
Un film Minecraft
di Jared Hess
Fino all'ultimo sono stato tentato di lasciar perdere. Ma visto che da un paio d’anni mi diverto a scrivere le mie impressioni sui film che vedo, mi sembrava una forma di snobismo ignorare un titolo che, seppur fuori dalle mie corde, ho visto al cinema per accontentare mio figlio, che ci teneva tanto.
Il film in questione è l’adattamento del celebre videogioco Minecraft. Non sono mai stato un grande appassionato di videogiochi, e di Minecraft so solo che è quel gioco dove si costruiscono mondi partendo da semplici mattoncini virtuali.
La trama, se così si può chiamare, è la seguente. Due fratelli, un ex campione di videogiochi (Jason Momoa), e una agente immobiliare trovano un misterioso artefatto luminoso – un cubo che viene chiamato sfera, non so perchè – che consente di aprire un portale per accedere al mondo di Minecraft. I quattro si ritrovano in una dimensione fatta a blocchetti dove vengono immediatamente attaccati dagli zombie e salvati da Steve (Jack Black). Da lì parte un’avventura tra fughe, battaglie e gag, tutte rigorosamente al di sotto dei dodici anni, per impedire alla cattivissima regina Malgosha di impadronirsi della Sfera-Cubo e dominare Minecraft. Naturalmente.
Il film è davvero brutto. Ma non perchè sia un film commerciale fatto per bambini e adolescenti. Anche quelli della Pixar o della DreamWorks lo sono, ma riescono comunque a emozionare tutte le età. No, il problema è che questo film è semplicemente fatto male. Brutto con convinzione. Con una storia scialba fatta di cliché pescati a casaccio, personaggi piatti, recitazioni esagerate, e una pioggia di gag infantili lanciate come coriandoli, sperando che qualcuna faccia ridere. Spoiler: non succede.
Anche dal punto di vista tecnico, la resa grafica e gli effetti speciali sono sempre quelli, fatti con lo stampino. Magari non conoscendo bene il gioco mi sono perso qualche riferimento geniale, ma la sensazione generale è quella di aver assistito a un film stupido scritto apposta per i teenager di TikTok.
Mio figlio di sette anni si è divertito. E tanto. Rideva, si agitava, mi guardava felice. Ed è per lui che l’ho visto. Quindi, a conti fatti, il prezzo del biglietto è stato ben speso.
Ma se dovessero farne un sequel… questa volta, ci va sua madre.
Film
Cure
di Kiyoshi Kurosawa
In occasione della sua uscita nelle sale italiane, sono andato a vedere Cure di Kiyoshi Kurosawa, il film che nel 1997 ha aperto – insieme a Ring di Hideo Nakata e Audition di Takashi Miike – la prima ondata del cosiddetto J-Horror. Un’opera che ha segnato l’ascesa di Kurosawa nel panorama del cinema giapponese contemporaneo, proiettandolo tra i registi più rilevanti e meno inquadrabili.
A quasi trent’anni di distanza, Cure resta un oggetto misterioso. Oscuro, disturbante, elusivo. Non a caso è diventato un film di culto, ammirato da registi come Martin Scorsese, Ari Aster e Bong Joon-ho, che lo hanno citato tra le loro opere di riferimento.
In una Tokyo fredda e desolata vengono compiuti una serie di omicidi inquietanti. Le vittime vengono trovate con una X incisa sulla gola. Gli assassini, persone comuni, senza legami apparenti tra loro, vengono sempre identificati sul posto, ma sembrano non ricordare nulla del delitto. Il detective Kenichi Takabe (interpretato da uno straordinario Koji Yakusho), un uomo razionale tormentato dalla fragile salute mentale della moglie, inizia a indagare su questi casi inspiegabili. Il sospettato principale è un giovane enigmatico, Mamiya (Masato Hagiwara), che pare aver perso la memoria ma sembra nascondere molto più di quanto lasci intendere.
Kurosawa ha dichiarato di essersi ispirato a Il silenzio degli innocenti e Seven, ma prenderla alla lettera è fuorviante. Sì, c’è un detective, c’è un’indagine e c’è un assassino. Ma Cure non è davvero un film sui serial killer. È qualcos’altro. È un thriller spogliato di tensione narrativa classica, che si muove in uno spazio indefinibile, dove il terrore non è visibile, ma percepito. Niente musica, pochi dialoghi, lunghi piani sequenza, inquadrature fisse e suoni ambientali che si insinuano sotto pelle. L’orrore non arriva mai in modo spettacolare. Lo senti nel rumore di un neon, nel silenzio di una stanza vuota, nel volto inespressivo di chi ha appena ucciso senza sapere perché.
Kurosawa prende i cliché del thriller psicologico e li disinnesca uno ad uno. Non cerca la suspense, ma l’inquietudine. Lavora di sottrazione focalizzando sull'aspetto metafisico ed esistenziale. Il tema dell’ipnosi – o meglio, del mesmerismo – insinua l’idea che basti poco per liberare la volontà e far emergere l’oscurità che ognuno porta dentro. Cure è un film sul Male con la “M” maiuscola. Non come figura identificabile, ma come presenza invisibile che può insinuarsi nelle crepe della normalità. Il Male, qui, è un virus che si trasmette con uno sguardo o una frase sussurrata.
Il ritmo è lentissimo, quasi ipnotico. Ma è proprio quella lentezza a creare tensione. Tutto può succedere, da un momento all’altro, e spesso non succede. Alla fine viene quasi da pensare che sia tutto nella mente del detective, come suggerisce il medico che gli dice che sarebbe lui da internare al posto della moglie.
Quando l'ho visto per la prima volta, ammetto di avere avuto un senso di smarrimento. E quindi? Alla fine è stata questa la domanda che mi sono fatto. È un film ambiguo, sfuggente, che ti lascia addosso più domande che risposte. Non offre spiegazioni. Non cerca il compiacimento. Sicuramente è uno di qui film che necessita più di una visione.
Vederlo al cinema dopo parecchi anni e con una diversa maturità è stata un’esperienza completamente nuova. Non solo ha resistito al tempo, ma oggi forse inquieta più di allora.

Mickey 17
di Bong Joon-ho
Soltamente prima di andare al cinema evito di leggere recensioni e discussioni sul film che sto per andare a vedere. A volte però i social te le sparano addosso a tradimento. Così, mentre cercavo di tenermi fuori dal turbine di opinioni su Mickey 17, già sapevo che il film aveva diviso gli spettatori tra chi lo ha esaltato e chi lo ha trovato una mezza delusione.
Dopo il successo mondiale di Parasite, Bong Joon-ho torna a Hollywood, e con un budget bello gonfio e un cast di prima categoria, porta sullo schermo Mickey 17, adattamento del romanzo Mickey7 di Edward Ashton. Un film di fantascienza travestito da blockbuster d’autore, che gioca con commedia, ironia e satira sociale per raccontare – tra cloni, colonizzatori spaziali e lavoratori sacrificabili – un’umanità sempre più rassegnata a farsi trascinare verso il baratro da chi detiene il potere.
Siamo nel 2054 e la Terra è ormai un relitto alla deriva. Mickey Barnes (Robert Pattinson), indebitato fino al collo con uno strozzino dal gusto discutibile per le motoseghe, decide di fuggire e imbarcarsi su una spedizione coloniale verso Niflheim, un pianeta gelido e ostile. Per ottenere il biglietto d’imbarco firma un contratto senza badare troppo alle clausole, accettando di diventare un Sacrificabile, un lavoratore usa e getta, spedito a morire in missioni suicide o usato come cavia per esperimenti, per poi essere "ristampato" grazie a una tecnologia che genera un suo clone con ricordi e personalità quasi intatti.
Mickey muore. Poi muore di nuovo. E ancora. Fino alla sua diciassettesima versione. Ma a un certo punto qualcosa va storto. Durante una missione in cui viene mandato in avanscoperta per catturare uno degli striscianti, le creature indigene del pianeta, sopravvive, ma viene dato per morto. Quando riesce a tornare alla base, scopre che nel frattempo è già stato "sostituito" da un altro suo clone, Mickey 18, trovandolo ben sistemato nella sua camera a fare amicizia con Nasha (Naomi Ackie), la sua compagna, l’unica che lo abbia mai trattato da essere umano. Ma questo non è l'unco problema. Più copie dello stesso individuo, i multipli, non sono tollerati e il governatore della spedizione Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), che insieme alla moglie Ylfa (Toni Collette), ha già abbastanza grane tra alieni ostili e coloni irrequieti, decide di eliminare tutti i Mickey.
Bong Joon-ho si diverte, come sempre, a mescolare i generi. Commedia grottesca, dramma esistenziale e satira feroce si intrecciano in una narrazione che, almeno nella prima parte, funziona alla grande. Il regista tratteggia un mondo in cui il capitalismo ha ridotto la vita umana a una risorsa sacrificabile, un ingranaggio da sostituire senza troppi scrupoli, e dove colonialismo e sfruttamento vengono spacciati per progresso e necessità di sopravvivenza. Il film scorre con un ritmo brillante, alternando momenti surreali ed esilaranti che ricordano la distopia grottesca di Terry Gilliam.
