
Il dottor Jekyll (1931)
di Rouben Mamoulian
Il 1931 non è solo l’anno in cui la Universal dà il via al filone dei Monster Movie con Dracula e Frankenstein, ma anche quello in cui la Paramount produce Il dottor Jekyll (Dr. Jekyll & Mr. Hyde), uno degli horrror più interessanti e innovativi del periodo. Ispirato al celebre racconto di Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, il film diretto Rouben Mamoulian è noto per aver aperto la prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia ed essere il primo horror a vincere un Oscar.
Il dottor Henry Jekyll (Fredric March) è un brillante scienziato londinese, convinto che l’animo umano sia diviso tra bene e male. Determinato a dimostrare la sua teoria, sviluppa un siero capace di separare queste due nature, trasformandolo nel crudele e animalesco Edward Hyde. Inizialmente, Jekyll crede di poter controllare il suo alter ego, ma Hyde inizia a manifestarsi sempre più spesso, rivelando una violenza crescente. Mentre il rispettabile Jekyll è devoto alla sua fidanzata (Rose Hobart), il feroce Hyde si accanisce su Ivy Pearson (Miriam Hopkins), una giovane prostituta che aveva salvato da un’aggressione prima ancora della sua metamorfosi. Con il passare del tempo, la linea tra scienziato e mostro si assottiglia sempre di più, trascinando Jekyll in un vortice di orrore e distruzione che lo condurrà a un tragico epilogo.
Il film di Mamoulian è un’opera visivamente straordinaria, che si distacca notevolmente dalle altre pellicole dell’epoca per la sua messa in scena. Basti pensare alla lunga sequenza iniziale con la soggettiva di Jekyll, che culmina con la sua immagine nello specchio, per comprendere sia la bravura tecnica del regista che la sua volontà di coinvolgere lo spettatore, anticipando il tema centrale dell’identità e del doppio. Notevoli anche la fotografia e le scenografie espressioniste nei vicoli notturni di Londra. La trasformazione di Jekyll in Hyde, realizzata con transizioni, dissolvenze fluide e un ingegnoso gioco di filtri cromatici e luci (un effetto speciale che Mario Bava riproporrà ne La maschera del Demonio), resta una delle più impressionanti dell’epoca. Fredric March, che per questo film vince l'Oscar come miglior attore protagonista, ci regala una magistrale interpretazione. Il suo Jekyll è un uomo tormentato, affascinante e razionale, mentre il suo Hyde è un essere dall’aspetto scimmiesco, dotato di forza sovrumana, agilità e risata diabolica, governato da istinti primordiali e impulsi sessuali.
Ed è proprio la sessualità uno dei temi dominanti nel film di Mamoulian. Prodotto poco prima dell’entrata in vigore del Codice Hays, Il dottor Jekyll affronta senza troppi filtri il desiderio represso e le conseguenze della sua liberazione incontrollata. Jekyll, uomo rispettabile e devoto alla fidanzata Muriel, è frustrato dall'attesa del matrimonio, mentre Hyde, che incarna la sua parte più istintiva e violenta, libera la sua sessualità repressa su Ivy Pearson, specchio della fragilità e dell’ipocrisia del protagonista, trasformandola in un oggetto di dominio e sopraffazione. La scena in cui Ivy Pearson cerca di sedurre Jekyll è ancora oggi carica di tensione erotica, mentre quella in cui Hyde costringe Ivy a sedersi sulle sue ginocchia e la accarezza mentre lei, visibilmente terrorizzata, cerca di mantenere un sorriso, continua a disturbare con la stessa intensità. Sono queste le scene tagliate dal codice censorio quando il film fu rieditato nel 1936. Fortunatamente, queste sequenze furono poi reinserite nelle edizioni home video.
Il dottor Jekyll di Mamoulian resta uno dei migliori adattamenti della storia del cinema. Un film elegante, terrificante e modernissimo per il suo tempo, che trasforma la storia di Stevenson in un incubo espressionista di identità frantumate.
