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martedì, 1 luglio 2025
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Il posto delle fragole

di Ingmar Bergman

Scrivere qualcosa su un film di Ingmar Bergman, mi da sempre una sensazione di inadeguatezza. Se il film in questione è Il posto delle fragole, la soggezione cresce ancora di più.
Senza elencare tutti i premi e i riconoscimenti (li potete trovare facilmente su Wikipedia), dirò solo che Il posto delle fragole è un capolavoro senza tempo. Un’opera intima e introspettiva che cattura quel momento fragile della vita in cui si compie un bilancio esistenziale, si guarda indietro e si cerca di mettere ordine al disordine. Un poema visivo che mescola dolcezza e malinconia, sogno e realtà, vita e presagio di morte. Nulla è mai perduto e Bergman ce lo insegna.

Il professor Isak Borg (Victor Sjöström), medico in pensione, deve recarsi a Lund per ricevere un prestigioso riconoscimento accademico. Invece di prendere l’aereo, decide di affrontare il viaggio in auto, insieme alla nuora Marianne (Ingrid Thulin). Quello che inizia come un semplice tragitto si trasforma presto in un pellegrinaggio interiore: lungo la strada, Isak rivive sogni, ricordi d'infanzia e incontri simbolici che lo costringono a fare i conti con se stesso, con le sue scelte, con l’aridità emotiva che ha lasciato dietro di sé. Tra una sosta e l’altra — una casa che non c’è più, tre giovani autostoppisti, una coppia che litiga — il viaggio si fa via via più onirico e personale, fino a diventare una resa dei conti con la propria memoria. E in fondo, forse, anche una timida riconciliazione col passato.

Nonostante i simbolismi, presenti come in tutti i film di Bergman, Il posto delle fragole è uno dei suoi film più accessibili, forse uno dei più lirici, delicati e coinvolgenti. 
E' un viaggio on the road alla ricerca del tempo perduto, un viaggio interiore tra sogni inquieti, ricordi sbiaditi, persone amate e perdute.
L'incubo iniziale è magistrale. Un incubo, avuto la notte prima di partire, in cui il nostro protagonista vaga in una città silenziosa, deserta e illuminata, dove il tempo ha smesso di funzionare. L'orologio sul lampione è privo di lancette così come il suo orologio da tasca. Si sente un tichiettio rimbombante - e nella mia testa subito echeggia Times di pinkfloidiana memoria. Compare un uomo con un cappello di spalle. Quando si volta l'uomo, senza occhi né bocca, cade a terra afflosciandosi su se stesso. Poi, in un’atmosfera irreale, un carro funebre trainato da due cavalli, senza alcun cocchiere si schianta contro un lampione, rovesciando una bara sul selciato. Quando Borg si china per esaminare la bara aperta, una mano lo afferra tirandolo a sé, riconoscendo nel volto del morto il proprio volto. Più tardi, durante il viaggio, Borg confiderà alla nuora che da qualche tempo fa sogni strani, come se volesse dire a se stesso qualcosa che non vuole ascoltare da sveglio. Che è morto pur essendo vivo.
Il protagonista, interpretato dal leggendario Victor Sjöström (regista del capolavoro Il carretto fantasma, che Bergman considerava un mentore), è un anziano medico in pensione, chiuso in una corazza di buone maniere e misantropia. Una sorta di Scrooge dickensiano, ma più trattenuto ed educato.  Il suo nome, "Isak Borg", tradotto dallo svedese può suonare come “fortezza di ghiaccio” e condivide le iniziali con lo stesso Bergman. Ma il regista ha dichiarato più volte che Borg non è un suo alter ego, bensì un ritratto del padre. Un uomo freddo, distante, che ha sacrificato il contatto umano in nome di un’immagine rassicurante di sé. La nuora, personaggio bellissimo e sfumato, lo inchioda fin da subito: “un egoista che si nasconde dietro la sua bonarietà e i suoi modi raffinati.”

Il viaggio da Stoccolma a Lund è solo un pretesto per raccontare una vita intera. In ogni sosta, Borg incontra qualcosa che lo riguarda: la giovinezza perduta, l’amore non vissuto, il rancore che ha lasciato crescere nei rapporti familiari, la madre che è ancora viva ma più fredda di lui, il figlio Evald bloccato tra il cinismo e una tristezza trattenuta.

Ma il film non è un funerale. È un gesto di riconciliazione. La parabola di Isak è quella di un uomo che si guarda finalmente allo specchio, senza schermi. Scopre di essere ancora vivo. Scopre che la maschera che ha indossato per tutta la vita non era una protezione, ma una prigione. E che forse, alla fine, si può ancora sussurrare una parola gentile, regalare un gesto di tenerezza, lasciare uno spiraglio aperto.

Il finale è pieno di grazia. Isak conversa con la governante, quella figura ruvida e amorevole che gli è rimasta accanto come un’ombra fedele. Lei gli dice, con un sorriso: "Lascio la porta socchiusa. Se ha bisogno di qualcosa, sa dove trovarmi". E forse è lì, in quella frase semplice, che il professor Borg trova finalmente il suo posto delle fragole: un luogo non reale, ma emotivo. Un angolo della memoria in cui poter riposare, senza più difese.