Robert Pattinson, ormai lontano anni luce dai tempi di Twilight, regala un'interpretazione sfaccettata. Il suo Mickey 17, remissivo e rassegnato, è nettamente distinto dal più inquieto e ribelle Mickey 18, grazie a un lavoro sottile su postura, espressioni e tono di voce. Accanto a lui, Mark Ruffalo si diverte nei panni di un governatore che sembra un incrocio tra Elon Musk e Donald Trump, mentre Toni Collette, manipolatrice e ossessionata dalle salse, completa il quadro con un personaggio tanto grottesco quanto inquietante.
Se l’inizio promette riflessioni su bioetica, identità e il valore stesso della vita, nella seconda parte il film si fa più prevedibile, lasciando più spazio all’azione e a una messa in scena da blockbuster. L’elemento satirico si fa meno incisivo e la trama segue binari più convenzionali, finendo per somigliare più a una parodia di Starship Troopers e Atto di Forza, con una spettacolarità che, alla lunga, si fa un po più ripetitiva.
Mickey 17 è un film ambizioso, con spunti geniali e momenti di autentico cinema, ma che alla fine non osa fino in fondo. Rimane il piacere di vedere Bong Joon-ho giocare con i generi, ma resta anche la sensazione che avrebbe potuto spingersi oltre invece di lasciarsi sedurre dalla spettacolarità. Un film interessante, ma non del tutto riuscito.
Film
Follemente
di Paolo Genovese
Le commedie italiane, sopratutto quelle di nuova generazione, non sono proprio il mio genere preferito. Però Perfetti Sconosciuti, il film di Paolo Genovese che nel 2016 ha fatto il botto tra pubblico e critica, l’avevo trovato carino e originale.
A distanza di anni – anzi, forse dovrei dire decenni – mi sono ritrovato di nuovo a vedere una commedia italiana al cinema. E già questa è una notizia. La scelta è caduta su Follemente, l'ultimo film di Genovese che ha come protagonisti Edoardo Leo, Pilar Fogliati e tanti altri attori italiani più o meno noti.
Ribattezzato da molti l'Inside Out per adulti – a me ha ricordato anche il Woody Allen di "Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere" - la trama di Follemente è abbastanza semplice e si svolge prevalentemente in un appartamento. Dopo essersi conosciuti (presumibilmente su un’app di dating, come ogni buon millennial che si rispetti), Lara (Pilar Fogliati) invita Piero (Edoardo Leo) a casa sua per il loro primo appuntamento. Lui è un quarantenne, professore di liceo, reduce da un divorzio e con una figlia piccola. Lei è una trentenne appassionata di mobili e design, con alle spalle relazioni con uomini sposati e amori complicati. Durante la serata ci viene mostrato cosa accade nella loro testa attraverso dei personaggi che interpretano le loro diverse personalità e si trovano di una stanza che rappresenta il loro modo di essere. Dalla parte di lui abbiamo la razionalità del Professore (Marco Giallini), la follia di Valium (Rocco Papaleo), la sensibilità di Romeo (Maurizio Lastrico) e la passione di Eros (Claudio Santamaria), mentre dalla parte di lei abbiamo i corrispettivi femminili che sono la logica di Alfa (Claudia Pandolfi), l'imprevedibilità di Scheggia (Maria Chiara Giannetta), il romanticismo di Giulietta (Vittoria Puccini) e la sensualità di Trilli (Emanuela Fanelli). Un vero e proprio consiglio direttivo delle emozioni, che discute, litiga e cerca di guidare i protagonisti nelle scelte da compiere.
L’idea di base non è certo particolarmente originale – il confronto con il film d'animazione della Pixar è inevitabile – ma la sceneggiatura è solida e ben congegnata. Le battute funzionano, il ritmo è incalzante e ogni personaggio, dai protagonisti alle loro proiezioni interiori, ha il suo spazio senza che nessuno oscuri gli altri. Un equilibrio tutt’altro che scontato, considerando il cast affollato.
Gran parte del merito va a un montaggio preciso e dinamico, e a un ensemble di attori ben assortito, che funziona alla perfezione. La comicità punta sui classici cliché di maschi contro femmine, sulle pulsioni e sulle insicurezze nei rapporti di coppia, senza però risultare mai troppo banale. Certo, in alcuni momenti il film sembra voler strappare la risata a tutti i costi, forzando un po’ la mano sulla battuta, ma nel complesso mantiene un buon ritmo e diverte.
Follemente è un film commerciale, pensato per il grande pubblico, e su questo non ci piove. Non ha la profondità emotiva di Perfetti Sconosciuti, ma intrattiene con leggerezza e intelligenza, risultando gradevole e divertente per una serata in compagnia.
Riguardandomi la filmografia di Genovese ho appena scoperto di non aver visto "The Place", un film che mi incuriosiva parecchio all’epoca della sua uscita. Urge recupero.
Film
The Brutalist
di Brady Corbet
Devo ammettere che, quando mi hanno proposto di vedere The Brutalist al cinema, ho avuto qualche esitazione. Tre ore e mezza di film non sono uno scherzo. Per fortuna, il regista ha pensato bene di inserire un intervallo di quindici minuti a metà film, dando agli spettatori la possibilità di sgranchirsi le gambe.
Ma veniamo al film.
Definito "monumentale", sia per la sua ambizione epica sia per il riferimento all’architettura brutalista, The Brutalist è il nuovo film di Brady Corbet, vincitore del Leone d’Argento per la miglior regia al Festival di Venezia 2024 e candidato a dieci premi Oscar nel 2025.
Il protagonista è un architetto ebreo di origine ungherese, László Tóth (interpretato da Adrien Brody) scampato all’Olocausto e ai campi di sterminio nazisti, che dopo un lungo viaggio in nave, arriva a New York. Siamo nel 1947, nella Terra della Libertà e delle opportunità. Come tanti altri immigrati fuggiti dall’Europa, László è in cerca di un mondo nuovo e di qualcosa a cui aggrapparsi per il futuro. A Budapest ha lasciato la moglie (Felicity Jones) e la nipote (Raffey Cassidy), con la speranza che possano presto raggiungerlo. In America ritrova il cugino Attila, che gestisce un negozio di arredamento in Pennsylvania, provando a ricostruire la sua carriera di architetto, interrotta dall’ascesa dei nazisti. Il suo primo incarico è progettare una libreria in legno per un ricco e facoltoso costruttore, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un regalo commissionato dai figli. Tuttavia, a causa di una serie di contrasti e fraintendimenti, il lavoro, almeno in un primo momento, non viene apprezzato e László viene allontanato e poi cacciato di casa dal cugino. Senza prospettive, accetta lavori umili, soffre la fame e cade vittima delle droghe, perseguitato dai fantasmi della guerra. Quando tutto sembra perduto, Van Beuren, rivaluta la sua opera, e lo ingaggia per progettare un colossale centro culturale multifunzionale. È l’opportunità di una vita.
The Brutalist potrebbe sembrare un biopic, un film biografico, ma in realtà il protagonista non si basa su un personaggio realmente esistito. László Tóth è la rappresentazione di tante vite, di tanti migranti geniali che hanno plasmato l’immaginario americano rimanendone sempre ai margini.
Brady Corbet ha impiegato sette anni alla preparazione di The Brutalist, investendo un'enorme quantità di tempo e risorse per portare avanti un progetto in cui solo lui sembrava credere. Con un budget di soli 10 milioni di euro, raccolti tra mille difficoltà, ha sfidato le logiche produttive di Hollywood, rifiutando compromessi per mantenere intatta la sua visione autoriale pura e ambiziosa. La scelta di girare in VistaVision, un formato cinematografico panoramico che garantisce un’eccezionale profondità di campo e una definizione straordinaria, molto popolare tra gli anni ’50 e ’60, amplifica l’imponenza del film, trasportando lo spettatore in un’epoca passata con una forza visiva che dialoga perfettamente con il tema del brutalismo.
Di questa corrente architettonica, Corbet coglie soprattutto la solennità e il senso di oppressione. Eppure, paradossalmente, non è la scenografia a dominare – anche se la parte girata alle cave di Carrara è molto affascinante – né tantomeno l’architettura brutalista – che compare solo nella parte finale, in un segmento documentaristico che prova a spiegare tutto ciò che il film non ha spiegato prima. Il vero pilastro è l’interpretazione di Adrien Brody, una prova intensa, struggente, e carica di dolore. Accanto a lui, Guy Pearce incarna con gelida eleganza il mecenate-predatore, in un contrasto che rende ancora più evidente la disperata vulnerabilità del protagonista.
Ho apprezzato molto anche la colonna sonora firmata dal compositore britannico Daniel Blumberg, a tratti invadente ma che accompagna con carattere la messa in scena, amplificando il peso esistenziale della storia.
Eppure, The Brutalist resta un film riuscito solo a metà. Nonostante la durata proibitiva non pesi eccessivamente, la narrazione si inceppa nella seconda parte. Se l’inizio è solido e plausibile, la svolta, questa sì brutale, nel rapporto tra Tóth e Van Buren appare forzata, magari simbolica ma poco credibile. Corbet mette in gioco troppi temi – arte e potere, compromesso e purezza, capitalismo e ingiustizie sociali, il sogno americano e la sua illusione – ma tutto sembra essere appena accennato non riuscendo a dar loro il giusto respiro.
