua uscita dal pubblico, il film fu apprezzato in Europa più abituato allo humor nero tipicamente britannico. Il Castello Maledetto fu a lungo considerato perduto, fino al suo ritrovamento e restauro nel 1968. Un piccolo classico poco conosciuto.
Di questo film esiste un remake realizzato nel 1963.
I vitelloni
di Federico Fellini
Secondo film di Federico Fellini e Leone d'argento alla Mostra del Cinema di Venezia del 1953, I Vitelloni è un dichiarato omaggio alla Rimini della giovinezza del regista – anche se, per esigenze cinematografiche, la città fu interamente ricostruita nei dintorni di Roma.
I Vitelloni è un racconto semi-autobiografico che segue un gruppo di amici in una sonnacchiosa città di provincia affacciata sul mare, sospesi in un eterno limbo tra adolescenza e maturità. Troppo grandi per giocare, troppo pigri per lavorare. Moraldo (Franco Interlenghi), l’osservatore silenzioso, guarda tutto con distacco malinconico. Fausto (Franco Fabrizi), il donnaiolo incallito, continua a inseguire gonne anche dopo aver messo incinta Sandra, sorella di Moraldo. Alberto (Alberto Sordi), immaturo e teatrale, vive con una madre invadente e una sorella che sogna di scappare. Leopoldo (Leopoldo Trieste) scrive drammi teatrali che nessuno legge. Riccardo (Riccardo Fellini, fratello di Federico) canta alle feste sperando di strappare almeno un applauso.
Le loro giornate passano tra passeggiate senza meta, scherzi da caserma, sbornie, sogni di gloria e realtà da cui scappare. Fausto si sposa controvoglia, lavora per finta e tradisce per abitudine. Alberto fa il buffone ma ha dentro un groviglio di inquietudini. Leopoldo sogna il palcoscenico, ma resta in panchina. Solo Moraldo, alla fine, sembra davvero voler cambiare, e parte, forse per salvarsi.
Li chiamavano "vitelloni", oggi li chiameremmo "bamboccioni". Trent’anni suonati, ancora a casa con mamma, niente voglia di crescere, nessuna intenzione di assumersi responsabilità. Ma I Vitelloni non è un’accusa. È un ritratto affettuoso e amarognolo, che mescola ironia e malinconia per raccontare una generazione immobile, cresciuta all’ombra del dovere e incapace di affacciarsi al futuro. Fellini – che in Moraldo mette un po’ di sé stesso – costruisce una commedia amarissima, punteggiata da momenti irresistibili (la sbornia di Sordi, la scena iconica dell'"ombrello" agli operai) e venature neorealiste che già tendono verso qualcos’altro. Nella sequenza del carnevale si intravede già chiaramente il tratto onirico del Fellini che verrà.
I cinque protagonisti sono sbruffoni, inconcludenti, talvolta irritanti – ma a loro modo restano teneri e riconoscibili. Mi hanno ricordato, per certi versi, i protagonisti di Amici miei. Stessi scherzi da osteria, stesso senso di vuoto sotto la superficie goliardica. Solo che lì sono uomini di mezza età, qui sono ragazzi che faticano ad abbandonare l'adolescenza.
Curiosamente, all’epoca, il film fu accolto con freddezza. Alberto Sordi veniva da due flop ed era inviso a pubblico e critica. Fellini dovette persino rinunciare a metterlo nei titoli di testa, pur di averlo nel cast. Fa sorridere, col senno di poi, se si pensa che proprio lui regala una delle scene più iconiche della storia del nostro cinema.
Detto ciò, confesso che I Vitelloni non mi ha particolarmente entusiasmato. Non sono mai stato un grande fan del neorealismo all'italiana, e oggi certe lentezze, alcune ovvietà narrative, si fanno sentire. Il personaggio di Fausto, poi, con quel suo modo da mascalzone piagnucoloso, mi ha messo a dura prova. Ma questo è un problema mio. Le qualità del film sono evidenti – regia elegante, scrittura solida, personaggi scolpiti con precisione – solo che non sempre si incastrano con la mia personale sensibilità. Resta comunque un film fondamentale per comprendere l’universo felliniano, e per intuire dove stava andando il nostro cinema.
