
Il gatto a nove code
di Dario Argento
Nei primi anni settanta, dopo il clamoroso successo de L’uccello dalle piume di cristallo, Dario Argento torna dietro la macchina da presa con Il gatto a nove code, secondo tassello della cosiddetta "trilogia degli animali" – saga non ufficiale unita più dai titoli zoologici che da un vero filo conduttore. Meno impattante del suo predecessore e meno visionario del successivo Quattro mosche di velluto grigio, questo film si colloca come un’opera di transizione, un capitolo intermedio che, pur con i suoi limiti, si rivela fondamentale per la crescita stilistica e narrativa del regista romano. Un film di passaggio, sì, ma tutt’altro che trascurabile.
La vicenda prende il via con un misterioso furto in un laboratorio di genetica di Torino. Non viene sottratto nulla, ma il giorno dopo uno degli scienziati finisce sotto un treno in circostanze decisamente sospette. A interessarsi al caso sono Franco Arno (Karl Malden), un ex giornalista cieco con un fiuto da detective e una nipotina sveglia, e Carlo Giordani (James Franciscus), un reporter d’assalto pronto a tutto.I due iniziano a scavare tra piste inconcludenti, silenzi sospetti e una catena di omicidi sempre più inquietanti. Tutto sembra ruotare attorno a quell’istituto scientifico, dove si conducono ricerche d'avanguardia sulla genetica e la predisposizione al crimine.
Il gatto a nove code è un thriller dal ritmo serrato, con un montaggio dinamico e un uso costante della soggettiva dell'assassino, spesso anticipata da un inquietante primo piano di una pupilla dilatata. Gli omicidi iniziando a diventare più brutali, ma ancora relativamente “anemici” rispetto agli standard futuri di Argento. Le atmosfere sono ben costruite, ricche di tensione e con evidenti influenze hitchcockiane ma anche con una vena ironica e personaggi quasi caricaturali che alleggeriscono la tensione. Tecnicamente il film funziona. La regia è solida, la fotografia elegante e il tutto è supportato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Bravi Karl Malden e James Franciscus. Meno convincente Catherine Spaak, bella ma legnosa, con una scena di sesso che sembra uscita da una pubblicità vintage del dopobarba.
Certo, è un film imperfetto. A volte sbilenco, con una sceneggiatura che zoppica e un finale che lascia l’amaro in bocca più per le promesse mancate che per il colpo di scena. Ma è anche l’opera di un autore in piena evoluzione, che inizia a maneggiare con sicurezza i ferri del mestiere e che, con la sua cifra stilistica sempre più definita, comincia a lasciare un’impronta inconfondibile nel giallo all’italiana.
Film
Cure
di Kiyoshi Kurosawa
In occasione della sua uscita nelle sale italiane, sono andato a vedere Cure di Kiyoshi Kurosawa, il film che nel 1997 ha aperto – insieme a Ring di Hideo Nakata e Audition di Takashi Miike – la prima ondata del cosiddetto J-Horror. Un’opera che ha segnato l’ascesa di Kurosawa nel panorama del cinema giapponese contemporaneo, proiettandolo tra i registi più rilevanti e meno inquadrabili.
A quasi trent’anni di distanza, Cure resta un oggetto misterioso. Oscuro, disturbante, elusivo. Non a caso è diventato un film di culto, ammirato da registi come Martin Scorsese, Ari Aster e Bong Joon-ho, che lo hanno citato tra le loro opere di riferimento.
In una Tokyo fredda e desolata vengono compiuti una serie di omicidi inquietanti. Le vittime vengono trovate con una X incisa sulla gola. Gli assassini, persone comuni, senza legami apparenti tra loro, vengono sempre identificati sul posto, ma sembrano non ricordare nulla del delitto. Il detective Kenichi Takabe (interpretato da uno straordinario Koji Yakusho), un uomo razionale tormentato dalla fragile salute mentale della moglie, inizia a indagare su questi casi inspiegabili. Il sospettato principale è un giovane enigmatico, Mamiya (Masato Hagiwara), che pare aver perso la memoria ma sembra nascondere molto più di quanto lasci intendere.
Kurosawa ha dichiarato di essersi ispirato a Il silenzio degli innocenti e Seven, ma prenderla alla lettera è fuorviante. Sì, c’è un detective, c’è un’indagine e c’è un assassino. Ma Cure non è davvero un film sui serial killer. È qualcos’altro. È un thriller spogliato di tensione narrativa classica, che si muove in uno spazio indefinibile, dove il terrore non è visibile, ma percepito. Niente musica, pochi dialoghi, lunghi piani sequenza, inquadrature fisse e suoni ambientali che si insinuano sotto pelle. L’orrore non arriva mai in modo spettacolare. Lo senti nel rumore di un neon, nel silenzio di una stanza vuota, nel volto inespressivo di chi ha appena ucciso senza sapere perché.
Kurosawa prende i cliché del thriller psicologico e li disinnesca uno ad uno. Non cerca la suspense, ma l’inquietudine. Lavora di sottrazione focalizzando sull'aspetto metafisico ed esistenziale. Il tema dell’ipnosi – o meglio, del mesmerismo – insinua l’idea che basti poco per liberare la volontà e far emergere l’oscurità che ognuno porta dentro. Cure è un film sul Male con la “M” maiuscola. Non come figura identificabile, ma come presenza invisibile che può insinuarsi nelle crepe della normalità. Il Male, qui, è un virus che si trasmette con uno sguardo o una frase sussurrata.
Il ritmo è lentissimo, quasi ipnotico. Ma è proprio quella lentezza a creare tensione. Tutto può succedere, da un momento all’altro, e spesso non succede. Alla fine viene quasi da pensare che sia tutto nella mente del detective, come suggerisce il medico che gli dice che sarebbe lui da internare al posto della moglie.
Quando l'ho visto per la prima volta, ammetto di avere avuto un senso di smarrimento. E quindi? Alla fine è stata questa la domanda che mi sono fatto. È un film ambiguo, sfuggente, che ti lascia addosso più domande che risposte. Non offre spiegazioni. Non cerca il compiacimento. Sicuramente è uno di qui film che necessita più di una visione.
Vederlo al cinema dopo parecchi anni e con una diversa maturità è stata un’esperienza completamente nuova. Non solo ha resistito al tempo, ma oggi forse inquieta più di allora.

Freaks
di Tod Browning
"Disturbante" è un aggettivo abusato, lo so. Ma, onestamente, faccio fatica a trovarne uno più calzante per descrivere Freaks, il cult maledetto del 1932 firmato da Tod Browning. Al giorno d'oggi, dove il politicamente corretto trasforma Biancaneve in una impavida e cazzuta principessa che vive con sette coinquilini dalle abilità differenti, un film del genere, interpretato da veri fenomeni da baraccone, sarebbe impensabile.
La genesi del film è abbastanza nota agli appassionati. Reduce dal grande successo di Dracula, Browning venne contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per dirigere un horror e mettersi al passo con un genere che stava sbancando al botteghino. Ma invece di vampiri eleganti o cadaveri rianimati, Browning – che conosceva bene il mondo del circo, avendoci lavorato da giovane – decise di adattare un racconto breve di Tod Robbins, Spurs, e trasformarlo in un incubo umano, grottesco e crudele, ancora oggi impossibile da dimenticare.
La storia è ambientata in un circo itinerante dove si esibiscono i cosiddetti freaks, uomini e donne affetti da nanismo, malformazioni congenite, e deformità fisiche che li rendono oggetto di curiosità e repulsione. Hans, un uomo affetto da nanismo, è perdutamente innamorato della bella trapezista Cleopatra, alta, sinuosa e letale. La donna, approfittando della sua ingenuità, lo seduce per mettere le mani sulla sua eredità, con l’aiuto del suo amante, l’aitante forzuto Hercules. Ma tra i “mostri” del circo vige un codice non scritto: chi tocca uno di loro, tocca tutti. E quando la verità viene a galla, la vendetta arriva rapida, spietata, inarrestabile.
Sia durante le riprese che all’arrivo nei cinema, Freaks incontrò non pochi ostacoli. La presenza di veri fenomeni da baraccone e l’audacia con cui Browning li mostrava – senza filtri, senza pietà, ma anche senza derisione – generarono sconcerto, polemiche e un’ondata di rifiuto da parte del pubblico e della critica. La produzione tagliò le scene ritenute più sconvolgenti (la versione originale finiva con una scena di castrazione e mutilazione) nel tentativo di renderlo più digeribile. Ciononostante, il film fu un flop disastroso. La visione venne vietata in numerosi paesi europei, la Metro-Goldwyn-Mayer lo ritirò dalle sale dopo poche settimane, e Tod Browning non si riprese mai del tutto facendo fatica a trovare lavoro negli anni successivi.
Freaks è un pugno nello stomaco travestito da film horror. Ma il vero orrore non è nei corpi deformi dei suoi protagonisti, bensì nello sguardo degli "altri", nei sorrisi falsi, nella cattiveria borghese che giudica e schiaccia ciò che non comprende. Browning ribalta la prospettiva: i freaks, gli emarginati, sono gli unici a possedere una morale, una coerenza, una forma di purezza. I veri mostri sono gli "apparentemente normali", con i loro sorrisi da pubblicità e i loro cuori di piombo. L’atmosfera del circo è inquietante, satura di un’umanità deformata ma reale, fragile, tenera e crudele. Quando arriva la vendetta finale – in una notte di pioggia e fango, con i freaks che strisciano sotto i tendoni come un’orda primordiale – il film cambia volto. Non è più un melodramma bizzarro ma diventa un incubo morale.
Oggi è un film di culto, amato da registi, critici, outsider. È un’opera che ha il coraggio di non rassicurare, di non abbellire, di non mentire. In un’epoca che finge inclusività ma censura il reale, Freaks resta uno film ruvido, spietato ma sincero.
Film
The Conjuring - L'Evocazione
di James Wan
James Wan non è mai stato un regista che mi appassiona più di tanto. Il suo nome è legato principalmente a Saw (di cui ha diretto il primo capitolo), e diversi horror di facile consumo fatti di jumpscare ben realizzati, un estetica da manuale e un’estrema pulizia visiva. Un regista che conosce il mestiere, ha capito cosa vuole il pubblico e sa come offrirglielo, ma il cui cinema sembra più attento al confezionamento che alla sostanza.
The Conjuring del 2013 rappresenta la sintesi perfetta delle sue abilità e dei suoi limiti, un film che prende il gotico classico, lo aggiorna con una regia moderna e lo arricchisce di jumpscare perfettamente calcolati. Il risultato è un film elegante nella messa in scena, efficace nell’intrattenimento, ma che difficilmente lascia il segno.
Il film (distribuito in Italia con il sottotitolo L'Evocazione) si basa su una delle tante indagini condotte da Ed e Lorraine Warren, celebri demonologi e studiosi del paranormale, il cui archivio di presunti casi reali ha ispirato numerosi film, tra cui il più famoso Amityville Horror.
La vicenda segue la famiglia Perron, che nel 1971 si trasferisce in una casa di campagna nel Rhode Island, ignara del male che vi si annida. Quando eventi inspiegabili iniziano a tormentare i due coniugi e le loro cinque figlie, Carolyn Perron (Lili Taylor) si rivolge agli investigatori del paranormale Ed e Lorraine Warren (Patrick Wilson e Vera Farmiga). La coppia di demonologi scopre che la casa è infestata dallo spirito di una strega, Bathsheba, e che l’entità sta prendendo il controllo di Carolyn. Mentre la possessione si intensifica, i Warren devono affrontare il male in una lotta contro il tempo per salvare la famiglia.
The Conjuring è un film che fa esattamente quello che promette. Spaventa, intrattiene e confeziona un’esperienza horror accessibile a un pubblico ampio. Wan costruisce la tensione con un ritmo perfettamente studiato, giocando con movimenti di macchina fluidi, suoni diegetici e un uso calibrato del silenzio per amplificare l’effetto degli spaventi. Ogni jumpscare è progettato con precisione matematica, e il risultato è un horror che funziona come una giostra dell'orrore. Nonostante il film sia pieno zeppo di cliché – dai battiti insistenti sulle pareti al gioco del battimani, dal carillon inquietante alla bambola posseduta – la regia attenta e il montaggio chirurgico riescono comunque a far sobbalzare lo spettatore meno smaliziato. Sul piano visivo, il film richiama il cinema gotico con le sue case scricchiolanti, le ombre minacciose e una fotografia dalle tonalità desaturate.
Rivedendolo oggi, The Conjuring si conferma un horror costruito con grande mestiere, curato nella regia e impeccabile sul piano tecnico. Funziona nell’immediato, con una tensione ben calibrata e momenti di puro spavento, ma, almeno per me, manca di quel senso di inquietudine duraturo che distingue gli horror più incisivi. Ovviamente il film ha incassato milioni, conquistato il pubblico e dato il via a un’intera saga fatta di sequel e spin-off, segno che Wan ha saputo intercettare esattamente ciò che gli spettatori volevano.
Film
Ring (1998)
di Hideo Nakata
All'inizio degli anni 2000, il J-Horror – l'horror giapponese – ha riscritto le regole della paura nel cinema occidentale. Non più carneficine splatter o esorcismi spettacolari, ma un terrore sottile, insinuante, fatto di presenze inquietanti, spiriti e maledizioni.
Ring, il film del 1998 diretto da Hideo Nakata (erroneamente conosciuto come Ringu a causa di una traduzione errata su alcuni poster internazionali), nonostante l'uscita, l'anno precedente, di un altro grande esponente del genere, Cure di Kiyoshi Kurosawa, segna a tutti gli effetti la rinascita del J-Horror a livello internazionale. Il successo di The Ring, il remake americano nel 2002, ha reso il J-Horror un fenomeno globale, con il film di Nakata – che ricordiamo essere tratto dall'omonimo romanzo di Koji Suzuki – che diventa il capostipite di un'intera corrente cinematografica, generando una lunga scia di sequel, remake e imitazioni.
Le storie dell'orrore giapponese affondano le radici nel folklore e nelle leggende tradizionali. Tra le figure più ricorrenti troviamo gli yurei, fantasmi vendicativi dal volto cadaverico e dai lunghi capelli neri, ispirati alle credenze shintoiste e buddiste sulla vita dopo la morte. La vera peculiarità del J-Horror sta nella sua capacità di portare queste antiche figure nell’era moderna, fondendo tradizione e tecnologia. Videocassette maledette, telefoni cellulari, macchine fotografiche e computer diventano i nuovi vettori dell'orrore, strumenti attraverso cui il sovrannaturale si insinua nella quotidianità, trasformando oggetti comuni in portali verso l'incubo.
La storia è ormai ben nota. La giornalista Reiko Asakawa sta indagando sulla misteriosa morte della nipote e di alcuni suoi amici, deceduti in circostanze inspiegabili. Le sue ricerche la portano a scoprire una leggenda metropolitana che si sta diffondendo tra gli adolescenti: chiunque guardi una certa videocassetta riceve subito dopo una telefonata che annuncia la sua morte entro una settimana. Decisa a scoprire la verità, Reiko si reca nello stesso luogo in cui la nipote e i suoi amici hanno trascorso l’ultima notte e lì trova la videocassetta. La guarda. Sullo schermo scorrono immagini inquietanti e apparentemente scollegate: una donna che si pettina davanti a uno specchio, un pozzo abbandonato, strani simboli privi di logica. Terminata la visione, il telefono squilla e capisce di essere anche lei vittima della maledizione. Disperata, chiede aiuto al suo ex marito, Ryuji, un professore di psicologia che, pur dimostrandosi scettico, le chiede una copia della videocassetta per analizzarla e aiutarla a risolvere il mistero. Le indagini conducono i due sull’isola di Oshima, dove anni prima vivevano la sensitiva Shizuko e sua figlia Sadako, una bambina dotata di spaventosi poteri paranormali, segnata da un destino tragico. La situazione precipita quando anche il figlioletto di Reiko, Yoichi, inconsapevole del pericolo, guarda la videocassetta venendo colpito dalla maledizione.
Sadako, il fantasma vestito di bianco dai lunghi capelli che le coprono il volto, che striscia fuori dallo schermo del televisore, è diventata una delle figure più spaventose e riconoscibili dell’horror moderno. La sua maledizione è un contagio che si propaga come un virus, alimentandosi della paura stessa delle sue vittime. Guardare il video significa diventare testimoni della sua sofferenza e, di conseguenza, condannarsi a condividere la rabbia di chi è stato sepolto vivo in un pozzo e abbandonato a una morte solitaria. L’unico modo per sopravvivere? Diffondere la maledizione, farla proliferare. Una metafora brutale e cinica che può essere letta in molti modi: dalla necessità umana di tramandare il proprio dolore alla riflessione sul ruolo dei media nel diffondere ansie collettive.
A livello visivo e narrativo, Ring non si affida alle classiche meccaniche da jumpscare. Nakata costruisce un’atmosfera opprimente, fatta di silenzi, inquadrature dilatate, dettagli che insinuano disagio. È un horror che si comporta come un thriller investigativo, in cui l’orrore emerge lentamente, fino a diventare inevitabile in un finale che presenta una delle sequenze più iconiche della storia recente del genere.
Dal punto di vista personale, la mia esperienza con Ring è stata influenzata dal fatto di aver visto prima il remake americano del 2002, diretto da Gore Verbinski. Il film di Nakata è arrivato in Italia solo l'anno successivo, in DVD, spinto dal successo ottenuto dal rifacimento americano. Pur non amando l’abitudine hollywoodiana di acquistare i diritti di un film straniero per rifarlo su misura del proprio pubblico, devo ammettere che The Ring, quello americano, mi ha terrorizzato molto più dell’originale, forse perché lo vidi per primo, al cinema, senza alcuna idea di cosa aspettarmi. Il ritmo più serrato, la fotografia cupa e alcune scene di puro orrore mi sono rimaste impresse nella memoria. È stato proprio grazie al remake che ho scoperto il film di Nakata, mi sono letto il romanzo di Suzuki e ho iniziato ad appassionarmi all’horror giapponese. Tornando al film di Nakata, e rivendendolo oggi a distanza di anni, sebbene sia evidente il low budget e una fotografia molto televisiva, ho apprezzato la costruzione lenta e la capacità di insinuare inquietudine senza affidarsi agli spaventi facili. Ring non è un horror costruito sull’effetto sorpresa, ma sulla tensione psicologica, sull'invisibile che si insinua nella quotidianità, lasciando che l’orrore si manifesti in modo sottile e inesorabile.
L’influenza di Ring è stata immensa. Ha generato un filone di horror giapponesi con spiriti vendicativi (da Ju-On a Dark Water), ha avuto sequel, prequel, rifacimenti coreani e americani, fino a ibridi come Sadako vs Kayako.
È un cult, non solo per il J-Horror, ma per il cinema dell’orrore in generale. Un film che ha ridefinito l’idea stessa di paura, dimostrando che l’orrore più efficace è quello che si insinua nella mente dello spettatore.