Alla fine, The Brutalist assomiglia all’edificio che il protagonista cerca disperatamente di costruire: imponente, esagerato, coraggioso, ma ancora imprigionato nella sua stessa materia. È un film che aspira alla grandezza, che vuole imporsi come opera monumentale, ma che rischia di restare schiacciato dal peso della sua stessa ambizione.

Nosferatu
di Robert Eggers
Approcciandomi a questo film con così tante aspettative, più cresceva l’attesa, più prendeva forma la possibilità di una delusione. Robert Eggers è uno dei registi contemporanei che più apprezzo, e la sua rilettura del Nosferatu di Murnau, una delle opere più importanti della storia del cinema, mi è sembrata fin da subito una sfida affascinante ma assai pericolosa. Ma d’altronde, chi meglio di lui poteva raccogliere un’eredità così impegnativa? L'estetica gotica e crepuscolare di Eggers, la sua passione per il folklore, la mitologia e il cinema espressionista, sembravano adattarsi perfettamente a omaggiare il capolavoro di Murnau, già ripreso da Herzog nel 1979 con Klaus Kinski nel ruolo del vampiro.
La storia è conosciuta. Non avendo i diritti per una trasposizione cinematografica del Dracula di Bram Stoker, Murnau cambiò i nomi e le location rispetto al romanzo originale. La vedova di Stoker però lo sgamò e ottene la distruzione di tutte le copie del film. Fortunatamente una copia si salvò e la pellicola del 1922 è potuta arrivare fino ai giorni nostri.
La trama del film di Eggers, dunque, segue quella del Dracula originale, offrendo poche sorprese a chi già conosce la storia. Forse, proprio questa prevedibilità rappresenta l'unico punto debole del film. Se c’è un elemento che distingue questa versione dalla narrazione dell’opera originale, risiede nella meticolosa ricostruzione storica del folklore legato al vampiro e, soprattutto, nell’attenzione rivolta al rapporto tra la protagonista femminile e la creatura della notte. È proprio questa dinamica, carica di tensione erotica e profondità emotiva, a rappresentare il cuore pulsante del racconto.
Nella Germania del 1833, Thomas Hutter (Nicholas Hoult), giovane agente immobiliare, viene mandato in un luogo sperduto della Romania. Il suo compito è quello di far firmare al Conte Orlok (Bill Skarsgard), un nobile della Transilvania che vive in un castello isolato, il contratto di acquisto di una vetusta dimora signorile che ha comprato nella città di Wisborg. In realtà il Conte Orlok è un antico vampiro ossessionato da Ellen (Lily Rose Depp), la giovane moglie di Hutter, che inconsapevole delle sue doti parananormali, lo ha risvegliato dal suo sonno eterno attirando su di sé l’oscura attenzione del vampiro. Determinato a raggiungerla, Orlok abbandona il castello, e a bordo di un nave arriva a Wisborg portando con sé una scia di morte e disperazione.
La versione di Eggers è fedele, ma al tempo stesso profondamente personale. Dal punto di vista estetico, è un'opera impeccabile, caratterizzata da una meticolosa attenzione alle inquadrature, alla fotografia e a ogni minimo dettaglio. I colori, volutamente desaturati, conferiscono al film un aspetto che richiama i toni virati tipici dei film muti degli anni Venti, evocando un fascino d’altri tempi. La scena dell'arrivo di Thomas nel villaggio rumeno è resa con un’atmosfera sospesa e spettrale, il suo ingresso al castello con il Conte Orlok che lo accoglie trasuda di orrore e marciume. Azzeccata l'idea di non mostrare subito il volto del vampiro, così come ho apprezzato anche il modo in cui Eggers ha reinterpretato il personaggio, discostandosi dalle versioni precedenti e traendo ispirazione dall’iconografia di Vlad II di Valacchia: un vampiro con dei baffoni e il corpo logorato dal peso dei secoli.
Conoscendo a fondo la storia di Dracula e le innumerevoli rivisitazioni che ne sono state fatte, il fascino di questo film risiede nell'estetica decadente e nell'angosciante atmosfera opprimente che Eggers ha saputo infondere in ogni scena. Realizzando un'opera che sognava fin dall'infanzia, il regista propone un vampiro che, attingendo alle radici del folklore, incarna la malattia, la morte e il sesso in una forma crudele, brutale e spietata, restituendo a questa figura mitica la sua carica più malevola e disturbante.
Convincenti le interpretazioni dei protagonisti con il grande Willem Dafoe nei panni del professor Von Franz e una diafana e languida Lily-Rose Depp, brava a esprimere la zona d'ombra e il tormento interiore causato dell'attrazione morbosa, oscura e irresistibile per un vampiro che incarna la morte, la malattia e il male assoluto.
Il male nasce dentro di noi o viene dall’aldilà?
Alla fine mie aspettative sono state pienamente soddisfatte. Un film che richiede senza dubbio una seconda visione per coglierne appieno tutte le sfumature.
ll fotogramma finale è arte.

The Substance
di Coralie Fargeat
Mi sono visto al cinema The Substance, il body horror diretto da Coralie Fargeat, recentemente premiato per la miglior sceneggiatura a Cannes.
Elizabeth Sparkle (Demi Moore) è una ex diva di Hollywood che conduce da anni un programma di fitness in televisione. Quando il giorno del suo cinquantesimo compleanno viene licenziata, perchè il viscido produttore (Dennis Quaid) vuole sostituirla con una ragazza più giovane, Elizabeth decide di aderire a un programma sperimentale chiamato The Substance, che gli promette di tornare ad essere "giovane, bella e perfetta". Ottenuto il kit con le dosi, le siringhe, e le relative istruzioni, la donna si inietta quello che viene chiamato l'attivatore, generando dal suo corpo, che si lacera aprendosi sulla schiena, un suo clone, un’altra sé stessa giovane e bellissima (Margaret Qualley). A questo punto, per far sì che tutto funzioni correttamente, la matrice e il clone devono seguire alla lettera la procedura. Mentre un corpo vive, l’altro rimane dormiente alternandosi ogni sette giorni. Nella settimana di attività il clone deve alimentare Elisabeth con un particolare nutriente, iniettandosi quotidianamente una sostanza prelevata e prodotta dal corpo originale. Ovviamente il clone, che si fa chiamare Sue, ottiene il posto che era di Elisabeth incantando il produttore con la sua bellezza e riscuotendo subito un enorme successo di pubblico. Per un po’ Elizabeth e Sue vivono a settimane alterne seguendo scupolosamente il ciclo alternato, ma quando Sue, inebriata dal successo, decide di "restare in attività" più del dovuto, prosciuga eccessivamente la linfa vitale di Elizabeth, che al suo risveglio si ritrova invecchiata e deteriorata irreversibilmente. Diventata vittima del suo doppio e della sua avvenenza, Elisabeth precipita in una lotta disperata e autodistruttiva, in un conflitto di convivenza che si trascina in maniera feroce ed esasperata fino a un finale parossistico.
Coralie Fargeat porta sullo schermo una cruda allegoria della società moderna e della sua ossessione per la giovinezza e la bellezza ai tempi di Instagram e Tik Tok, in un body horror estremo che richiama molto Cronenberg e il "Society" di Brian Yuzna. Girato a tratti con lenti deformanti, inquadrature ravvicinate e un montaggio compulsivo trainato da musica elettronica che mi ha ricordato l'estetica di "Requiem for a Dream" di Aronofsky, "The Substance" è un film grottesco, fortemente caricaturale ed esasperato che a tratti sembra sprofondare nella parodia. Il finale del film è un tripudio splatter che può provocare disgusto e disagio, in coloro che si aspettavano un approccio più psicologico e profondo al tema, o al contrario esaltare chi si diverte a guardare mutazioni e deformazione del corpo con tanto di schizzi di sangue a profusione.
Soprassedendo su alcune ingenuità nella trama - come il clone che realizza un lavoro murario a regola d'arte, o la protagonista diventata vecchia, prima bloccata dall’artrite e poi in grado di correre per le scale - il film, preso per quello che è, ovvero una caricatura estremizzata della "cultura" che celebra l’immagine giovanile come unico valore di successo, è comunque riuscito. Anche se il messaggio rischia di perdersi nella messa in scena volutamente eccessiva, "The Substance" si fa apprezzare per il coraggio con cui punta lo sguardo su un'ossessione contemporanea senza mezze misure.
A mio parere il miglior horror del 2024.
Film
Beetlejuice Beetlejuice
di Tim Burton
Sono andato al cinema a vedere Beetlejuice Beetlejuice senza grandi aspettative. Da ormai vent'anni, Tim Burton sembrava aver perso quell'ispirazione che un tempo mi aveva fatto amare il suo cinema. Quando ho sentito parlare che stava girando il sequel di uno dei suoi film cult, mi è sembrato il tentativo di rivangare vecchi successi in un desolato sforzo di raschiare il fondo del barile. Ero persino tentato di non vederlo temendo una ennesima delusione.
E invece, mi sono dovuto ricredere. Beetlejuice Beetlejuice è un film divertente, pieno di creatività e pregno di quel folle immaginario tipicamente burtoniano. Non è un capolavoro, intendiamoci. Si tratta pur sempre di una commedia nera destinata al grande pubblico. Ma quell’energia anarchica, quella creatività senza freni che caratterizzava il Beetlejuice del 1988, non solo è ancora presente, ma brilla di una vitalità inaspettata.