Film
Vampira umanista cerca suicida consenziente
di Ariane Louis-Seize
Colpito dal titolo wertmülleriano, mi sono recuperato Vampira umanista cerca suicida consenziente, una dark comedy canadese in lingua francese del 2023, diretta dall’esordiente Ariane Louis-Seize. Presentato all'80ª Mostra del Cinema di Venezia, il film è disponibile su IWonderfull, la piattaforma streaming attivabile su Prime Video.
Sasha (Sara Montpetit) è una giovane vampira con un problema decisamente insolito: è troppo empatica per uccidere. Cresciuta grazie alle sacche di sangue fornite dai genitori, si rifiuta di cacciare, scatenando la frustrazione della famiglia che la vede incapace di rendersi indipendente. Quando i genitori, ormai esasperati, le tagliano i rifornimenti, Sasha si trova davanti a un bivio, accettare la sua natura o rischiare di morire di fame. A offrirle una via d’uscita è Paul (Félix-Antoine Bénard), un adolescente solitario con tendenze suicide, disposto a sacrificarsi per lei. Ma prima che arrivi il momento fatidico, i due decidono di prendersi una notte tutta per loro, esaudendo i desideri di Paul in un viaggio notturno tra amicizia, scoperta e, forse, una nuova voglia di vivere.
Tra umorismo nero e tenerezza, Vampira umanista cerca suicida consenziente gioca con il mito del vampiro per raccontare un coming-of-age originale e profondo. Sasha è l’emblema di una generazione sospesa, una ragazza mantenuta dai genitori che cerca disperatamente di sopprimere la sua natura. Paul, dal canto suo, è altrettanto perso, un’anima alla deriva che ha smesso di credere nel futuro e che cerca di porre fine alla sua esistenza. La loro amicizia nasce in quella zona grigia tra morte e salvezza, due adolescenti che si sentono fuori posto nel loro mondo, due emarginati che trovano conforto nelle reciproche fragilità.
Il film si muove con leggerezza tra grottesco, surreale e malinconico, lasciando spazio a momenti di grande delicatezza. Bellissima la scena in cui Sasha e Paul, in silenzio, cantano Emotions di Brenda Lee, lasciando che la musica parli per loro. Ottime anche le interpretazioni dei due giovani protagonisti, con la Montpetit che sembra uscita da un vecchio film di Tim Burton.
Non è il nuovo Lasciami entrare ma possiede un equilibrio raro tra humour nero e dolcezza, riuscendo a rendere il macabro incredibilmente umano.
Film
Lo sceicco bianco
di Federico Fellini
Premessa doverosa. Non ho mai amato il neorealismo italiano. Quel cinema dell'immediato dopoguerra, con registi come Rossellini, Visconti e Antonioni, mi è sempre sembrato lontano dalla mia idea di cinema. Amo il perturbante, il caos, il sogno. Amo il cinema che scava nell’inconscio, che trasforma la realtà in visione, che ci porta al limite dell'immaginifico. Il mio regista preferito, senza ombra di dubbio, è David Lynch. E Lynch, ha sempre nutrito una profonda ammirazione per Fellini, tanto da considerare Otto e mezzo non solo un capolavoro assoluto, ma il film che più di tutti ha influenzato il suo cinema.
Federico Fellini è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi cineasti della storia. Pur avendo inizialmente abbracciato l’estetica neorealista, se n’è progressivamente allontanato per intraprendere un percorso sempre più visionario, introspettivo e onirico, fino a sviluppare un linguaggio unico, libero e inconfondibile.
Conosco solo i suoi film più celebri, visti però in un periodo in cui la mia conoscenza del cinema era ancora superficiale. Ora, con uno sguardo più maturo, da appassionato che ha imparato ad amare non solo i film, ma anche la loro storia, ho deciso di riscoprirlo dall’inizio. E il punto di partenza non può che essere Lo sceicco bianco (1951), il suo esordio alla regia.
Il primo film di Federico Fellini, dopo la co-regia con Alberto Lattuada in Luci del varietà, viene presentato alla tredicesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Scritto da Michelangelo Antonioni il film in origine sarebbe dovuto essere diretto da Alberto Lattuada, ma tra abbandoni e ripensamenti, alla fine la produzione scelse di affidare la regia a Fellini.