Audition
di Takashi Miike
La prima volta che ho visto Audition di Takashi Miike, in una videocassetta a casa di un amico, non avevo idea di cosa mi aspettasse. Mi affascinavano gli horror giapponesi, che in quel periodo stavano proliferando, e avevo già visto film estremi e disturbanti. Tuttavia con Audition, di cui ignoravo la svolta nella trama, avevo un aspettativa diversa. Forse il titolo, forse la premessa da dramma sentimentale. Fatto sta che mi ha colto completamente alla sprovvista.
Quando il film viene presentato in anteprima al Festival di Rotterdam nel gennaio del 2000, Miike ha già diretto una decina di film. È noto per il suo stile prolifico e anticonvenzionale — in trent'anni di carriera girerà più di un centinaio di film spaziando tra i generi più disparati — ma è proprio con Audition, tratto dall’omonimo romanzo di Ryu Murakami, che il suo nome esplode a livello internazionale, consacrandolo come uno dei cineasti più estremi e provocatori del panorama giapponese.
Shigeharu Aoyama (Ryo Ishibashi) è un uomo di mezza età rimasto vedovo, che vive solo con il figlio adolescente. Su insistenza di quest’ultimo, decide di rimettersi in gioco e cercare una nuova moglie. L’amico Yoshikawa (Jun Kunimura), produttore cinematografico, gli propone una idea bizzarra, quella di organizzare un’audizione per un film inesistente, in modo da poter selezionare, tra tante giovani aspiranti attrici, la donna perfetta per Aoyama. È così che l’uomo incontra Asami Yamazaki (Eihi Shiina), una giovane di ventiquattro anni, eterea, timida e misteriosa. Aoyama ne è subito rapito. Asami sembra delicata, quasi irreale, con una storia di sofferenza che la rende ancora più affascinante. Ma dietro quel volto angelico si nasconde qualcosa di oscuro. Un passato di dolore, abusi e violenza repressa, che trascinerà Aoyama in un incubo a occhi aperti.
La forza di Audition sta proprio nella sua costruzione e nella sua messa in scena. Inizialmente il film sembra una semplice storia d’amore, quasi una commedia grottesca, in cui un uomo di mezza età si affida a una finta audizione organizzata dall’amico per trovare moglie, sfogliando i profili delle candidate con la stessa leggerezza con cui oggi si "swippa" su un’app di incontri. La donna perfetta deve essere giovane, bella, gentile, devota, pronta a soddisfare ogni necessità dell’uomo. Ma Asami non è un oggetto. È il riflesso distorto di una società patriarcale che impone alle donne di essere compiacenti, di curare il dolore degli uomini dimenticandosi del proprio. E quando la sua maschera cade, quando Aoyama si dimostra incapace di darle quell’amore assoluto che lei chiede, l’uomo diventa la vittima perfetta su cui riversare tutta la sofferenza accumulata da anni di solitudine, abusi e molestie.
Miike costruisce un film che inizia come un dramma sentimentale, che si trasforma in un noir lynchano sospeso tra realtà e incubo — l'uomo nel sacco ha la stessa potenza inquietante del barbone di Mulholland Drive — per poi virare nel finale in un horror estremo ai limiti della sopportazione visiva. Audition è un film che gioca sull’ambiguità, lasciandoci costantemente nel dubbio su cosa sia reale e cosa sia frutto della mente dei protagonisti.
Un cult movie, un classico moderno sulla violenza inflitta e ricevuta, sulla fragilità che si trasforma in disperazione. Un’illusione d’amore che si sgretola rivelando il volto della follia. Forse non è un horror nel senso più tradizionale del termine, ma una volta visto, è impossibile dimenticarlo. Sicuramente il capolavoro di Miike.
Film
Frankenstein (1931)
di James Whale
Nel 1931, dopo il successo di Dracula con Bela Lugosi, Carl Laemmle Jr., capo della produzione Universal, decise di puntare ancora sull'horror, portando sul grande schermo Frankenstein, ispirato all’omonimo romanzo gotico di Mary Shelley. Il progetto fu inizialmente affidato a Robert Florey, che si basò più sull’adattamento teatrale del 1929 di Peggy Webling che sul libro originale. Ma la sua visione non convinse lo studio, e la regia passò a James Whale, un britannico con un background teatrale che mantenne l’impronta espressionista di Florey – ispirata in particolar modo a Il gabinetto del dottor Caligari – ma la arricchì con maggiore profondità psicologica e una messa in scena innovativa.
La scelta del protagonista fu altrettanto travagliata. La Universal avrebbe voluto Bela Lugosi, ma l’attore rifiutò il ruolo, infastidito all’idea di interpretare un mostro muto e irriconoscibile sotto il trucco. La parte andò così a Boris Karloff, un attore inglese fino ad allora poco noto, che trovò nella creatura il ruolo della vita. Grazie al meticoloso lavoro del truccatore Jack Pierce – che concepì la creatura con la fronte piatta, gli elettrodi sul collo, le palpebre pesanti e il portamento goffo – nacque l’iconica figura del mostro di Frankenstein, un’immagine destinata a diventare immortale e a influenzare tutte le versioni successive.
La storia non è nota, di più. Il dottor Henry Frankenstein, ossessionato dall’idea di sconfiggere la morte, si rinchiude nel laboratorio di un castello con il suo fidato assistente Fritz, riuscendo a dare vita a una creatura assemblata con parti di cadaveri, utilizzando l’elettricità di un temporale. Ma il suo esperimento sfugge rapidamente al controllo. Il mostro, confuso e impaurito, viene maltrattato e imprigionato, fino a ribellarsi e fuggire. La sua presenza semina il panico nel villaggio, culminando in un drammatico confronto con il suo stesso creatore e con la folla inferocita che lo bracca nel vecchio mulino, in un finale tanto tragico quanto iconico.
Il film fu un successo immediato, sia di pubblico che di critica. Impressionò gli spettatori e consacrò Whale come uno dei grandi registi dell’epoca. Sebbene l'idea dello scienziato folle, l’assistente gobbo, il laboratorio gotico pervaso da scariche elettriche, la folla inferocita armata di torce, e il rogo finale, oggi ci sembrano dei clichè per quante volte sono state riproposte nel corso degli anni, all'epoca erano pura innovazione.
Sono molte le differenze con il romanzo della Shelley. Inanzitutto nel libro il racconto della creazione del mostro è appena accennato, mentre nel film avviene nel laboratorio dello scienziato che usa l'elettricità per dare vita alla creatura. Il mostro, che nel romanzo impara a parlare e riflette sulla propria esistenza, nel film è un essere infantile, incapace di comprendere il mondo che lo rifiuta. L’idea che la creatura sia stata resa violenta da un cervello criminale trapiantato per errore è un’invenzione degli sceneggiatori. Insomma, ogni adattamento successivo, compreso il geniale Frankestein Junior, si rifanno al film di Whale.
La creatura di Frankenstein è una copia distorta del suo creatore, una manifestazione della sua ossessione e del suo desiderio di sfidare Dio. Eppure, è l’umanità a rivelarsi la vera carnefice: prima con la crudeltà dell’assistente Fritz, poi con il tentativo del dottor Waldman di sopprimerla, infine con la caccia all’uomo scatenata dagli abitanti del villaggio. La scena della bambina annegata dal mostro (censurata nel 1937 dal Codice Hays) è un momento di innocenza tragicamente fraintesa e punita, che ancora oggi conserva una potenza emotiva devastante. Per attenuare il possibile impatto sul pubblico, la Universal fece inserire un prologo in cui Edward Van Sloan (l'attore che nel film interpreta il dott. Waldman) avverte gli spettatori: «Vi emozionerà, forse vi colpirà, potrebbe anche inorridirvi! Se pensate che non sia il caso di sottoporre a una simile tensione i vostri nervi, allora sarà meglio che voi... be', vi abbiamo avvertito!». Un piccolo stratagemma per preparare gli spettatori dell’epoca a un film che, nonostante le sue concessioni, poteva davvero impressionare.
A più di novant’anni dalla sua uscita, Frankenstein non è solo un classico dell’horror, ma un pilastro della storia del cinema. Ha ridefinito l’immagine del mostro e introdotto l’archetipo dello scienziato pazzo, trasformando la creatura di Mary Shelley in un’icona pop immortale. Ancora oggi, quando pensiamo a Frankenstein, non immaginiamo il personaggio del romanzo, ma il volto di Boris Karloff, sepolto sotto il trucco di Jack Pierce.
Il successo del film diede vita a numerosi sequel, a partire da La moglie di Frankenstein del 1935, che molti considerano persino superiore all’originale. Ma questa è un’altra storia.