Beetlejuice Beetlejuice riprende la storia del primo film a più di trent'anni di distanza.
Lydia Deetz (Winona Ryder) è una conduttrice di uno show televisivo sulle case infestate, che ha un rapporto difficile con la figlia adolescente Astrid (Jenna Ortega). Quando viene a sapere dalla matrigna Delia (Catherine O'Hara) che suo padre è morto, Lydia insieme a sua figlia torna nella casa di Winter River per il funerale. Nella soffita si trova ancora intatto il plastico che riproduce la cittadina e da cui Beetlejuice (Michael Keaton) cerca di uscire per poter tornare nel mondo dei vivi. Inevitabilmente il bio-esorcista sboccacciato riesce a cogliere la sua occasione, ignorando, almeno all'inizio, di essere braccato dalla sua pericolosa ex "sposa cadavere" (Monica Bellucci) che pare avere dei conti in sospeso con lui.
Nel cast è presente anche il grande "prezzemolino" Willem Dafoe che interpreta un agente di polizia nell'aldilà, Justin Theroux che fa la parte del fastidioso fidanzato della Ryder, e Danny DeVito, in un gustosissimo cameo.
Beetlejuice Beetlejuice è un film esplosivo, ricco di divertimento e zeppo di autocitazioni e omaggi al cinema di genere. Sicuramente - ma non ci voleva molto - è il film di Tim Burton più riuscito degli ultimi anni. E' un film in cui lo sfrenato immaginario di Burton esplode in tutta la sua potenza - sopratutto nella parte ambientata nell'altro mondo - e che forse solo i fan di Burton di lunga data possono apprezzare pienamente. Non lo consiglierei a chi non ha amato il primo Beetlejuice, o peggio ancora a chi non l'ha mai visto. Anzi, il mio suggerimento è di riguardare il primo per rispolverare la memoria prima di godersi questo nuovo capitolo.
Parte del cast originale ritorna con un Michael Keaton più scatenato che mai. Sotto la maschera di Betelgeuse (in realtà è questo il suo vero nome) sembra non essere passato un solo giorno. Il personaggio mantiene inalterato il suo spirito cazzone e la sua folle vitalità da macabro giullare anche se rispetto al primo capitolo mi pare sia un pò più docile e meno pericoloso. Catherine O'Hara riprende il ruolo dell'artista snob in maniera impeccabile, come se la parte fosse stata scritta appositamente per lei. Winona Ryder, invece, non mi convince. Come già visto in "Stranger Things", appare sempre rigida e tesa, quasi ingessata. Il ruolo di adolescente ribelle e problematica viene ora passato, in una sorta di staffetta generazionale, a Jenna Ortega, che già con "Mercoledì" sembra aver trovato il suo posto come nuova musa burtoniana. Infine Monica Bellucci, a metà strada tra la Sposa Cadavere e Sally di "Nightmare Before Christmas", incanta con la sua silenziosa presenza nel ruolo di Delores. La scena in cui il suo corpo viene ricomposto pezzo per pezzo e unito con una spillatrice è semplicemente memorabile. Purtroppo, il suo personaggio viene relegato in secondo piano e, a metà film, sparisce per lasciare spazio ad altre sottotrame e un nuovo villain, ricomparendo solo in un finale che risulta piuttosto affrettato. Ecco, probabilmente i difetti di questo film sono troppe sottotrame che si intrecciano senza essere ben risolte, una sceneggiatura sovraccarica, e un finale che risulta troppo sbrigativo. Ho invece apprezzato tantissimo la scelta di utilizzare effetti speciali artigianali, stop motion, effetti prostetici e animatronics. Una scelta coraggiosa, in un'epoca dominata dalla CGI, che dona al film quel tocco nostalgico e autentico che tanto si lega allo stile di Burton.
Tra le varie citazioni cinematografiche, quella che mi ha emozionato di più è stata l’omaggio a Mario Bava, il maestro dell'horror italiano. Non solo attraverso il flashback in bianco e nero (e in italiano, perché i film andrebbero sempre visti in lingua originale) che rievoca "La Maschera del Demonio", ma anche quando Lydia racconta alla figlia Astrid di aver conosciuto il padre durante una retrospettiva su Bava e di averla concepita proprio durante una proiezione di "Operazione Paura". È un omaggio che mi ha fatto sognare: quanto sarebbe incredibile vedere Tim Burton dirigere un film su Mario Bava e il cinema di genere italiano, come fece anni fa per "Ed Wood"?
Tra esilaranti siparietti musicali e momenti di pura follia visiva, Beetlejuice Beetlejuice riesce a bilanciare l'irriverenza del primo capitolo con una nuova vena di maturità. Tim Burton torna a giocare con il suo inconfondibile immaginario gotico, regalando ai fan vecchi e nuovi un'opera che, pur con qualche difetto di trama, brilla per creatività e intrattenimento. È un viaggio nostalgico che però non si adagia sul passato, ma che al contrario amplia l'universo di Beetlejuice. Visto la scelta del titolo non mi sorprenderebbe vedere tra qualche anno un terzo capitolo.

Alien: Romulus
di Fede Álvarez
Alien: Romulus diretto da Fede Álvarez è il settimo capitolo della lunga saga di Alien iniziata con il primo, straordinario Alien del 1979.
Narrativamente parlando la storia si colloca tra "Alien" e "Aliens - Scontro finale" e vede come protagonista la giovane orfana Rain (Cailee Spaeny) che insieme a Andy (David Jonsson), un androide malfunzionante che considera una sorta di fratello, si trova su un pianeta avvolto da un'oscurità perenne dove si estrae minerali e i lavoratori vengono sfruttati dalla Weyland-Yutani, la compagnia che amministra le colonie umane al di fuori del sistema solare. Stanca di questa vita senza futuro, Rain accetta la proposta del suo ex fidanzato Tyler e insieme alla sorella incinta Kay, il cugino Bjorn e la sua fidanzata Navarro salgono sul relitto di una stazione spaziale entrata in orbita attorno al pianeta per recupare delle capsule di stasi criogeniche che gli consentirebbero di raggiungere il pianetà abitabile più vicino. La stazione spaziale, divisa nei moduli speculari Romulus e Remus, si rivela essere un centro di ricerca sperimentale al cui interno si trovano numerosi facehugger ibernati che, ovviamente, vengono inavvertitamente risvegliati generando gli xenoformi che iniziano a braccare i nostri sprovveduti protagonisti.
Il film parte bene, quanto meno nella prima mezz'ora, ma poi diventa una sorta di remake citazionista dei primi due Alien che sembra essere stato concepito da una parte per soddisfare i fan storici della saga, dall'altra per "acchiappare" un pubblico più giovane, con l'intenzione di rivitalizzare il franchise mantenendo tutti gli elementi che lo hanno reso celebre e così garantire un ricambio generazionale. Tutto avviene come dovrebbe andare in un film di Alien anche a costo di replicare intere sequenze di scene già viste - tanto per farvi un esempio tra mille, l'intimo della Ripley viene sostituito dai piedi nudi della protagonista perchè è così che si deve affrontare l'alieno nella scena finale - perdendo la logica e le motivazioni di una storia priva di credibilità e quindi anche di tensione proprio perchè sappiamo già cosa accadrà nella scena successiva.
E' come andare sul tunnel dell'orrore e rivivere le esperienze del passato che però avendole già vissute non fanno più paura. Un vero peccato, perché dal punto di vista stilistico, il film ha una ottima regia, una buona fotografia, scenografie retrò di grande impatto e un buon uso di effetti speciali tradizionali - animatroni e make-up prostetico al posto della CGI - che evidenzia ancor di più l'occasione sprecata.
Avevo apprezzato la deriva "filosofica" di Prometheus e Covenant che, nonostante non siano riusciti pienamente, stavano tentando di creare qualcosa di nuovo e originale ma capisco che il pubblico preferisca vedere uno slasher movie in cui il mostro insegue carne da macello nei corridoi claustrofobici di una astronave nello spazio riproponendo pedissequamente tutti i momenti cult della saga di Alien.
Film
The Well
di Federico Zampaglione
E' uscito al cinema il nuovo film horror di Federico Zampaglione.
La storia vede come protagonista Lisa (Lauren LaVera), una giovane restauratrice americana che arriva in Italia per lavorare su un dipinto gravemente danneggiato da un incendio. Il lavoro la conduce a Sambuci, un paesino nelle campagne romane, dove il dipinto è conservato nella villa della nobildonna Contessa Malvizi (Claudia Gerini). La ragazza si mette subito al lavoro per riportare alla luce l'oscuro dipinto nei tempi stabiliti facendo conoscenza con Sara (Linda Zampaglione), la figlia adolescente della contessa, che gli racconta di un’antica maledizione legata al misterioso dipinto. Nel frattempo tre turisti, due ragazze e un ragazzo che Lisa ha conosciuto in pullman durante il viaggio, dopo essersi accampati in un bosco poco distante dal paesino vengono catturati e rinchiusi in celle sotterranee per diventare carne da macello del loro aberrante carceriere (Lorenzo Renzi) e della mostruosa creatura che si trova in fondo al pozzo al centro della stanza.
