The Djinn
di David Charbonier, Justin Powell
David Charbonier e Justin Powell, dopo il loro esordio con The Boy Behind the Door, realizzano The Djinn, horror soprannaturale del 2021 che strizza l'occhio agli anni ottanta.
Dylan (interpretato dal giovane Ezra Dewey) è un ragazzino muto e asmatico, segnato dal suicidio della madre. Vive in un piccolo appartamento con il padre, un conduttore radiofonico notturno. Una sera, mentre il papà è fuori per lavoro (perché lasciare un bambino solo di notte è sempre un'ottima idea, no?), Dylan si imbatte in un antico grimorio nascosto nell'armadio. Attratto da un particolare rituale che promette di esaudire il desiderio più profondo, segue le istruzioni del Libro delle Ombre, evocando un Djinn, uno spirito della tradizione araba. Purtroppo quando la creatura si manifesta, Dylan scopre sulla propria pelle che per ottenere il suo desiderio dovrà resistere ai tentativi del demone di ucciderlo fino allo scoccare della mezzanotte.
In pratica The Djinn è sostanzialmente Mamma ho perso l'aereo in versione horror, un bambino solo in casa che cerca di sfuggire a un'entità malevola usando tutto ciò che trova nell'appartamento. Dal punto di vista tecnico, il film ha indubbiamente i suoi meriti. La fotografia gioca con contrasti e i colori accesi che evocano efficacemente l'estetica anni ottanta, mentre la regia sfrutta al meglio lo spazio claustrofobico dell'appartamento. Il giovane Ezra Dewey, regge praticamente da solo l'intero film sulle sue spalle, comunicando solo attraverso le espressioni e il linguaggio del corpo. Una interpretazione difficile, anche se, a dire il vero, non sempre riesce a trasmettere la genuina disperazione che una situazione del genere richiederebbe.
Il problema è che una volta che l'atmosfera è stata stabilita e il demone ha fatto la sua apparizione, The Djinn non sa più dove andare. La sceneggiatura risulta ripetitiva, stereotipata e dannatamente scontata. Per circa un'ora, assistiamo essenzialmente al gioco del gatto col topo, dove Dylan sfugge, si nasconde, e poi ricomincia da capo. Il problema fondamentale è che non c'è vera evoluzione: né del personaggio, né della minaccia, né tantomeno della tensione. Tutto rimane fermo, immobile e alla fine stanca.
The Djinn è un horror indipendente che per gli appassionati del genere può offrire un'ora e mezza di intrattenimento inoffensivo ma che probabilmente avrebbe funzionato molto meglio come cortometraggio. Dimenticabile.
The Human Centipede (First Sequence)
di Tom Six
Da appassionato del genere horror, a cavallo del nuovo millennio, io e un amico del tempo che condividevamo gli stessi gusti eravamo alla costante ricerca del film eccessivo, quello più estremo, macabro e disturbante. Spesso li recuperavamo in qualche videoteca specializzata, perché lo streaming non esisteva e il cinema di nicchia dovevi sudartelo, o sperare che passasse su Fuori Orario. In quel periodo mi sono visto gli horror giapponesi, Tetsuo, i film di Takashi Miike, il primo Lynch, Nekromantik, Cannibal Holocaust, fino a quello che considero tuttora il più disturbante di tutti, Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini.
Negli anni sono diventato più sensibile o forse semplicemente più stanco. Oggi faccio fatica a reggere visioni in cui sevizie e mutilazioni sono il piatto forte. Eppure il fascino del cinema degli eccessi non si è mai spento. Così, dopo aver rimandato a lungo la visione di questo titolo (che apre una trilogia il cui secondo capitolo è considerato ancora più estremo), e dopo aver fallito miseramente nel tentativo di trovare qualcuno disposto a condividere l’esperienza – appena accennavo la trama, i miei amici mi mandavano letteralmente a cagare – ho deciso di iniziare la trilogia di Tom Six partendo ovviamente da The Human Centipede (First Sequence).
Due turiste americane, Jenny e Lindsay, in viaggio in Germania, rimangono bloccate in un bosco durante un temporale notturno. In cerca di aiuto raggiungono una villa isolata, residenza del dottor Heiter (interpretato dall'inquietante Dieter Laser). Heiter è un ex chirurgo specializzato nel separare gemelli siamesi, ora deciso a compiere l’operazione inversa per una sorta di follia creativa. Dopo aver drogato le due ragazze e un malcapitato turista giapponese, svela il suo progetto. Creare un unico organismo composto da tre persone unite chirurgicamente bocca-ano, costrette a condividere l’apparato digerente.
La trama è semplice, quasi un manuale dell’horror più classico, ma l’idea del centipede umano ha una forza così disturbante da reggere da sola l’intero film. L'ispirazione è venuta a Tom Six - giovane regista e sceneggiatore olandese che al tempo aveva realizzato un paio di film indipendenti passati inosservati - quando, vedendo al telegiornale la storia di uno stupratore di bambini, se ne uscì discendo che la punizione ideale sarebbe stata cucire la bocca del criminale all'ano di un camionista obeso. Da quella battuta macabra iniziò a concepire un film che sviluppò poi in una trilogia, arrivando perfino a consultare un vero chirurgo (che, saggiamente, ha preferito rimanere anonimo), il quale confermò che l’operazione, almeno teoricamente, sarebbe possibile a patto di nutrire i soggetti per via endovenosa. Questa consapevolezza, inutile dirlo, rende la visione ancora più sgradevole.
Il film si inserisce in un filone che guarda ai grandi maestri della trasgressione. Six cuce (letteralmente) insieme le influenze del body horror di Cronenberg, l’estremismo visivo di Miike e il già citato Pasolini. Il riferimento a Salò non riguarda solo la coprofagia forzata, ma anche il sottotesto nazifascista. Il dottot Heiter è modellato su Josef Mengele, il medico nazista che conducevano esperimenti durante il Terzo Reich, e Laser lo interpreta con un delirio quasi comico, una sorta di Malgioglio autoritario che rasenta la caricatura pur rimanendo tremendamente inquietante.
The Human Centipede è un film che divide. C’è chi lo vede come una provocazione geniale e chi come un esercizio gratuito di cattivo gusto. Probabilmente la verità sta nel mezzo. Per quanto discutibile, è un’opera originale, realizzata con un budget ridicolo, vietata in diversi paesi, proiettata solo in qualche festival di settore e visibile in Italia soltanto sottotitolata. Eppure, grazie al passaparola e all’home video, è diventata un piccolo cult, fino a conquistarsi perfino una parodia in South Park.
Va anche detto che in questo primo capitolo la violenza esplicita è limitata. Six gira come un horror classico e un po’ stereotipato, dove le vittime e i poliziotti fanno puntualmente le scelte sbagliate. E' l'idea stessa dell'esperimento, la visione del risultato finale – tre persone unite in una catena di sofferenza e degradazione – a produrre l’effetto disturbante. L’orrore è quasi tutto mentale. Immaginare la vita dei tre corpi uniti, prevedere la fine della sola superstite, è più potente di qualsiasi effetto splatter.
Adesso dovrò trovare il coraggio di affrontare The Human Centipede 2 (Full Sequence) del 2011, considerato il più estremo della trilogia. Prima però, un paio di commedie non me le toglie nessuno.
Film
Sorella Morte
di Paco Plaza
A partire dalla saga di REC fino all’inquietante Veronica, Paco Plaza è il regista che più di tutti, negli ultimi anni, ha saputo ridare linfa vitale all’horror spagnolo. Sorella Morte, titolo originale Hermana Muerte, è il prequel di Veronica, che ammetto di non aver ancora recuperato, ma proprio perché la storia si svolge prima non dovrei essermi compromesso nulla... spero.
Spagna, 1939. Una bambina diventa famosa in tutto il paese come “la niña santa” dopo aver avuto una visione della Vergine Maria. Dieci anni dopo quella stessa bambina, ormai cresciuta, arriva in un convento isolato trasformato in collegio nel dopoguerra. Si chiama Narcisa (interpretata da una convincente Aria Bedmar), ed è pronta a prendere i voti perpetui e a insegnare alle giovani educande del luogo. Ma qualcosa di oscuro aleggia tra quelle mura bianche e silenziose, e sorella Narcisa inizia a percepire presenze inquietanti e fenomeni inspiegabili che mettono a dura prova una fede già vacillante. Mentre le consorelle la osservano con sospetto, la giovane dovrà scavare nel passato violento dell’edificio per scoprire quale tragedia ha generato l’orrore che ora minaccia lei e le bambine.
Gli horror conventuali, quelli ambientati in monasteri e conventi con suore, demoni e presenze soprannaturali, non brillano sempre per originalità. Nel caso di Sorella Morte, però, Plaza costruisce la sua storia con una pazienza quasi contemplativa, privilegiando l’atmosfera al brivido immediato, l’inquietudine profonda allo spavento facile. Il risultato è un’opera intressante ed elegante che si discosta dall’horror commerciale americano, pur mantenendo salde radici nel genere. Girato in 4:3, il formato quadrato ingabbia i personaggi e amplifica il senso di claustrofobia, nonostante gli ambienti spesso luminosi. Ed è proprio la gestione della luce a emergere come un elemento centrale. Siamo abituati a collegare l’horror al buio, alle ombre. Qui invece il terrore si consuma alla luce del sole spagnolo o nel bianco accecante delle pareti del convento. Il bianco non è purezza, ma un velo che nasconde il marcio.
Plaza costruisce la tensione lentamente, lavorando sui dettagli: una sedia che cade, un disegno sul muro, una biglia che rotola. Evita il jump scare ad ogni costo, preferendo insinuare un’angoscia costante che si infila sotto pelle. Certo, alla lentezza e l’eleganza della prima parte, il cambio di ritmo della parte finale, decisamente più macabro e violento, arriva troppo repentinamente, ma l’impatto visivo rimane potente ed efficace.
In conclusione Sorella Morte è un film che conferma il talento di Paco Plaza. Un horror elegante, profondamente inquieto, e realizzato con ottimo mestiere.
Film
I vampiri di Praga
di Tod Browning
Quando nel 1935 Tod Browning tornò a confrontarsi con il genere horror, dopo il trionfale Dracula e il controverso Freaks, il regista decise di rielaborare uno dei suoi stessi lavori, il perduto capolavoro muto London After Midnight del 1927. Nacque così Mark of the Vampire, in Italia conosciuto come I vampiri di Praga, il film che riportava Bela Lugosi a vestire nuovamente i panni di un vampiro con l'intento di replicare il successo del conte transilvano. Il risultato però fu qualcosa di molto diverso, un'opera che ancora oggi divide critica e pubblico.