28 giorni dopo
di Danny Boyle
Rivedendo 28 giorni dopo, è impossibile non pensare alla pandemia che ha sconvolto il mondo pochi anni fa. Certo, il Covid-19 non ha trasformato le persone in furie omicide assetate di sangue, ma l’idea di un virus che si diffonde rapidamente, lasciando città deserte e un senso opprimente di isolamento, è diventata spaventosamente familiare.
Danny Boyle, talentuso regista inglese che con Trainspotting ha ridefinito il dramma generazionale, nel 2002 rivoluziona il cinema horror con 28 giorni dopo, un'apocalisse zombie (anche se, tecnicamente, non sono nemmeno zombie), che, ancora oggi, resta un punto di riferimento imprescindibile per gli amanti del cinema di genere.
Tutto ha inizio con un gruppo di animalisti che, nel tentativo di liberare alcuni scimpanzé da un laboratorio segreto, finiscono per scatenare l’inferno. Le cavie sono infatti infette da un virus altamente contagioso che trasforma chiunque venga esposto al loro sangue in una creatura furiosa e omicida. 28 giorni dopo, Jim (Cillian Murphy) si risveglia dal coma in un ospedale, ritrovandosi in una Londra deserta e abbandonata. La città è infestata da infetti, non morti viventi, ma esseri umani travolti da un’aggressività incontrollabile, trasformati in bestie assetate di violenza. Jim trova rifugio con la determinata Selena (Naomie Harris), il bonario Frank (Brendan Gleeson) e sua figlia Hannah (Megan Burns), con cui parte alla ricerca di una presunta salvezza in una base militare. Ma il vero orrore non si cela solo negli infetti, ma nella natura umana, che spinta al limite, può rivelarsi persino più spaventosa.
Scritto da Alex Garland – ed è sempre bene ricordare il contributo del futuro regista di Ex Machina e di altre perle della fantascienza contemporanea – 28 giorni dopo prende spunto dal romanzo Il giorno dei Trifidi di John Wyndham. Girato con un budget ridotto e una camera digitale sporca e traballante, Boyle costruisce un racconto dal taglio quasi documentaristico, sottolineando la fragilità della nostra civiltà, capace di sgretolarsi nel giro di poche settimane. Iconica la sequenza iniziale in cui Jim vaga per una Londra deserta – girata all’alba, quando la città era ancora addormentata – sulle note di East Hastings dei Godspeed You! Black Emperor. Perfetto Cillian Murphy nei panni del protagonista, inizialmente smarrito e vulnerabile, poi sempre più trasformato dalla brutalità del nuovo mondo.
Uno degli aspetti più rivoluzionari di 28 giorni dopo è la concezione stessa della minaccia. Niente zombie lenti e barcollanti: qui gli infetti sono veloci, feroci, implacabili. Non c’è scampo, non c’è tempo per riflettere. Bisogna correre o morire. Una scelta che ha ridefinito il cinema horror e influenzato profondamente il genere negli anni successivi. Ma il cuore del film non è solo un virus nato da esperimenti sugli animali, simbolo dell’arroganza umana nel voler dominare la natura senza comprenderne le conseguenze. La vera paura sta nel modo in cui, davanti al collasso della società, riemergono divisioni di classe, militarismo e patriarcato tossico. Il rifugio militare, che dovrebbe rappresentare la salvezza, diventa invece un incubo ancora più terrificante degli infetti.
Curiosità. Nel DVD (e facilmente reperibili su YouTube) si possono trovare alcuni finali alternativi. In uno, Jim muore per le ferite da arma da fuoco, in un altro l'epidemia è solo un incubo di Jim che si trova in coma, mentre in quello mai girato, ma storyboardato, Frank infettato non viene ucciso ma viene sottoposto a una trasfusione di sangue per essere salvato.
Nel 2007 è stato realizzato il sequel 28 settimane dopo, diretto da Juan Carlos Fresnadillo. A giugno 2025 è invece atteso 28 anni dopo, che riporterà insieme Danny Boyle e Alex Garland dopo oltre vent’anni, pronti a raccontare ancora una volta l'incubo dei sopravvissuti in un mondo devastato.

Dracula
di Tod Browning
È curioso pensare che il mio primo incontro con il Dracula di Bela Lugosi non sia avvenuto attraverso il cinema, bensì grazie alla musica dei Bauhaus. Bela Lugosi’s Dead, lungo brano ipnotico dall’atmosfera funerea, considerato un vero e proprio manifesto della musica goth, è stato il pezzo che mi ha fatto conoscere l’attore che più di ogni altro ha legato il suo nome al personaggio del conte Dracula. Solo in seguito, quando negli anni novanta l’unico modo per recuperare un vecchio film era rivolgersi a una videoteca specializzata, avrei scoperto il film di Tod Browning, il classico della Universal che ha consacrato Lugosi come il Principe delle Tenebre definitivo.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di non divagare troppo, perché di cose da raccontare ce ne sono parecchie.
Fondata nel 1912 dall’immigrato di origini bavaresi Carl Laemmle, la Universal Pictures ha scritto pagine fondamentali nella storia del cinema horror. Tutto iniziò quando negli anni '30, con l'avvento del sonoro, il figlio del fondatore, Carl Laemmle Jr, il giorno del suo ventunesimo compleanno, ricevette in regalo la guida della casa di produzione cinematografica (altro che auto o orologio d’oro). Nonostante le difficoltà economiche della Grande Depressione e le restrizioni imposte dal Codice Hays, un insieme di norme che regolavano la moralità nei film, il giovane e visionario produttore della Universal, intuì che il pubblico aveva fame di evasione e decise di puntare sull’horror, adattando per il grande schermo storie della letteratura gotica.
Traendo ispirazione dalla fortunata rappresentazione teatrale di Broadway del romanzo di Bram Stoker — i cui diritti furono acquisiti dall'ambizioso produttore teatrale Horace Liveright — Laemmle Jr. portò sul grande schermo il vampiro più famoso della letteratura, affidando la regia del film a Tod Browning, un veterano del cinema muto con un debole per il macabro.
Il film Dracula, prima versione cinematografica autorizzata dagli aggueriti familiari di Bram Stoker — che in precedenza avevano provato a distruggere il Nosferatu di Murnau — inizialmente prevedeva la presenza di Lon Chaney nel ruolo del vampiro, ma l'improvvisa morte dell'attore portò la produzione a virare su Bela Lugosi, l’attore ungherese che aveva già interpretato il vampiro a teatro con grande successo e che avrebbe legato per sempre la sua immagine al conte Dracula.
La trama vede l'agente immobiliare Renfield (Dwight Frye) giungere da Londra sui monti Carpazi per vendere al conte Dracula una dimora londinese. Ma il nobile transilvano è in realtà un vampiro, e lo trasforma nel suo servo. Giunto in Inghilterra, Dracula, in veste di nobile affascinante dall'anima nera vampirizza Lucy (Frances Dade), puntando anche l'attenzione sull'amica Mina (Helen Chandler), fidanzata di Jonathan Harker (David Manners), collega dell'impazzito Renfield. Solo l'intervento del professor Van Helsing (Edward Van Sloan), scienziato vampirologo, mette fine alla minaccia del vampiro, che nascosto nell'antica abbazia di Carfax viene trafitto al cuore con un paletto, seppur tutto questo avvenga fuori scena.
Il film si divide nettamente in due parti, esattamente come il romanzo. La prima, la più affascinante e tenebrosa, è ambientata nel castello di Dracula ed è caratterizzata dalle meravigliose scenografie gotiche di Charles D. Hall, in cui Lugosi, con il suo accento mitteleuropeo e il suo sguardo penetrante (accentuato da un faretto sempre puntato sugli occhi nei primi piani) pronuncia la celebre battuta "Io non bevo mai... vino" destinata a entrare nella storia del cinema. La seconda parte, invece, si fa più teatrale e… beh, piuttosto statica. Il ritmo rallenta, l’azione è ridotta al minimo e le scene più spaventose vengono lasciati all’immaginazione dello spettatore, per evitare problemi con la censura. Rispetto al romanzo, la sceneggiatura elimina completamente il tema del contagio e della trasformazione in vampiri — le vittime qui muoiono e basta — così come gli spostamenti dei cacciatori di Dracula quando fugge in Transilvania. Al posto di Jonathan Harker, qui presenza poco influente, è Renfield a recarsi al castello del conte, con Dwight Frye che regala un’interpretazione intensa e inquietante.
Se il ritmo del film, soprattutto nella seconda parte, risente dell’impostazione teatrale, l’interpretazione di Lugosi è magnetica, iconica, definitiva. Il suo Dracula diventa immediatamente il modello per tutti i vampiri successivi, almeno fino all’arrivo di Christopher Lee, che trent’anni dopo avrebbe rinfrescato il personaggio con un’interpretazione decisamente più fisica e sensuale.
Nonostante il budget ridotto per via della crisi economica, Dracula fu un successo clamoroso e diede il via alla grande stagione dell’horror Universal, spalancando le porte ai vari Frankenstein, La Mummia e L’Uomo Lupo. Paradossalmente, il film arrivò in Italia solo nel 1986, quando fu trasmesso in televisione per la prima volta. Meglio tardi che mai.
Oggi, il Dracula di Browning — privo di colonna sonora nella versione originale — è considerato un classico assoluto, tanto da essere conservato nella Biblioteca del Congresso come opera di importanza culturale e storica. Non è l’adattamento più fedele al romanzo di Stoker, ma è senza dubbio quello che ha scolpito nell’immaginario collettivo la figura del conte Dracula. Un film che ha dato il via all’epoca d’oro dei mostri Universal e che, nonostante il passare del tempo, continua a esercitare il suo fascino oscuro.

Lost in Translation
di Sofia Coppola
Lost in Translation è la seconda opera da regista di Sofia Coppola, successiva al brillante esordio con Il giardino delle vergini suicide. Una storia di due solitudini che si incontrano e si sfiorano, sullo sfondo di una Tokyo caotica e alienante, dove l’incomunicabilità diventa il linguaggio universale dei sentimenti inespressi. L’ho rivisto di recente, ed è incredibile come questo film, a più di vent’anni dalla sua uscita, sia ancora in grado di emozionarmi.
La trama è semplice. Bob Harris, una star del cinema ultracinquantenne in declino (un memorabile Bill Murray), si trova a Tokyo per girare uno spot pubblicitario per un whisky locale. Il suo soggiorno, privo di stimoli e caratterizzato da lunghe serate vuote in un lussuoso ma alienante hotel, lo porta a incontrare Charlotte (Scarlett Johansson), una giovane donna che accompagna il marito fotografo, assente e preso dal lavoro. Tra i due nasce un’amicizia che si trasforma in una connessione profonda, basata non tanto sulle parole, quanto sugli sguardi, i gesti e la comune sensazione di isolamento.
Avendo avuto la fortuna di visitare il Giappone ormai parecchi anni fa, rivedere Lost in Translation mi ha riportato alla mente una miriade di ricordi legati a quell’esperienza. La sensazione di essere immerso in un mondo così diverso, dove ogni dettaglio sembra affascinante e alieno al tempo stesso, è qualcosa che ho rivissuto con grande intensità. Sofia Coppola, che ha dichiarato di essersi sentita disorientata la prima volta a Tokyo, riesce a tratteggiare perfettamente questo spaesamento. Le luci al neon, le strade affollate, le sale giochi rumorose e i templi di Kyoto fanno da cornice a una storia che si sviluppa senza bisogno di grandi eventi o dialoghi espliciti. I due protagonisti, stranieri in un paese dalla cultura distante e dalla lingua incomprensibile, non cercano nemmeno di capire fino in fondo ciò che li circonda. Le passeggiate di Charlotte nei giardini e nei templi, osservate con una distratta curiosità, rappresentano perfettamente questa alienazione, che non è solo geografica, ma anche emotiva. Questo atteggiamento, da parte di una certa critica, è stato letto come una forma di superficialità tipica di una mentalità americana, diffidente e incapace di avvicinarsi a una cultura che non comprende. In realtà, almeno per come la vedo io, credo che questa distacco non sia altro che il riflesso dello spaesamento interiore e del profondo senso di smarrimento dei due protagonisti.
Bill Murray ci regala una grande performance, tra il comico e il tragico, con un’ironia che emerge in scene come quella in cui è alle prese con il regista giapponese dello spot. Scarlett Johansson, allora appena ventenne, è di una bellezza semplice e disarmante, capace di trasmettere la vulnerabilità e il disagio del suo personaggio con incredibile intensità. La relazione tra Bob e Charlotte è una storia d’amore sospesa, fatta di gesti minimi e dolci malinconie. Non ci sono baci appassionati né dichiarazioni d’amore, ma piccoli momenti che restano impressi, come quando i due cantano insieme al karaoke, si ritrovano nel letto insieme mantenendo la giusta distanza che non impedisce però una tenera intimità, e sopratutto nell'iconica scena dell'addio finale in cui Bill Murray abbraccia Scarlett Johansson e le sussurra teneramente la frase all'orecchio che rimarrà per sempre un mistero per noi. Una scena che si svolge sulle note di Just Like Honey dei Jesus and Mary Chain, che, insieme agli altri brani della colonna sonora, firmata da artisti come Air, My Bloody Valentine e Squarepusher, rende il film ancora più indimenticabile.
Lost in Translation, insieme a Eternal Sunshine of the Spotless Mind, rimane uno dei film romantici a cui sono più legato. Entrambi hanno vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura, mentre in Italia vengono accomunati per avere ricevuto dei titoli completamente fuori luogo. "L'amore Tradotto" per il film della Coppola non è certo meno imbarazzante di quello scelto per il film di Gondry.
Lost in Translation non è solo una storia d’amore mai consumata, ma il malinconico incontro tra due solitudini che si comprendono, si sfiorano e infine si lasciano andare al loro destino. Non è un capolavoro ma un film a cui sono molto affezionato.