La storia segue due sposini meridionali in viaggio di nozze a Roma. Ivan (Leopoldo Trieste) è un giovanotto rigido e conformista, determinato a fare carriera e a impressionare lo zio, un pezzo grosso del Vaticano. Wanda (Brunella Bovo) è una ragazza dolce e ingenua appassionata lettrice di fotoromanzi. Appena arrivati in albergo, Wanda, approfittando di un momento di distrazione del marito, si allontana per incontrare l'idolo dei suoi sogni, Fernando Rivoli (Alberto Sordi), il protagonista del suo fotoromanzo preferito che interpreta il leggendario Sceicco Bianco. Mentre Wanda si ritrova catapultata in un mondo tanto affascinante quanto illusorio, tra set improvvisati e attori esuberanti, Ivan, cerca disperatamente di salvare le apparenze e nascondere la scomparsa della moglie ai parenti.
Lo sceicco bianco è una divertente commedia dolceamara che smaschera le illusioni dei miti di carta e la finzione del perbenismo. All’epoca, il film venne stroncato sia dal pubblico che dalla critica, considerandolo una parodia grottesca ed eccessiva. L’interpretazione di un giovane Alberto Sordi, ancora poco noto al pubblico, venne giudicata troppo caricaturale e irritante. Eppure, il suo personaggio è la perfetta incarnazione della finzione spacciata per sogno. Rivoli è solo un pavido attore fallito, un millantatore che dietro il fascino del suo alter ego nasconde un’esistenza misera e priva di gloria. Buona anche l’interpretazione di Brunella Bovo, capace di far trasparire la fragile ingenuità di una donna, così come quella spiritata, sudata e comicamente tragica di Leopoldo Trieste. Ci sta pure un apparizione di Giulietta Masina, nel ruolo di Cabiria, che ritroveremo nei successivi film di Fellini.
Pur essendo una commedia leggera, Lo sceicco bianco lascia già intravedere il gusto per il surreale che il regista svilupperà con sempre maggiore audacia nelle sue opere future. Emblematiche, in questo senso, l’incontro sospeso tra Wanda e lo Sceicco Bianco sull’altalena o le riprese sulla spiaggia con il cast del fotoromanzo. Sono i primi germogli di quel mondo visionario e onirico che contrassegnerà gran parte della filmografia di Fellini.
Film
Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere
di Woody Allen
Ispirato all'omonimo libro divulgativo di David Reuben, Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere segna una delle tappe più stravaganti e sperimentali della filmografia di Woody Allen. Il film è un'antologia di sette episodi che esplorano il sesso in chiave comica, surreale e grottesca, e che rappresenta, nel bene e nel male, l'umorismo irriverente e la vena parodistica dell'Allen di quegli anni.
Tra gli episodi, che spaziano dalla commedia medievale al cinema horror, dalla satira televisiva alla fantascienza, quelli più riusciti sono "Che cos'è la sodomia?", in cui Gene Wilder si innamora perdutamente di una pecora, e sopratutto "Che cosa succede durante l'eiaculazione?", il celeberrimo episodio finale che trasforma l'atto sessuale in un'operazione militare con tanto di sala di comando (guidata da Burt Reynolds) e una schiera di spermatozoi-paracadutisti, tra cui un Allen nevrotico e terrorizzato, lanciato in un viaggio esistenziale verso l'ignoto. Una delle immagini più esilaranti della sua intera carriera.
Meno riusciti, invece, gli altri episodi, come quello ambientato alla corte medievale, il quiz televisivo sulle perversioni sessuali, oppure quello, recitato in uno stentato italiano, in cui una giovane moglie riesce a raggiungere l'orgasmo soltanto in situazioni di pericolo.
Siamo ancora lontani dalla maturità artistica che porterà ai capolavori degli anni successivi, ma Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso resta un interessante laboratorio di idee, un film volutamente irregolare e anarchico, che anticipa molte delle ossessioni che il regista svilupperà con maggiore compiutezza nel corso della sua carriera.
Film
Follemente
di Paolo Genovese
Le commedie italiane, sopratutto quelle di nuova generazione, non sono proprio il mio genere preferito. Però Perfetti Sconosciuti, il film di Paolo Genovese che nel 2016 ha fatto il botto tra pubblico e critica, l’avevo trovato carino e originale.