Siamo in un piccolo villaggio della Cecoslovacchia, un luogo ancora legato ad antiche superstizioni. La tranquillità viene spezzata quando Sir Karell Borotyn viene trovato morto nella sua residenza, con il corpo esangue e due piccoli fori sul collo. La gente del posto e il dottor Doskil è convinto che sia opera dei vampiri che infestano il castello in rovina lì vicino, dimora del misterioso Conte Mora (Bela Lugosi) e della sua spettrale figlia Luna (Caroll Borland). Le autorità locali, scettiche, brancolano nel buio finché non entra in scena il professor Zelen (un carismatico Lionel Barrymore), esperto di occultismo e demonologia, chiamato per proteggere la figlia di Sir Karell, Irena, che sembra essere la prossima vittima designata delle creature della notte. Tra sedute spiritiche e apparizioni di pipistrelli giganti, inizia una caccia per svelare la verità dietro la maledizione dei Borotyn.
I vampiri di Praga è un film contradditorio. Da un punto di vista estetico, il film è forse superiore allo stesso Dracula. Tod Browning, aiutato dalla fotografia eccezionale di James Wong Howe, crea un'atmosfera onirica e surreale. Il cimitero avvolto dalla nebbia, il castello infestato da ragnatele, pipistrelli e rovine gotiche, e le inquadrature silenziose di Lugosi e della Borland sono pura poesia macabra. In particolare, la figura di Luna interpreta dalla Borland merita una menzione d'onore: con i suoi capelli lisci e il pallore spettrale, è diventata un’immagine iconica, anticipando di decenni la cultura goth e figure come Morticia Addams. Finisce perfino per rubare la scena allo stesso Lugosi, che per gran parte del film si affida unicamente al proprio magnetismo senza quasi mai pronunciare parola.
Il vero problema risiede nel colpo di scena finale. Senza svelare troppo per chi non l'ha visto, il film compie un brusco salto di genere, trasformandosi da horror soprannaturale in una sorta di giallo alla Agatha Christie. Una scelta, volendo, pure coraggiosa, ma che è talmente spaziante che finisce per togliere quella magia macabra che per tutto la durata del film ci aveva regalato. Per gli amanti del cinema classico rimane una visione consigliata, un tassello importante nella filmografia di Browning. Un'opera imperfetta, certamente, ma che vale la pena vedere se non altro per le splendide scenografie, la presenza di un Lugosi sempre carismatico e, soprattutto, per la figura magnetica di Carroll Borland, che ha anticipato e influenzato l’estetica gotica femminile decenni prima che diventasse un’immagine codificata.
Good Boy
di Ben Leonberg
Ben Leonberg avrà sicuramente notato che nei film horror, soprattutto quelli con case infestate e presenze inquietanti, il primo a intuire che qualcosa non va è sempre il cane. E allora perché non capovolgere la prospettiva e raccontare l'intera storia attraverso di lui? Da qui nasce l’idea che deve aver acceso la fantasia di Leonberg. Al suo esordio dietro la macchina da presa, lui e sua moglie hanno addestrato il loro cane Indy, un vivace toller, e lo hanno ripreso per tre anni, accumulando oltre 400 giorni di materiale, per realizzare Good Boy, un horror visto - e vissuto - dagli occhi di un cane.
La trama è minimale ed essenziale. Todd (Shane Jensen), un giovane con gravi problemi di salute, decide di trasferirsi nella vecchia casa di campagna del nonno defunto. Con lui c'è solo Indy, il suo fedele compagno a quattro zampe. La casa, isolata nei boschi del New Jersey, è però infestata da una presenza malvagia. E Indy lo percepisce immediatamente. Angoli vuoti che lo fissano, presenze invisibili che solo lui riesce a vedere, lo spirito di un altro cane che gli appare in visioni inquietanti, e i ricordi oscuri della morte del precedente proprietario. Mentre la salute mentale e fisica di Todd si deteriora sotto l'influsso della casa, il cane si ritrova a combattere una guerra solitaria. Costretto a vegliare sul suo padrone, Indy tenta disperatamente di avvertirlo del pericolo, scontrandosi però con l'incomunicabilità tra specie e l'incredulità del suo umano.
Girato con quattro spicci ma tanta passione, Good Boy è un film indipendente che punta tutto sul coraggio dell’idea. Recentemente l’horror ha iniziato a giocare sempre più con il cambio di prospettiva – dal fantasma di Presence al serial killer di In a Violent Nature – e anche Leonberg sceglie questa strada, non girando in soggettiva ma spostando il punto di vista ad "altezza cane". Leonberg sfrutta bene questo espediente tecnico, lavorando sul sound design e sui sensi amplificati dell'animale per creare tensione. L'orrore non nasce tanto da ciò che appare, ma da ciò che non può essere espresso. È la frustrazione del cane, incapace di comunicare il pericolo al suo umano, a generare inquietudine. Superato però l'impatto iniziale, la dinamica diventa presto ripetiva. Manca una vera evoluzione nel meccanismo della paura e la narrazione procede su binari prevedibili, risultando a tratti priva di veri scossoni.
Probabilmente chi ha visssuto con un cane, riconoscerà alcuni comportamenti e potrà emozionarsi – io sono un gattaro, ma poco cambia – tuttavia, al di là dell’osservazione affettuosa dei nostri animali e dell’idea registica, ho faticato a trovare qualcosa che restasse davvero. È uno di quei film che rispetti per l’indipendenza e la creatività dello sguardo, ma che fai fatica a consigliare con entusiasmo a chi è poco interessato a vedere film che hanno gli animali come protagonisti. Ah, a proposito, per chi odia la violenza sugli animali, al nostro amico a quattro zampe non viene torto un pelo, solo qualche spavento.
Dracula - A Love Tale
di Luc Besson
Devo essere sincero. Inizialmente non avevo alcuna intenzione di vedere Il Dracula di Luc Besson. Avevo percepito una certa diffidenza da parte del pubblico, letto critiche che lo accusavano di essere troppo simile al Dracula di Coppola, troppo sentimentale, troppo poco horror. Ero quasi convinto di aspettare l’uscita in home video e rinunciare all’esperienza del grande schermo. Poi, quasi all’ultimo momento, ho cambiato idea. Una decisione impulsiva che si è rivelata giusta. Perché Dracula – L’amore perduto merita la sala cinematografica, con le sue scenografie imponenti, la fotografia avvolgente e l’ottima colonna sonora “burtoniana” di Danny Elfman. Non è sicuramente il mio Dracula preferito, ma è una rilettura godibile e visivamente curata di un regista che ha dichiarato di non aver mai amato l’horror e di aver voluto scrivere semplicemente una storia d’amore, trasformando il romanzo di Stoker (nel quale l’amore è praticamente inesistente) in una tragica favola romantica dove l’orrore è più da fiaba alla Grimm che da terrore puro.
La storia ci porta nel XV secolo, presentandoci il principe Vlad (Caleb Landry Jones) che, dopo aver combattuto strenuamente per la chiesa, torna a casa solo per trovare la sua amata moglie morta. Devastato dal dolore, rinnega la propria fede, e questa scelta attira su di lui una maledizione terribile: l'immortalità. Condannato a vagare attraverso i secoli, il principe diventa il conte Dracula, un'esistenza solitaria scandita da un'unica ossessione: ritrovare la reincarnazione della donna amata.
Quattro secoli dopo, nella Parigi di fine ottocento, quella ricerca sembra finalmente giungere a compimento. Dracula individua in una giovane donna, fidanzata di un notaio, i tratti inconfondibili della sua Elisabetta (Zoe Sidel). Da qui parte un disperato tentativo di riconnessione emotiva, ostacolato ovviamente da chi vorrebbe piantargli un paletto nel cuore.
È evidente che il riferimento principale non sia tanto Stoker quanto il Dracula di Coppola. Ma laddove Gary Oldman incarnava un fascinoso dandy assetato di sangue, il Dracula interpretato da Caleb Landry Jones è una creatura fragile, spezzata, quasi malata. È un vampiro stanco, consumato dai secoli, che vive solo per il ricordo della sua amata. Un mostro che fa più tenerezza che paura, e Jones è bravissimo a sorreggere l’intera parte emotiva del film. Ottima anche Matilda De Angelis, vampira folle, sensuale e imprevedibile, che ruba più di una scena. Meno incisiva la protagonista femminile. Christoph Waltz, nei panni del prete, porta come sempre il suo carisma ma non lascia il segno.
Visivamente, Dracula – L’amore perduto è uno dei lavori più curati della filmografia di Besson. Le scenografie oscillano tra il gotico e il barocco, con interni carichi di dettagli, costumi sontuosi e una attenzione maniacale per l'estetica che si percepisce in ogni singola inquadratura. Dalla riproduzione del castello di Dracula alla corte di Versailles. Certo, c'è una vena ironica di sottofondo che a tratti fa sembrare il Dracula di Besson quasi una parodia – mi riferisco alla scena del giovane avvocato nel castello, il balletto nelle varie corti, l’episodio delle suore infoiate. Anche i gargoyle "alla Disney", la natura poco chiara della maledizione e del vampirismo, e il profumo afrodisiaco (che sembra uscito da Il profumo di Süskind) sono scelte abbastanza discutubili.
Eppure, nel suo insieme, Dracula – L’amore perduto è un film che ha il coraggio delle sue idee. Non cerca di rivaleggiare con Coppola sul terreno dell’horror romantico classico, ma offre una rilettura personale che parla di perdita, di ossessione e di quanto sia difficile lasciar andare ciò che amiamo. Per chi accetta questa premessa, il film regala un’esperienza visiva e emotiva piacevole e coinvolgente. Per chi invece desidera il brivido puro dell’horror, probabilmente non è la scelta giusta. Ma questa, dopotutto, è una distinzione che Besson non ha mai avuto intenzione di nascondere.
Deserto rosso sangue
di Colin Minihan
Nel panorama ormai saturo del cinema zombie, trovare un'idea originale sembra un'impresa quasi impossibile. Il sottogenere è stato esplorato in ogni direzione, dal dramma post apocalittico di 28 Giorni dopo alle orde di zombie di Train to Busan passando per la soap-opera di The Walking Dead o alle commedie splatter alla Shaun of the Dead.