Girato in un bianco e nero straordinario che esalta i contrasti e la densità degli spazi, Il posto delle fragole è diretto con mano magistrale, scritto con delicatezza e lucidità, interpretato con una profondità rara.
Un capolavoro che riesce a essere profondo con leggerezza.
Da rivedere a distanza di anni.

Film
Drammatico
Svezia
1957
Retrospettiva
venerdì, 20 giugno 2025
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Le notti di Cabiria

di Federico Fellini

Le notti di Cabiria di Federico Fellini è probabilmente il film che ha consacrato Giulietta Masina come una delle attrici più straordinarie del nostro cinema. Un piccolo clown malinconico, fragile ma testardo, che cammina in equilibrio sul bordo di una Roma notturna e disperata. Tra neorealismo e poesia malinconica, il film, girato nel 1957, ha vinto l’Oscar come miglior film straniero, il secondo consecutivo per Fellini dopo La strada, ed è stato scritto a sei mani da Fellini insieme a Ennio Flaiano e Pier Paolo Pasolini.

La storia ha per protagonista una prostituta romana di periferia che si fa chiamare Cabiria (Giulietta Masina), piccola donna fiera e ostinata, abituata a cavarsela da sola tra bordi di strada e sogni a metà. Ingenua ma non stupida, Cabiria attraversa la notte romana in cerca di qualcosa che assomigli all’amore, o almeno a una tregua dalla solitudine. Rischia di essere uccisa da un amico che la deruba, viene umiliata, derisa, illusa, ma ogni volta si rialza, come se il mondo non fosse riuscito a spegnerle del tutto la speranza. Il film segue le sue peregrinazioni tra clienti volgari, attori vanitosi, santoni improbabili e uomini che promettono una vita nuova. Finché, nel finale, anche l’ultima illusione si spezza. Ma Cabiria, ancora una volta, resta in piedi.

Nonostante Fellini fosse già un regista affermato e riconosciuto a livello internazionale, Le notti di Cabiria ebbe diversi problemi di produzione e distribuzione. Il motivo? La protagonista è una prostituta, figura che nel cinema italiano degli anni ’50 era ancora un tabù. Eppure, sarà proprio questa figura marginale e scomoda a regalare al cinema uno dei suoi personaggi femminili più profondi e indimenticabili. Cabiria è interpretata da Giulietta Masina, attrice feticcio e compagna di vita di Fellini, che con la sua mimica candida e quegli occhi sempre sull’orlo delle lacrime, disegna il ritratto di una donna che vive sospesa tra illusione e disincanto. È sola, ingenua, spesso derisa, ma in lei brucia una vitalità indomita. Si rialza sempre, anche quando la vita la schiaccia. Con un sorriso fragile, forse illuso, ma pieno di speranza. Il personaggio di Cabiria era già apparso brevemente ne I vitelloni, ma è qui che prende forma piena, immersa in una Roma notturna e sottoproletaria, resa viva anche grazie ai dialoghi scritti da Pier Paolo Pasolini, che dona al film un realismo crudo e poetico. Cabiria batte il marciapiede insieme ad altre colleghe, ma sotto la corazza ruvida nasconde un animo gentile, il desiderio di essere amata, la voglia di riscatto.
Il film si apre con la scena in cui Cabiria viene buttata nel fiume dal suo fidanzato, che le ruba la borsetta con i risparmi. È l’inizio di un percorso a tappe, una serie di episodi apparentemente slegati, ma uniti dal filo rosso della disillusione. L’incontro con un famoso attore (interpretato da Amedeo Nazzari), l’episodio al santuario del Divino Amore dove, spinta dalla fede popolare, chiede alla Madonna di cambiare vita, e la struggente scena del teatro, dove viene ipnotizzata da un illusionista e si lascia andare davanti al pubblico, rivelando, tra le risate generali, la sua solitudine e il desiderio disperato di amore.

Le notti di Cabiria è un film ancora legato al neorealismo e lontano dal Fellini surreale e onirico, ma capace di fornire un sincero affresco di una donna sbandata, sola, fuori dal tempo e dal centro, eppure tenacemente viva. Un ritratto femminile che commuove senza mai diventare patetico, che graffia senza retorica. Cabiria è l’emblema di chi, nonostante tutto continua a cercare, a credere, a camminare. E quel sorriso finale, tra le lacrime, è una delle immagini più struggenti e luminose della storia del cinema.

Film
Drammatico
Italia
1957
martedì, 3 giugno 2025
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Il settimo sigillo

di Ingmar Bergman

Il settimo sigillo è probabilmente il film più conosciuto di Ingmar Bergman. Non necessariamente il più intimo né il più complesso, ma di certo il più rappresentativo. L’opera che ha consacrato il regista svedese sulla scena internazionale e che ha impresso alcune delle sue immagini più potenti nell’immaginario collettivo.
La partita a scacchi con la morte, i paesaggi spogli battuti dal vento, lo sguardo inquieto dei protagonisti, tutto in questo film è diventato simbolo, omaggiato e parodiato fino a farsi mito.