Film
Frankenstein (1931)
di James Whale
Nel 1931, dopo il successo di Dracula con Bela Lugosi, Carl Laemmle Jr., capo della produzione Universal, decise di puntare ancora sull'horror, portando sul grande schermo Frankenstein, ispirato all’omonimo romanzo gotico di Mary Shelley. Il progetto fu inizialmente affidato a Robert Florey, che si basò più sull’adattamento teatrale del 1929 di Peggy Webling che sul libro originale. Ma la sua visione non convinse lo studio, e la regia passò a James Whale, un britannico con un background teatrale che mantenne l’impronta espressionista di Florey – ispirata in particolar modo a Il gabinetto del dottor Caligari – ma la arricchì con maggiore profondità psicologica e una messa in scena innovativa.
La scelta del protagonista fu altrettanto travagliata. La Universal avrebbe voluto Bela Lugosi, ma l’attore rifiutò il ruolo, infastidito all’idea di interpretare un mostro muto e irriconoscibile sotto il trucco. La parte andò così a Boris Karloff, un attore inglese fino ad allora poco noto, che trovò nella creatura il ruolo della vita. Grazie al meticoloso lavoro del truccatore Jack Pierce – che concepì la creatura con la fronte piatta, gli elettrodi sul collo, le palpebre pesanti e il portamento goffo – nacque l’iconica figura del mostro di Frankenstein, un’immagine destinata a diventare immortale e a influenzare tutte le versioni successive.
La storia non è nota, di più. Il dottor Henry Frankenstein, ossessionato dall’idea di sconfiggere la morte, si rinchiude nel laboratorio di un castello con il suo fidato assistente Fritz, riuscendo a dare vita a una creatura assemblata con parti di cadaveri, utilizzando l’elettricità di un temporale. Ma il suo esperimento sfugge rapidamente al controllo. Il mostro, confuso e impaurito, viene maltrattato e imprigionato, fino a ribellarsi e fuggire. La sua presenza semina il panico nel villaggio, culminando in un drammatico confronto con il suo stesso creatore e con la folla inferocita che lo bracca nel vecchio mulino, in un finale tanto tragico quanto iconico.
Il film fu un successo immediato, sia di pubblico che di critica. Impressionò gli spettatori e consacrò Whale come uno dei grandi registi dell’epoca. Sebbene l'idea dello scienziato folle, l’assistente gobbo, il laboratorio gotico pervaso da scariche elettriche, la folla inferocita armata di torce, e il rogo finale, oggi ci sembrano dei clichè per quante volte sono state riproposte nel corso degli anni, all'epoca erano pura innovazione.
Sono molte le differenze con il romanzo della Shelley. Inanzitutto nel libro il racconto della creazione del mostro è appena accennato, mentre nel film avviene nel laboratorio dello scienziato che usa l'elettricità per dare vita alla creatura. Il mostro, che nel romanzo impara a parlare e riflette sulla propria esistenza, nel film è un essere infantile, incapace di comprendere il mondo che lo rifiuta. L’idea che la creatura sia stata resa violenta da un cervello criminale trapiantato per errore è un’invenzione degli sceneggiatori. Insomma, ogni adattamento successivo, compreso il geniale Frankestein Junior, si rifanno al film di Whale.
La creatura di Frankenstein è una copia distorta del suo creatore, una manifestazione della sua ossessione e del suo desiderio di sfidare Dio. Eppure, è l’umanità a rivelarsi la vera carnefice: prima con la crudeltà dell’assistente Fritz, poi con il tentativo del dottor Waldman di sopprimerla, infine con la caccia all’uomo scatenata dagli abitanti del villaggio. La scena della bambina annegata dal mostro (censurata nel 1937 dal Codice Hays) è un momento di innocenza tragicamente fraintesa e punita, che ancora oggi conserva una potenza emotiva devastante. Per attenuare il possibile impatto sul pubblico, la Universal fece inserire un prologo in cui Edward Van Sloan (l'attore che nel film interpreta il dott. Waldman) avverte gli spettatori: «Vi emozionerà, forse vi colpirà, potrebbe anche inorridirvi! Se pensate che non sia il caso di sottoporre a una simile tensione i vostri nervi, allora sarà meglio che voi... be', vi abbiamo avvertito!». Un piccolo stratagemma per preparare gli spettatori dell’epoca a un film che, nonostante le sue concessioni, poteva davvero impressionare.