Colin Minihan, regista canadese già noto per il claustrofobico ESP - Fenomeni paranormali, con Deserto Rosso Sangue (titolo originale It Stains the Sands Red) decide di operare per sottrazione, concentrandosi su un survival minimale, un confronto intimo tra una donna e uno zombie che la insegue nel deserto.
Siamo nel pieno di un'apocalisse zombie. Molly (Brittany Allen), una giovane donna dalla vita disordinata, sta fuggendo da Las Vegas con il suo fidanzato Nick per raggiungere un piccolo aeroporto e salire su un aereo diretto in Messico.
Quando la loro auto rimane bloccata nel deserto del Nevada, uno zombie solitario (Juan Riedinger) emerge dal nulla e uccide Nick. Rimasta da sola, a piedi, sotto il sole impietoso del deserto, Molly si incammina mentre il morto vivente la segue senza sosta. Lo zombie non corre, cammina lentamente, ma non si ferma mai. Molly invece ha bisogno di riposare, di bere, di mangiare. Inizia così una sorta di maratona surreale attraverso le dune, dove la vera sfida non è tanto sfuggire al mostro quanto sopravvivere a se stessa e ai propri demoni.
Questa, in sostanza, è la trama di almeno due terzi del film. Deserto rosso sangue è un'opera atipica che elimina quasi completamente l'elemento corale tipico del genere zombie per costruire un survival al femminile. Brittany Allen regge sulle proprie spalle l'intero film con una performance convincente. Il personaggio di Molly ci viene inizialmente presentato come una figura superficiale, una cocainomane incapace di assumersi responsabilità. Ma il deserto diventa uno spazio di trasformazione, un purgatorio fisico e spirituale dove Molly è costretta a confrontarsi con le scelte che l'hanno portata lì, incluso l'abbandono della figlia data in affidamento. Certo, risulta forse un po' eccessiva la resilienza di una donna, inseguita da uno zombie stalker, che cammina nel deserto per giorni con scarpe non proprio comodissime e addirittura il ciclo mestruale (a proposito, la scena in cui gli lancia il tampone con il suo sangue è un tocco di realismo geniale che raramente si vede al cinema). Tuttavia, dopo aver visto Revenge – non ci sono zombie, ma la protagonista è sempre una donna in fuga nel deserto – non mi sorprende più di tanto.
Interessante invece la dinamica che si crea tra Molly e lo zombie, che lei soprannomina "piccolo". Quello che inizia come terrore puro si trasforma gradualmente in qualcosa di più complesso: lei gli parla, lo insulta, si sfoga, arrivando a sviluppare una forma paradossale di familiarità che diventa il motore emotivo della pellicola.
Dal punto di vista tecnico, Minihan fa buon uso del poco budget a disposizione, sfruttando abilmente l'ambientazione desertica con riprese aeree e una fotografia efficace.
Certo, il film non è privo di difetti, specialmente per alcuni effetti visivi non impeccabili e certe forzature di sceneggiatura, sopratutto nel finale. Ma al di là di qualche ingenuità, va riconosciuto a Minihan il coraggio di aver puntato tutto su una protagonista complessa e su un'idea semplice ma efficace, oltre all'originalità di aver cambiato prospettiva sugli zombie firmando un road movie viscerale e femminista – nel senso più pragmatico del termine.
Film
Black Phone 2
di Scott Derrickson
Difficilmente un sequel riesce a superare il primo film, ma ogni tanto capita. Restando nel territorio dell’horror recente, per esempio, il secondo Smile io l’ho trovato molto più interessante del primo. Così, con un barlume di ottimismo (e forse un eccesso di buona fede), mi sono avvicinato a Black Phone 2. Il primo del 2022 non mi aveva per niente convinto, ma magari stavolta... Niente. Il miracolo non è arrivato. Anzi, questo ritorno firmato ancora da Scott Derrickson e prodotto dalla Blumhouse riesce addirittura a fare peggio.
Siamo nel 1982, qualche anno dopo gli eventi del primo film. Finney (Mason Thames) e sua sorella Gwen (Madeleine McGraw) cercano di lasciarsi alle spalle il loro passato traumatico. Gwen, però, è tormentata da incubi che sembrano sono legati alla loro madre e a un vecchio campo vacanze del Midwest in cui la donna aveva lavorato. Gwen, Finn e il loro amico Ernesto decidono, allora, di recarsi ad Alpine Lake. Bloccati da una tormenta di neve, il telefono nero torna a suonare, e i tre capiscono che la chiave per chiudere definitivamente i conti con il Rapace potrebbe trovarsi proprio sotto il ghiaccio di quel lago.
L’ambientazione da campeggio invernale potrebbe anche avere il suo fascino, una sorta di Venerdì 13 con la neve al posto delle foglie autunnali. Il problema è che, mentre Black Phone aveva almeno una sua tensione psicologica, in questo sequel Derrickson decide di cambiare completamente registro tuffandosi a capofitto nel soprannaturale, trasformando il Rapace in una specie di entità demoniaca che invade i sogni di Gwen.
Il risultato? Una storia pasticciata che vorrebbe essere Nightmare - Dal profondo della notte ma finisce per diventarne la copia sfocata, con continue sequenze oniriche in stile Super 8 che dopo un po' stancano e spengono ogni barlume di tensione. Noia. Pura, cristallizzata noia.
Se il primo Black Phone non mi aveva convinto, questo sequel mi ha definitivamente fatto prendere la decisione di staccare il telefono.
Barbarian
di Zach Cregger
Barbarian è il film di esordio di Zach Cregger, altro attore comico che, dopo Jordan Peele, ha deciso di sporcarsi le mani con la paura
Uscito nel 2022 e realizzato con un budget limitato, il film è diventato rapidamente un piccolo fenomeno dell’horror moderno.
In Italia non è mai uscito nelle sale arrivando direttamente su Disney+.
La storia vede come protagonista Tess (Georgina Campbell), una ragazza arrivata a Detroit per un colloquio di lavoro. È notte, piove a dirotto e la casa che ha affittato tramite un'agenzia online scopre essere già occupata. Un errore di prenotazione, due sconosciuti sotto lo stesso tetto, e un imbarazzo palpabile che si trasforma presto in diffidenza. L'uomo (Bill Skarsgård), un musicista dall’aria gentile, le offre il divano e la situazione sembra risolversi, almeno in apparenza. Ma durante la notte qualcosa si muove nell’ombra, tra porte che si aprono da sole, rumori soffocati, e presenze appena percettibili. Il giorno dopo, mentre è sola, Tess nota una porta nascosta nella cantina. Una porta che conduce a un corridoio buio, freddo, che sembra non finire mai. Da quel momento in poi, Barbarian diventa un viaggio nell'orrore... ma anche altro.
Non aggiungo altri dettagli perché Barbarian è uno di quei film che vanno scoperti passo dopo passo, senza sapere troppo in anticipo cosa aspettarsi. Posso solo dire che Zach Cregger dimostra una notevole abilità nel costruire paura e brividi autentici, sfruttando al meglio le atmosfere e usando riferimenti al cinema horror del passato senza copiarlo. La forza del film è quella di giocare con le aspettative dello spettatore. Ti porta a pensare di sapere dove stai andando, e poi, arrivato al culmine della tensione, ribalta tutto. All'inizio sembra la solita storia di una donna sola che teme un uomo sconosciuto in una situazione di vulnerabilità, ma appena ci convinciamo di aver capito, Barbarian cambia direzione, cambia tono, cambia addirittura genere. E non lo fa una sola volta. A un certo punto il film si sposta altrove, introduce un nuovo protagonista — un attore televisivo interpretato da Justin Long, perfetto nella parte dell’uomo pieno di sé e incapace di riconoscere la propria tossicità — e cambia completamente registro. Cregger ha il coraggio di mescolare i linguaggi, di creare tensione e poi smorzarla con improvvise sfumature da commedia. E funziona, soprattutto quando l’horror claustrofobico convive con un’ironia surreale e grottesca, come nella scena in cui il proprietario della casa scopre i cunicoli segreti sotto l’abitazione e inizia a misurarli sperando di poter aumentare il valore dell’immobile. Certo, qualche piccola incongruenza narrativa qua e là si nota, ma l’imprevedibilità e il continuo alternarsi di paura, ironia e sorpresa rendono Barbarian un’esperienza intensa e divertente.
È un film che funziona, a patto siate disposti a stare al gioco. Non ha pretese intellettuali, ma riesce a intrattenere con intelligenza e anche un po' di critica sociale, spiazzando lo spettatore con divertimento e inquietudine.
A me è piaciuto tantissimo.
Frankenstein (2025)
di Guillermo del Toro
Il Frankenstein di Guillermo del Toro è, senza dubbio, uno dei film più attesi dell’anno.
Prodotto da Netflix, presentato in anteprima a Venezia e distribuito solo in poche sale selezionate – giusto il tempo per garantirsi l’accesso ai premi – il film arriva in questi giorni sulla nota piattaforma streaming diventando il suo fiore all'occhiello.
Sulla carta, l’incontro tra del Toro e il Frankenstein di Mary Shelley sembra scritto nel destino. Dopotutto, il regista messicano – da Il labirinto del fauno a La forma dell’acqua, fino al recente Pinocchio – ha sempre avuto una predilezione per i reietti, per le creature imperfette e malinconiche, sospese tra umanità e mostruosità.
ToltoTim Burton, forse nessun altro autore possiede oggi uno sguardo tanto visionario, gotico e insieme barocco da fondersi con l’universo tragico e poetico del mostro di Frankenstein.
La storia la conosciamo tutti, un classico della letteratura e del cinema che da numerose generazioni fa parte del nostro immaginario collettivo. Del Toro lo affronta con rispetto ma anche con il coraggio di piegarlo al proprio linguaggio. Il film, lungo due ore e mezza, è strutturato in un preludio e due parti. Nel preludio viene ripreso quanto raccontato all'inizio del romanzo: il barone Victor Frankenstein (Oscar Isaac) vaga tra i ghiacci del Polo Nord, braccato dalla Creatura (interpretato da Jacob Elordi), un essere dalla forza sovrumana e apparentemente indistruttibile. Raccolto dall'equipaggio di una nave rimasta intrappolata nei ghiacci artici, Frankenstein, ferito ed esausto, rivela di essere stato lui a dare vita alla Creatura raccontando gli eventi che hanno portato alla sua creazione.