2001: Odissea nello spazio
di Stanley Kubrick
Breve premessa. Parlare di 2001: Odissea nello spazio è un po’ come recensire la Bibbia, la Cappella Sistina o la Divina Commedia. Tutto è stato già detto, analizzato, scomposto e ricomposto in ogni dettaglio possibile. Critici, studiosi e appassionati hanno passato oltre mezzo secolo a scrivere libri, articoli e trattati su questo film, trasformandolo in un’opera di culto dal fascino quasi mistico. Quindi, perchè in maniera vagamente masochista mi preparo ad aggiungere un granello di sabbia a questa montagna di critica cinematografica? Beh, recentemente l'ho rivisto, e da un po' di tempo ho preso l’abitudine di riversare su queste pagine le mie impressioni sui film (e non solo) che vedo.
2001: Odissea nello spazio è considerato uno dei più grandi capolavori della storia del cinema. Un'opera complessa e affascinante che ha rivoluzionato il linguaggio cinematografico, ridefinendo il concetto di fantascienza sul grande schermo.
Diretto da Stanley Kubrick, regista al tempo già acclamato per "Lolita e "Il dottor Stranamore", il film non è solo un racconto visivo straordinario, ma anche una profonda riflessione filosofica sull'evoluzione umana, l'intelligenza artificiale e il nostro posto nell'universo. La sua portata epica, gli effetti speciali innovativi e l'iconica colonna sonora lo hanno reso un punto di riferimento, influenzando generazioni di registi e spettatori.
Realizzato in collaborazione con lo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke – autore del romanzo omonimo sviluppato parallelamente alla sceneggiatura – 2001: Odissea nello spazio esce nelle sale cinematografiche nel 1968, poco più di un anno prima dello storico allunaggio dell’Apollo 11, anticipando visioni del futuro che avrebbero influenzato profondamente l’immaginario collettivo.
Diviso in quattro atti, in un arco temporale che si estende dall’alba dell’umanità al futuro, il film si apre nella preistoria, dove un misterioso monolite nero appare tra un gruppo di ominidi, innescando un salto evolutivo che li porterà a utilizzare delle ossa umane come strumenti. Millenni dopo, nel 2001, un monolite simile viene trovato sepolto sulla Luna, trasmettendo un segnale verso Giove. Per indagare il mistero, viene lanciata la missione spaziale Discovery One, con a bordo due astronauti, David Bowman e Frank Poole, supportati da HAL 9000, un’intelligenza artificiale avanzata. Tuttavia, HAL inizia a manifestare comportamenti anomali, mettendo in pericolo la missione e l'equipaggio e costringendo Bowman a confrontarsi con l'intelligenza artificiale ribelle.
La storia culmina in un viaggio psichedelico verso l'ignoto, dove Bowman attraversa lo spazio e il tempo per approdare a una misteriosa trasformazione, suggerendo un nuovo stadio dell’evoluzione umana.
A fronte di un budget considerevole per l'epoca, il film venne inizialmente accolto negativamente dalla critica che lo definì ipnotico ma immensamente noioso. Il pubblico invece si divise, tra gli adulti che non riuscirono a comprenderlo e il pubblico più giovane impressionato dalla sua potenza visiva. Ancora oggi 2001: Odissea nello spazio continua a stupire e a lasciare interdetti per la sua complessità e unicità.
Il film di Stanley Kubrick è un'esperienza che affronta temi universali e ci guida in una riflessione sull’evoluzione umana, il progresso tecnologico e il mistero dell’esistenza, ponendo domande che si perdono nell'infinito dell'universo. Realizzato come se fosse un documentario, privo di azione e povero di dialoghi, il film è un viaggio sensoriale che ha nell'aspetto visivo, e nell'uso rivoluzionario della musica classica come colonna sonora, il suo punto di forza assoluto.
Nel realizzare gli effetti speciali, Kubrick e il supervisore Douglas Trumbull hanno sviluppato tecniche pionieristiche, collaborando con esperti scientifici per garantire il massimo realismo. Ogni dettaglio fu studiato con una cura maniacale, dalla totale assenza di suoni nello spazio alle leggi della fisica rigorosamente rispettate nel movimento delle astronavi e delle stazioni spaziali, realizzate e ispirate a prototipi della NASA, con un'attenzione alla progettazione che rispecchiava le possibili evoluzioni future della tecnologia spaziale (visto gli effetti speciali così straordinari per l'epoca in rete gira la bislacca storia che l'allunaggio del 1969 sia in realtà una messa in scena realizzato dallo stesso Kubrik).
Per comprendere appieno il realismo e l'accuratezza tecnica di Kubrick, basta mettere a confronto le cabine utilizzate per l'ibernazione degli astronauti in 2001: Odissea nello spazio con quelle utilizzate ne "Il pianeta delle scimmie", film uscito nello stesso anno. Nel film di Kubrick le strutture e le tecnologie sembrano verosimili, scientificamente plausibili, quelle utilizzate da Schaffner appaiono invece datate e improbabili. La differenza sta nell'approccio alla scienza e nella cura nei dettagli: Kubrick voleva che il suo film non solo fosse visivamente affascinante, ma anche scientificamente coerente, spingendo il confine della tecnologia cinematografica e creando un'esperienza che sembrava guardare veramente al futuro.
2001: Odissea nello spazio non è solo un capolavoro cinematografico, ma anche un’opera visionaria che ha saputo anticipare alcune delle tecnologie che oggi fanno parte della nostra quotidianità. Pensiamo solo ad HAL 9000, l’intelligenza artificiale che gestisce ogni aspetto della missione spaziale. Con la sua voce calma e rassicurante, HAL è un assistente apparentemente perfetto, ma la sua ribellione al controllo umano solleva interrogativi profondi sul rapporto tra uomo e macchina. Interrogativi più che mai attuali in un’epoca in cui l'intelligenza artificiale è sempre più presenta nella nostra vita.
2001: Odissea nello spazio è un'opera complessa e affascinante, un film incredibilmente lento e dilatato, capace di spiazzare anche lo spettatore di oggi, ormai viziato da ritmi narrativi rapidi e lineari. Più che un film, è un'esperienza sensoriale e contemplativa che richiede una totale immersione – quasi una sospensione del tempo – per essere apprezzata a fondo. Se oggi questa natura meditativa può sembrare ostica, figuriamoci cosa poteva pensare il pubblico del 1968, abituato a un cinema decisamente più convenzionale. Kubrick, invece di darci facili risposte o spiegazioni, ci lascia soli di fronte a immagini maestose e simboli enigmatici, invitandoci a riflettere su domande che non hanno risposta.
Questo approccio, decisamente fuori dal comune e distante dalle aspettative dell'epoca, ha reso il film un'esperienza decisamente divisiva: per alcuni incomprensibile e noioso, per altri una vera e propria rivelazione. Ma è proprio in questa ambivalenza che si nasconde la sua grandezza. 2001: Odissea nello spazio non è un film che punta a piacere a tutti, né ha l'intenzione di farlo. È un'opera che sfida, interroga e lascia un segno profondo, spingendoci a guardare con occhi nuovi il mistero dell'universo e dell'esistenza. E se alla fine non avremo tutte le risposte, pazienza: forse è proprio questo il suo segreto.

Il pianeta delle scimmie (1968)
di Franklin J. Schaffner
Ricordo ancora nitidamente la prima volta che vidi Il pianeta delle scimmie da bambino, in una calda estate in cui mia madre aveva avuto la brillante idea di portare la televisione fuori sul balcone. L'aria era ferma, afosa, ma io ero ipnotizzato dallo schermo. Quando arrivò la scena finale, rimasi talmente colpito, che quell'immagine - quei pochi secondi - mi si stamparono nella mente per sempre.
Il pianeta delle scimmie è un film del 1968 diretto da Franklin J. Schaffner e liberamente ispirato al romanzo di Pierre Boulle. Considerato uno dei capisaldi della fantascienza, il film ottenne un enorme successo di pubblico, vincendo un Oscar speciale per il trucco e gli effetti speciali e generando nel corso degli anni un ampio universo espanso di sequel, serie TV, cartoni animati, fumetti e videogiochi. Nel 2001, Tim Burton ne realizzò un remake che inaugurò una nuova serie di reboot, mantenendo vivo l'interesse per questo classico intramontabile.
La trama è nota. Un gruppo di astronauti americani atterra su un pianeta sconosciuto dopo un viaggio nello spazio durato diciotto mesi. Viaggiando a una velocità prossima a quella della luce sulla Terra sono trascorsi millenni. Il comandante Taylor (Charlton Heston) e i suoi compagni si trovano in un mondo dominato da scimmie evolute e intelligenti, che hanno costruito una civiltà complessa e vedono gli umani come esseri primitivi e inferiori. Catturato e trattato come una cavia, Taylor riesce a dimostrare la sua intelligenza a due scimpanzé scienziati, Cornelius e Zira, che lo aiutano a fuggire. Durante la fuga, Taylor scopre che quel pianeta non è altro che la Terra stessa, devastata da un'antica guerra nucleare e ridotta a un mondo preistorico.
Realizzato nel pieno della Guerra Fredda, il film è una denuncia contro le possibili conseguenze di un terzo conflitto mondiale, immaginando un futuro distopico in cui le scimmie hanno sostituito gli uomini come specie dominante. Certo, rivedendolo oggi, qualche dettaglio sembra un po' datato. La recitazione, per esempio, risulta un tantino pomposa e il fatto che nel 3978 le scimmie parlino un perfetto inglese del ventesimo secolo, appare davvero inverosimile. Ma al netto di queste ingenuità tipiche dell'epoca, il make-up delle scimmie è ancora sorprendente e la regia offre momenti dinamici, specie nell'atterraggio dell'astronave e nella fuga di Taylor inseguito dalle scimmie. Tra le scene migliori, l'inizio con gli astronauti che si aggirano in un deserto desolato, e la parte finale in cui Taylor e Nova (Linda Harrison) si allontanano a cavallo verso un futuro ignoto. Ma è il colpo di scena finale a rendere questo film memorabile: la Statua della Libertà semisepolta nella sabbia è un'immagine potente e indimenticabile, che chiude il film con una riflessione cupa e amarissima sul destino dell'umanità in uno dei più iconici epiloghi di sempre.
Film
Eraserhead
di David Lynch
Premetto che, scrivendo queste righe, non riuscirò ad essere obiettivo. Nutro una profonda venerazione per David Lynch, un’artista capace di esplorare mondi onirici e surreali in ogni sua opera, che si tratti di cinema, pittura, musica o qualsiasi altra forma d’arte in cui si cimenta.
Se qualcuno mi chiedesse quale sia il mio film preferito (non di Lynch, ma in assoluto), risponderei senza esitazione "Mulholland Drive".
Nel 1972, quando inizia a girare "Eraserhead", David Lynch ha ventisei anni. E' un pittore e ha già girato una serie di cortometraggi visionari e molto sperimentali. Per realizzare il suo primo lungometraggio ci metterà quattro anni. Lavora solo di notte, in un set montato in un enorme magazzino, mentre di giorno lavora cercando di racimolare i soldi per finanziare il film. A interpretare il protagonista chiama un suo amico di vecchia data, oltre alla sua fidanzata e ad altri conoscenti, dando vita a un progetto quasi interamente “fatto in casa”.
La trama è complicata e poco lineare, caratteristica di quasi tutti i capolavori di David Lynch (compreso Twin Peaks).
Girato in uno sgranato bianco e nero e dai dialoghi quasi completamente assenti, il film racconta il viaggio allucinato di Henry Spencer (interpretato da Jack Nance), un uomo solitario e impacciato che vive in una città industriale e surreale, muovendosi tra rumori metallici e paesaggi desolanti. La sua vita prende una piega angosciante quando scopre che la sua ragazza, Mary, ha partorito un figlio deforme. Mary e Henry cercano di prendersi cura del neonato, ma la situazione precipita quando la donna abbandona entrambi, lasciando Henry da solo con il bambino, che piange incessantemente e sembra più una creatura aliena che umana. Mentre l’angoscia e la confusione di Henry crescono, il confine tra realtà e incubo diventa sempre più labile, portandolo a visioni oniriche e momenti di introspezione surreale in cui affronta paure profonde e incomprensibili.
"Eraserhead" è un incubo cinematografico, difficile da spiegare a parole, sopratutto la seconda parte del film. Come tutto il cinema di Lynch, è un'opera che va vissuta, dove il viaggio è più importante della destinazione. La narrazione passa in secondo piano per fare spazio a un'esperienza sensoriale e visiva, una vera e propria immersione nel subconscio. Le scene sono lente, ogni dettaglio è studiato per creare un senso di isolamento e soffocamento che cresce con il film. Il neonato deforme, che piange in continuazione ed è quasi impossibile da guardare, diventa il simbolo delle angosce del protagonista, un’immagine disturbante che mette a nudo le paure della paternità e della responsabilità.
Lynch non ha mai voluto rivelare in quale modo e con quale tecnica abbia realizzato questo effetto speciale. Il fatto che il regista non aveva budget per realizzare un mostriciattolo così realistico lascia pensare che sia qualcosa di organico. Probabilmente il feto di un animale o qualcosa del genere.
Inizialmente Eraserhead non venne neanche distribuito, ma con il tempo divenne un vero e proprio cult, proiettato nei cinema di mezzanotte per un pubblico di appassionati.
Io quando ho visto per la prima volta "Eraserhead" (stiamo parlando di parecchi anni fa) non avevo mai visto nulla del genere. Non è un film per tutti. E' un’esperienza che richiede pazienza, apertura e, forse, un pizzico di resistenza. Mi rendo conto che può non piacere e che molti possano trovarlo inaccessibile, perchè è un film dove la logica e la razionalità viene messa da parte. Ma chi è disposto ad abbandonare ogni certezza e lasciarsi andare, può trovarsi di fronte a un'esperienza... trascendentale.