A più di novant’anni dalla sua uscita, Frankenstein non è solo un classico dell’horror, ma un pilastro della storia del cinema. Ha ridefinito l’immagine del mostro e introdotto l’archetipo dello scienziato pazzo, trasformando la creatura di Mary Shelley in un’icona pop immortale. Ancora oggi, quando pensiamo a Frankenstein, non immaginiamo il personaggio del romanzo, ma il volto di Boris Karloff, sepolto sotto il trucco di Jack Pierce.
Il successo del film diede vita a numerosi sequel, a partire da La moglie di Frankenstein del 1935, che molti considerano persino superiore all’originale. Ma questa è un’altra storia.

Dracula
di Tod Browning
È curioso pensare che il mio primo incontro con il Dracula di Bela Lugosi non sia avvenuto attraverso il cinema, bensì grazie alla musica dei Bauhaus. Bela Lugosi’s Dead, lungo brano ipnotico dall’atmosfera funerea, considerato un vero e proprio manifesto della musica goth, è stato il pezzo che mi ha fatto conoscere l’attore che più di ogni altro ha legato il suo nome al personaggio del conte Dracula. Solo in seguito, quando negli anni novanta l’unico modo per recuperare un vecchio film era rivolgersi a una videoteca specializzata, avrei scoperto il film di Tod Browning, il classico della Universal che ha consacrato Lugosi come il Principe delle Tenebre definitivo.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di non divagare troppo, perché di cose da raccontare ce ne sono parecchie.
Fondata nel 1912 dall’immigrato di origini bavaresi Carl Laemmle, la Universal Pictures ha scritto pagine fondamentali nella storia del cinema horror. Tutto iniziò quando negli anni '30, con l'avvento del sonoro, il figlio del fondatore, Carl Laemmle Jr, il giorno del suo ventunesimo compleanno, ricevette in regalo la guida della casa di produzione cinematografica (altro che auto o orologio d’oro). Nonostante le difficoltà economiche della Grande Depressione e le restrizioni imposte dal Codice Hays, un insieme di norme che regolavano la moralità nei film, il giovane e visionario produttore della Universal, intuì che il pubblico aveva fame di evasione e decise di puntare sull’horror, adattando per il grande schermo storie della letteratura gotica.
Traendo ispirazione dalla fortunata rappresentazione teatrale di Broadway del romanzo di Bram Stoker — i cui diritti furono acquisiti dall'ambizioso produttore teatrale Horace Liveright — Laemmle Jr. portò sul grande schermo il vampiro più famoso della letteratura, affidando la regia del film a Tod Browning, un veterano del cinema muto con un debole per il macabro.
Il film Dracula, prima versione cinematografica autorizzata dagli aggueriti familiari di Bram Stoker — che in precedenza avevano provato a distruggere il Nosferatu di Murnau — inizialmente prevedeva la presenza di Lon Chaney nel ruolo del vampiro, ma l'improvvisa morte dell'attore portò la produzione a virare su Bela Lugosi, l’attore ungherese che aveva già interpretato il vampiro a teatro con grande successo e che avrebbe legato per sempre la sua immagine al conte Dracula.