Nella prima parte, che occupa buona parte del film, viene così raccontata l'infanzia del giovane Victor, la morte della madre, il rapporto contrastato con un padre freddo e autoritario, la carriera universitaria come medico e la folle ossessione di poter sconfiggere la morte iniziando a fare esperimenti sui cadaveri per riportarli in vita. Sostenuto da un mercante d’armi senza scrupoli, costruisce un laboratorio in una torre abbandonata e lì, pezzo per pezzo, assembla un corpo fatto di cadaveri animandolo tramite complessi macchinari che imbrigliano la corrente elettrica dei fulmini durante una tempesta. Un evidente omaggio all'iconografia cinematografica del primo Frankenstein di Whale dal momento che nel romanzo la creazione del "mostro" non viene descritta. La Creatura, però, è ben diversa dal mostro massiccio e goffo della tradizione. È longilinea, fragile, con movenze incerte e un’innocenza disarmante. Non conosce la malvagità né il linguaggio, è come un bambino che cerca di capire il mondo e il proprio posto in esso. Deluso e terrorizzato da ciò che ha fatto, Victor prima lo rinnega, lo umilia e lo imprigiona – replicando la violenza subita dal padre – e infine prova a distruggerlo.
Nella seconda parte la narrazione riprende dal punto di vista del mostro, ed è probabilmente la più riuscita. Sopravvissuta, la Creatura incontra un vecchio cieco che gli insegna a leggere e parlare. Qui il ritmo rallenta e il film diventa quasi contemplativo. Sono momenti delicati, sospesi, che contrastano con la brutalità della prima metà e ci fanno entrare davvero nella pelle di questo essere smarrito che non ha mai chiesto di nascere.
Molto bravo Jacob Elordi, sepolto sotto strati di trucco prostetico. Il suo mostro di Frankenstein è forse un po' troppo belloccio e fisicato – stiamo sempre parlando di un uomo assemblato con parti di cadaveri – ma la sua interpretazione è ricca di profondità emotiva riuscendo a trasmettere il dolore dell’abbandono, della solitudine e della paura di non essere amati.
Oscar Isaac tratteggia un Victor divorato dal proprio ego e dalla rabbia, un uomo brillante ma logorato da ferite mai rimarginate. La sua performance è intensa, a tratti eccessiva, ma perfettamente in linea con la natura febbrile del personaggio.
La sempre più affascinante Mia Goth nei panni di Elizabeth porta nel film una voce diversa, più compassionevole. Non più la fidanzata remissiva del romanzo, ma una scienziata, un’entomologa animata da curiosità e compassione. È lei a riconoscere nella Creatura un essere senziente, a offrirgli per la prima volta uno sguardo privo di paura.
Esteticamente il film è una meraviglia. Ma non mi soprende conoscendo i lavori di Del Toro. Scenografie sontuose. Elegante, barocco e gotico al contempo, con squarci pittorici. La fotografia gioca con luci e ombre in modo quasi espressionista.
Il Frankenstein di Del Toro, oltre a rispettare la struttura del romanzo di Shelley, aggiungendo e definendo numerosi passaggi narrativi, tiene conto di decenni di storia del cinema racchiudendo in un solo film tutte le incarnazioni del mito – da Whale a Branagh, passando per la Hammer degli anni sessanta, fino a Edward mani di forbice e volendo anche Povere creature! – rileggendo il mito alla luce del proprio immaginario.
Il risultato è un’opera maestosa , in cui il vero mostro non è la Creatura, ma il suo creatore. Impossibile non identificarsi con la solitudine e la fame d’affetto della Creatura, con la sua rabbia e il suo bisogno d’amore. Quando pronuncia la sua prima parola, quella che ogni bambino rivolge a chi gli ha dato la vita, comprendiamo che il film di del Toro non parla della nascita dell’orrore, ma dell’origine dell’amore.
Forse si sarebbe potuto limare qualcosa nella prima parte, renderla più essenziale, e alleggerire quella patina di spettacolarità hollywoodiana che ogni tanto appesantisce la narrazione. In alcune sequenze l’uso della CGI risulta un po’ troppo evidente, quasi invasivo. Ma nonostante queste sbavature, Frankenstein resta un film visivamente sontuoso, emotivamente sincero e capace di ridare vita – in tutti i sensi – a uno dei miti fondanti del nostro immaginario.
Peccato non averlo potuto vedere sul grande schermo.
Nessuno ti salverà
di Brian Duffield
Nessuno ti salverà, film diretto da Brian Duffield e approdato su Disney+ nel 2023, potrebbe sembrare a prima vista l’ennesima storia di invasione aliena domestica. Quella in cui i classici alieni "grigi", con le loro teste sproporzionate, gli occhi neri e le lunghe braccia dalle quattro dita, si presentano per evere insistenti incontri ravvicinati di terzo, o forse quarto, tipo. In realtà, però, il film è anche qualcos’altro.
La protagonista è Brynn (Kaitlyn Dever), una giovane donna che vive da sola in una grande casa isolata ai margini di un piccolo paese. Trascorre le giornate immersa nel silenzio, dedicandosi al modellismo, alla scrittura e alla danza. Fin da subito intuiamo che porta con sé un passato irrisolto, segnato da una tragedia, e che nel paese la gente la evita, nessuno le rivolge la parola.
Una notte, mentre dorme, strani rumori la svegliano di colpo. Qualcuno — o qualcosa — si è introdotto nella sua casa. È un alieno umanoide, anzi più di uno, impegnati in un’invasione di massa. Da quel momento la casa di Brynn diventa un campo di battaglia, e la lotta per la sopravvivenza si trasforma in un confronto con il suo passato, con la colpa e con il bisogno disperato di redenzione.
Nessuno ti salverà è un film quasi del tutto privo di dialoghi, incentrato sulla solitudine della protagonista e sul suo scontro solitario contro un’invasione aliena. Brynn, da ragazza fragile e terrorizzata, in un susseguirsi di fughe all’interno di una casa piena di stanze buie e angoli in cui potrebbe nascondersi qualsiasi cosa, si trasforma in una guerriera indomita che improvvisa armi con quello che trova a portata di mano, lasciandosi dietro una scia di cadaveri extraterrestri che, a dirla tutta, non sembrano nemmeno così cattivi e finiscono per prenderle di santa ragione da una che fino a cinque minuti prima si nascondeva dietro il divano. Insomma, per essere creature venute dallo spazio profondo con tecnologie avanzate, un po’ di coordinazione in più non avrebbe guastato.
Molto brava Kaitlyn Dever che porta sulle spalle l'intero film con una performance tutta fisica, fatta di sguardi, espressioni e movimenti.
Dopo una prima parte tutto sommato essenziale ed efficace, quando Brynn ritorna nella casa, dopo aver visto che là fuori non se la passano tanto bene, le sequenze di inseguimento all'interno o fuori dalla casa cominciano a ripetersi. A un certo punto aspetti una svolta narrativa che dia una scossa al tutto. Quando finalmente arriva, e Duffield cerca di spiegare perché Brynn sia emarginata dal paese, il film perde mordente e si fa un po' troppo didascalico. E poi c'è il finale. Particolare, per usare un eufemismo. C'è chi l'ha trovato geniale, chi proprio non l'ha capito. Personalmente a me è piaciuto — una specie di felice bolla alienata — ma forse poco sviluppato e un po' frettoloso.
Alla fine, Nessuno ti salverà assembla tutti i luoghi comuni della sci-fi ufologica proponendo una curiosa variante fantascientifica del genere home invasion, con tanta adrenalina e combattimenti corpo a corpo. Al contempo è un film che parla di incomunicabilità, del peso dei sensi di colpa e del superamento (forse illusorio) di un trauma. Non sarà un capolavoro del genere, ma ha il merito di provare qualcosa di diverso, giocando col silenzio e con un'atmosfera che, almeno all'inizio, funziona davvero.
Film
La moglie di Frankenstein
di James Whale
Quando si parla di horror classico, si finisce sempre per tornare a quelle creature iconiche che la Universal Pictures ha consegnato all'immaginario collettivo: Dracula, la Mummia, l'Uomo Lupo e, naturalmente, il mostro di Frankenstein. Ma se c'è un film che è riuscito a elevare il gotico horror degli anni trenta in qualcosa di più complesso e visionario, quello è La moglie di Frankenstein.
James Whale, che aveva già diretto il primo Frankenstein nel 1931, non era convintissimo di fare un seguito. Accettò solo dopo le insistenze di Carl Laemmle Jr., imponendo però pieno controllo creativo e persino la possibilità di trattare faccia a faccia con i censori del codice Hays. E quella libertà gli permise di creare una delle vette assolute del cinema horror.
Il prologo è un piccolo capolavoro metanarrativo. Mary Shelley (Elsa Lanchester) racconta al marito e a Lord Byron un possibile seguito del romanzo. Un espediente narrativo geniale che lega letteratura e cinema.
La Creatura (Boris Karloff), sopravvissuta all'incendio del primo film, vaga disperata per le campagne mentre il dottor Henry Frankenstein (Colin Clive) giura di non tornare mai più ai suoi esperimenti. Ma l'arrivo del dottor Pretorius (Ernest Thesiger), suo antico mentore, cambia tutto. Pretorius è uno scienziato ancora più folle di Frankenstein, ossessionato dall'idea di creare una nuova razza artificiale. Quando mostra a Henry le sue miniature viventi — piccoli esseri umani in barattoli di vetro, tra cui un re, una regina e un arcivescovo — capisci che siamo di fronte a un genio diabolico. Frankenstein rifiuta. Almeno finché il Mostro, manipolato da Pretorius, non rapisce la sua amata Elizabeth. Costretto dal ricatto, Henry torna nel suo laboratorio per creare una compagna per la Creatura.
Ed è qui che il film tocca il suo apice. Quando la Sposa — sempre la Lanchester — viene portata alla vita, con quella celeberrima acconciatura a cono e striature bianche ai lati (opera del leggendario truccatore Jack Pierce, ispirata alla regina egizia Nefertiti), l'effetto è dirompente. Resta in scena meno di dieci minuti, non dice una parola, eppure quei movimenti a scatti e quel sibilo simile a un gatto che soffia è sufficiente a renderla un'icona immortale dell'horror e dell'immaginario gotico. La Creatura la guarda con tenerezza e speranza. Ma quando lei scorge le sue fattezze mostruose, urla terrorizzata e lo respinge. È straziante. Il mostro di Frankenstein, finalmente consapevole della propria impossibilità di essere amato, decide di porre fine a tutto: "Noi moriamo. Voi vivete", dice prima di far esplodere il laboratorio.
L'idea del mostro che vuole una compagna è presente nel romanzo di Mary Shelley, ma nel libro, Frankenstein la distrugge prima di infonderle la vita. Whale ribalta questa scelta, permettendo alla Sposa di nascere e di esprimere il suo libero arbitrio.
