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giovedì, 29 maggio 2025
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Mulholland Drive

di David Lynch

Se dovessi stilare una classifica dei miei film preferiti, Mulholland Drive occuperebbe senza esitazione il primo posto. Nutro un amore viscerale per David Lynch e una venerazione profonda per Mulholland Drive che considero un capolavoro.
Secondo una classifica della BBC che ha coinvolto 177 critici cinematografici di 36 paesi, Mulholland Drive è considerato il miglior film del ventunesimo secolo. Un film enigmatico, stratificato, che ha generato fiumi di interpretazioni, saggi, recensioni, e analisi di ogni tipo. Al di là delle parole, vedere un film di Lynch non è mai semplicemente "guardare un film". È un’esperienza. E Mulholland Drive è, forse, la sua manifestazione più sublime.

Mulholland Drive nasce nel 1999 come un progetto televisivo destinato alla ABC, concepito come pilota di una serie che avrebbe dovuto proseguire l'eredità di Twin Peaks. Nonostante l'entusiasmo iniziale, la ABC rifiutò il progetto, giudicandolo troppo oscuro, lento e confuso per il pubblico televisivo mainstream. Dopo il rifiuto, Lynch si trovò con un'opera incompleta, senza una destinazione e con nessun produttore americano disposto a finanziare il film. Fu grazie all'intervento del produttore francese Pierre Edelman e al sostegno finanziario di StudioCanal che il progetto trovò nuova vita. Lynch riscrisse e ampliò la sceneggiatura, aggiungendo nuove scene che trasformarono il pilota in un film completo. Le riprese aggiuntive si svolsero nell'ottobre del 2000, con un finanziamento di 7 milioni di dollari.
Il risultato fu un'opera che trascendeva le convenzioni narrative, mescolando realtà e sogno in un'esperienza cinematografica unica. Mulholland Drive venne presentato al Festival di Cannes nel 2001, dove Lynch vinse il premio per la miglior regia, consacrando il film come uno dei capolavori del cinema contemporaneo.

A grandi linee, la trama di Mulholland Drive è la seguente.
Una misteriosa donna (Laura Harring) scampata a un incidente d’auto lungo la celebre strada collinare di Los Angeles si rifugia, spaesata e priva di memoria, in un appartamento apparentemente disabitato. Poco dopo, nello stesso appartamento arriva Betty (Naomi Watts), un’aspirante attrice dal sorriso luminoso, appena atterrata a Hollywood con il sogno di sfondare nel cinema. Dall'incontro tra le due ragazze nasce un legame ambiguo e intenso, mentre insieme tentano di scoprire l’identità perduta di Rita (il nome adottato dalla sconosciuta) seguendo una serie di indizi che si fanno via via più oscuri.
Nel frattempo un regista hollywoodiano (Justin Theroux) viene minacciato da grotteschi e ambigui mafiosi affinche scelga l'attrice che dovrà interpretare il ruolo della protagonista del suo prossimo film. Un killer pasticcione, un uomo terrorizzato da un sogno ambientato dietro un ristorante, un cowboy enigmatico, e uno spettacolo teatrale dove tutto è finto ma sembra tremendamente reale, completano un mosaico narrativo dove i confini tra realtà e illusione si dissolvono.

Chi ama Lynch sa che non bisogna cercare un senso razionale nelle sue storie. Il suo cinema non chiede di essere capito, ma vissuto. È un’esperienza da attraversare lasciandosi trasportare dalle suggestioni, dai simboli, dai sogni che si mescolano alla realtà e all’inconscio. Eppure, tra Lost Highway, Mulholland Drive, e Inland Empire — quella che potremmo chiamare, seppur con qualche forzatura, la sua trilogia del sogno — è proprio Mulholland Drive a essere il più leggibile e comprensibile. E allora, proviamo a rimettere insieme i pezzi di questo intricato puzzle.

Da qui in avanti, inevitabilmente, partono gli spoiler.