A distanza di anni – anzi, forse dovrei dire decenni – mi sono ritrovato di nuovo a vedere una commedia italiana al cinema. E già questa è una notizia. La scelta è caduta su Follemente, l'ultimo film di Genovese che ha come protagonisti Edoardo Leo, Pilar Fogliati e tanti altri attori italiani più o meno noti.
Ribattezzato da molti l'Inside Out per adulti – a me ha ricordato anche il Woody Allen di "Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere" - la trama di Follemente è abbastanza semplice e si svolge prevalentemente in un appartamento. Dopo essersi conosciuti (presumibilmente su un’app di dating, come ogni buon millennial che si rispetti), Lara (Pilar Fogliati) invita Piero (Edoardo Leo) a casa sua per il loro primo appuntamento. Lui è un quarantenne, professore di liceo, reduce da un divorzio e con una figlia piccola. Lei è una trentenne appassionata di mobili e design, con alle spalle relazioni con uomini sposati e amori complicati. Durante la serata ci viene mostrato cosa accade nella loro testa attraverso dei personaggi che interpretano le loro diverse personalità e si trovano di una stanza che rappresenta il loro modo di essere. Dalla parte di lui abbiamo la razionalità del Professore (Marco Giallini), la follia di Valium (Rocco Papaleo), la sensibilità di Romeo (Maurizio Lastrico) e la passione di Eros (Claudio Santamaria), mentre dalla parte di lei abbiamo i corrispettivi femminili che sono la logica di Alfa (Claudia Pandolfi), l'imprevedibilità di Scheggia (Maria Chiara Giannetta), il romanticismo di Giulietta (Vittoria Puccini) e la sensualità di Trilli (Emanuela Fanelli). Un vero e proprio consiglio direttivo delle emozioni, che discute, litiga e cerca di guidare i protagonisti nelle scelte da compiere.
L’idea di base non è certo particolarmente originale – il confronto con il film d'animazione della Pixar è inevitabile – ma la sceneggiatura è solida e ben congegnata. Le battute funzionano, il ritmo è incalzante e ogni personaggio, dai protagonisti alle loro proiezioni interiori, ha il suo spazio senza che nessuno oscuri gli altri. Un equilibrio tutt’altro che scontato, considerando il cast affollato.
Gran parte del merito va a un montaggio preciso e dinamico, e a un ensemble di attori ben assortito, che funziona alla perfezione. La comicità punta sui classici cliché di maschi contro femmine, sulle pulsioni e sulle insicurezze nei rapporti di coppia, senza però risultare mai troppo banale. Certo, in alcuni momenti il film sembra voler strappare la risata a tutti i costi, forzando un po’ la mano sulla battuta, ma nel complesso mantiene un buon ritmo e diverte.
Follemente è un film commerciale, pensato per il grande pubblico, e su questo non ci piove. Non ha la profondità emotiva di Perfetti Sconosciuti, ma intrattiene con leggerezza e intelligenza, risultando gradevole e divertente per una serata in compagnia.
Riguardandomi la filmografia di Genovese ho appena scoperto di non aver visto "The Place", un film che mi incuriosiva parecchio all’epoca della sua uscita. Urge recupero.
Film
Luci della città
di Charlie Chaplin
Nonostante una lavorazione estremamente travagliata – segnata dalla crisi finanziaria dovuta al crollo di Wall Street e dal tumultuoso passaggio dal cinema muto a quello sonoro – nel 1931 Charlie Chaplin porta a compimento Luci della città, un capolavoro senza tempo che ancora oggi è tra i film più acclamati da critica e pubblico.
La storia vede il Vagabondo, l'iconico personaggio creato da Chaplin, innamorarsi di una giovane fioraia cieca (Virginia Merrill) che per un malinteso lo scambia per un ricco gentiluomo. Deciso a salvarla dalla povertà e dalla cecità, dopo aver scoperto che un'operazione potrebbe restituirle la vista, il vagabondo si ingegna su come raccogliere i soldi, spazzando le strade, partecipando a un esilarante incontro di boxe e, salvando un milionario disperato (Harry Myers) che vuole togliersi la vita. L'uomo, grato e generoso, ma solo quando è ubriaco, gli regala mille dollari per aiutare la ragazza. Tuttavia, quando torna sobrio, lo accusa di furto, causando l’arresto del Vagabondo. Prima di essere catturato, però, riesce a consegnare il denaro alla fioraia per permetterle di operarsi. Dopo aver scontato la pena, il Vagabondo vaga per le strade della città, stanco e sconsolato, finché non vede la fioraia, ora proprietaria di un negozio di fiori. La ragazza, che nel frattempo non è più cieca, lo vede e senza sapere che è lui il benefattore, gli porge un fiore. Quando le loro mani si sfiorano, lei lo riconosce.