Whale dirige con maestria assoluta. La fotografia di John J. Mescall — che, pare, fosse spesso ubriaco sul set ma continuasse comunque a fare un lavoro straordinario — è spettacolare. E la colonna sonora di Franz Waxman crea quell'atmosfera di malinconia e terrore che permea l'intero film. Ma oltre alla perfezione tecnica, ciò che rende questo film un capolavoro è la sua capacità di mescolare generi passando dall'horror alla commedia nera, dalla satira sociale a quello più drammatico. Pensiamo alla sequenza con l'eremita cieco (O.P. Heggie) che accoglie la Creatura, le offre cibo e amicizia senza giudicarla per il suo aspetto. Gli insegna a parlare. Per la prima volta, il mostro sperimenta gentilezza. Ma anche questa felicità finisce in tragedia.
Boris Karloff, pur protestando contro l'idea di far parlare la Creatura, offre un'interpretazione ancora più sfaccettata. Il mostro qui impara, desidera, soffre. È un essere profondamente umano intrappolato in un corpo mostruoso.
Whale descrive magistralmente la condizione del reietto, del diverso. Alcuni hanno letto in questo la sua esperienza personale — inglese, omosessuale, trapiantato nella Hollywood puritana degli anni trenta. Ma è una lettura riduttiva. Whale mirava più in alto: sbeffeggiava religione, patriarcato, censori e lo stesso pubblico che bramava mostri sullo schermo ma non tollerava alcuna diversità nella realtà.
A proposito dei censori. Whale ingaggiò una vera e propria battaglia giocando di astuzia e intelligenza. Così, mentre li accontentava togliendo le inquadrature che si soffermavano troppo sulla scollatura della Lanchester nel prologo, ci infilava nel frattempo satira religiosa, sessualità ambigua e una creatura femminile che dice no al suo “promesso sposo”. Geniale.
La moglie di Frankenstein non fu un progetto facile. Tra incidenti sul set, alcolismo diffuso, problemi su problemi, il film rischiò più volte di naufragare. Eppure, nonostante tutto, il risultato finale fu straordinario.
Quando uscì nelle sale, il film fu un successo al botteghino venendo accolto con recensioni entusiastiche e consolidando ulteriormente la Universal come casa dell'horror per eccellenza.
Nel corso degli anni, La moglie di Frankenstein ha ispirato innumerevoli omaggi, parodie e reinterpretazioni. Da Frankenstein Junior di Mel Brooks, sicuramente il più celebre e forse l'unico capace di parodiare un capolavoro e, in un certo senso, superarlo, fino al recente The Bride! di Maggie Gyllenhaal.
Tecnicamente impeccabile, emotivamente devastante, visivamente sontuoso, La sposa di Frankenstein - il cui stesso titolo ha contribuito a diffondere la falsa informazione sul fatto che Frankenstein sia il nome della Creatura e non del creatore - non è solo uno dei migliori sequel di sempre, ma un classico dell'horror che ogni amante del cinema dovrebbe vedere almeno una volta.
Film
V/H/S
di Registi vari
Non sono mai stato un grande amante degli horror girati come se fossero filmati amatoriali ritrovati per caso. Si chiamano found-footage o mockumentary e a partire da The Blair Witch Project passando a Paranormal Activity, REC e tanti altri – ricordando sempre che il precursore è stato Cannibal Holocaust –hanno dato vita a un vero e proprio sottogenere horror che ha conquistato una sua fetta di pubblico e mercato.
V/H/S, uscito nel 2012, si inserisce perfettamente in questo genere, con la pecularità che è un film a episodi ognuno realizzato da un regista diverso, un’antologia dell’orrore in formato analogico, dove ogni storia viene ripresa come se fosse stata davvero trovata in una vecchia videocassetta impolverata.
La trama principale che fa da cornice ai vari episodi segue un gruppo di giovani teppisti ingaggiati per rubare una misteriosa videocassetta VHS all'interno di una villa. Durante la loro ricerca, si imbattono in una serie di cassette che contengono i cinque episodi del film, ciascuno con la sua storia disturbante.
Amateur Night, diretto da David Bruckner vede tre ragazzi che vanno in giro a far festa. Uno di loro indossa occhiali con una videocamera incorporata. Rimorchiano due ragazze, di cui una particolarmente strana che si rivelerà essere qualcosa di molto più pericoloso di quanto immaginassero.
In Second Honeymoon di Ti West, una coppia è in viaggio on the road attraverso l'America. Una misteriosa ragazza, durante la notte in un motel, si intrufola nella loro camera trasformando quella che doveva essere una seconda luna di miele in un incubo.
L'episodio intitolato Tuesday the 17th per la regia di Glenn McQuaid è ambientato nei dintorni di un lago e di un bosco, rielaborando lo slasher alla Venerdì 13. Quattro ragazzi in vacanza si trovano minacciati da un misterioso killer soprannaturale.
The Sick Thing That Happened to Emily When She Was Younger diretto da Joe Swanberg, sfrutta lo schermo di un computer e lo split screen di Skype, raccontando una ghost story in cui Emily sospetta attività paranormali nella sua casa con apparizioni inquietanti e un colpo di scena finale.
Infine in 10/31/98, diretto da collettivo Radio Silence, quattro amici si imbattono in una casa infestata con conseguenze impreviste durante la notte di Halloween.
L’idea alla base di V/H/S è davvero interessante, e l’omaggio alle vecchie videocassette, quelle che i cinefili di una certa età usavano per registrare film dalla televisione,ha qualcosa di irresistibilmente nostalgico. Prima delle piattaforme e dello streaming, quanti titoli recuperati di notte su Fuori Orario ho visto in questo modo.
Il problema è che non tutti gli episodi del film sono dello stesso livello, e nel complesso li ho trovati neanche troppo paurosi. Personalmente ho apprezzato molto il primo, quello con la ragazza inquietante fin dalla prima inquadratura, e quello della giovane che parla via Skype con il fidanzato mentre intorno a lei accadono cose inspiegabili. Anche l’ultimo episodio, con i suoi effetti poltergeist particolarmente risuciti, riesce a catturare un certo spirito da "notte di Halloween". Però è proprio la cornice narrativa di "Tape 56" che mi è apparsa debole e pretestuosa. Dai, un gruppo di teppisti che si trova dentro una casa isolata, con il proprietario morto stecchito sul divano, e loro che fanno? Si mettono allegramente a visionare una dopo l'altra le videocassette trovate. Certo, come no.
Il limite più grande, però, è la natura stessa del found footage. La fotografia sgranata, il continuo sballottamento della camera, la recitazione improvvisata funzionano solo se la storia è solida. Quando non lo è, l’effetto “videocassetta ritrovata” diventa più un ostacolo che una scelta stilistica.
Detto questo, V/H/S resta un’operazione interessante. Ha avuto il merito di rilanciare il film horror a episodi e di dare visibilità a registi che continueranno a muoversi nel genere.
Non a caso, da questo esperimento sono nati sequel e spin-off vari, segno che il concept — più che il risultato — ha colpito nel segno.
La vendetta di Halloween - Trick 'r Treat
di Michael Dougherty
Ma sì, vediamoci un film di Halloween ad Halloween, come vuole la tradizione.
Mettendo da parte i soliti classici, la mia scelta è caduta su Trick ’r Treat – o, come l'hanno ribattezzato da noi con una certa fantasia, La vendetta di Halloween (evidentemente "Dolcetto o scherzetto" suonava troppo innocuo) – film americano del 2007 diretto da Michael Dougherty e prodotto da Bryan Singer, quello degli X-Men.
Cinque storie s'intrecciano nella notte di Halloween, legate dalla presenza di un piccolo mostriciattolo omicida travestito da Jack-o-lantern. Abbiamo un preside che nasconde un hobby piuttosto macabro, un gruppo di giovani che decide di fare uno scherzo di troppo, quattro ragazze a caccia di maschi che vanno a una festa assai particolare e una coppia che scopre, a proprie spese, cosa succede a chi non rispetta le regole della notte delle zucche.
Trick ’r Treat è uno di quei film che non vanno presi troppo sul serio.
Una commedia horror sbarazzina, ben confezionata e visivamente accattivante, che gioca con i cliché del genere alternando ironia, macabro e un tocco di nostalgia per certo cinema anni ottanta. Michael Dougherty costruisce un mosaico di storie intrecciate in perfetto stile Creepshow e I racconti della Cripta, omaggiando con intelligenza le atmosfere pulp e le morali beffarde di quelle antologie.
Previsto inizialmente per l’uscita in sala nel 2007, il film fu bloccato per motivi distributivi dalla Warner e distribuito solo due anni dopo direttamente in home video. Una sorte che ne ha però alimentato il fascino, trasformandolo col tempo in un piccolo cult di Halloween, riscoperto ogni ottobre da chi ama l’horror più giocoso e decorativo.
A mio avviso resta un film di intrattenimento, piacevole da guardare ma che scivola via con la stessa leggerezza con cui si scarta una caramella. Perfetto per la notte di Halloween, ma destinato a essere dimenticato non appena si spengono le zucche.
Film
The End? L'inferno fuori
di Daniele Misischia
Mi sono recuperato questo interessante horror zombesco italiano prodotto dai Manetti Bros. The End? L’inferno fuori (noto in fase di lavorazione come In un giorno la fine) è un film del 2017 diretto da Daniele Misischia e scritto insieme a Cristiano Ciccotti.
Ambientato a Roma, il fim si svolge prevalentemente all'interno di un ascensore durante una epidemia di zombie.
Il protagonista della storia è Claudio Verona (interpretato da Alessandro Roja, il Dandi di Romanzo Criminale), un cinico e rampante manager che si appresta a raggiungere l’ufficio per un importante appuntamento di lavoro. Salito sull’ascensore, improvvisamente questo si blocca e Claudio si ritrova intrappolato tra due piani. Quello che sembrava un fastidioso contrattempo si rivelerà invece la sua salvezza. All’esterno, infatti, un misterioso virus sta trasformando le persone in creature affamate di carne: gli infetti invadono le strade e nessuno è più al sicuro. Rinchiuso nella cabina, Claudio assiste al disastro attraverso lo schermo del suo smartphone, tra notizie frammentarie e messaggi disperati della moglie, mentre osserva con terrore, attraverso la fessura delle porte, l’aggressione dei suoi colleghi e la loro orribile trasformazione in zombi famelici che tentano di penetrare in quello che è ormai diventato il suo rifugio.