Il film si divide, sostanzialmente, in due parti. La prima è il sogno. O forse una realtà alternativa, un mondo interiore, un rifugio dell’inconscio. In questa dimensione la protagonista, Naomi Watts, è Betty, un’aspirante attrice appena arrivata a Hollywood e ospite in un appartamento elegante, ingenua ma determinata, piena di talento. È bella, luminosa, e al suo primo provino incanta tutti con una performance sbalorditiva. Incontra Rita (Laura Harring), donna misteriosa colpita da amnesia, e tra le due nasce una complicità profonda, anche sentimentale. Tutto sembra andare per il verso giusto, finché Betty apre una scatola blu — oggetto simbolico e portale — e la realtà, o qualcosa che ci somiglia, irrompe.
Da quel momento in poi tutto si ribalta. Il sogno svanisce. Betty non è più Betty, ma Diane. E Rita è Camilla. Diane è un’attrice fallita, frustrata, spezzata. Vive nell’ombra di Camilla, che invece è affermata, desiderata, sicura di sé. La loro relazione è sbilanciata, tossica, e quando Diane scopre che Camilla sta per sposare un regista (Justin Theroux), sopraffatta dalla gelosia e dal senso d’abbandono, assolda un killer per eliminarla. Ma non regge il peso del suo stesso gesto. Mentalmente devastata, trova rifugio proprio nel sogno che abbiamo visto nella prima parte, per poi — incalzata dal senso di colpa e dalla disgregazione psichica — togliersi la vita.
Mulholland Drive è un gioco a incastri, una struttura a specchio dove sogno e realtà, conscio e inconscio, desiderio e trauma si confondono, si fondono, si rincorrono. Lynch non ci fornisce una spiegazione univoca, ma dissemina indizi, frammenti, immagini ricorrenti. Non ci guida, ci abbandona dolcemente nel labirinto.

Ma Mulholland Drive è anche – forse soprattutto – una feroce, allucinata critica al sistema hollywoodiano, a quella macchina patinata e crudele che promette sogni e spesso restituisce incubi. Hollywood è una trappola emotiva, un meccanismo che plasma e distrugge, che premia l’immagine e punisce la fragilità. Betty arriva con entusiasmo e talento, ma viene risucchiata in un mondo fatto di poteri invisibili, scelte imposte, manipolazioni subdole. Adam, il regista, è costretto a cedere alle pressioni di oscuri burattinai, incapace di difendere la propria libertà creativa. Tutto è recitazione. Tutto è illusione.
E poi c’è Naomi Watts, che in questo film firma una delle prove attoriali più intense e devastanti degli ultimi decenni. Il suo coinvolgimento emotivo va oltre la finzione. Prima di Mulholland Drive, Watts faticava a emergere. Anni di rifiuti, ruoli minori, provini falliti. Era arrivata a pensare di smettere, a sfiorare l’idea del suicidio. Lynch non sceglie solo un’attrice, sceglie una ferita aperta. Una donna che ha conosciuto il lato oscuro del sogno hollywoodiano. Betty e Diane non sono solo personaggi. Sono due volti della stessa ossessione. E Naomi Watts le interpreta con una verità così disarmante da lasciare il segno per sempre.

Tralasciando la trama, il senso, la narrazione — che poi è forse l’ultima cosa che interessava davvero a Lynch — Mulholland Drive è costellato di sequenze magistrali, capaci di far accapponare la pelle.