Il film di Zampaglione è un omaggio al cinema di genere italiano del passato, che ricorda "La casa dalle finestre che ridono" di Pupi Avati ma anche "Suspira" di Dario Argento. Il suo essere derivativo inevitabilmente lo porta a essere poco originale ma allo stesso tempo, questa sua riconoscibilità, gli conferisce una forte identità rendendolo distinguibile come horror italiano da esportare all'estero (il film è stato venduto in oltre cento paesi). Per alcune scene particolarmente violente e splatter in Italia il film è stato vietato ai minori di 18 anni. Una censura un pò eccessiva se pensiamo che film americani altrettano sanguinosi, come per esempio l'ultimo "Saw", si sono fermati al divieto ai minori di 14 anni.
La storia di "The Well" è abbastanza semplice e si svolge per lo più all'interno di una villa, in due livelli distinti. Sopra, nel lusso di un ambiente aristocratico e decadente dall'atmosfera gotica, la protagonista, nel ripulire dalla fuliggine il dipinto, riporta alla luce il ritratto di mostruosi demoni e macabri rituali, precipitando in un orrore onirico e psicologico. Sotto, nelle celle sudicie, rugginose e putriscenti si compie l'orrore fisico tra amputazioni e squartamenti che si rifà a quel torture porn che Zampaglione ci aveva già deliziato in "Shadow". Il carnefice, qui rappresentato come un orco demente, non è solo, come lo era il malvagio nel film appena citato. In "The Well" abbiamo anche una strega e sopratutto uno dei mostri più inquietanti degli ultimi anni. Grazie agli effetti speciali analogici di Carlo Diamantini, il makeup della creatura mostruosa è davvero ben riuscita. Peccato che nel finale, nella parte del decadimento fisico, gli effetti non siano della stessa altezza.
In conclusione, nonostante il film abbia qualche cliché di troppo e alcune situazioni inverosimili, è senza ombra di dubbio uno degli horror italiani più interessanti degli ultimi anni, con un finale che, seppure un pò tirato via, ci porta a riflettere su chi sia davvero il vero mostro.
Film
Civil War
di Alex Garland
Non sono un amante dei film di guerra ma adoro Alex Garland.
Con questa premessa sono andato al cinema a vedere Civil War.
Siamo in una America di un futuro prossimo. Non conosciamo il motivo scatenante ma negli Stati Uniti è in corso una feroce guerra civile. Il Texas e la California sono gli stati secessionisti che, insieme alla Florida, vogliono abbattere il Presidente degli Stati Uniti considerato una sorta di dittatore fascista. Lee Smith (Kirsten Dunst), una rinomata fotografa di guerra, insieme al giornalista Joel (Wagner Moura) e all'anziano collega Sammy (Stephen McKinley Henderson) decidono di partire da New York per recarsi a Washington e intervistare il Presidente trinceratosi nella Casa Bianca. Al gruppo si aggrega la giovane Jessie (Cailee Spaeny), una aspirante fotoreporter che vuole seguire la carriera di Lee. Durante il viaggio i quattro testimoniano con la loro macchina fotografica le atrocità della guerra passando attraverso scene di guerriglia urbana, duelli tra cecchini, pompe di rifornimento in cui la benzina non ha prezzo e fattorie dell'orrore in cui militari nazionalisti (tra questi un ottimo Jesse Plemons) uccidono indistintamente i civili in base alla loro etnia.
Il film di Garland racconta una ipotetica guerra civile come conseguenza di una politica populista protesa all'estremismo e alle divisioni. É inevitabile pensare a Donald Trump - che proprio nei prossimi mesi concorrerà nuovamente per la Casa Bianca - e all’attacco a Capitol Hill nel gennaio del 2021 da parte dei suoi seguaci. Garland afferma che il film è apolitico ed è stato scritto prima di questo evento, affermando inoltre che ha cercato di attribuire le responsabilità del violento conflitto a entrambi gli schieramenti ma come era prevedibile Civil War ha suscitato negli Stati Uniti un acceso dibattito, sopratutto dalla parte della destra conservatrice, che accusa il film di "predictive programming", una teoria secondo cui i media popolari, come film, serie TV o romanzi, possano contenere messaggi subliminali o indizi sul futuro, influenzando le percezioni e preparando il pubblico per eventi o cambiamenti sociali.
Al di là dell'aspetto politico e provocatorio, Civil War - il film più costoso prodotto dello studio indipendente A24 - è un roadmovie ambientato durante un conflitto in cui i protagonisti documentano in maniera disicantata la violenza scaturita da questa guerra civile, una violenza molto spesso fine a se stessa dove non sempre c'è un nemico da sconfiggere ma solo il desiderio di usare le armi per sfogare la propria rabbia repressa. Il tutto, come detto, viene documentato dai protagonisti con il personaggio di Lee che assume il ruolo di mentore nei confronti della giovane e inesperta Jessie, la quale, nel giro di pochi giorni, supera la più celebrata collega proprio durante l’assedio di Washington.
Il film di Alex Garland è girato indubbiamente bene e restituisce una certa tensione - in particolar modo nella scena con Plemons già citata - ma nonostante riconosca le sue qualità tecniche non mi ha pienamente convinto. Accantonando il prevedibile finale, ho trovato poco coraggiosa la scelta di porsi come testimone distaccato, così come mi è parso superficiale il fatto di non aver approfondito il cinismo autodistruttivo dei fotoreporter che si sentono vivi nel mettere a rischio la propria vita e trovano la bellezza in una fotografia che testimonia l'istante della morte.
Non so, probabilmente il fatto che non sia mai stato un amante dei film di guerra - tanto per intenderci in una ipotetica lista sui miei cento film preferiti, pur riconoscendo il loro valore, pellicole come Platoon, Full Metal Jacket e lo stesso Apocalypse Now non rientrebbero in questa classifica - ha contribuito a rendere il film di Garland emotivamente poco coinvolgente e distante. Presumo che sia un problema mio dal momento che tutti stanno osannando questo film.

Dune: Part Two
di Denis Villeneuve
Alla fine mi sono visto la seconda parte del Dune di Villeneuve.
Premetto che la sala cinematografica è l'unico luogo per apprezzare al meglio l'epicità e la grandezza di questa pellicola. Vederlo a casa, nelle piattaforme o in homevideo, non sarebbe stato la stessa cosa.
Si riparte da dove è finito il primo capitolo. Paul Atreides (Timothèe Chalamet) e sua madre Lady Jessica (Rebecca Ferguson) trovano rifugio tra i Fremen, i nativi di Arrakis, il popolo che vive nascosto nel deserto. Superate le prime diffidenze, i due si uniscono a loro nella lotta contro gli Harkonnen, sostenuti da Stilgar (Javier Bardem), il leader dei Fremen che vede in Paul il tanto atteso salvatore descritto nelle profezie. Aiutato da Chani (Zendaya), Paul inizia un addestramento alla vita e alla guerra nel deserto trovando al tempo stesso l'amore nella giovane guerriera dei Fremen. Mentre Jessica, dell'ordine delle Bene Gesserit, accetta di diventare una Reverenda Madre venendo sottoposta al rito dell'Acqua della Vita - alterando di conseguenza la coscienza della bambina che porta in grembo - Paul, cavalcando un verme della sabbia, supera l'ultima prova conquistando la stima del popolo Fremen e diventando la guida che lì porterà al riscatto e alla liberà. Nel frattempo il barone Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgard) - che con la complicità dell'imperatore Shaddam IV (Christopher Walken) è il responsabile dalla carneficina degli Atreides - stanco degli insuccessi di Rabban (Dave Bautista) nel reprimere la rivolta dei Fremen e assicurarsi la produzione della spezia di Arrakis affida il governo del pianeta allo psicopatico nipote Feyd-Rautha (Austin Butler). Nonostante sia tormentato da funesti sogni premonitori, Paul Atreides alla fine accetta il suo destino di messia e in un epica battaglia guida i Fremen nella battaglia finale contro l'esercito degli Harkonnen e dei Sardaukar, i soldati dell'imperatore.
Rispetto al libro, Villeneuve elimina alcune parti ritenute superflue, mi riferisco all'impegno di Paul di provvedere alla donna dell’uomo che ha ucciso durante il primo incontro con i Fremen, l'assenza del conte Hasimir Fenring, oppure del figlio avuto con Chani poi morto in una successiva battaglia. Inoltre il carattere del personaggio di Chani viene modificato in modo significativo. Nel romanzo di Herbert, Chani comprende la scelta di Paul di sposare la principessa Corrino (nel film interpretata da Florence Pugh) mentre nel film - che si conclude con il volto furente della guerriera Fremen in procinto di cavalcare un verme della sabbia - il personaggio interpretato da Zandaya non solo si sente tradita che Paul prenda in moglie la figlia dell’imperatore destituito ma rimane delusa dalla sua scelta di diventare il messia tanto atteso dal suo popolo.
Tralasciando le differenze con il romanzo, che io peraltro ho trovato funzionali, Villnevue più che alla sceneggiature e i dialoghi si affida prevalentemente alle immagini e alla fotografia per adattare alla sua maniera l'epica saga fantascientifica di Frank Herbert. Una fotografia spettacolare sia nei colori caldi del deserto che nei colori desaturati, quasi in bianco e nero, di quando ci troviamo sul pianeta degli Harkonnen. Riguardo il montaggio Villeneuve è riuscito a dosare sapientemente l'azione con i momenti rilessivi e il film, tolto forse solo una accellerata nel finale, ha il ritmo giusto. Due ore e mezzo che non si sentono minimamente. Menzione particolare per la musica di Hans Zimmer, una musica impetuosa, epica, veramente da brividi. A momenti la poltrona su cui stavo seduto mi pareva tremare per quanto potente ho trovato la colonna sonora.