Rosemary's Baby
di Roman Polanski
Rosemary's Baby di Roman Polanski (1968) è una pietra miliare del cinema horror, un vero spartiacque che ha segnato una svolta epocale nel genere. Tratto dal romanzo omonimo di Ira Levin, il film di Polanski non solo ha ridefinito le coordinate dell'orrore, ma ha anche aperto la strada a una nuova generazione di pellicole che, negli anni successivi, avrebbero tratto ispirazione. Film come L'esorcista e The Omen devono molto a Rosemary's Baby, che per primo ha portato l'orrore nella vita quotidianità, ponendo l'accento sull'angoscia psicologica.
La trama ruota attorno a Rosemary Woodhouse (Mia Farrow), una giovane donna che si trasferisce con il marito Guy (John Cassavetes) in un elegante appartamento di New York. La coppia sembra vivere il sogno americano, ma presto Rosemary comincia a sospettare che qualcosa di sinistro si nasconda dietro l'improvviso successo del marito attore e dietro gli invadenti e apparentemente amichevoli vicini, i coniugi Castavet (Rush Gordon e Sydney Blackmer). Dopo una strana gravidanza, Rosemary scopre di essere vittima di una setta satanica e che il suo bambino è destinato a diventare l'erede del male stesso, l'anticristo.
L'orrore rappresentato da Polanski non si trova in luoghi lontani o scenari gotici, ma nel quotidiano, nelle mure domestiche. Tra vicini apparentemente innocui in un condominio borghese che si trasforma lentamente in un incubo opprimente. Polanski dipinge una New York claustrofobica e surreale, dove l'angoscia si insinua come una presenza invisibile. È proprio questa ambientazione a rendere il film così disturbante.
Il personaggio di Rosemary, interpretato magistralmente da Mia Farrow, diventa il simbolo dell'isolamento e della vulnerabilità. Intrappolata tra l'ansia della maternità e il sospetto crescente di una cospirazione demoniaca, Rosemary rappresenta la paranoia che si impossessa dello spettatore stesso. La narrazione procede con un senso crescente di incertezza, dove realtà e incubo si fondono senza soluzione di continuità. Polanski gioca con le percezioni, lasciando lo spettatore in bilico tra l'orrore psicologico e il sovrannaturale, senza mai offrire risposte definitive.
Un aspetto chiave del film è la sua riflessione su temi come il controllo del corpo femminile, il potere e la manipolazione. Rosemary è circondata da personaggi maschili che sembrano sempre sapere cosa è meglio per lei, ma questo controllo si rivela presto parte di una trama oscura che minaccia la sua stessa essenza. In questo senso, Rosemary's Baby anticipa molte delle paure e delle ansie legate al ruolo della donna nella società contemporanea, rendendo il film straordinariamente attuale.
Un altro livello di lettura riguarda l'analisi della società dell'epoca. Siamo alla fine degli anni ‘60, in un periodo di sconvolgimenti sociali e di crisi dei valori tradizionali. Rosemary's Baby riflette il cinismo del periodo, mettendo in scena una critica feroce al capitalismo e alla folle corsa verso il successo. Guy, disposto a sacrificare tutto, inclusa la moglie, pur di ottenere il successo, rappresenta una figura tipica di quel tempo, ossessionato dal potere e dalla notorietà. I vicini anziani, che offrono prosperità e successo in cambio della corruzione dell’anima, sono l’incarnazione di una società corrotta e disprezzabile, dove i valori della famiglia e della moralità vengono mercificati.
Rosemary's Baby non è solo un capolavoro dell'horror, ma un ritratto profondamente disturbante di una società corrotta, in cui l'individuo viene sacrificato sull'altare del potere e del successo. Polanski ci regala un’opera senza tempo, capace di inquietare e riflettere sulle paure più profonde della condizione umana.
Capostipite di tutti i film sull'occulto e il satanismo, Rosemary's Baby è un film che, a oltre cinquant'anni dalla sua uscita, continua a ispirare e inquietare.
Film
Metropolis
di Fritz Lang
Capolavoro del cinema muto e primo film di fantascienza della storia del cinema (se non vogliamo contare Il viaggio nella luna di Méliès), Metropolis di Fritz Lang è un opera che a distanza di quasi un secolo mantiene intatta la sua potenza visiva e concettuale.
Uscito nel 1927, questo monumentale film di Fritz Lang, regista e sceneggiatore austriaco legato al cinema espressionista tedesco, rappresenta una delle ultime grandi opere del cinema muto. La sceneggiatura di Metropolis è stata scritta dallo stesso Fritz Lang insieme alla sua allora moglie, Thea von Harbou, basandosi su un romanzo che lei stessa ha pubblicato nel 1925. Una delle pellicole più costose mai prodotte fino a quel momento, il film ha richiesto una grande quantità di risorse economiche per realizzare gli innovati effetti speciali e costruire la città furistica in miniatura.
Le riprese di Metropolis durarono ben 17 mesi, dal 1925 al 1926, una durata eccezionale per l'epoca, e coinvolsero migliaia di comparse. Proiettato per la prima volta a Berlino nel gennaio del 1927, il film, dopo la sua anteprima, subì numerosi tagli.
Originariamente lungo più di due ore e mezza, Metropolis fu ridotto a circa 90 minuti per essere più commercialmente accettabile, con intere sottotrame e personaggi eliminati. Solo negli anni 2000, dopo la scoperta di una copia quasi completa del film in Argentina, si è riusciti a restaurare gran parte del materiale originale.
In un futuro distopico, Metropolis è una città grandiosa e stratificata, divisa tra la lussuosa superficie, dove vivono i ricchi dirigenti, e le profondità sotterranee, dove gli operai lavorano incessantemente per mantenere la città in funzione. Joh Fredersen (Alfred Abel), il padrone di Metropolis, governa con pugno di ferro, ignorando il malessere dei lavoratori. Suo figlio, Freder (Gustav Frohlich), vive una vita privilegiata fino a quando non scopre le disumane condizioni degli operai e si innamora di Maria (Brigitte Helm), una giovane donna che predica la pace e la speranza per una società più equa. Nel tentativo di soffocare qualsiasi ribellione, Fredersen si allea con lo scienziato Rotwang (Rudolf Klein-Rogge), che crea un robot capace di assumere le sembianze di Maria. Il robot viene usato per istigare il caos e distruggere i sogni di pace e armonia. Mentre la città si avvicina al collasso, Freder cerca disperatamente di fermare la rivolta e salvare sia Maria che Metropolis, riconoscendo infine che la pace può essere raggiunta solo con una riconciliazione tra il "cervello" (i dirigenti) e le "mani" (gli operai), attraverso il "cuore".



Un classico senza tempo che ha definito per sempre il linguaggio della fantascienza cinematografica. Visivamente, Metropolis è una meraviglia. Un film che all'epoca era proprio difficile immaginare. L'architettura futuristica della città, con i suoi grattacieli e il traffico aereo, sono delle vere opere d'arte in movimento. Gli effetti speciali pionieristici, come l'uso dello stop-motion per animare veicoli e aerei, le sovrimpressioni ottenute direttamente in macchina e la tecnica dello Schüfftan per creare scenografie estremamente realistiche (si tratta di proiettare i modellini e i fondali dipinti, tramite un sistema di specchi inclinati a 45 gradi), sono incredibili anche a occhi moderni. Un capolavoro di tecnica cinematografica e immaginazione che ha ispirato innumerevoli opere successive che ne hanno ripreso temi, estetica e visioni distopiche. Pensiamo ad esempio a film come Blade Runner, Brazil, Guerre Stellari e il Quinto Elemento.
Metropolis è un film che esplora una serie di tematiche complesse, che rimangono rilevanti anche oggi. Le sue riflessioni spaziano dalla disuguaglianza sociale al rapporto tra uomo e macchina, passando per simbolismi religiosi e visioni distopiche del futuro. Tematiche sociali che hanno anticipato di decenni quelle descritte nel celebre romanzo 1984 di George Orwell, confermando il valore intramontabile di questa opera.
Se proprio dobbiamo trovargli dei difetti, lasciando da parte la recitazione tipicamente esagerata del cinema muto, a mio avviso il finale eccede in un romanticismo che appare forzato, retorico e quasi didascalico. La risoluzione finale, che predica la riconciliazione tra le classi attraverso il "cuore", sembra semplificare eccessivamente la complessità dei conflitti sociali e delle tensioni che il film stesso aveva magistralmente costruito. Stiamo comunque parlando di un film degli anni venti destinato al grande pubblico, quello che potremmo considerare uno dei primi blockbuster dell'epoca.
Dal 2023, Metropolis è entrato di diritto nel pubblico dominio, il che significa che può essere riprodotto liberamente anche al di fuori delle mura domestiche. Tra le numerose versioni esistenti, vi consiglio di guardare (al seguente link) quella restaurata dalla Fondazione Murnau nel 2010, della durata di 145 minuti, che restituisce gran parte del materiale originario andato perduto dopo l'uscita del film. A mio avviso è questa la versione che merita di essere vista per apprezzare l'opera nella sua completezza e integrità.
Io, come molti della mia generazione, ho scoperto Metropolis grazie alla controversa versione degli anni '80 curata da Giorgio Moroder, quella in cui l'originale colonna sonora orchestrale fu sostituita da brani pop-rock interpretati da Freddie Mercury, Pat Benatar e Bonnie Tyler. Rivedendola oggi, il risultato appare più simile a un videoclip di dubbio gusto che snatura completamente l'atmosfera originale del film. Moroder merita comunque un plauso per aver cercato di rendere il capolavoro di Fritz Lang accessibile a una nuova generazione di spettatori, ma con il senno di poi, avrei trovato più accattivante una colonna sonora realizzata dai Kraftwerk che personalmente apprezzo di più e avrebbe conferito maggiore coerenza e un fascino senza tempo all'intera operazione.
Ovviamente, queste sono solo considerazioni personali legate ai miei gusti musicali.

Beetlejuice
di Tim Burton
Prima del "temuto" sequel mi sono voluto rivedere per l'ennesima volta Beetlejuice, il secondo film di Tim Burton uscito nel 1988. Non «mi sganascio dalle risate tutte le porche volte che me lo vado a rivedere», come dice lo "spiritello porcello" riferito all'Esorcista quando elenca le sue referenze, ma con tutte le sue ingenuità e imperfezioni rimane una delle pellicole di Burton a cui sono più legato.
La trama vede una giovane coppia, i Maitland (Geena Davis e Alec Baldwin), trovare la morte in un incidente automobilistico. Dopo la loro morte, i due scoprono di essere diventati fantasmi intrappolati nella loro casa di campagna. Quando una famiglia eccentrica, i Deitz, si trasferisce nella loro abitazione, i Maitland cercano disperatamente di spaventarli per farli andare via, ma senza successo. Disperati, i Maitland si rivolgono a Beetlejuice (Michael Keaton), un caotico e sboccato bio-esorcista specializzato nello spaventare i vivi. Tuttavia, la sua presenza si rivela molto più caotica e pericolosa del previsto. Nel frattempo, la figlia adolescente dei Deitz, Lydia (Winona Ryder), una ragazza dark affascinata dalla morte, stringe un legame con i fantasmi, diventando la chiave per risolvere il caos scatenato da Beetlejuice.
Commedia nera, ironica e stravagante, Beetlejuice è il film che definisce lo stile unico e inconfondibile di Tim Burton, un perfetto equilibrio di umorismo macabro e fantasia fiabesca, fatto di scenari gotici, amosfere surreali, e personaggi eccentrici. Considerato un vero è proprio cult dell'epoca, Beetlejuice è il film dove emerge per la prima volta, in tutta la sua potenza, l'immaginario visivo e narrativo che renderà Burton uno degli autori più iconici del cinema moderno.
Nonostante alcune incongruenze narrative, Beetlejuice rappresenta forse il film più spontaneo ed eccentrico di Burton, quello più fresco e divertente (insieme a Mars Attack). Il mondo dell'aldilà è tanto burocratico quanto surreale, con creature grottesche e uffici labirintici che ricordano l’estetica espressionista. E' una celebrazione della fantasia sfrenata del regista capace di fondere il gotico con il pop e il dark con i colori brillanti.
Vincitore di un Oscar per il miglior make-up, gli effetti speciali utilizzati da Burton sono squisitamente artigianali. Il trucco prostetico, combinato con l'uso creativo della stop-motion, uno dei suoi grandi amori, richiama il fascino delle pellicole del passato. Un esempio è nella scena finale, quella in cui la testa di Keaton si riduce sino a divenire minuscola, in cui Burton omaggia addirittura Georges Mélies, pioniere del cinema fantastico e dell'effetto speciale cinematografico.
Ottimo Michael Keaton, con la sua interpretazione folle e irriverente del bio-esorcista, e una giovane Winona Ryder - all'epoca fu amore a prima vista - nel ruolo di Lydia, la giovane dark intrappolata tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Ryder, alla sua prima grande interpretazione, rappresenta la musa perfetta per Burton, incarnando quell’anima gotica che sarebbe diventata uno dei tratti distintivi del regista.
Tim Burton è uno dei registi che ha plasmato profondamente il mio immaginario cinematografico. Purtroppo negli ultimi anni i suoi film non mi hanno entusiasmato. Speriamo bene con il sequel.