Nel cuore di un Medioevo devastato dalla peste e dalla disperazione, il cavaliere Antonius Block (Max von Sydow), insieme al suo fedele scudiero (Gunnar Björnstrand), fa ritorno in Svezia dopo anni di crociate. Ma ad attenderlo sulla spiaggia non c’è la pace, bensì la Morte in persona, venuta a reclamare la sua anima. Deciso a guadagnare tempo per trovare un senso all’esistenza e alla fede perduta, il cavaliere sfida la Morte a una partita a scacchi. Il loro duello diventa il filo conduttore di un viaggio attraverso un paesaggio desolato e simbolico, popolato da contadini superstiziosi, flagellanti, attori erranti, donne accusate di essersi concessa al diavolo e uomini senza Dio. Un pellegrinaggio terreno e spirituale, tra la paura dell’Apocalisse e il desiderio di redenzione.

Il settimo sigillo nasce come trasposizione cinematografica di un’opera teatrale scritta dallo stesso Bergman per i suoi studenti, ispirata agli affreschi delle chiese contadine svedesi, dove la Morte danza con i vivi accompagnandoli in silenzio verso la fine.
Non stupisce, quindi, che il film porti con sé un’impronta teatrale, fatta di dialoghi intensi e situazioni emblematiche, quasi da sacra rappresentazione. A tratti sembra di assistere a un dramma shakespeariano, ma più spoglio, più essenziale, e soprattutto più esistenziale.
Il protagonista, Antonius Block, non è l’eroe tragico, ma un uomo stanco, che si interroga sul senso dell’esistenza e sulla presenza – o assenza – di Dio, che si chiede se la vita sia solo un caso, una parentesi prima del nulla. Il suo ritorno dalle crociate non ha nulla dell’epico, è il viaggio di un’anima svuotata, che cerca risposte in un mondo in cui la fede è diventata fanatismo, la peste divora i corpi e la paura brucia le streghe. E intorno a lui si muovono figure che sembrano simboli viventi, Lo scudiero cinico e disilluso, la coppia di attori di strada pieni di speranza, il fabbro e la moglie grotteschi, la ragazza muta che solo davanti alla fine ritrova la parola. Sembra quasi un mazzo di tarocchi (il cavaliere, la morte, il saltimbanco, la vergine, etc), ognuno con il suo archetipo da incarnare. Tutti parlano, a modo loro, dell’essere umani.
La partita a scacchi non è solo la scena più celebre del film, è il cuore della pellicola, una lunga sfida contro il nulla, un tentativo disperato di rinviare l’appuntamento con la fine e di trovare qualche indizio sul senso dell’esistenza. La morte, col suo volto pallido e impassibile, gioca ma non rivela nulla. Ascolta, sorride, fa il suo lavoro. E il cavaliere, nel suo bisogno disperato di credere in qualcosa, non ottiene altro che il silenzio.
Perché questo film non consola, non offre risposte, non apre spiragli. Al massimo, fa spazio al dubbio. E ci mette davanti a un’idea scomoda, che l’unica vera risposta potrebbe essere il nulla.
Non è un film perfetto, e non lo vuole essere. È freddo, a tratti distante. Non ti prende per mano, non ti commuove facilmente. Ma ti resta dentro. Ti interroga. E magari non subito, ma dopo un po’ ti accorgi che ti ha lasciato addosso qualcosa.
Dal punto di vista visivo è straordinario. La regia è rigorosa e precisa, la fotografia in bianco e nero di Gunnar Fischer è qualcosa che non si dimentica. Il paesaggio svedese sembra scolpito nella pietra, e riflette alla perfezione l’animo inquieto dei personaggi. I volti, le ombre, i contrasti, tutto ha un peso, tutto racconta qualcosa.
Straordinari gli attori, su cui spicca un giovane Max von Sydow, il cui volto scavato riesce a restituire tutta la malinconia e la disperazione del cavaliere. Ma è anche impossibile dimenticare la maschera inquietante e compassata della Morte, interpretata da Bengt Ekerot, diventata icona della settima arte – chissà se Marty Feldman si sia ispirato a lui per il suo Igor, ovviamente in chiave comica.

Il settimo sigillo è un film figurativamente magnetico, stratificato. Pieno di simboli, riferimenti religiosi, allegorie medievali. Bergman prende l’arte sacra, trasformando le paure di un’epoca in domande universali. Un film pieno di metafore e profondamente esistenzialista che ci ricorda che è umano cercare risposte - e cedere alla religione e al fanatismo per trovare conforto e un senso di appartenenza - ma che in fondo ognuno di noi è destinato, prima o poi, a guardare negli occhi la morte, quindi tanto vale nel frattempo vivere con leggerezza e magari assaporare delle fragole appena raccolte.
Vabbè, detto questo, il prossimo film me lo scelgo un pò più leggero.

Film
Drammatico
Storico
Fantastico
Svezia
1957
Retrospettiva

© , the is my oyster