Dune è un blockbuster americano con una grande produzione e numerosi attori di primo piano ma alla spettacolarità di un film del genere Villeneuve è riuscito a dare la sua impronta, il suo tocco artistico da grande regista.
Vedere i due film di Dune mi ha trasportato un mondo fantastico che tanto mi ha ricordato il fascino e l'incanto dei primi Guerre Stellari ma dai contorni e dai contenuti decisamente più adulti. A questo punto mi aspetto il terzo capitolo.

La zona d'Interesse
di Jonathan Glazer
Vincitore al Festival di Cannes del Grand Prix della Giuria, La zona d'Interesse è uno dei film più discussi tra quelli usciti nelle sale cinematografiche in questo periodo. A dirigerlo è l'inglese Jonathan Glazer, regista di Birth e Under the Skin che in passato ha realizzato videoclip dei Radiohead (Karma Police), Massive Attack e altri ancora.
Il film racconta la storia di Rudolf Höss (Christian Friedel), comandante del campo di concentramento di Auschwitz, che vive con sua moglie (Sandra Hüller) e i loro cinque figli in una villetta con giardino, orto e piscina. Una bellissima casa che si trova proprio dietro le mura in cui si svolge la tragedia dell'Olocausto.
Alla fine la trama è questa. Quella di una famiglia borghese tedesca degli anni quaranta che vive la sua routine perfetta fatta di gite in barca, cene e giardinaggio, con un costante e inquietante brusio di sottofondo che accompagna con disumana normalità la loro quotidianità.
Oltre a delle scene girate con una videocamera a infrarossi - o meglio che registra il calore - in cui vediamo una ragazza andare in giro di notte a lasciare del cibo ai prigionieri di Auschwitz, succede poco altro. Semmai sono i particolari a fare la differenza. Il vero elemento disturbante è l'orrore che non si vede, quello che sappiamo avvenire dietro il muro, ed è percepito solo con l'utilizzo del suono, il vero protagonista di questo film. La regia è statica, la fotografia è banale, anche i dialoghi sono piatti e ridotti al minimo. Nel rappresentare questo paradiso artificiale tutto è volutamente distaccato e messo in secondo piano lasciando che sia il sonoro a comunicare la tragedia in atto anche a scapito di una colonna sonora praticamente inesistente e presente solo in quell'interminabile nero all'inizio della pellicola e nel potente e devastante pezzo dei titoli di coda. A mio parere un oscar dovrebbero assegnarlo al sound designer.
La zona d'Interesse ha il pregio di parlare dell'Olocausto da un punto di vista diverso da quello che abbiamo visto in passato al cinema. Qui il disagio e il malessere viene rappresentato dalla apparente normalità, dal distacco e dalla confort zone del gerarca nazista e della sua famiglia, mentre l'orrore, quello percepito dai suoni strazianti che provengono fuori campo, quasi per pudore non viene mai mostrato. Nonostante ciò la sua presenza è palpabile e nondimeno angosciante.
Il film mi è piaciuto? Si. Lo andrei a rivedere? No.

Povere Creature!
di Yorgos Lanthimos
Film che non vedevo l'ora di vedere e che sta riscuotendo parecchio interesse da parte di critica e pubblico.
Vincitore del Leone d'Oro a Venezia e candidato a diversi oscar, Povere Creature! (Poor Things) è l'ultimo film dell'acclamato regista greco Yorgos Lanthimos.
Siamo a Londra alle fine di un ottocento ucronico. Godwin Baxter (Willem Dafoe), un eccentrico medico chirurgo dal volto deforme, compie un esperimento riportando in vita una giovane donna suicida impiantandogli il cervello del feto che portava in grembo e che era sopravissuto. Quando Godwin prende l'allievo Max McCandles (Ramy Youssef) come suo assistente personale per documentare i progressi della sua "creatura", Bella Baxter (Emma Stone) è una bambina nel corpo di una donna adulta che sta compiendo i suoi primi passi nel mondo. Si muove in modo sgraziato, ha un lessico e capacità cognitive limitate, ma cresce di giorno in giorno molto rapidamente.
La svolta, la scintilla che porta Bella ad avere consapevolezza di sè, è la scoperta del proprio corpo e della propria sessualità. Per contenere la sua libido, Godwin decide di darla in sposa a Max ma Bella, spinta dalla voglia di conoscere il mondo e fare nuove esperienze, fugge con l'avvocato Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), un donnaiolo senza scrupoli. I due si imbarcano in un lungo viaggio per l'Europa, durante il quale Bella, oltre ad esplorare con gioia e vitalità il sesso, diventa sempre più autonoma e indipendente. Ha una grande curiosità ed è alla ricerca costante di cose nuove che la gratifichino e l'arricchiscono. Durante una crociera nel Mediterraneo Bella incontra una bizzarra coppia che la introducono alla filosofia e alla cultura, mostrandogli anche la disparità sociale che affligge il mondo. Una volta a Parigi, Bella interrompe la relazione con l'asfissiante Duncan iniziando a lavorare in un bordello dove conosce una ragazza che la introduce al socialismo. Diventata ormai "adulta", una donna emancipata libera di vivere il mondo senza pregiudizi e concetti, Bella Baxter è ormai pronta per tornare a casa.
Povere creature! è una fiaba steampunk, una sorta di Frankenstein ribaltato in cui la protagonista compie un viaggio di crescita e libertà alla scoperta delle gioie e delle contraddizioni del mondo.
Visivamente e tecnicamente il film è un vero gioiello. Campi, controcampi, fish-eye, mascherini, grandangoli. Scenografie che sembrano dipinti, fotografia in bianco e nero alternata ai colori, costumi straordinari, musica dissonante. E' tutto così sublime, stravagante e dosato alla perfezione che cerchi il cavillo per renderlo attaccabile. Nonostante un certo sfoggio di autorialità in cui Lanthimos mischia il suo cinema con quello di Terry Gillian e Tim Burton citando l'espressionismo tedesco e il cinema surrealista di Luis Buñuel, Povere Creature! è un film essenzialmente pop che mischia i generi rendendosi fruibile al grande pubblico. Di certo nella sua stravaganza è il film più hollywoodiano di Lanthimos e per questo prevedo numerosi oscar. Uno di certo lo vincerà Emma Stone perchè oltre alla sua grande interpretazione il personaggio di Bella Baxter merita di entrare nella storia.
Riguardo il messaggio, anche questo film, quasi come a voler cavalcare un tema che va per la maggiore, sembra parlare di emancipazione femminile e lotta al patriarcato. In verità io trovo che la brama di libertà e il percorso di crescita compiuto da Bella Baxter sia più universale. L’evoluzione, la presa di coscienza e la volontà di apprendere per conoscere il mondo e se stessi, si può applicare a chiunque, al di là del genere di appartenenza.
Film straordinario, da rivedere.
Film
Il ragazzo e l'airone
di Hayao Miyazaki
Ho visto al cinema Il ragazzo e l'airone, l'ultimo film del maestro dell'animazione giapponese Hayao Miyazaki.
Sono un pò spiazzato, ma andiamo con ordine provando a mettere insieme (o in equilibrio) i pezzi. Il ragazzo e l'airone è probabilmente l'ultimo film di Miyazaki, nel senso che difficilmente, visto l'età del grande autore, avrà il tempo di realizzarne un altro. Ma mai dire mai. Il titolo in originale è "E voi come vivrete?", ed è ispirato, ma solo il titolo, all'omonimo romanzo scritto da Genzabuo Yoshino che il cineasta giapponese lesse in gioventù.
In una Tokyo martoriata dal conflitto della Seconda Guerra Mondiale, il giovane Mahito assiste impotente alla morte della madre rimasta prigioniera in un incendio nell'ospedale in cui lavorava. Un anno più tardi, il padre del ragazzo si sposa con la sorella della defunta moglie, Natsuko, e insieme a Mahito si trasferisce nella sua bellissima casa in campagna. In attesa di un bambino, Natsuko, insieme a sette simpatiche vecchiette, accoglie amorevolmente Mahito che però, ancora segnato dal trauma della morte della madre, risulta freddo e distante. Appena arrivato, Mahito inizia ad essere perseguitato da uno strano airone cenerino che da lì a poco si trasformerà in una inquietante creatura antropomorfa. Nei giorni successivi, l'airone, promettendogli di ricongiungerlo con la madre, lo conduce in una torre abbandonata poco distante dalla villa. Quando Natsuko scompare misteriosamente, Mahito decide di cercarla nella torre ritrovandosi catapultato in un mondo fantastico popolato da strane creature (giganteschi parrocchetti, pellicani affamati e graziose creaturine, i Warawara). Un universo magico e colorato in cui il nostro protagonista incontra Himi, una giovane maga che controlla il fuoco, la coraggiosa piratessa Kiriko e sopratutto il suo prozio, il mago artefice di questo mondo parrallelo.
Questa, a grandi linee, è la trama.