Il finale non concede un lieto fine tradizionale. Non sappiamo se i due resteranno insieme o se lei lo respingerà, ma non è questo il punto. Quel breve scambio di sguardi e la speranza che traspare dai loro occhi bastano a rendere il momento indimenticabile
Chaplin, celebre per il suo perfezionismo, in Luci della città raggiunge livelli quasi maniacali. La lavorazione durò tre anni, tra dissidi e licenziamenti – compresi quelli della protagonista e dell’attore scelto inizialmente per il ruolo del milionario – e furono girati chilometri di pellicola non utilizzata. Si narra che la scena dell’incontro tra il vagabondo e la fioraia sia stata ripetuta ben 342 volte, diventando la sequenza più rifatta nella storia del cinema.
Sebbene il sonoro stesse rapidamente conquistando il panorama cinematografico mondiale, Chaplin scelse di realizzare Luci della città come un film muto. Credeva che utilizzare il corpo, la mimica facciale e i movimenti come strumenti di comunicazione permetteva al suo personaggio di trasmettere emozioni profonde senza necessità di parole. La sua scelta di restare fedele al muto era anche una sfida al conformismo tecnologico, come dimostra la scena iniziale in cui i discorsi ufficiali, durante la cerimonia di inaugurazione di una statua, vengono sostituiti da grotteschi suoni simili a pernacchie, in parodia del cinema parlato.
Il cinema di Chaplin è sempre stato legato al linguaggio visivo e alla pantomima regalandoci anche in questo film delle scene assolutamente esileranti, come quella dell'incontro di pugilato oppure la serata a casa del milionario col fischietto ingoiato e la stella filante mangiata al posto dello spaghetto, così come momenti di maliconica e sequenze di toccante poesia, culminanti in uno dei finali più intensi e commoventi della storia del cinema.
Provaci ancora, Sam
di Herbert Ross
Herbert Ross dirige, ma è Woody Allen a dettare il ritmo.
Tratto dall’omonima commedia teatrale di Woody Allen, Provaci ancora, Sam trasporta sul grande schermo la brillante ironia e la vena malinconica che caratterizzavano l'opera originale, delineando in modo definitivo tutti i tratti distintivi del personaggio nevrotico, intellettuale e sentimentalmente goffo che Allen avrebbe reso iconico nei suoi film successivi. Con le sue insicurezze, l’autoironia pungente e la costante, seppur disillusa, ricerca dell’amore, il protagonista diventa l’archetipo perfetto del mondo alleniano.
La storia segue le tragicomiche disavventure sentimentali di Sam Felix (nella versione originale Allan), critico cinematografico dal cuore tenero e i nervi fragili, alle prese con il divorzio e l’arte – difficilissima – di rimettersi in gioco. Sam, interpretato da un Woody Allen al massimo della sua nevrotica vulnerabilità, trova il sostegno in Linda (Diane Keaton) e Dick (Tony Roberts), la coppia di cari amici che cercano di sostenerlo provando a fargli conoscere altre donne.
Ma è Humphrey Bogart, evocato direttamente da Casablanca, il mentore immaginato da Sam pronto a dargli consigli su come comportarsi con le donne. Il contrasto tra l'iconico fascino di Bogart e la goffaggine di Allen è il cuore comico del film, un gioco meta-cinematografico che funziona alla perfezione.
L'attrazione tra Sam e Linda cresce lentamente e i due scoprono la reciproca attrazione. Tuttavia, nel finale che omaggia la celebre scena dell’aeroporto di Casablanca, Sam sceglie di rinunciare a Linda per non distruggere l’amicizia con Dick.
Provaci ancora, Sam è un film divertente e al tempo stesso intelligente, capace di fondere un umorismo brillante con una riflessione malinconica sulle fragilità umane. Tra citazioni cinematografiche e battute memorabili, il film segna il passaggio dal Woody Allen demenziale dei suoi primi lavori a quello più autoironico, nevrotico e insicuro che il regista newyorchese svilupperà e approfondirà nei suoi lavori successivi.