Hellbound - Hellraiser II
di Tony Randel
"Hellbound: Hellraiser II" (in Italia è stato aggiunto il sottotitolo "Prigionieri dell'Inferno") è il seguito del capolavoro horror "Hellraiser" di Clive Barker. Uscito nel 1988 tra mille difficoltà produttive, il film, diretto da Tony Randel e scritto da Barker insieme a Peter Atkins, riparte esattamente da dove il primo film si era interrotto, ampliando il terrificante universo dei Cenobiti e spingendo ulteriormente i limiti del macabro.
Kirsty Cotton (Ashley Laurence), sconvolta dagli eventi del primo film, si ritrova ricoverata in un ospedale psichiatrico sotto le cure del dottor Channard (Kenneth Cranham). La ragazza cerca di convincere i medici dell’esistenza dei Cenobiti e della loro dimensione infernale ma si scontra con la loro apparente diffidenza e incredulità. In realtà scopriamo che Channard è un chirurgo sadico ossessionato dal mondo dei Cenobiti, che, dopo aver riportato in vita Julia (Clare Higgins), utilizza Tiffany (Imogen Boorman), una bambina esperta nel risolvere enigmi, per aprire un varco verso la dimensione infernale, trascinando Kirsty e Tiffany in un mondo di terrore estremo e indicibile.
"Hellbound" è un’opera coraggiosa, disturbante e visionaria. Degno seguito del suo predecessore, il film ha il merito di distinguersi esplorando nuovi territori sia narrativi che visivi. Pur mantenendo gli elementi splatter e gore che avevano caratterizzato il primo film di Barker, in "Hellbound" la componente sessuale si attenua, spostandosi nella seconda parte verso un fantasy onirico e delirante - a metà strada tra Labyrinth e gli incubi di Nightmare - per rappresentare la dimensione infernale dei Cenobiti. Un luogo di perversione rappresentato come un labirinto di strapiombi geometrici e deliri architettonici ispirati alle opere di Escher, dove realtà e incubo si fondono in un’esplosione disturbante ma al tempo stesso affascinante.
Quando ho visto per la prima volta questo film, probabilmente di notte su Rai 3, ne rimasi sconvolto per la sua potenza visionaria. Rivedendolo oggi purtroppo escono fuori tutti i limiti di una regia poco convincente e di una sceneggiatura confusionaria. Nonostante tutto per me questo film continua a esercitare un fascino oscuro, capace di catturare e inquietare come poche altre opere del genere.

Hellraiser
di Clive Barker
"Hellraiser", diretto da Clive Barker e uscito nel 1987, è un cult movie che ha segnato profondamente il genere horror e ha dato vita a una lunga saga cinematografica composta, ad oggi, da dieci film - dalla parabola qualitativa alquanto discendente - più il recente reboot del 2022. Tratto dal racconto breve "The Hellbound Heart" (tradotto in Italia come "Schiavi dell'Inferno") scritto dallo stesso Barker, il film si distingue per la sua visione originale e inquietante dell'orrore, discostandosi nettamente dagli stereotipi del genere slasher che dominavano l’epoca.
Scrittore, illustratore e artista poliedrico, l’inglese Clive Barker, ancora prima dell’uscita di “Hellraiser”, era già un nome abbastanza noto nella letteratura horror di quel periodo grazie alla pubblicazione dei Libri di Sangue (Books of Blood), una raccolta di racconti usciti tra il 1984 e il 1985 che avevano catturato l’attenzione di autori come Stephen King, David Cronenberg e James G. Ballard. Nel mondo cinematografico, Barker aveva già avuto qualche esperienza firmando le sceneggiature di "Underworld" e "Rawhead Rex" entrambi diretti da George Pavlou. Tuttavia, insoddisfatto del modo in cui erano stati realizzati, Barker decise di mettersi dietro la macchina da presa per la prima volta con "Hellraiser" determinato a esplorare senza compromessi i temi oscuri e le atmosfere macabre che contraddistinguono il suo lavoro. Ottenuto un contratto con la New World Pictures di Roger Corman, il produttore Christopher Figg mise a disposizione di Barker un budget ridotto, circa un milione di dollari, costringendo il regista e il suo team a essere estremamente creativi nella gestione delle risorse. Nonostante queste limitazioni finanziarie, Barker riuscì a sfruttare al massimo ogni dollaro, utilizzando effetti speciali pratici, girando il film all'interno di una vera casa per mantenere i costi bassi, e affidandosi a un cast di attori principalmente sconosciuti, ma di talento. Pur dovendo affrontare restrizioni imposte dalla censura, "Hellraiser" fu un successo, guadagnando oltre 14 milioni di dollari al botteghino solo negli Stati Uniti.
"Hellraiser" racconta la storia di Frank Cotton, un uomo che, spinto dalla ricerca di esperienze estreme e proibite, entra in possesso della scatola di Lemarchand, un misterioso cubo rompicapo che promette di aprire le porte a piaceri ultraterreni. Convinto di poter accedere a un nuovo regno di sensazioni, Frank risolve il puzzle, ma invece di trovare il piacere che cercava, evoca i Cenobiti (nel film vengo tradotti in Supplizianti), creature demoniache dal look sadomaso che percepiscono il piacere come una forma di tortura estrema. Condannato a un'eternità di sofferenza, Frank viene smembrato e trascinato in una dimensione infernale.
Qualche tempo più tardi, Larry, il fratello di Frank, e sua moglie Julia (Clare Higgins) si trasferiscono nella vecchia casa di famiglia. Durante il trasloco Larry si ferisce alla mano e il sangue cola sul pavimento della soffitta, proprio nel luogo dove suo fratello ha compiuto il rituale prima di scomparire. Questo evento avvia il processo di rigenerazione del corpo di Frank, il quale, all'insaputa del fratello, ha avuto in passato una relazione con sua moglie. Quando Julia scopre che il suo ex amante è ancora vivo, ma fisicamente incompleto, la donna, ancora innamorata di lui, decide di aiutarlo procurandogli il sangue delle vittime che lei stessa attira, sperando di riportarlo alla sua condizione normale e tornare tra le sue braccia. Kirsty (interpretata da Ashley Laurence), che nel racconto è un'amica di Julia mentre nel film diventa la figlia di Larry avuta dalla sua prima moglie, inizia a sospettare dello strano comportamento della sua matrigna. Penetrata all'interno della casa, Kirsty scopre accidentalmente l'orribile segreto nascosto nella soffitta ed entra in possesso della scatola di Lemarchand ritrovandosi a dover affrontare i Cenobiti per salvare se stessa e porre fine al malvagio piano di Frank.
Il film è una viscerale e provocatoria discesa nell'immaginario infernale, popolato da incubi opprimenti, creature demoniache, e fantasie sadomaso. I temi del sesso e della morte si intrecciano in modo indissolubile, esplorando i confini estremi del piacere e del dolore, e sfidando le convenzioni sociali e morali dell’epoca. Affascinato dalla cultura BDSM e influenzato dalla scena industrial degli anni Ottanta, Clive Barker (che solo negli anni successivi farà pubblicamente coming out pur non avendo mai nascosto i suoi gusti sessuali), affronta il tema della sessualità deviata, della perversione e del dolore attraverso un’estetica audace e provocatoria in cui il confine tra piacere e sofferenza diventa davvero labile. I Cenobiti, con le loro catene, spilli e vestiti in lattice, riprendono l'estetica fetish, sadomasochista e bondage, incarnando un’interpretazione disturbante del piacere estremo. Le loro mutilazioni auto-inflitte e i dettagli anatomici grotteschi riflettono un’ossessione per la trasgressione fisica, trasformando il corpo in un terreno di esplorazione e tortura. Personalmente, il Cenobita che mi ha sempre disturbato è quello con il viso deformato e la bocca spalancata da ganci, che batte ripetutamente i denti. È stato un vero incubo della mia adolescenza. Tuttavia, è Pinhead, il Cenobita con gli spilli in faccia interpretato da Doug Bradley, a diventare, sopratutto con i successivi film, una vera e propria icona del cinema horror, alla pari di Freddy Krueger, Jason Voorhees e Leatherface. Pinhead (viene nominato così solo nei sequel successivi) non è un semplice mostro, ma una sorta di demone infernale privo di emozioni umane, che insieme agli altri Cenobiti infligge punizioni eterne a chiunque osi evocarlo. In "Hellraiser" e nel racconto originale, la sua presenza è sullo stesso piano degli altri demoni, ma a partire dal secondo film, diventerà il principale villain della saga.
Nel film diretto da Barker, in realtà il vero "mostro" è Julia, una donna infedele e sessualmente insoddisfatta disposta a tutto, persino uccidere, pur di riportare in vita il suo amante e rivivere la passione travolgente del passato. Julia incarna il lato oscuro del desiderio umano, mostrando come un amore malato e il desiderio di soddisfare i propri impulsi possa degenerare in ossessione, sangue e morte.
Riguardo gli effetti speciali, tralasciando quelli di postproduzione che sembrano posticci e fastidiosi, gli effetti pratici e il makeup di Bob Keen risultano ancora oggi molto validi. La scena della rinascita e ricomposizione del corpo di Frank, con tutta la sua gelatinosa gommosità, rimane una delle sequenze più memomorabili.
In conclusione, "Hellraiser" è un classico del genere horror che merita il suo posto d'onore per l'originalità, la forza visiva e l'influenza duratura che ha avuto sul cinema horror. Una delle opere più innovative e disturbanti del cinema degli anni ottanta.
Prima di concludere un aneddoto riguardo la colonna sonora. Barker saltuariamente frequentava il Forbidden Planet di Londra, all'epoca ancora un piccolo negozio dove si potevano trovare fumetti pulp, horror e roba indipendente. Uno dei clienti abituali era un certo Stephen Thrower, appassionato di horror e weird che aveva letto i racconti di Barker e subito lo riconobbe. Thrower era un musicista che in quel periodo faceva parte dei Coil, il gruppo post-industriale di Balance e Christopherson. I due diventano presto amici e Barker ascoltando la loro musica rimane così folgorato chiedendo ai Coil di comporre la colonna sonora per il film che stava realizzando. I Coil se ne escono con una serie di pezzi oscuri e conturbanti (usciranno in seguito nell'album The Unreleased Themes From Hellraiser) ma la produzione li rifiutò in quanto ritenuti troppo poco commerciali preferendo affidare la colonna sonora a Christopher Young.
Io, da appassionato dei Coil, ogni volta che penso alla scelta che è stata presa precipito nella disperazione.