Partiamo da una delle prime scene, tra le più inquietanti dell’intero film, quella in cui un uomo racconta a un amico di aver sognato il locale in cui si trovano. Nel sogno, dietro al ristorante, si nasconde una figura orribile, la cui sola presenza gli provoca un terrore profondo. Quando i due escono per controllare, la creatura appare davvero. L’uomo crolla a terra, sopraffatto dallo shock. Apparentemente slegata dalla trama principale, questa scena è in realtà una potente metafora, un incubo che prende corpo, o forse un sogno dentro un altro sogno. Il mostro dietro il diner è l’incarnazione dell’orrore rimosso, la parte più oscura della psiche, il prezzo da pagare per inseguire un sogno o di chi ha commissionato un omicidio. Una sequenza di meno di cinque minuti, girata in pieno giorno, che culmina con quello che potremmo definire un vero e proprio jumpscare, ma di una raffinatezza inquietante: tensione pura, orrore viscerale, senza bisogno di ombre o buio. Magistrale.
Proseguiamo con la scena del cowboy, in un luogo isolato e illuminato a intermittenza — cifra stilistica inconfondibile di Lynch — in cui un personaggio dal volto impassibile pronuncia un dialogo criptico e inquietante, che sembra venire da un’altra dimensione. O con quella del caffè, in cui uno dei fratelli Castigliane (interpretato da Angelo Badalamenti, storico compositore lynchiano e autore della bellissima colonna sonora del film) siede al tavolo con i produttori e il regista del film. Beve l’espresso servito dal cameriere e, con glaciale disprezzo, lo sputa nel tovagliolo. Un gesto teatrale e volutamente disturbante, che comunica autorità, potere, e intimidazione.
Ma la scena più potente resta senza dubbio quella del Club Silencio. Le due protagoniste entrano in un teatro decadente. Sul palco, un personaggio luciferino rivela la finzione: "No hay banda… tutto è registrato". La musica, la voce, le emozioni: nulla è reale. Poi arriva la cantante Rebekah Del Rio, che canta Llorando con un’intensità straziante, prima di crollare a terra, mentre la sua voce continua a riempire il teatro. È il punto di rottura. La consapevolezza che tutto ciò che Betty ha vissuto è una costruzione mentale, un sogno artificiale per sfuggire a una realtà intollerabile. Ma è anche una riflessione meta-cinematografica sulla natura stessa del cinema: finzione capace di toccare il vero. Sublime.

Mulholland Drive, che Lynch descrisse come "una storia d’amore nella città dei sogni", è la quintessenza del suo cinema. Un profondo atto d’amore per la settima arte, ma anche un bilancio esistenziale del regista. Un film fatto di misteri, visioni oniriche, simboli nascosti, bruschi salti narrativi, venature grottesche e una tensione psicologica costante — il tutto orchestrato con un montaggio ipnotico e una tecnica impeccabile. Un capolavoro del cinema moderno.

Ho visto Mulholland Drive per la prima volta al cinema, quando uscì nel 2000. Ricordo perfettamente, all’uscita dal cinema, il senso di smarrimento, la sensazione di non aver capito nulla della storia, ma al tempo stesso di essere stato profondamente scosso, emotivamente travolto. È uno di quei rari film capaci di smuoverti dentro senza bisogno di spiegazioni. Pochi giorni dopo, sono tornato a vederlo di nuovo, sempre al cinema. Da allora, l’avrò rivisto almeno una decina di volte. E ogni volta è come se fosse la prima: cambia, si trasforma, rivela qualcosa di nuovo. Come un sogno che ti rimane addosso. Eterno e inafferrabile
Grazie maestro.

Film
Drammatico
Noir
Thriller
Mistero
David Lynch
USA
2001
Retrospettiva
venerdì, 25 ottobre 2024
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Eraserhead

di David Lynch

Premetto che, scrivendo queste righe, non riuscirò ad essere obiettivo. Nutro una profonda venerazione per David Lynch, un’artista capace di esplorare mondi onirici e surreali in ogni sua opera, che si tratti di cinema, pittura, musica o qualsiasi altra forma d’arte in cui si cimenta.

Se qualcuno mi chiedesse quale sia il mio film preferito (non di Lynch, ma in assoluto), risponderei senza esitazione "Mulholland Drive".

Nel 1972, quando inizia a girare "Eraserhead", David Lynch ha ventisei anni. E' un pittore e ha già girato una serie di cortometraggi visionari e molto sperimentali. Per realizzare il suo primo lungometraggio ci metterà quattro anni. Lavora solo di notte, in un set montato in un enorme magazzino, mentre di giorno lavora cercando di racimolare i soldi per finanziare il film. A interpretare il protagonista chiama un suo amico di vecchia data, oltre alla sua fidanzata e ad altri conoscenti, dando vita a un progetto quasi interamente “fatto in casa”.

La trama è complicata e poco lineare, caratteristica di quasi tutti i capolavori di David Lynch (compreso Twin Peaks).
Girato in uno sgranato bianco e nero e dai dialoghi quasi completamente assenti, il film racconta il viaggio allucinato di Henry Spencer (interpretato da Jack Nance), un uomo solitario e impacciato che vive in una città industriale e surreale, muovendosi tra rumori metallici e paesaggi desolanti. La sua vita prende una piega angosciante quando scopre che la sua ragazza, Mary, ha partorito un figlio deforme. Mary e Henry cercano di prendersi cura del neonato, ma la situazione precipita quando la donna abbandona entrambi, lasciando Henry da solo con il bambino, che piange incessantemente e sembra più una creatura aliena che umana. Mentre l’angoscia e la confusione di Henry crescono, il confine tra realtà e incubo diventa sempre più labile, portandolo a visioni oniriche e momenti di introspezione surreale in cui affronta paure profonde e incomprensibili.