Dal punto di vista tecnico e di animazione Il ragazzo e l'airone è impeccabile, oltre ai fondali che sembrano dei veri e propri dipinti impressionisti, la sequenza iniziale in cui Mahito corre verso le fiamme dalla madre penso sia una delle più emozionanti animazioni che abbia mai visto.
Molto bella anche la colonna sonora minimale di Joe Hisaishi.
"Ask Me Why" è già entrata nella mia playlist emotiva.
Ora veniamo alla sceneggiatura. Il film come struttura ricorda La Città Incantata - il capolavoro di Miyazaki che sento più mio e a cui sono più affezionato - dove la piccola Chihiro finiva in un mondo magico per salvare i genitori trasformati in maiali. In questo caso Mahito vuole salvare Natsuko finita nel fantastico mondo della torre. Un mondo che sembra ricordare il paese delle meraviglie di Alice e da cui si accede attraversando un portale dantesco. Rispetto alla sauna degli spettri della Città Incantata il mondo all'interno della torre è però decisamente più complesso e criptico rendendolo meno empatico al pubblico. Il ragazzo e l'airone è il testamento di Miyazaki, un film pieno di simbolismi nascosti e riferimenti ai suoi film passati. E' un film quasi autobiografico in cui Mahito rappresenta il giovane Miyazaki mentre il mondo della torre è la raffigurazione del suo mondo creativo, la prigione del suo creatore (il suo io vecchio) che con le sue opere ha dato vita a un mondo squilibrato in procinto di crollare (lo studio Ghibli). Le tredici forme probabilmente sono i suoi film - sì, è vero, al momento ne ha fatti dodici, ma non mi sorprenderebbe vedere tra qualche anno un suo film postumo. Il vecchio e stanco mago/Miyazaki ora è in cerca di un erede, solo che non esiste il suo successore e chi verrà dopo di lui dovrà necessariamente prendere un altra strada ed essere solo se stesso.
Il ragazzo e l'airone è un viaggio onirico e surreale nell'intimità di un creatore di mondi che con la sua opera conclusiva si prepara a salutarci. Sicuramente è il suo film più difficile e per certi versi il meno empatico perchè si presta a numerose interpretazioni di non facile lettura. A me piace il fatto che abbia voluto fare un film più per se stesso che per il pubblico ma non lo considero il suo film migliore. Tanto per intenderci è un film che non consiglierei a chi non ha visto nulla del maestro giapponese così come non consiglierei Inland Empire a chi non ha mai visto nessun film di David Lynch.
Film
Asteroid City
di Wes Anderson
Da una decina di giorni è arrivato nelle sale cinematografiche Asteroid City, il film di Wes Anderson presentato in concorso all'ultimo Festival di Cannes.
Si tratta di una commedia surreale e grottesca caratterizzata da uno spiccato virtuosimo estetico.
Nel film, Asteroid City è la messa in scena di una commedia teatrale in tre atti e un epilogo narrata da Bryan Cranston, scritta da Edward Norton e girata da Adrien Brody. Il dietro le quinte si distinge dall'essere girato in bianco-e-nero nel formato 4:3. La commedia, ovvero la trama principale del film, è invece girata in 16:9 a colori ed è contradistinta dalla vivace fotografia ormai riconducibile allo stile del regista americano.
La storia è ambientata negli anni cinquanta ad Asteroid City, una città immaginaria nel deserto nota per un grande cratere causato dalla caduta di un meteorite migliaia di anni prima. Qui si tiene un concorso annuale per giovani aspiranti scienziati che presentano le proprie invenzioni, venendo premiati (ma anche privati dei loro brevetti) dall’esercito statunitense. Ad accompagnare i ragazzi troviamo un fotografo di guerra (Jason Schwartzman) che non ha ancora detto ai loro quattro figli della morte della madre, una attrice depressa (Scarlett Johansson) impegnata a memorizzare il suo nuovo copione, e una giovane maestrina (Maya Hawke) che guida una scolaresca. Oltre a loro ci sono il Generale Gibson (Jeffrey Wright), la Dott.ssa Hickenlooper (Tilda Swinton), il manager del motel (Steve Carell), il meccanico del paese (Matt Dillon), il suocero del fotografo (Tom Hanks), e tanti altri personaggi che si alternanano velocemente. L'inaspettato incontro ravvicinato con un alieno costringe il governo americano a mettere in quarantena la popolazione e gli ospiti delle cittadina che così si ritrovano a interagire tra di loro nel cercare di dare un significato all'esperienza che stanno vivendo.
Che dire di questo film, dal punto di vista estetico sembra di trovarsi in un quadro di Edward Hopper in movimento. La fotografia con una profondità di campo che pare infinita è piena di dettagli e tutti gli elementi visivi, compresi i personaggi, sono a fuoco, simmetrici, rendendo ogni singolo fotogramma del film una illustrazione da incorniciare. La panoramica circolare in cui ci viene presentata la cittadina all'inizio del film è spettacolare, per non parlare delle riprese con i carrelli laterali dove i personaggi si muovono staticamente nel loro spazio. Attraverso una palette cromatica ricercata e particolare, la cittadina nel mezzo del deserto sembra faccia parte di un cartone dei Looney Tunes (per un momento appare pure Beep Beep) così come è evidente l'omaggio di Anderson ai film di fantascienza degli anni cinquanta (e di conseguenza al Mars Attack di Tim Burton) con il modellino dell'astronave e il bizzarro alieno. Insomma, stilisticamente ineccepibile.
Tralasciando l’aspetto tecnico e visivo, purtroppo ho trovato il film privo di emozioni, apatico, e piatto a livello narrativo. I personaggi mi sono sembrati privi di umanità. È vero che la trama portante, la parte a colori tanto per intenderci, non è altro che una rappresentazione, ma i personaggi interpretati dagli attori all'interno del metafilm mi sono sembrati troppo distaccati, privi di empatia. Magari è voluto ma se è così non ho colto le motivazioni. Gli stessi bambini, che sono la parte più divertente del film - in particolar modo le tre bambine - sono fuori dalle righe, sembrano dei robot. Qualcuno mi potrà dire che si tratta di una volontà stilistica dell'autore, bene ma forse non è nelle mie corde anche se Grand Budapest Hotel al tempo mi era piaciuto molto.
E' un film bello da vedere, nella forma e nell'estetica, senza ombra di dubbio. Tuttavia la storia e i contenuti personalmente non mi hanno suscitato nessuna emozione.
Un film vuoto nella sua grande bellezza estetica.

Oppenheimer
di Christopher Nolan
Ho visto al cinema il film più chiaccherato del momento.
Oppenheimer, come molti altri film di Christopher Nolan, è un blockbuster intellettuale, ovvero un film con un budget alto e attori di primo piano che pur rivolgendosi al grande pubblico affronta un tema complesso fecendolo in maniera articolata. Rispetto a Tenent, Inception e anche Interstellar, Oppenheimer, essendo un biopic, è sicuramente più lineare e di facile comprensione ma sia per la durata (tre ore), i molti personaggi, i fatti storici, i tanti dialoghi, e sopratutto i numerosi salti temporali, si rivela non meno impegnativo e ingarbugliato.
Il film racconta la storia di J. Robert Oppenheimer, il fisico statunitense di origine ebrea noto come il "padre della bomba atomica", ed è strutturato in tre atti (le origini, il Progetto Manhattan e il processo farsa) montati in maniera frammentata, mescolando a più livelli i tre diversi periodi storici in cui è ambientato (prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale).
Oppenheimer è la storia di un uomo dall'ego smisurato e dalla personalità tormentata che come un moderno Prometeo (il titano ribelle che rubò il fuoco agli Dei per darlo al genere umano) si ritrova a dover fare i conti con la propria coscienza per aver consegnato all'umanità l'arma che la porterà alla sua distruzione. “Ora sono diventato Morte / Il distruttore dei mondi”.
Personalmente non sono un amante dei film biografici ma Christopher Nolan ha la capacità di rendere entusiasmante e avvincente anche un soggetto che potrebbe risultare poco interessante.
Oppenheimer è un film potente, di forte impatto, girato in maniera divina ed elegante con un montaggio da thriller psicologico e un cast memorabile in cui spicca l'interpretazione maestosa di Cillian Murphy ma anche e sopratutto quella di Robert Downey Jr (per entrambi il loro film migliore) ed Emily Blunt.
Ci sono delle scene che lasciano il segno: la sequenza magistrale dell'esplosione della prima bomba atomica nel test Trinity a Los Alamos, e quella successiva in cui Oppenheimer, proprio durante la celebrazione, vede tra il pubblico che lo acclama gli effetti drammatici dello sgancio delle due bombe su Hiroshima e Nagasaki. La scena che però reputo più significativa, anche se meno spettacolare, è quella del fazzoletto che il presidente Truman (Gary Oldman) offre a Oppenheimer per lavarsi simbolicamente il sangue che ha sulle mani. Una denuncia neanche troppo velata contro gli Stati Uniti per avere colpito un nemico praticamente sconfitto e aver avviato la corsa agli armamenti e al nucleare.
Ho lasciato per ultimo le mie considerazioni sulla colonna sonora e in particolare il sonoro. In questo film di Nolan la musica e i suoni hanno la stessa rilevanza delle immagini. E' un sonoro aggressivo, prepotente, quasi azzardato. La musica epica di Ludwig Göransson è apocalittica, invasiva e ossessiva. Anche durante i dialoghi è sempre in primo piano. Indubbiamente è un film che necessita la sala cinematografica per essere apprezzato pienamente.