Schiavi dell'inferno
Clive Barker
"Schiavi dell'inferno" di Clive Barker, noto anche come "Hellbound Heart", è il romanzo breve da cui è stato tratto il film "Hellraiser" del 1987, il primo della lunga saga horror che ha come protagonista Pinhead e gli altri Cenobiti.
Pubblicato in patria nel 1986, il libro, che ha poco più di cento pagine, in Italia è uscito nel 1991, quindi qualche anno dopo il film. A distanza di trent'anni, in un caldo pomeriggio estivo, l'ho riletto con piacere nell'edizione che ho in libreria, ovvero quella della Bompiani con la traduzione di Tullio Dobner. Attualmente il libro si trova fuori catalogo, come quasi tutti i libri di Barker ad eccezione dei due "Libri di Sangue" pubblicati recentemente da Fanucci. Tuttavia non dovrebbe essere difficile recuperare una copia nel mercato dell'usato.
La storia ruota attorno a Frank Cotton, un uomo ossessionato dal piacere estremo e dalla ricerca di nuove emozioni, che entra in possesso di un cubo chiamato "Lemarchand’s Box", una scatola misteriosa in grado aprire le porte di una dimensione parallela dove sarebbe possibile raggiungere picchi di piacere mai provati. Trasferitosi nella casa di famiglia, vuota dopo la morte dei genitori, Frank risolve la combinazione e apre il cubo, venendo raggiunto dai Supplizianti (termine usato anche nel primo film e quindi riproposto giustamente dal traduttore), una sorta di malvagie divinità dall'aspetto terrificante che incarnano un concetto perverso di piacere e sofferenza, i quali lo trascinano nel loro mondo condannandolo a un'esistenza di tormento, torture e dolore. Quando nella casa si trasferiscono Larry Cotton detto Rory, il fratello di Jack, insieme a sua moglie Julia, una donna con cui Jack anni addietro, aveva avuto una relazione, Jack, sapendo che la moglie di suo fratello nutre ancora una passione segreta per lui, cerca di manifestarsi e convincerla a compiere dei sacrifici di sangue che possano permettergli di fuggire dalla sua eterna agonia.
Il libro di Barker è tanto affascinante quanto disturbante. Forse, rispetto ad altri suoi racconti, potrebbe risultare un po' acerbo, ma la storia già contiene tutti quei tratti distintivi dei suoi lavori, come il tema del piacere nel dolore, la perversione sessuale e l'orrore insito nell'animo umano che emergono con potenza, creando un'atmosfera di inquietante seduzione. I quattro protagonisti della storia - oltre a Frank, suo fratello Rory e la moglie di quest'ultimo Julia, c'è anche una loro amica, Kirsty, che avrà un ruolo molto importante nello svolgimento della storia e nel film viene sostituita dalla figlia di Rory - sono caratterizzati molto bene, ognuno con le proprie ombre e fragilità. La complessità delle loro relazioni e delle loro motivazioni personali conferisce profondità alla narrazione, rendendo la discesa nell'orrore ancora più coinvolgente. Julia, in particolare, rappresenta una figura tragica, intrappolata in un matrimonio insoddisfacente e sedotta dalle qualità oscure e pericolose di Frank, tanto da spingerla a compiere atti terribili pur di sfuggire alla monotonia della sua vita. Barker ci mostra come il vero inferno non sia rappresentato solo dai demoni, ma dalla capacità dell'essere umano di distruggere se stesso attraverso il desiderio incontrollato e la mancanza di autoconsapevolezza. Julia non è semplicemente una vittima delle sue pulsioni, ma l'artefice della propria rovina, incapace di riconoscere i limiti che non dovrebbe superare. I Supplizianti o Cenobiti, pur essendo figure terrificanti - veramente cruenti le scene delle torture descritte con ganci e catene che dilaniano la carne - restano sullo sfondo, richiamati solo quando qualcuno decide di varcare il confine tra il noto e l'ignoto. Barker ci avverte del pericolo insito nel cercare di oltrepassare i limiti della nostra umanità, un rischio che può portare alla distruzione personale, proprio come accade a Frank, che, alla ricerca del piacere estremo, finisce per cadere in una trappola mortale.
Un piccolo gioiello perfetto per chi si vuole avvicinare a questo autore. Certo, il fatto che il suo nome sia praticamente scomparso dagli scaffali delle librerie non aiuta. Davvero non si comprende.
Libri
Alien
di Ridley Scott
Ero poco più di un bambino quando mi portarono a vedere Alien al cinema. A metà film, durante l'iconica scena del torace squartato dall'alieno, mi dovettero portare fuori dalla sala terrorizzato e in lacrime. A ripensarci mi pare assurdo che all'epoca un film del genere non sia stato vietato ai minori in Italia.
Alien di Ridley Scott è il film che ha ridefinito i generi della fantascienza e dell'horror, potremmo definirlo il primo fanta-horror moderno, una vera e propria pietra miliare nonché un modello per le produzioni cinematografiche successive.
Partiamo dall'inizio.
La genesi del film risale alla metà degli anni settanta quando lo scrittore Dan O’Bannon, da sempre appassionato di fantascienza e horror, dopo aver lavorato nel film "Dark Star" di John Carpenter venne contattato da Alejandro Jodorowsky per la realizzazione di "Dune". Il progetto fallì miseramente ma da questa esperienza O'Bannon ebbe modo di conoscere numerosi artisti tra cui Moebius, Chris Foss e sopratutto HR Giger e le sue inquietanti opere. Tornato a casa, O'Bannon si rimise al lavoro e, prendendo spunto da racconti di fantascienza e vecchi film degli anni sessanta, insieme all'amico Ronald Shusett scrisse la prima sceneggiatura di Alien. Inizialmente lo script venne rifiutato da tutte le principali case di produzione cinematografiche, ma poi finì nelle mani del regista Walter Hill che, apportando alcune modifiche e aggiungendo il personaggio dell'androide Ash, lo propose ai vertici della 20th Century Fox che era in cerca di una altra storia ambientata nello spazio dopo il successo di "Guerre Stellari". Quelli della Fox avrebbero voluto lo stesso Hill alla regia ma il regista, già impegnato su "I Guerrieri della Notte", preferì dedicarsi solo alla produzione. La regia ricadde sul giovane Ridley Scott, reduce da "I duellanti", il quale abbracciò il progetto con entusiasmo disegnando un dettagliato storyboard che fece lievitare non di poco il budget previsto per il film. H.R Giger venne ingaggiato per le scenografie del film e la realizzazione dello xenomorfo mentre Carlo Rambaldi si occupò degli effetti speciali. Non volendo un cast affermato, dopo una serie di provini, il ruolo di Ripley, ovvero la protagonista, venne affidato a Sigourney Weaver. Le riprese durarono tre mesi e furono tese ed estenuanti. In un set che riproduceva con estremo realismo i claustrofobici corridoi dell'astronave, gli attori vennero sottoposti a una costante pressione per ricreare disagio e tensione. Si narra che nella scena in cui spunta fuori lo xenomorfo gli attori non sapessero bene cosa stava per accadere in modo da rendere più autentico il loro sgomento.
Il film uscì negli Stati Uniti nel maggio del 1979 e a fronte degli 11 milioni spesi ne incassò 185 di milioni nel mondo creando un vero e proprio franchise, fra sequel, prequel e spin-off.
La storia di base è abbastanza semplice e prende spunto da diversi romanzi di fantascienza e film del passato (tra questi il "Mostro dell'astronave" del 1958 ma anche il nostro "Terrore nello spazio" di Mario Bava).
Nel 2122 l'equipaggio di una nave spaziale da trasporto, la Nostromo, viene risvegliato dall'ibernazione durante il viaggio di ritorno verso la terra per indagare riguardo un misterioso messaggio proveniente da un vicino pianeta. Alcuni membri dell'equipaggio scendono sul pianeta scoprendo una enorme astronave aliena abbandonata e all'interno un gran numero di strane uova. Uno dei componenti dell'equipaggio, Kane (interpretato da John Hurt), viene attaccato da una creatura che gli si attacca al suo volto. Rientrati sulla Nostromo, la creatura si stacca da Kane da solo e viene ritrovato privo di vita. Tutto sembra tornato alla normalità quando, durante un pasto, un mostruoso alieno (lo "xenomorfo") fuoriesce violentemente dal torace di Kane, uccidendolo, per poi fuggire via all'interno dell'astronave. La creatura aliena cresce rapidamente, diventando una macchina assassina che caccia l'equipaggio uno a uno. Alla fine sarà la protagonista, Ellen Ripley (Sigourney Weaver), rimasta da sola insieme al gatto Jones, a dover affrontare da sola il mostruoso alieno in un crescendo di tensione e terrore.
Siamo di fronte a uno dei capolavori della fantascienza, un film dotato di una tensione claustrofobica che a distanza di anni non perde il suo impatto viscerale. Alien è uno slasher ambientato in un astronave nello spazio che riprende, non si sa se volutamente oppure in modo inconsapevole, le dinamiche di "Halloween" di John Carpenter uscito un anno prima. La Nostromo è un astronave sporca, buia, a tratti respingente, che anticipa quell'atmosfera cyperpunk degli anni ottanta e che Ridley Scott avrà modo di sviluppare meglio in "Blade Runner", il capolavoro indiscusso della fantascienza.
Un altra pecularietà di "Alien" è quella di presentare un'eroina femminile, sostituendo il tradizionale eroe maschile con una figura forte e indipendente, che sfida e sovverte gli stereotipi di genere del cinema dell'epoca. Questo ribaltameno di ruoli, in cui i personaggi maschili sono messi in una posizione di vulnerabilità mentre la figura della donna, quantomeno della protagonista, emerge come una figura forte e risoluta capace di combattere l'alieno e sopravvivere, appare ancora più evidente nella fatidica scena dello stupro orale di "facehugger" con tanto di inseminazione e gravidanza forzata che da lì a poco porterà al violento parto mortale. La potenza di questa scena non sta tanto nella violenza ma per il fatto che l'alieno utilizza il corpo di un uomo come incubatrice, un processo che è profondamente disturbante e che richiama sia le paure ancestrali della perdita del controllo sul proprio corpo, quanto la paura di perdere quel dominio patriarcale in una società che, da tradizioni cinematografiche, vorrebbe l’eroe maschile avere sempre il comando e il controllo della situazione.
Il film di Ridley Scott è ricco di elementi sessuali che si intrecciano con la sua trama e la sua atmosfera inquietante. Il design dello xenomorfo, creato da H.R. Giger, con la sua testa allungata e la bocca interna che emerge da quella principale, evoca immagini falliche e richiama al contempo la figura di una vagina dentata. Questo simbolismo è ulteriormente amplificato dall'ambientazione: il pianeta e l'astronave, con i loro corridoi sempre più stretti, richiamano un utero opprimente e soffocante, che accentua il senso di intrappolamento.
Una scena particolarmente significativa è quella in cui Ash, l'androide, tenta di uccidere Ripley infilando con forza una rivista pornografica arrotolata nella sua bocca. Questo atto, più che un semplice tentativo di omicidio, assume la connotazione di uno stupro orale, un atto di dominazione sessuale che cerca di ricondurre la donna al suo ruolo tradizionale di genere. Ironico e disturbante è il fatto che questo atto sia perpetrato da un androide asessuato, che vede nello xenomorfo la creatura perfetta, un simbolo della purezza "non offuscato da coscienza, rimorsi, o illusioni di moralità". Infine c'è lei, Ellen Ripley, la più grande eroina cinematografica di sempre, che nella scena finale, indossando solo delle mutandine e una canottiera, affronta l'alieno in uno scontro che unisce tensione ed erotismo. Una immagine entrata nel nostro immaginario che non solo conclude la narrazione con una nota di potenza e resistenza, ma sottolinea anche come "Alien" abbia saputo sfidare le convenzioni del genere, lasciando un'impronta duratura nel cinema e nella cultura popolare.

La notte dei morti viventi
di George A. Romero
La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead), film del 1968 diretto da George A. Romero, è un vero e proprio spartiacque nella storia del cinema horror. Girato in bianco e nero con un budget irrisorio di poco più di 100 mila dollari, il film di Romero segna il passaggio dal gotico della Hammer, al moderno cinema dell'orrore, caratterizzato da un realismo crudo, una critica sociale incisiva e una nuova concezione degli zombie come metafora delle paure collettive.
La storia si svolge in una casa di campagna della Pennsylvania, vicino a un cimitero, dove un gruppo di persone cerca rifugio dagli zombi. Curiosità: il termine 'zombi' nel film non viene mai utilizzato. Noi sappiamo che sono zombi rivedendo il film oggi ma quando il film uscì nelle sale gli spettatori ignoravano chi fossero questi mostri. I protagonisti, muovendosi in uno scenario claustrofobico, tentano di difendersi da queste creature lente ma inesorabili, che si accalcano goffamente ma con intenzioni letali circondando la casa in cui si sono riparati. Solo dalla televisione si viene a sapere che a causa di una radiazione proveniente da una sonda sperimentale tornata dalla spazio i morti stanno risorgendo dalle loro tombe per contagiare i vivi e nutrirsi della loro carne. L'unico modo per fermarli? Bruciarli o sparare alla testa. Il protagonista, interpretato da Duane Jones, è un uomo di colore che, insieme ad altre cinque persone (e una bambina ferita), si trova non solo a combattere gli zombi, ma anche a gestire le tensioni interne del gruppo. Il film culmina in un'escalation di orrore e disperazione e si conclude con il protagonista di colore, l'unico sopravissuto del gruppo, che viene scambiato per uno zombie e ucciso da una squadra di soccorso.
"La notte dei morti viventi" non è il primo film sugli zombie, ma ridefinisce il genere. Mentre nelle pellicole degli anni trenta e quaranta il morto vivente era associato al folklore haitiano e alle pratiche voodoo, nel film di Romero diventa una minaccia apocalittica: un orda priva di intelletto con l'unico scopo di divorare carne umana. Ispirato al romanzo 'Io sono leggenda' di Richard Matheson, questo film stabilisce le basi dello zombie movie contemporaneo, rivoluzionando il genere horror con scene cruenti e violenza, e influenzando film, serie TV, fumetti e videogiochi a venire. Tutto questo con pochi spicci.
Romero dimostra che un film horror non ha bisogno di grandi risorse per essere efficace, ma di idee originali, ispirando una generazione di registi indipendenti a perseguire le proprie visioni creative senza dipendere dai grandi studi cinematografici. La regia di Romero, sebbene acerba, con le sue riprese oblique crea una forte tensione, e l'uso del bianco e nero non solo riduce i costi, ma conferisce al film un'atmosfera di realismo e terrore. La scena in cui gli zombie divorano le budella e gli arti di un malcapitato, oggi, per noi appassionati di cinema horror, può sembrare normale, ma di certo non lo era per il pubblico dell'epoca.
Molti critici e storici cinematografici hanno visto ne "La notte dei morti viventi" una critica contro la società degli anni sessanta, contro la Guerra del Vietnam e il razzismo presente negli Stati Uniti. Una cosa è certa, la morte del protagonista di colore (mi pare sia stato proprio l'attore a voler cambiare la sceneggiatura che prevedeva un lieto fine), all'indomani dell'assassinio di Malcolm X, aggiunge una riflessione sulle tensioni razziali e sulla violenza nella società americana che a distanza di più di cinquant'anni ci appare più attuale che mai.
Un cult movie che ha coniato un genere e continua a influenzare il cinema horror.
Film
Il gabinetto del Dottor Caligari
di Robert Wiene
Il Gabinetto del Dottor Caligari diretto da Robert Wiene nel 1920, è considerato un capolavoro assoluto del cinema espressionista tedesco e una pietra miliare nella storia del cinema horror. Stiamo parlando di un opera immensa e imprescindibile che ogni cinefilo che si rispetti dovrebbe vedere almeno una volta nella propria vita.
Il film racconta la storia di Francis, che narra a un uomo anziano gli inquietanti eventi avvenuti nella cittadina tedesca di Holstenwall. Durante la fiera che si tiene ogni anno in città, un losco e ambiguo personaggio chiamato il Dottor Caligari (Werner Krauss) esibisce al pubblico il suo sonnambulo Cesare (Conrad Veidt), un giovane emaciato dal volto pallido capace, una volta svegliato, di rivelare il passato e il futuro di qualsiasi persona. Francis e un suo amico assistono allo spettacolo durante il quale Cesare predice all'amico di Francis che morirà entro il mattino seguente, fatto che poi accade. Da quel momento la cittadina tedesca è sconvolta da una serie di misteriosi delitti perpetuati proprio dall'inquietante sonnambulo controllato da Caligari. Quest'ultimo si scoprirà essere il direttore di un ospedale psichiatrico che si diletta a eseguire esperimenti sui propri pazienti utilizzando delle tecniche ipnotiche. Non tutto però è come sembra e un colpo di scena nel finale rivela che gli eventi potrebbero essere il frutto della mente disturbata del narratore.
La pellicola di Wiene dopo più di un secolo conserva intatto il suo fascino visivo. Probabilmente, insieme alla forte ambiguità della storia, è proprio l'estetica uno degli elementi più distintivi di questo film. Le scenografie distorte, gli angoli acuti e le ombre pronunciate creano un'atmosfera surreale e onirica, che riflette il tumulto psicologico dei personaggi, il cui trucco pesante e la loro forte gesticolazione, amplifica quel senso di inquietudine e mistero che pervade l'intera pellicola. Manifesto dello stile espressionista che nella Germania degli anni venti del secolo scorso si sviluppò come reazione alle turbolenze sociali e politiche dell'epoca, il film esplora i temi della paranoia, dell'alienazione e della manipolazione mentale e può essere visto come una metafora della sottomissione cieca del popolo tedesco all'autorità. Alcuni critici vedono nel personaggio del Dottor Caligari una rappresentazione del potere dittatoriale che stava avanzando e che da lì a poco avrebbe preso il potere con le conseguenze che tutti conosciamo.
Tralasciando l'aspetto politico quello che più colpisce di questa pellicola è la sua forza visionaria. Le scene sono come dei quadri bidimensionali in cui i personaggi si muovono in una scenografia deformata, spigolosa e irreale all'interno di stanze e ambienti dalle finestre oblique e oggetti sproporzionati oppure in esterni dalla prospettiva falsata e dall'architettura innaturale e contorta. Nel film realtà e apparenza, verità e inganno si intrecciano al punto da non diventare più distinguibili e la scenografia non fa altro che esprimere in modo magistrale il mondo interiore di un folle.