"Eraserhead" è un incubo cinematografico, difficile da spiegare a parole, sopratutto la seconda parte del film. Come tutto il cinema di Lynch, è un'opera che va vissuta, dove il viaggio è più importante della destinazione. La narrazione passa in secondo piano per fare spazio a un'esperienza sensoriale e visiva, una vera e propria immersione nel subconscio. Le scene sono lente, ogni dettaglio è studiato per creare un senso di isolamento e soffocamento che cresce con il film. Il neonato deforme, che piange in continuazione ed è quasi impossibile da guardare, diventa il simbolo delle angosce del protagonista, un’immagine disturbante che mette a nudo le paure della paternità e della responsabilità. 

Lynch non ha mai voluto rivelare in quale modo e con quale tecnica abbia realizzato questo effetto speciale. Il fatto che il regista non aveva budget per realizzare un mostriciattolo così realistico lascia pensare che sia qualcosa di organico. Probabilmente il feto di un animale o qualcosa del genere.

Inizialmente Eraserhead non venne neanche distribuito, ma con il tempo divenne un vero e proprio cult, proiettato nei cinema di mezzanotte per un pubblico di appassionati.
Io quando ho visto per la prima volta "Eraserhead" (stiamo parlando di parecchi anni fa) non avevo mai visto nulla del genere. Non è un film per tutti. E' un’esperienza che richiede pazienza, apertura e, forse, un pizzico di resistenza. Mi rendo conto che può non piacere e che molti possano trovarlo inaccessibile, perchè è un film dove la logica e la razionalità viene messa da parte. Ma chi è disposto ad abbandonare ogni certezza e lasciarsi andare, può trovarsi di fronte a un'esperienza... trascendentale.

Film
Surreale
Grottesco
Horror
David Lynch
USA
1977
Retrospettiva
lunedì, 22 maggio 2023
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Lynch/Oz

di Alexandre O. Philippe

Premessa. Dire che David Lynch è il mio regista preferito sarebbe sminuire la portata della mia ammirazione. La mia stima verso di lui va ben oltre la sua filmografia: è un’adorazione che si estende a tutte le sue espressioni artistiche, dal cinema alla pittura, dalla musica alla meditazione. Lynch è l’unico artista che vorrei incontrare, stringergli la mano, e con quel semplice gesto trasmettergli tutta la mia gratitudine per avermi mostrato la potenza dell’immaginazione. Fine premessa.

Sono andato al cinema a vedere Lynch/Oz, un documentario di Alexandre O. Philippe in cui il Mago di Oz, il film di Fleming del 1939, viene messo a confronto con l'intera filmografia di Lynch.
David Lynch ha dichiarato nelle sue interviste che il Mago di Oz è uno dei suoi film preferiti ed è innegabile, vedendo nei dettagli alcune delle sue opere, di quanto ne sia stato realmente influenzato (nel suo studio privato, quello dove realizza i suoi quadri, c'è appesa la foto di una immagine presa dal film).
Il documentario è diviso in sei parti (ognuno affidato a un regista diverso che fornisce la sua chiave di interpretazione personale) e mette a confronto sequenze dei film di Lynch con quelli del Mago di Oz. Il film più diretto ed esplicito è Cuore selvaggio ma ci sono riferimenti sparsi in Velluto blu, Mulholland Drive e in Twin Peaks (dall'ossessione per le scarpette rosse alle tende di velluto dietro a cui si cela l'irreale e l'uomo che non c'è). 
In realtà nel documentario oltre alla cinematografia di Lynch vengo citati e mostrati altri film, forse troppi e il documentario, pur essendo interessante, alla fine risulta un pò troppo lungo. Resta comunque un analisi affascinante per chi come me ama e stima questo grande cineasta.

Film
David Lynch
Documentario
Cinema
2023

© , the is my oyster