(500) Days of Summer
di Marc Webb
Non sono un amante delle commedie romantiche, ma ogni tanto mi concedo qualche eccezione. Insomma, film come Harry ti presento Sally, Il favoloso mondo di Amélie, ma anche Serendipity, non vi nascondo che se mi capita li vedo sempre volentieri.
Incuriosito da un meme che spunta spesso sui social, e soprattutto attirato dagli occhioni di Zooey Deschanel e il suo fascino un po' stralunato, mi sono visto (500) Days of Summer, film del 2009 ed esordio alla regia per Marc Webb.
In Italia, il titolo è stato trasformato in (500) giorni insieme, perdendo però il gioco di parole con il nome della protagonista, Summer, che nella versione italiana è diventata Sole.
La storia in breve. Tom (Joseph Gordon-Levitt) è un giovane architetto mancato, che lavora in una società specializzata nella realizzazione di biglietti d'auguri. La sua routine cambia radicalmente quando nella sua vita irrompe Summer (Zooey Deschanel), la nuova segretaria del suo capo. Tom se ne innamora perdutamente, convinto che sia "quella giusta" ma la fanciulla, pur ricambiando le sue attenzioni, dichiara fin da subito di non volere una relazione seria. Nonostante ciò, i due iniziano a frequentarsi, con Tom che è convinto di riuscire a farle cambiare idea anche a costo di mettere in discussione il suo concetto di amore e le sue aspettative.
Attraverso una narrazione non lineare, tra salti temporali, momenti gioiosi e ricordi agrodolci, (500) Days of Summer racconta non una storia d’amore, ma bensì la storia di un innamoramento. Vincente l'idea di alternare lo stato d'animo dei due protagonisti scegliendo di saltare da un giorno all'altro della storia non in ordine cronologico.
Marc Webb, forte della sua esperienza nei videoclip, utilizza un linguaggio visivo ricco e creativo, inserendo animazioni, momenti musical, oppure dividendo lo schermo con aspettative e realtà messe a confronto, arrivando a infilare citazioni cinematografiche di maestri come Bergman, Truffaut, e Nichols, con ironia e spigliatezza.
La colonna sonora è uno degli elementi distintivi del film. Brani di Regina Spektor, The Temper Trap, Pixies e, soprattutto, The Smiths, accompagnano e definiscono l’atmosfera del film. Iconica la scena in ascensore, in cui Tom ascolta "There Is a Light That Never Goes Out" e Summer, attratta dalla musica, si avvicina, dando il via alla loro storia. E' un film che vuole essere "indie" - vedi la classica t-shirt dei Joy Division di Tom o l’inquadratura del vinile dei Red Lorry Yellow Lorry in un negozio di dischi - anche se in realtà si rivolge a un pubblico di massa.
(500) Days of Summer è la storia di un amore a senso unico che in qualche modo mi ha ricordato Eternal Sunshine of the Spotless Mind - ovviamente con tutti i distinguo del caso in quanto ritengo il film di Michel Gondry un capolavoro. Tuttavia, anche nel film di Webb la storia è raccontata dal punto di vista maschile, quello di Tom, mettendo in luce una relazione sbilanciata e mai davvero paritaria.
Molto bravi gli attori con Joseph Gordon-Levitt che convince nel ruolo dell'ingenuo e sognatore Tom, e Zooey Deschanel - per la quale ammetto un certo debole - brava a rendere Summer la cinica e candida regina delle stronze. Sì lo so, qualcuno potrebbe obiettare che Summer fin da subito ha messo in chiaro i confini della loro relazione, però successivamente i suoi comportamenti sono parecchio contradditori che mi portano a pensare che il personaggio interpretato dalla Deschanel abbia tratti narcisistici e manipolatori nei confronti del povero innamorato.
Pur partendo da una trama quasi banale, (500) Days of Summer è un film fresco che si guarda con piacere, ma che è anche capace di lasciare spunti di riflessione sull'amore, o meglio, sulla sua idealizzazione.