Film visionario e terribilmente attuale che, nonostante sia stato realizzato oltre un secolo fa, è riuscito a influenzare profondamente il cinema moderno, definendo nuovi standard narrativi e stilistici e aprendo la strada al genere horror psicologico e gotico. Il sonnambulo di Wiene, ad esempio - personaggio tragico e affascinante dall'estetica dark post-punk (movimento che si svilupperà sessant'anni più tardi) - è stato un evidente fonte di ispirazione per Tim Burton nel creare il suo Edward Mani di Forbice.
Il "gabinetto del Dottor Caligari" è del 1920, quindi è un film muto e in bianco e nero, che nel corso degli anni è stato più volte restaurato. Si può recuperare - anche su YouTube - in diverse versioni colorate o con differenti colonne sonore. Per chi non lo ha ancora visto e non è avvezzo ai film d'epoca consiglio di sgombrare la mente e con pazienza di immedesimarsi al contesto storico e culturale del periodo. Tenete conto che le espressioni facciali e il linguaggio del corpo degli attori era molto più pronunciato rispetto ai film sonori e questa forte caratterizzazione ai giorni d'oggi potrebbe risultare quasi ridicola.
Mente aperta e attenzione ai particolari e all'estetica.

Viaggio nella Luna (Le Voyage dans la Lune)
di Georges Méliès
Le Voyage dans la Lune del 1902 è un cortometraggio realizzato da Georges Méliès che viene considerato uno dei primi film realizzati della storia del cinema. Con una durata di circa quindici minuti, questo cortometraggio muto e in bianco e nero (anche se esistono versioni colorate) è sicuramente il primo film di fantascienza, e, per il periodo storico, rappresenta un capolavoro di innovazione tecnica e immaginazione narrativa.
La trama, ispirata dai romanzi di Jules Verne e H.G. Wells, segue un gruppo di astronomi che costruiscono un razzo e intraprendono un viaggio avventuroso verso la luna. Una volta arrivati sulla superfice lunare il gruppo viene catturato dagli abitanti del pianeta, rappresentati come degli indigeni, ma riescono a scappare e a ritornare sulla terra. Una delle scene più iconiche del cinema mondiale è l'atterraggio del razzo, che si schianta nell'occhio antropomorfo della luna, un’immagine che è diventata un vero e proprio simbolo della settima arte.
George Méliès, illusionista e prestigiatore parigino, rimase così affascinato dall'invenzione della cinepresa dei fratelli Lumière nel 1892, che rispetto ai primi corti dell'epoca - la ripresa dell'arrivo di un treno alla stazione, un bambino che gioca con una lente di ingrandimento, e in genere spezzoni di vita quotidiana - fu il primo a utilizzare questa invenzione in modo del tutto innovativo e creativo.
Le Voyage dans la Lune non è il primo dei suoi corti, ne ha realizzati più di un centinaio - tra questi Le manoir du diable del 1896 che viene considerato il primo film dell'orrore della storia del cinema - ma sicuramente è il film più significativo di Georges Méliès in quanto contiene tutti quei trucchi cinematografici che per l'epoca erano rivoluzionari. E' il cinema delle attrazioni in cui Méliès usa per la prima volta sovrapposizioni, dissolvenze e tecniche di stop-motion per creare effetti visivi con l'intento di sorprendere il pubblico dell'epoca. Il design scenografico è altrettanto impressionante, con fondali dipinti a mano e costumi elaborati che contribuiscono a un'atmosfera fantastica e onirica.
Il film non si limita a essere un esercizio di stile tecnico ma ha una sua struttura narrativa ben definita. Una storia che, nella sua semplicità e un forte legame con la performance teatrale umoristica, apre la strada allo sviluppo del cinema come mezzo di narrazione visiva.
Prima opera cinematografica a conoscere un successo mondiale, questo piccolo capolavoro oggi apprezzato da cinefili e amatori del genere, ha il merito di essere il capostipite di un genere che proprio con questo film ha mosso i suoi primi passi.
Per chi fosse interessato consiglio la visione del film Hugo Cabret di Martin Scorsese che in parte racconta la creazione e il montaggio del film, descrivendo la genialità e l'innovazione di Georges Méliès.

Carmilla
Joseph Sheridan Le Fanu
Un vero gioiello questo volume pubblicato dalla Rebelle nel 2023 che ripropone in una elegante edizione Carmilla, il celebre racconto di Sheridan Le Fanu, splendidamente illustrato da Isabella Mazzanti.
Pubblicato per la prima volta nel 1872, "Carmillla" è una affascinante storia di vampiri che precede di circa venticinque anni il "Dracula" di Bram Stroker.
Di questo breve romanzo conservo una vecchia edizione tascabile della Sellerio ma dopo aver sfogliato il libro della Rebelle non ho potuto fare a meno di accoglierlo nella mia libreria e di rileggermi questo classico della letteratura gotica.
La trama è raccontata dal punto di vista di Laura, una giovane donna che vive in un castello isolato in Stiria con suo padre. La loro tranquilla vita viene sconvolta quando una carrozza ha un incidente vicino al loro castello, e una giovane donna di nome Carmilla viene temporaneamente affidata alle loro cure.
Laura e Carmilla sviluppano rapidamente una stretta amicizia e ammirazione reciproca, ma qualcosa non va. Laura inizia a soffrire di sogni disturbanti e debolezza fisica oltre a notare comportamenti strani e inquietanti nella sua amica. Man mano che la storia si sviluppa, Laura scopre che Carmilla è in realtà una vampira che ha vissuto per secoli nutrendosi di giovani donne.
Uno degli aspetti più sorprendenti di "Carmilla" è il modo in cui Le Fanu affronta il tema della sessualità. La relazione tra Laura e Carmilla è carica di sottintesi erotici, un elemento audace per l'epoca vittoriana in cui il libro è stato scritto. Questa componente aggiunge una profondità psicologica alla storia creando una costante atmosfera di tensione e desiderio.
Carmilla è una figura enigmatica e complessa che seduce e ammalia. La sua ambiguità morale e il suo comportamento manipolativo la rendono uno dei vampiri più intriganti e affascinanti della letteratura, e la sua figura ha ispirato numerosi adattamenti cinematografici e televisivi, oltre a opere letterarie successive.



Questa nuova edizione del racconto di Le Fanu è impreziosita dalle numerose illustrazioni di Isabella Mazzanti il cui stile si adatta perfettamente alla atmosfere inquietanti e decadenti del romanzo. Le tavole, disegnate a matita e carboncino, sono prevalemente in bianco e nero, con degli inserti rossi che evidenziano alcuni dettagli (dei fiori, degli uccelli, orpelli nel vestiario) e ovviamente il sangue che ci viene presentato in maniera originale come un intreccio di filamenti.
Un edizione che non può mancare nella libreria di ogni appassionato del genere.
Libri
Nosferatu
di F. W. Murnau
Aspettando Eggers mi sono voluto rivedere il Nosferatu di Murneau.
Capolavoro dell’espressionismo tedesco, liberamente ispirato al romanzo "Dracula" di Bram Stroker, il film viene proiettato per la prima volta a Berlino nel 1922, e presenta uno dei primi vampiri della storia del cinema.
Negli ultimi decenni il film è stato più volte restaurato, con l’aggiunta di qualche sequenza in più e una nuova colonna sonora - il film è muto e i dialoghi avvengono con le didascalie. Attualmente su YouTube si può apprezzare sia la versione in bianco e nero che quella virata in diversi toni di colore. Io mi sono visto quest'ultima che è quella orginale dell'epoca.
Figura chiave nella realizzazione del film è stato Albin Grau, eclettico artista affascinato dall'occulto e dal soprannaturale, che aveva aperto una piccola casa di produzione cinematografica tedesca, la Prana-Film, con l'intenzione di realizzare un film su Dracula, il romanzo di Stroker scritto venticinque anni prima. Nonostante non avesse ottenuto i diritti, Grau insieme al regista Friedrich Wilhelm Murnau - che aveva già realizzato una manciata di film ed era anche lui ammaliato dalla figura del vampiro - decise comunque di realizzare un film sul romanzo di Stroker, cambiando i nomi dei personaggi, le ambientazioni e alcune parti della trama. Così, il conte Dracula divenne il conte Orlok, Jonathan Harker divenne Thomas Hutter e invece della Transilvania e Londra la storia venne ambientata nei Carpazi e a Wisborg, città portuale tedesca immaginaria. Inoltre venne eliminato il personaggio del cacciatore di vampiri Van Helsing mentre la presenza di Nosferatu venne associata a una epidemia di peste propagata dai topi che accompagnano il vampiro al suo arrivo in città. Tutto inutile. A seguito dell'enorme successo del film alla sua uscita, nel 1925 la vedova di Stoker intentò un processo per plagio e violazione dei diritti, vinse la causa e con il risarcimento mandò in banca rotta la neonata casa di produzione ottenendo la distruzione di tutte le copie del film. Fortunatamente una o più copie finirono nelle mani di collezionisti e archivi cinematografici evitando in questo modo la scomparsa di questo capolavoro del cinema surrealista tedesco. La vedova di Stoker avrebbe poi venduto i diritti del romanzo per uno spettacolo teatrale negli Stati Uniti riadattato poi nel film Dracula del 1931 con Bela Lugosi nel ruolo del vampiro. Ma questa è un altra storia.
Nel film di Murnau il ruolo del Conte Orlok venne affidato a Max Schreck, un attore teatrale dell'epoca, che a causa del suo comportamento sul set e il fatto che il suo nome tradotto sia "Massimo Terrore" ha alimentato la leggenda che si trattasse di un vero e proprio vampiro - nel 2000 è stato girato un film chiamato L'ombra del Vampiro che parla proprio di questa bislacca diceria. Un altra credenza narra che Max Schreck non prese mai parte al film e che a interpretare il conte Orlok fosse Murnau stesso. Tralasciando questi curiosi aneddoti la performance dell'attore rimane straordinaria e indimenticabile. La sua presenza sullo schermo è tanto inquietante quanto magnetica. La sua figura ricorda quella di un pipistrello, calvo con i denti da roditore, le orecchie lunghe e le unghie arcuate, mentre i suoi movimenti rigidi e sospetti, incarnanano alla perfezione il terrore e il fascino del personaggio, contribuendo in modo significativo all'impatto emotivo del film. Nosferatu è animalesco, repulsivo, e disperato. E' un vampiro che si allontana nettamente dalla figura "romantica" e affascinante del conte Dracula. Condannato a una mortalità sempre uguale a se stessa, Nosferatu esprime l'angosciante disperazione della sua infinita solitudine.

Una delle caratteristiche più distintive del film di Murneau è la sua atmosfera cupa e inquietante, creata attraverso un uso innovativo dell'illuminazione, delle ombre e della fotografia. Utilizzando la scenografia realizzata da Grau (quest'ultimo autore anche dei costumi, degli storyboard e del materiale promozionale - è sua l'illustrazione qui sopra) Murnau enfatizza l'aspetto gotico della storia, creando un'ambientazione surreale e spettrale. Rispetto ad altri film espressionisti dell'epoca, uno fra tutti Il gabinetto del dottor Caligari, Murneau non deforma la realtà ma evoca la paura e il terrore attraverso il paesaggio, la natura e il mondo animale (un lupo che spaventa i cavalli, un insetto catturato da una pianta carnivora) oppure utilizzando la tecnica dello stop motion per dare al vampiro dei movimenti innaturali (l'arrivo della carrozza guidata dallo stesso Orlok oppure la scena in cui il vampiro carica le bare sul carro) che oggi possono sembrare espedienti ridicoli ma che all'epoca risultavano assai inquietanti.
La sequenza in cui l'ombra del vampiro si distorce sulle pareti (o sulle persone) e le sue mani sembrano prolungarsi è forse una delle scene più rappresentative del film di Murnau. Senza ombra di dubbio (scusate il voluto gioco di parole) il Nosferatu di Murnau rimane uno dei più grandi capolavori della settima arte che, nonostante gli evidenti segni del tempo, continua da oltre un secolo a ispirare registi e appassionati di cinema horror.