Prima ancora del tentativo di rinascita dell’horror italiano degli ultimi anni – il cui picco, a mio parere, resta ancora A Classic Horror Story – nel 2017 Daniele Misischia e i Manetti Bros. hanno avuto il coraggio (o la follia) di proporre un film di zombie tutto italiano, indipendente e realizzato con una sorprendente dose di intelligenza produttiva. La scelta di ambientare quasi tutto in un ascensore, oltre a risolvere in un colpo solo il problema del budget, è una trovata geniale per far salire la tensione e quel senso di claustrofobia, il vero motore emotivo del film. Certo, non è un’idea nuovissima – il primo titolo che viene in mente è Devil di John Erick Dowdle – ma funziona, e funziona pure bene.
La visione del mondo esterno filtrata dalla fessura delle porte – una sorta di Camera Caffè in salsa horror – poteva forse essere giocata meglio per farci saltare sulla sedia, ma tant’è. Qualche ingenuità qua e là, dialoghi che a volte arrancano e una recitazione un po’ sopra le righe non mancano, ma guardando il bicchiere mezzo pieno – e quando si tratta di un film di genere italiano, coraggioso e dichiaratamente low budget, tendo sempre a essere indulgente – The End? si fa apprezzare per la cura visiva, per la fotografia ben calibrata e soprattutto per l’idea di fondo: un uomo arrogante e antipatico costretto a guardarsi dentro mentre fuori esplode l’apocalisse.
Le scene splatter sono presenti il giusto, magari un po’ troppo educate per i miei gusti – un paio di budella in più non avrebbero guastato – ma è nel finale che arriva la vera chicca. Vedere Roma, la mia città, trasformata in una landa deserta infestata dai cadaveri di zombi (o infetti, scegliete voi) è un colpo d’occhio notevole. Un po’ come 28 giorni dopo, ma con il lungotevere, ponte Sisto e Castel Sant Angelo sullo sfondo.
Possesor
di Brandon Cronenberg
Possessor, secondo film di Brandon Cronenberg, prosegue l’eredità paterna spingendosi verso territori di inquietudine tecnologica e identità frammentata.
Il film ha per protagonista Tasya Vos (Andrea Riseborough), un’agente al servizio di una misteriosa organizzazione segreta che utilizza impianti neurologici per prendere il controllo dei corpi di altre persone e compiere omicidi su commissione. Nonostante i segni di instabilità dopo la sua ultima missione, la sua superiore le affida un nuovo incarico, entrare nella mente di Colin Tate (Christopher Abbott), un uomo destinato a sposare l’ereditiera Ava Parse, con il compito di eliminare il padre di lei, un potente magnate del data mining. Ma l’operazione sfugge presto al controllo, e Tasya rimane intrappolata nel corpo dell’ospite, che tenta di rigettare l’intruso in una battaglia mentale tra due coscienze in lotta per la stessa identità.
Alla sua seconda pellicola, Brandon Cronenberg conferma di non vivere all’ombra del padre, ma di muoversi con passo deciso in un territorio personale. Possessor è un lucidissimo incubo sulla perdita dell’identità, dove la fantascienza diventa strumento per parlare di controllo, alienazione e potere. L’idea di prendere possesso delle menti altrui per compiere omicidi non è nuova, ma lo è la sua messa in scena algida, ipnotica e visionaria. Un’estetica che mi ha ricordato Refn per l’uso dei colori e per la freddezza emotiva, in cui Cronenberg non lesina violenza e sangue a cui è difficile restare impassibili.
A tratti un po’ contorto e surreale, non esente da un certo autocompiacimento, ma con una forte densità simbolica che restituisce profondità e inquietudine, sostenuto dall’ottima prova dei due protagonisti.
Possessor è un fanta-thriller autoriale che parla di disumanizzazione e perdita del sé, un’esperienza tanto cerebrale quanto viscerale.
Under the Shadow - L'ombra della paura
di Babak Anvari
Prima volta che mi trovo di fronte a un horror iraniano, e devo dire che mi sorprende come questo genere riesca a oltrepassare ogni confine, adattandosi alle culture più diverse pur restando fedele a un linguaggio comune capace di dare forma alle nostre paure più intime.
Under the Shadow, uscito in Italia con il titolo L'ombra della paura, è un horror soprannaturale del 2016 scritto e diretto da Babak Anvari, che rielabora la paura delle presenze demoniache attraverso la cultura iraniana.
Ambientato a Teheran alla fine degli anni '80, durante la guerra tra Iran e Iraq, il film ha per protagonista Shideh (Narges Rashidi), una giovane madre musulmana alla quale, a causa del suo passato attivismo politico all’università, è stato impedito di proseguire gli studi di medicina. Delusa per non poter realizzare il sogno della madre, recentemente scomparsa, Shideh si ritrova sola quando il marito, medico, viene mandato al fronte.
Con la città sotto la costante minaccia dei bombardamenti, la donna cerca di proteggere la figlia Dorsa, ma la tensione cresce quando un missile colpisce l’edificio in cui abitano. L’ordigno non esplode, ma apre una crepa nel soffitto e con essa sembra spalancarsi un varco invisibile. Shideh inizia a sospettare che presenze maligne — i djinn, spiriti della tradizione mediorientale — si siano insinuate nel suo appartamento, prendendo di mira la bambina e facendo sparire la sua bambola preferita.
Privata del suo giocattolo, Dorsa si rifiuta di lasciare la casa, alimentando un crescente conflitto con la madre e trasformando la loro quotidianità in un claustrofobico incubo domestico.
Under the Shadow è un ottimo horror psicologico che si muove su più livelli di lettura. Da una parte c’è il ritratto di una donna frustrata e isolata, costretta a cavarsela da sola con una bambina difficle, inquieta (e fastidiosamente piagnucolosa) che sostiene di vedere una presenza legata ad antiche leggende. L’appartamento in cui vivono diventa una trappola mentale e fisica, uno spazio opprimente che richiama, pur con sensibilità diversa, l’atmosfera di Babadook.
Dall’altra parte c’è lo sfondo politico e sociale dell’Iran degli anni ottanta (e non che oggi la situazione sia molto cambiata), dove la donna è oppressa e privata dei propri diritti, costretta a muoversi entro limiti imposti dal patriarcato e dalla religione. Anche un gesto dettato dal panico, come uscire in strada senza velo, può essere punito con le frustate. Il tutto mentre Teheran è travolta dalla guerra, tra sirene, esplosioni e rifugi che diventano l’unico riparo possibile.
In questo contesto la protagonista — una convincente Narges Rashidi — affronta un progressivo crollo emotivo. È una madre insoddisfatta, sola, schiacciata dal senso di colpa e da un rapporto sempre più teso con la figlia, che rappresenta insieme amore e ostacolo ai suoi desideri di libertà. La scelta di non abbandonare la casa diventa così un gesto simbolico, l’ultimo tentativo di conservare la propria indipendenza.
I demoni che la perseguitano potrebbero essere reali, frutto della mente o metafora della guerra stessa. Anvari è abile nel mantenere il dubbio, sospendendo lo spettatore tra realtà e incubo.
Under the Shadow è un esordio sorprendente e intelligente, capace di creare tensione senza ricorrere al sangue, grazie a una buona regia e un uso sapiente dello spazio e del non detto. Un paio di momenti fanno davvero sobbalzare, ma ciò che resta è la forza del suo sottotesto politico e umano: il modo in cui la paura diventa metafora della condizione femminile e, più in generale, della sopravvivenza sotto ogni forma di oppressione.
Un eccellente esempio di come l’horror possa farsi veicolo di riflessione, senza mai rinunciare alla sua potenza emotiva.
Vicious - I tre doni del male
di Bryan Bertino
Vicious – I tre doni del male è un horror psicologico a tinte demoniache uscito direttamente su Paramount+, diretto da Bryan Bertino, un regista di genere che ha già all'attivo un paio di film.
La storia vede come protagonista Polly (Dakota Fanning), una donna in chiara fase depressiva che vive da sola in una casa in disordine, senza lavoro, senza legami, priva di qualsiasi slancio verso la vita. Una notte riceve la visita di un’anziana sconosciuta che le consegna una scatola di legno e una clessidra, avvertendola che ha un’ora di tempo per mettere nella scatola una cosa che odia, una di cui ha bisogno, e una che ama, o morirà.
Da quel momento, la sua abitazione diventa un labirinto di incubi e visioni, dove passato e presente si intrecciano, ricordi dolorosi riaffiorano e figure familiari si manifestano come presenze demoniache. La solitudine che da tempo la imprigiona assume contorni sempre più minacciosi, fino a trasformarsi in una trappola psicologica.
Mentre la sabbia nella clessidra scorre inesorabile, Polly è costretta a guardare dentro se stessa e a scegliere cosa sacrificare per salvarsi, scoprendo che il vero male non sempre proviene dall’esterno, ma spesso nasce proprio da ciò che portiamo dentro.
Vicious è un horror soprannaturale con una buona dose di tensione, qualche scena sanguinosa e un paio di jumpscare piuttosto telefonati — ironico, considerando che nel film i telefoni squillano di continuo. Bryan Bertino punta tutto sull’atmosfera angosciante e claustrofobica, costruendo un racconto sospeso tra realtà e allucinazione, dove il dubbio che tutto avvenga nella mente della protagonista diventa il vero motore del film.
Dakota Fanning è brava e regge da sola l’intera messa in scena, mentre la regia di Bertino si mantiene solida e funzionale, senza particolari guizzi ma coerente con il tono della storia. Peccato che, dopo un inizio promettente, Vicious finisca per arenarsi, dilatando troppo i tempi e smarrendo la forza del suo spunto iniziale. Il risultato è un filmetto appena sufficiente, corretto nella forma ma destinato a scivolare via senza lasciare traccia.
The Raven (1935)
di Lew Landers
The Raven è uno di quei film che hanno contribuito a consolidare la leggenda dell’horror targato Universal negli anni trenta. Diretto da Lew Landers nel 1935, nasce nel solco di The Black Cat dell’anno precedente, ispirandosi alle opere di Edgar Allan Poe e riunendo la stessa coppia di interpreti — Boris Karloff e Bela Lugosi — ma distinguendosi per una maggiore crudezza e per una più marcata ossessione morbosa.