Il castello degli spettri (The Cat and the Canary)
di Paul Leni
Paul Leni, tra i principali esponenti del cinema espressionista tedesco, approda in America nel 1927 per dirigere The Cat and the Canary (da noi noto come Il castello degli spettri), film che ebbe numerosi remake e che inaugura il filone cinematografico della "vecchia casa infestata".
Tratto dall'omonima pièce teatrale di John Willard, il film muto si distingue per la sua capacità di fondere mistero, tensione e una pungente ironia grottesca, creando un’atmosfera che preannuncia i futuri capolavori del cinema gotico del decennio successivo.
La trama ruota attorno alla lettura del testamento dell'eccentrico milionario Cyrus West, letto a distanza di vent'anni dalla sua morte di fronte agli eredi riuniti nella sua cadente dimora. I familiari più stretti scoprono con sorpresa di essere stati esclusi dall'eredità a favore di una giovane parente lontana, Annabelle (Laura La Plante), a patto che venga confermata la sua sanità mentale. La situazione precipita quando l'avvocato scompare misteriosamente e si diffonde la notizia della fuga di un pericoloso omicida da un manicomio, gettando la casa nel caos e nel terrore.
Mescolando brillantemente suspense e commedia, terrore e ironia, Leni realizza un film che fa da apripista ai grandi classici horror della Universal, andando a influenzare registi come James Whale e Roger Corman. Nonostante i limiti del muto, il regista tedesco compensa con una ricchezza visiva sorprendente e delle tecniche per l'epoca innovative. Pensiamo per esempio all'uso della soggettiva per simulare il punto di vista del "fantasma" che si aggira nella casa, oppure alla sovrimpressione delle immagini, e alle didascalie animate con scritte tremolanti.
Per gli amanti del cinema muto.
Film
Il dittatore dello stato libero di Bananas
di Woody Allen
Secondo film di Woody Allen in qualità di regista, Il dittatore dello stato libero di Bananas (in originale semplicemente Bananas) è una commedia satirica che intreccia assurdo e politica scritta da Allen insieme all'amico d'infanzia Mickey Rose.
La storia vede come protagonista Fielding Mellish (interpretato da Woody Allen), un giovane impacciato e imbranato che lavora come collaudatore di brevetti per una compagnia industriale. Un giorno incontra Nancy (Louise Lasser), una giovane attivista politica, e inizia con lei una relazione. Tuttavia, quando Nancy lo lascia perché lo ritiene immaturo e incapace di impegnarsi seriamente nelle questioni che le stanno a cuore, Fielding decide di dimostrarle il contrario. Nel tentativo di riconquistare l'ex fidanzata, Fielding si reca nello stato latino-americano di Bananas, un paese fittizio che è caduto sotto la dittatura militare del generale Vargas. Qui, tra una serie di eventi assurdi e tragicomici, viene catturato dai ribelli e, dopo rocambolesche peripezie, finisce addirittura a capo del nuovo governo rivoluzionario.
Il film è una satira al limite del demenziale sui totalitarismi e le ideologie estreme. Anche se non tutte le gag sono riuscite, alcune scene rimangono memorabili, come l'addestramento dei rivoluzionari, il sogno delle croci che litigano per il parcheggio e l'improbabile discorso al popolo del piccolo stato latino-americano. L’umorismo di Allen è spesso più buffo che brillante, e in molte scene si rifà alle comiche del muto. Tuttavia, riesce a strappare risate grazie a un ritmo scoppiettante e a trovate geniali, come la dichiarazione di nuove assurde leggi dello Stato, tra cui il celebre decreto che impone a tutti di indossare la biancheria intima sopra i vestiti.
Numerose sono le citazioni cinematografiche. La scena del collaudo ricorda l'episodio della macchina che nutre gli operai in Tempi Moderni di Chaplin, mentre la carrozzina che precipita da una scalinata è un evidente omaggio alla celebre sequenza de La corazzata Potëmkin di Ejzenštejn, da noi resa celebre dalla parodia di Paolo Villaggio in Fantozzi. In una delle scene ambientate nella metropolitana, compare persino un giovane Sylvester Stallone, che interpreta uno dei teppisti.
In questo film la comicità di Woody Allen è fatta di gag e situazioni al limite del demenziale, ma nello scambio di battute con Louise Lasser (che all'epoca era la sua ex moglie) già si intravedono i primi segni della sua ironia sofisticata e intellettuale che diventerà distintiva nelle sue opere successive.