La trama vede l'agente immobiliare Renfield (Dwight Frye) giungere da Londra sui monti Carpazi per vendere al conte Dracula una dimora londinese. Ma il nobile transilvano è in realtà un vampiro, e lo trasforma nel suo servo. Giunto in Inghilterra, Dracula, in veste di nobile affascinante dall'anima nera vampirizza Lucy (Frances Dade), puntando anche l'attenzione sull'amica Mina (Helen Chandler), fidanzata di Jonathan Harker (David Manners), collega dell'impazzito Renfield. Solo l'intervento del professor Van Helsing (Edward Van Sloan), scienziato vampirologo, mette fine alla minaccia del vampiro, che nascosto nell'antica abbazia di Carfax viene trafitto al cuore con un paletto, seppur tutto questo avvenga fuori scena.
Il film si divide nettamente in due parti, esattamente come il romanzo. La prima, la più affascinante e tenebrosa, è ambientata nel castello di Dracula ed è caratterizzata dalle meravigliose scenografie gotiche di Charles D. Hall, in cui Lugosi, con il suo accento mitteleuropeo e il suo sguardo penetrante (accentuato da un faretto sempre puntato sugli occhi nei primi piani) pronuncia la celebre battuta "Io non bevo mai... vino" destinata a entrare nella storia del cinema. La seconda parte, invece, si fa più teatrale e… beh, piuttosto statica. Il ritmo rallenta, l’azione è ridotta al minimo e le scene più spaventose vengono lasciati all’immaginazione dello spettatore, per evitare problemi con la censura. Rispetto al romanzo, la sceneggiatura elimina completamente il tema del contagio e della trasformazione in vampiri — le vittime qui muoiono e basta — così come gli spostamenti dei cacciatori di Dracula quando fugge in Transilvania. Al posto di Jonathan Harker, qui presenza poco influente, è Renfield a recarsi al castello del conte, con Dwight Frye che regala un’interpretazione intensa e inquietante.
Se il ritmo del film, soprattutto nella seconda parte, risente dell’impostazione teatrale, l’interpretazione di Lugosi è magnetica, iconica, definitiva. Il suo Dracula diventa immediatamente il modello per tutti i vampiri successivi, almeno fino all’arrivo di Christopher Lee, che trent’anni dopo avrebbe rinfrescato il personaggio con un’interpretazione decisamente più fisica e sensuale.
Nonostante il budget ridotto per via della crisi economica, Dracula fu un successo clamoroso e diede il via alla grande stagione dell’horror Universal, spalancando le porte ai vari Frankenstein, La Mummia e L’Uomo Lupo. Paradossalmente, il film arrivò in Italia solo nel 1986, quando fu trasmesso in televisione per la prima volta. Meglio tardi che mai.
Oggi, il Dracula di Browning — privo di colonna sonora nella versione originale — è considerato un classico assoluto, tanto da essere conservato nella Biblioteca del Congresso come opera di importanza culturale e storica. Non è l’adattamento più fedele al romanzo di Stoker, ma è senza dubbio quello che ha scolpito nell’immaginario collettivo la figura del conte Dracula. Un film che ha dato il via all’epoca d’oro dei mostri Universal e che, nonostante il passare del tempo, continua a esercitare il suo fascino oscuro.

M - Il mostro di Düsseldorf
di Fritz Lang
Il regista austriaco Fritz Lang non ha solo realizzato il primo film di fantascienza della storia del cinema, Metropolis, ma ha anche gettato le fondamenta del noir e del thriller psicologico, portando sullo schermo il primo serial killer cinematografico.
A quasi un secolo dalla sua uscita, M - Il mostro di Düsseldorf è un capolavoro del cinema espressionista che ha influenzato generazioni di registi. Un classico senza tempo in cui Lang si cimenta per la prima volta con il sonoro, sfruttandolo non come semplice supporto, ma come vero e proprio elemento narrativo.
Il film, ambientato a Berlino, sembra essere stato ispirato ai crimini avvenuti a Düsseldorf nel 1925. Sebbene il regista abbia sempre negato tale collegamento, in Italia hanno pensato bene di distribuirlo con un titolo che richiama esplicitamente il caso di cronaca (nell'originale tedesco il film si intitola semplicemente M).