Il dottor Richard Vollin (Bela Lugosi) è un neurochirurgo geniale che vive nel culto di Poe, tanto da aver ricreato nel proprio scantinato gli strumenti di tortura descritti nei racconti dello scrittore. Quando salva la vita di una giovane donna, se ne innamora perdutamente e sogna di farne la sua musa. Di fronte al rifiuto, la sua mente cede e con l’aiuto del criminale Bateman (Boris Karloff) — che egli stesso sfigura per piegarlo al proprio volere — architetta una vendetta raffinata e sadica, attirando la ragazza, il padre e altri ospiti in una trappola degna del suo autore preferito.
The Raven è un film di specchi e riflessi, dove i due protagonisti diventano il doppio distorto l’uno dell’altro. Vollin vede in Bateman la propria mostruosità interiore, e in lui trova la materia su cui esercitare la sua poetica della crudeltà. Karloff è il corpo, Lugosi è la mente, e tra i due si consuma una danza macabra che anticipa, per certi versi, l’horror psicologico moderno.
Lew Landers, pur meno celebrato dei suoi colleghi Whale o Browning, dirige un film dall’atmosfera torbida e ossessiva, in cui l’istrionico Lugosi domina la scena rispetto a Karloff — costretto a rinverdire i fasti di Frankenstein — muovendosi con eleganza follia all’interno di un incubo teatrale, tra camere segrete e torture meccaniche. Tra queste spicca, ancora prima di Roger Corman, la celebre tortura del pozzo e del pendolo.
Saw - L'enigmista
di James Wan
All’inizio degli anni zero, ovvero nel primo decennio del XXI secolo, l’horror americano non se la passava tanto bene. A parte poche eccezioni, erano gli anni di Scream e delle sue infinite imitazioni, film che giocavano più sulla parodia del genere che sulla sua reinvenzione. L’estetica era patinata, i personaggi adolescenti e i colpi di scena telefonati. L’horror aveva perso la sua anima sporca, il suo odore di sangue e paura autentica.
Poi, nel 2004, arrivò Saw. Un film piccolo, quasi indipendente, che con un budget ridicolo e un’idea semplice ma brutale riuscì a risvegliare il genere dal torpore. James Wan, all’epoca ventisettenne, e lo sceneggiatore Leigh Whannell riportarono l’orrore nelle stanze chiuse, nei corpi mutilati, nelle scelte morali impossibili.
La storia inizia con due uomini che si risvegliano in un bagno fatiscente, incatenati ai lati opposti della stanza. Al centro, il corpo senza vita di un uomo disteso in una pozza di sangue, una pistola e un registratore a cassette. Lawrence (Cary Elwes) è un medico oncologo. Adam (lo stesso Whannell che interpreta uno dei protagonisti) è un giovane fotografo. Nessuno dei due ricorda come sia finito lì.
Quando riescono ad ascoltare il messaggio inciso sul nastro, scoprono di essere le pedine di un gioco orchestrato da una mente sadica che li costringe a confrontarsi con la propria sopravvivenza. L’assassino, noto come Jigsaw, non uccide direttamente le sue vittime ma le sottopone a prove estreme, costringendole a scegliere se vivere o morire.
"Vivere o morire? Fate la vostra scelta."
Prendiamo l’atmosfera torbida e il thriller investigativo di Seven, la morbosità e la tensione claustrofobica di Cube, aggiungiamo un colpo di scena degno de I soliti sospetti e una sceneggiatura a incastri piena di indizi ed enigmi (quella che, insieme al film di Natali, avrebbe ispirato anni dopo il fenomeno delle escape room). Versiamoci dentro una buona dose di sangue e violenza, e soprattutto un serial killer affascinante, una sorta di carnefice-purificatore che – con le fattezze di un inquietante pupazzo – punisce attraverso trappole tanto ingegnose quanto terrificanti chiunque ritenga non dia sufficiente valore alla vita.
Infine, confezioniamo il tutto con una regia dinamica e un montaggio dal gusto videoclipparo, figlio dei tempi e vicino all’estetica disturbante dei video dei Tool o di Marilyn Manson. Il risultato è Saw - L’enigmista, uno dei maggiori successi horror degli anni duemila, capace di incassare oltre cento milioni di dollari nel mondo a fronte di un budget irrisorio. Un film che ha riportato l’orrore alla sua dimensione più carnale, fisica e splatter, recuperando quella sporcizia visiva e quella crudeltà morale che avevamo conosciuto negli anni settanta.
Non sarà un capolavoro di originalità, ma a James Wan e Leigh Whannell va riconosciuto il merito di aver ridato sangue a un genere che negli Stati Uniti stava morendo. Da Saw in poi sarebbe arrivata un’intera ondata di sequel, più o meno discutibili – se ne contano una decina, ma personalmente al terzo ho gettato la spugna – e il film avrebbe aperto la strada al torture porn degli anni duemila, con Hostel come erede più diretto. In ogni caso, tutto parte da qui: da un bagno sudicio, due uomini incatenati e un’idea semplice ma spietata, che ha cambiato il volto dell'horror moderno.
Film
La vestale di Satana
di Harry Kümel
All’inizio degli anni settanta il cinema europeo attraversa una fase in cui l’horror e il mito del vampiro abbandona il gotico tradizionale per trasformarsi in un simbolo di desiderio, trasgressione ed erotismo esplicito, spesso con sfumature lesbiche. Film come Vampyros Lesbos di Jesús Franco, Vampiri amanti di Roy Ward Baker o Violenza ad una vergine nella terra dei morti viventi di Jean Rollin incarnano perfettamente questa tendenza, dove il sangue e l’erotismo si confondono, e il femminile assume una forza ipnotica e perturbante.
In questo clima nasce Les Lèvres Rouges, film del 1971 noto in Italia come La vestale di Satana, diretto dal belga Harry Kümel.
Stefan e Valérie, una giovane coppia in viaggio di nozze, fanno tappa a Ostenda e trovano rifugio in un grande hotel, deserto a causa della bassa stagione. L’atmosfera è sospesa, come se il tempo avesse smesso di scorrere. Poco dopo arriva un’altra ospite, la contessa Elizabeth Bathory (Delphine Seyrig), donna dal fascino magnetico, accompagnata dalla sua misteriosa assistente Ilona. La contessa, elegante e inquietante, esercita un’attrazione irresistibile su entrambi i giovani, mentre efferati delitti si susseguono nella zona. Man mano che Stefan sprofonda nell’attrazione per la contessa, Valérie viene risucchiata in un gioco inquietante, dove la bellezza, il desiderio e la paura si mescolano. Omicidi sanguinosi di giovani ragazze incombono, e la verità sulla vera natura della contessa diventa sempre più evidente.
Chi ama il genere e conosce il fascino oscuro del mito dei vampiri sa bene chi fosse Elizabeth Bathory, la contessa ungherese del XVI secolo che, secondo le leggende, torturava e uccideva giovani fanciulle per bagnarsi nel loro sangue, convinta che ciò le avrebbe garantito eterna giovinezza e bellezza. Harry Kümel riprende questa figura storica e la fonde con l’archetipo della vampira femminile di Carmilla di Le Fanu, dando vita – attraverso l’interpretazione magnetica di Delphine Seyrig, all’epoca sua compagna – a una donna elegante, misteriosa e pericolosa. Insieme alla sua devota assistente Ilona, sorta di schiava del piacere, la contessa riesce a soggiogare una giovane coppia di sposi ospite di un maestoso e silenzioso albergo affacciato sul mare di Ostenda.
Kümel accenna anche a una sottotrama che rimane poco sviluppata, in cui il giovane Stefan sembra nascondere torbidi segreti familiari, in particolare legati al rapporto con la madre. In una breve ma significativa scena telefonica, la madre appare come un uomo truccato, ambiguo e teatrale, dettaglio che amplifica il senso di inquietudine e doppiezza che percorre tutto il film.
La vestale di Satana vive principalmente di atmosfere, dialoghi calibrati e silenzi densi di tensione. Il ritmo è lento ma preciso, e il gusto estetico di Kümel si apprezza non solo nelle composizioni sceniche e nei costumi, ma anche nell’alternanza di colori vividi e ombre notturne. Il rosso, per esempio, simbolo di sangue, eros e morte, viene addirittura usato in diverse dissolvenze – splendido nella scena della camera da letto in cui l'assistente di Elisabath posa il suo foulard rosso sull’abat-jour e il rosso avvolge la stanza lasciando intendere una notte di passione.
È un film che seduce più con l’immagine che con la trama, più con il ritmo ipnotico e l’estetica decadente che con l’orrore esplicito. Lento, elegante e sensuale dove la paura nasce dalla bellezza e dal mistero, più che dal sangue o dal terrore.
Film
Bones and All
di Luca Guadagnino
Primo film ambientato negli Stati Uniti per Luca Guadagnino, che dopo Suspiria torna all'horror con Bones and All, film del 2022 tratto del romanzo Fino all'osso di Camille DeAngelis. Specifichiamo, il genere horror in questo film è solo il pretesto per raccontare una storia d'amore tra due adolescenti – affetti da una particolare condizione – che viaggiano nelle strade polverose di un america di provincia alla ricerca della loro identità.
Il film segue le vicende di Maren (Taylor Russell), una diciottenne che fin dall’infanzia manifesta istinti cannibali. Dopo l’ennesimo episodio, il padre decide di abbandonarla, lasciandola sola con una cassetta in cui gli racconta la sua storia e il suo certificato di nascita. Inizia così il viaggio di Maren attraverso gli Stati Uniti, alla ricerca della madre e di un’origine che possa spiegare la sua diversità. Durante questo viaggio scopre altri suoi simili tra i quali Sully (Mark Rylance) un anziano ma inquietante cannibale in cerca di compagna, Jake (Michael Stuhlbarg) un cannibale psicopatico ed efferrato e sopratutto Lee (Timothée Chalamet), un ragazzo tormentato dal passato, in fuga tanto dagli altri quanto da sé stesso. Insieme, Maren e Lee attraversano l’America profonda, affrontando le proprie paure, le pulsioni, e il rapporto con la diversità e l’emarginazione.
Tra horror cannibalesco, dramma on-the-road e racconto di formazione, Bones and All è una storia di solitudine, desiderio di appartenenza e disperata ricerca d’amore. Guadagnino costruisce un film che riflette sull’emarginazione e sulla diversità, scegliendo di raccontarle attraverso una sensibilità più emotiva che realmente horror.