In conclusione non è il "mio" miglior film di Christoper Nolan, la storia per quanto sia scritta e interpretata bene non è riuscita a coinvolgermi emotivamente, ma riconosco la bravura e la maturità artistica di questo regista che con Oppenheimer ha dato vita a un grande film per tecnica ed esecuzione.

Profondo Rosso
di Dario Argento
Tornato nelle sale in versione restaurata in 4K, ho potuto vedere per la prima volta al cinema uno dei più grandi e iconici film di Dario Argento, Profondo Rosso. Anno 1975.
La trama vede come protagonista Mark Daly (David Hemmings), un pianista jazz inglese, che mentre si trova in una piazza insieme a un suo amico, volgendo lo sguardo alla facciata del palazzo in cui abita, assiste all'omicidio di una donna che viene massacrata da qualcuno che le spinge la testa contro il vetro della finestra dalla quale stava chiedendo aiuto. La vittima è una medium che poche ore prima, durante una conferenza sul paranormale, aveva percepito tra gli spettatori in sala la presenza di un assassino. Mark si precipita all’interno dell’abitazione dove trova il corpo senza vita della donna dopo aver percorso un lungo corridoio pieno di quadri in cui vi sono raffigurati dei macabri volti (uno dei quali colpisce particolarmente la sua attenzione senza conoscerne il motivo). Insieme alla polizia giunge sul posto anche Gianna Brezzi (Daria Nicolodi), una frizzante e ambiziosa giornalista con la quale Mark stringe amizia. I due decidono di indagare per conto loro su chi sia il misterioso assassino che continua a compiere efferrati omicidi sulle note di un’infantile e terribile nenia.
Che dire di questo capolavoro dell'orrore e del cinema italiano?! Profondo rosso è un thriller scandito da una sequenza di omicidi che con la loro potenza visiva hanno segnato l'immaginario collettivo di una intera generazione. In questo film c'è molto Mario Bava (il grande ispiratore) ma c'è sopratutto un Dario Argento, qui all'apice della sua forma, che gira un thriller che fa paura come un horror, con delle scene violente per l'epoca disturbanti.
Ambientato in una città inesistente, sospesa e quasi onirica (in realtà il film è stato girato a Roma, Perugia e in gran parte a Torino), Dario Argento con l'aiuto dello scenografo Giuseppe Bassan ha fatto ricostruire il Blue Bar, il locale in cui si svolgono alcune sequenze del film, tale e quale ai Nottambuli, il celebre dipinto di Edward Hopper tanto che le comparse al suo interno sono quasi immobili come se fossero all'interno di un dipinto.
Mettendo da parte i vari omicidi (dall'annegamento nella vasca di acqua bollente all'iconica scena finale in cui la collana dell'assassino si impiglia nell'ascensore), sono tante le scene memorabili e, per l'epoca, particolarmente angoscianti. Mi viene in mente il manichino telecomandato (costruito da Carlo Rambaldi), l'inquietante bambina che uccide le lucertole, la villa abbandonata con il disegno nascosto dietro la parete, l'occhio dell'assassino che si cela nel buio. Un vero e proprio repertorio di tutte le paure inconsce e irrazionali dello spettatore dell'epoca concentrate in un unico film. Un film da incubo come mai si era visto prima.
Ci sarebbero dire tante altre cose ma non posso terminare la mia disanima senza menzionare la ormai mitica colonna sonora. Dario Argento era un appassionato di rock progressive, genere che proprio in quel periodo in Italia aveva raggiunto il suo apice. Non contento del risultato del compositore Giorgio Gaslini (in realtà avrebbe voluto i Deep Purple - da qui parte del titolo - e addirittura i Pink Floyd) Argento decise di affidare la musica al giovane gruppo dei Goblin di Claudio Simonetti che, avendo ricevuto come linee guida il Tubular Bells di Mike Oldfield (quello usato per l'Esorcista di qualche anno prima) confezionarono una delle colonne sonore horror più riuscite di sempre per uno dei film più paurosi del secolo scorso.
Erano i tempi in cui il cinema italiano faceva addirittura scuola.

Spider-Man: Across the Spider-Verse
di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson
Il film di animazione Spider-Man: Across The Spider-Verse, da un paio di giorni uscito al cinema, è il sequel di Spider-Man: Un nuovo Universo del 2019 e fa parte di una trilogia che dovrebbe concludersi con Spider-Man: Beyond the Spider-Verse.
Se il precedente film mi aveva fatto stropicciare gli occhi per l'innovativa tecnica di animazione che gli è valso un meritato Oscar, questo secondo capitolo è uno spettacolo visivo che lascia davvero a bocca aperta. Mi sono esaltato solo nel vedere i titoli di testa.
Si parla di multiverso, realtà e mondi paralleli. In ognuno di questi mondi esiste uno "Spider-Man", uomo, donna o animale che sia. I protagonisti principali sono Miles Morales, lo Spider-Man dell'universo Ultimate (Terra-42) e Gwen Stacy, la Spider-Woman di Terra 65. Entrambi sono degli adolescenti diventati supereroi che hanno dei problemi con i genitori. Quello di Miles sono iperprotettivi e credono che il loro figlio nasconda qualcosa, mentre il rapporto tra Gwen e il padre è segnato dal dolore per la perdita dell'amico Peter e dalla mancanza di fiducia. La storia dei due è così simile ma diversa che entrambi sembrano uniti dallo stesso destino. II villain che Miles si trova ad affrontare è la Macchia, uno scienziato che è finito nel flusso di energia di un acceleratore di particelle e che ora è in grado di generare dei varchi dimensionali. Miles e Gwen vengono a conoscenza dell'esistenza della Spider-Society, una sorta di quartier generale formato da alcuni Spider-Man selezionati da diversi universi. A capo di essa troviamo Miguel O'Hara, lo Spider-Man del 2099 che scopre che in uno degli universi c'è un anomalia che potrebbe causare dei problemi a tutto il multiverso.
Il film è una iperstimolante esplosione visiva frutto di una sperimentazione artistica e di una fusione di stili. Un caleidoscopio impazzito di disegni e colori, in cui ogni multiverso ha uno stile diverso. A tratti sembra un viaggio lisergico in cui riesci a malapena ad afferrare i dettagli.
Ecco, se proprio devo trovargli un difetto - oltre al fatto che il finale è rimandato al film successivo, e non è una cosa di poco conto perché lo rende incompleto - è che sembra tutto troppo carico, bellissimo, si, ma eccessivo. Ha lo stesso montaggio accelerato che avevo trovato in Everything, Everywhere at Once, ed è buffo pensare che anche in quel film si parli di multiverso.
É un film che va visto più volte per cogliere tutti i dettagli. Io l'ho visto sottotitolato e per quanto mi piaccia vedere i film in lingua originale in questo caso i sottotitoli distolgono l'attenzione dal momento che le sequenze sono veloci e stracarichi di particolari.
Spider-Man: Across The Spider-Verse accontenta il pubblico che conosce i fumetti (eccomi!) ma può essere apprezzato anche se si ha poca dimestichezza con le avventure dell'arrampicamuri.
Dal momento che non si tratta di un capitolo di una trilogia ma della prima metà di un dilatato lungometraggio - aspetto la seconda parte per esprimere un giudizio complessivo.
Ah, vogliamo parlare dello Spider-Punk?

Lynch/Oz
di Alexandre O. Philippe
Premessa. Dire che David Lynch è il mio regista preferito sarebbe sminuire la portata della mia ammirazione. La mia stima verso di lui va ben oltre la sua filmografia: è un’adorazione che si estende a tutte le sue espressioni artistiche, dal cinema alla pittura, dalla musica alla meditazione. Lynch è l’unico artista che vorrei incontrare, stringergli la mano, e con quel semplice gesto trasmettergli tutta la mia gratitudine per avermi mostrato la potenza dell’immaginazione. Fine premessa.
Sono andato al cinema a vedere Lynch/Oz, un documentario di Alexandre O. Philippe in cui il Mago di Oz, il film di Fleming del 1939, viene messo a confronto con l'intera filmografia di Lynch.
David Lynch ha dichiarato nelle sue interviste che il Mago di Oz è uno dei suoi film preferiti ed è innegabile, vedendo nei dettagli alcune delle sue opere, di quanto ne sia stato realmente influenzato (nel suo studio privato, quello dove realizza i suoi quadri, c'è appesa la foto di una immagine presa dal film).
Il documentario è diviso in sei parti (ognuno affidato a un regista diverso che fornisce la sua chiave di interpretazione personale) e mette a confronto sequenze dei film di Lynch con quelli del Mago di Oz. Il film più diretto ed esplicito è Cuore selvaggio ma ci sono riferimenti sparsi in Velluto blu, Mulholland Drive e in Twin Peaks (dall'ossessione per le scarpette rosse alle tende di velluto dietro a cui si cela l'irreale e l'uomo che non c'è).
In realtà nel documentario oltre alla cinematografia di Lynch vengo citati e mostrati altri film, forse troppi e il documentario, pur essendo interessante, alla fine risulta un pò troppo lungo. Resta comunque un analisi affascinante per chi come me ama e stima questo grande cineasta.