Il film narra la storia di Hans Beckert (Peter Lorre), un maniaco che attira, violenta e poi uccide delle bambine. La città è terrorizzata, e la polizia, messa sotto pressione dall'opinione pubblica, brancola nel buio rastrellando i bassifondi e creando difficoltà alla criminalità organizzata. Stanchi delle retate dei poliziotti, le organizzazioni criminali della città decidono di collaborare mettendosi anche loro alla caccia dell’assassino. Saranno proprio i criminali a trovarlo per primi, grazie all'aiuto di un mendicante cieco che ne riconosce il fischiettio, segnandolo con una "M" tracciata col gesso sul suo cappotto. Inseguito, braccato, e infine catturato dai criminali, Beckert viene portato di fronte a un tribunale improvvisato, dove l’assassino, fino a quel momento quasi muto, si abbandona a un monologo disperato, cercando di spiegare il tormento interiore che lo spinge a uccidere. Ma può esserci comprensione per un simile orrore?
Fritz Lang, al suo primo film sonoro, sfrutta la nuova tecnologia rivoluzionando il linguaggio cinematografico. Il suono diventa parte integrante della narrazione, come nella scena in cui il mendicante cieco riconosce il killer proprio grazie al suo fischiettio, oppure in quella iniziale, dove una filastrocca infantile cantata dai bambini preannuncia la tragedia. Nei primi dieci minuti Lang condensa un intero trattato sulla suspense visiva e sonora. Con un montaggio alternato vediamo una madre che prepara il pranzo mentre la figlia, di ritorno da scuola, si ferma a giocare in strada. La bambina fa rimbalzare una palla su un palo. Il "mostro" si avvicina, ma Lang ce lo mostra solo attraverso la sua ombra minacciosa, proiettata su un manifesto con la sua taglia. Poi, con un montaggio chirurgico, si alternano un piatto vuoto sul tavolo da pranzo, una palla che rotola nell’erba e poi si ferma, una rampa di scale deserta, la voce sempre più angosciata della madre che chiama la figlia invano. Infine, un palloncino, comprato dall'assassino, che vola via, incastrandosi nei fili della luce prima di sparire nel cielo. In poche immagini, senza bisogno di mostrarlo, Lang ci racconta l'orrore che si è compiuto.



L’intero film è costruito su un’alternanza tra forze che dovrebbero opporsi, ma finiscono per specchiarsi l’una nell’altra. La polizia e la malavita, entrambe impegnate nella caccia all’assassino, si rivelano due volti della stessa medaglia. Lang utilizza un montaggio alternato che crea parallelismi inquietanti tra le loro metodologie, fino a rendere indistinguibile chi dovrebbe rappresentare l’ordine e chi il caos. È una riflessione amara su una società in cui la giustizia ufficiale è lenta e impotente, mentre quella sommaria è feroce e inappellabile.
Visivamente, M eredita l'estetica dell’espressionismo tedesco, ma la rinnova con un realismo urbano che amplifica il senso di claustrofobia. Ombre allungate, angolazioni vertiginose, e vicoli soffocanti in una città che diventa un labirinto dove il male si nasconde ovunque. Lang non mostra mai la violenza ma la suggerisce con dettagli minimi ma devastanti. Il risultato è un’atmosfera opprimente e un senso di pericolo costante.
La potenza del film risiede anche nella grande interpretazione di Peter Lorre nel ruolo del mostro. Con il suo volto tondo, gli occhi sporgenti e la postura dimessa, incarna un serial killer sfuggente, quasi invisibile tra la folla. Per gran parte del film è un’ombra, un’idea più che un uomo. Ma nella scena finale, davanti al tribunale improvvisato della malavita, esplode in un monologo disperato che ribalta ogni certezza, un assassino che si dice vittima, e che diventa non più un mostro inumano, ma un essere fragile, divorato da pulsioni incontrollabili.
Alla fine, Lang non offre risposte. Chi ha il diritto di giudicare? La giustizia ufficiale, fredda e impotente, o quella sommaria della strada? M è un film che non chiude il cerchio, lasciando lo spettatore con un’eco inquietante. La caccia all’uomo si trasforma in una furia collettiva, un presagio oscuro di ciò che sarebbe accaduto nella Germania nazista, dove il bisogno di un colpevole avrebbe presto giustificato ogni abuso. Una società che non sa vedere, che abbandona gli individui ai loro demoni, è essa stessa responsabile del mostro che ha generato.
Film
Luci della città
di Charlie Chaplin
Nonostante una lavorazione estremamente travagliata – segnata dalla crisi finanziaria dovuta al crollo di Wall Street e dal tumultuoso passaggio dal cinema muto a quello sonoro – nel 1931 Charlie Chaplin porta a compimento Luci della città, un capolavoro senza tempo che ancora oggi è tra i film più acclamati da critica e pubblico.
La storia vede il Vagabondo, l'iconico personaggio creato da Chaplin, innamorarsi di una giovane fioraia cieca (Virginia Merrill) che per un malinteso lo scambia per un ricco gentiluomo. Deciso a salvarla dalla povertà e dalla cecità, dopo aver scoperto che un'operazione potrebbe restituirle la vista, il vagabondo si ingegna su come raccogliere i soldi, spazzando le strade, partecipando a un esilarante incontro di boxe e, salvando un milionario disperato (Harry Myers) che vuole togliersi la vita. L'uomo, grato e generoso, ma solo quando è ubriaco, gli regala mille dollari per aiutare la ragazza. Tuttavia, quando torna sobrio, lo accusa di furto, causando l’arresto del Vagabondo. Prima di essere catturato, però, riesce a consegnare il denaro alla fioraia per permetterle di operarsi. Dopo aver scontato la pena, il Vagabondo vaga per le strade della città, stanco e sconsolato, finché non vede la fioraia, ora proprietaria di un negozio di fiori. La ragazza, che nel frattempo non è più cieca, lo vede e senza sapere che è lui il benefattore, gli porge un fiore. Quando le loro mani si sfiorano, lei lo riconosce.
Il finale non concede un lieto fine tradizionale. Non sappiamo se i due resteranno insieme o se lei lo respingerà, ma non è questo il punto. Quel breve scambio di sguardi e la speranza che traspare dai loro occhi bastano a rendere il momento indimenticabile
Chaplin, celebre per il suo perfezionismo, in Luci della città raggiunge livelli quasi maniacali. La lavorazione durò tre anni, tra dissidi e licenziamenti – compresi quelli della protagonista e dell’attore scelto inizialmente per il ruolo del milionario – e furono girati chilometri di pellicola non utilizzata. Si narra che la scena dell’incontro tra il vagabondo e la fioraia sia stata ripetuta ben 342 volte, diventando la sequenza più rifatta nella storia del cinema.
Sebbene il sonoro stesse rapidamente conquistando il panorama cinematografico mondiale, Chaplin scelse di realizzare Luci della città come un film muto. Credeva che utilizzare il corpo, la mimica facciale e i movimenti come strumenti di comunicazione permetteva al suo personaggio di trasmettere emozioni profonde senza necessità di parole. La sua scelta di restare fedele al muto era anche una sfida al conformismo tecnologico, come dimostra la scena iniziale in cui i discorsi ufficiali, durante la cerimonia di inaugurazione di una statua, vengono sostituiti da grotteschi suoni simili a pernacchie, in parodia del cinema parlato.
Il cinema di Chaplin è sempre stato legato al linguaggio visivo e alla pantomima regalandoci anche in questo film delle scene assolutamente esileranti, come quella dell'incontro di pugilato oppure la serata a casa del milionario col fischietto ingoiato e la stella filante mangiata al posto dello spaghetto, così come momenti di maliconica e sequenze di toccante poesia, culminanti in uno dei finali più intensi e commoventi della storia del cinema.