Dal punto di vista visivo il film è curatissimo. La fotografia è calda e malinconica, le inquadrature ampie restituiscono l’immensità dell’America rurale, e la regia conferma la grande padronanza tecnica di Guadagnino, capace di trasformare ogni scena in un quadro sospeso. Tuttavia, dietro questa eleganza formale, ho trovato una certa debolezza narrativa. La sceneggiatura procede in modo lineare, senza veri slanci e particolari evoluzioni. Brava e convincente Taylor Russell, meno Chalamet mono espressivo. Anche la loro storia d’amore, pur attraversata da momenti di intensità, non riesce a coinvolgere del tutto, per colpa di una scrittura che tende a ripetersi e a scivolare verso un melò adolescenziale dai toni prevedibili.
Le scene horror, dosate con attenzione, non cercano mai la paura quanto piuttosto il disagio. I momenti di autentica tensione arrivano quasi esclusivamente grazie alla presenza magnetica di Mark Rylance, unico personaggio davvero inquietante del film. Tutto il resto si muove su un piano più sentimentale ed esistenziale, dove il cannibalismo diventa metafora della fame interiore, del bisogno d’amore, della difficoltà di accettare ciò che di noi stessi non vogliamo vedere.
La colonna sonora firmata da Trent Reznor e Atticus Ross accompagna con discrezione, ma non lascia il segno come in altri loro lavori.
Bones and All resta quindi un film interessante e ben realizzato, visivamente affascinante ma che alla fine non è riuscito a coinvolgermi veramente.
Together
di Michael Shanks
Together è il film di esordio per Michael Shanks, un altro regista australiano che dopo Sean Byrne e i fratelli Philippou si cimenta con l'horror contemporaneo. In questo caso si tratta di un body horror che affronta il tema della coppia, la dipendenza affettiva e la prigione emotiva.
Tim e Millie (interpretati rispettivamente da Dave Franco e Alison Brie) sono una giovane coppia che decide di trasferirsi in una casa in campagna. Lei è un insegnante che desiderà stabilità e un futuro insieme, lui è un musicista mancato segnato dalla perdita dei genitori. Prima di partire Millie ha fatto una proposta di matrimonio, ma Tim ha esitato, mettendola in imbarazzo di fronte agli amici. La coppia sta attraversando un periodo di crisi, i due non fanno sesso da tempo e lontano dalla città sperano di recuperare la loro relazione. Durante un'escursione vicino alla loro nuova casa, cadono in una grotta sotterranea durante un temporale e decidono di accamparsi lì per la notte. Al mattino Tim e Millie trovano le gambe parzialmente attaccate. E' l'inizio di un incubo in cui i loro corpi iniziano a fondersi, a incastrarsi l’uno nell’altro, rendendoli letteralmente inseparabili.
Il corpo come specchio delle relazioni. È questa la chiave con cui Michael Shanks racconta Together, portando il body horror su un piano intimo ed emotivo. La fusione fisica di Tim e Millie diventa metafora dell’amore come dipendenza, della coppia come spazio in cui l’individualità rischia di dissolversi.
La regia alterna con intelligenza momenti di autentico orrore a sequenze di commedia nera, mantenendo sempre la tensione emotiva. Il gore è presente ma mai gratuito. Dave Franco e Alison Brie – coppia anche nella vita reale – sostengono il film con un’interpretazione credibile anche quando la vicenda sfocia nel grottesco, come nella scena del rapporto nel bagno della scuola o in quella in cui i due sono attratti l’uno all’altro come calamite. Lui fragile e irrisolto, lei determinata ma stanca, entrambi intrappolati in una danza che alterna cura e rancore. La loro chimica rende palpabile la contraddizione di un amore che nutre e al tempo stesso consuma.
Nonostante qualche incertezza narrativa, soprattutto nel finale, la miscela di generi funziona: la grotta, il rito pagano, la filosofia e persino le Spice Girls si integrano con sorprendente coerenza. Con effetti prostetici efficaci che rimandano a Cronenberg, Yuzna e più di recente The Substance, Shanks utilizza il romanticismo del mito platonico – l’essere umano incompleto che cerca l’altra metà – in chiave horror.
Together diventa così la storia di una relazione di dipendenza tossica, la paura di donarsi sacrificando parte del proprio ego per crescere come coppia. Un horror che parla al presente, gioca con i generi e non teme l’ironia. Ottimo esordio per Michael Shanks.
Film
The Mist
di Frank Darabont
Frank Darabont è un regista americano conosciuto per aver portato su pellicola alcune opere scritte da Stephen King. Nel 2007, dopo Le ali della libertà e Il miglio verde, Darabont trasporta sullo schermo cinematografico The Mist, racconto del Re del Brivido contenuto nella raccolta Scheletri.
Dopo un violento temporale che devasta la sua casa nel Maine, l’illustratore David Drayton (Thomas Jane) si reca in città con il figlioletto Billy per procurarsi cibo e provviste. Mentre si trovano all'interno di un supermercato, improvvisamente, una nebbia densa e innaturale avvolge l’intera area, rendendo ogni cosa invisibile. Ben presto si scopre che dietro quel velo lattiginoso si nascondono creature mostruose, letali e spaventose, provenienti da un’altra dimensione. La paura dilaga non solo all’esterno, ma anche tra le corsie del supermercato, dove il fragile equilibrio della comunità si incrina. Panico, tensioni e fanatismi portano alcuni a seguire le farneticazioni apocalittiche della signora Carmody (Marcia Gay Harden), mentre altri lottano per mantenere la ragione. In questo clima di crescente disperazione, David, Amanda (Laurie Holden), Billy e pochi altri decidono di rischiare il tutto per tutto avventurandosi all'esterno, preferendo affrontare le minacce che si nascondono nella nebbia.
The Mist non è soltanto un horror di mostri, ma soprattutto un film sull’uomo messo di fronte all’ignoto e alla paura. Darabont costruisce un microcosmo che riflette la fragilità della società, mostrando come il vero pericolo non provenga tanto dalle creature nascoste nella nebbia, quanto dal panico che dilaga tra gli uomini. È in questo clima che il fanatismo religioso, incarnato dalla signora Carmody, prende il sopravvento, rivelandosi più distruttivo e pericoloso delle minacce esterne.
La regia di Darabont, pur senza virtuosismi, mantiene un ritmo teso e costante, sfruttando al meglio gli spazi chiusi e la claustrofobia della situazione. Gli effetti speciali, limitati da un budget non elevato, non sempre convincono, ma riescono comunque a sostenere la narrazione. Per gran parte del film, confinato all’interno del supermercato, The Mist appare come una rivisitazione moderna del cinema horror degli anni settanta, da Romero a Carpenter, peraltro citati più volte. Un buon horror sulla natura umana e sui meccanismi sociali che emergono nelle crisi, dove i veri mostri sono quelli che si aggirano fra di noi. Se vogliamo nulla di particolarmente eclatante o originale… almeno fino al finale.
Lo dico subito e senza esitazione. The Mist ha uno dei finali più devastanti, spietati e memorabili del cinema. Al pari di capolavori come Fight Club, I Soliti Sospetti o addirittura Psycho, possiede una forza emotiva dirompente. Un epilogo completamente diverso da quello immaginato da King, ma che lo stesso autore ha dichiarato di aver apprezzato senza riserve.
Attenzione. Da qui in poi gli spoiler sono inevitabili.
Tutto si concentra negli ultimi tredici minuti. David, il figlio Billy e pochi superstiti abbandonano il supermercato e si avventurano nella nebbia a bordo di un’auto, attraversando una città deserta e devastata dalle creature. È in quel momento che, per la prima volta, irrompe la musica — fino ad allora la pellicola era stata priva di colonna sonora. Sono le note solenni di organo che introducono The Host of Seraphim dei Dead Can Dance. Un brano evocativo, quasi liturgico, in cui la voce ancestrale di Lisa Gerrard trasforma la fuga in un viaggio sospeso tra vita e morte. Per chi, come me, ha da sempre apprezzato la loro musica e considera questa una delle più grandi composizioni del gruppo, può immaginare quanto, sentirla per la prima volta nel finale straziante di questo film, sia stata un’esperienza di pura pelle d’oca.
Senza meta, immersi in un silenzio irreale e circondati da creature gigantesche, quasi uscite dall’immaginario lovecraftiano, i nostri sopravissuti vagano a bordo della macchina nella nebbia. Quando la benzina finisce e ogni speranza sembra svanita, David prende una decisione estrema. Per risparmiare ai suoi compagni e al figlio una morte orribile, li uccide con la pistola che aveva con sé. Rimasto senza proiettili, disperato e straziato dal dolore, esce dall’auto pronto a farsi divorare dai mostri. Ma è proprio in quell’istante che la nebbia si dirada e appare l’esercito, che ha sconfitto le creature e ristabilito l’ordine. La salvezza era a un passo, e David comprende di aver sterminato chi amava pochi secondi prima della liberazione. È un finale che colpisce come un pugno nello stomaco, ribaltando l’intero film in un epilogo di disperazione assoluta. Non c’è consolazione, non c’è sollievo, solo un crudele senso di beffa. Darabont nega allo spettatore il "lieto fine" a cui Hollywood ci ha abituato, lasciandoci invece con un vuoto insostenibile.
Un epilogo spietato, indimenticabile, che trasforma un buon horror in qualcosa di più. Un film che, a mio avviso, si avvicina al capolavoro.
Film
La casa delle tenebre
Jo Nesbø
Jo Nesbø è un prolifico scrittore norvegese di thriller che ha raggiunto il successo con la serie dell’investigatore Harry Hole. Nel 2023 decide di cimentarsi per la prima volta con un romanzo horror, La Casa delle Tenebre.
Il romanzo è diviso in tre parti e copre un arco temporale di quindici anni. Protagonista è Richard Elauved, un ragazzo che dopo la morte dei genitori in un incendio viene mandato a vivere dagli zii nella cittadina di Ballantyne. Solitario e diffidente verso i compagni di scuola, trova conforto solo in Karen, la sua unica amica, di cui è segretamente innamorato. Un giorno, per gioco, convince un compagno di nome Tom a fare uno scherzo telefonico da una cabina nel bosco. Ma quando Tom alza la cornetta, il ricevitore lo divora, inghiottendolo pezzo dopo pezzo. Naturalmente la polizia non crede a una parola, e quando un altro ragazzo scompare – trasformandosi in un insetto – Richard viene accusato e spedito in riformatorio. Da qui in poi si susseguono eventi sempre più inquietanti che lo metteranno a confronto con una forza oscura e minacciosa.
Di seguito sono costretto a spoilerare. Avvisati.
Fin dall’incipit, e in verità già dal titolo, si capisce che l’originalità non è di casa. La prima parte ricorda un racconto alla Piccoli Brividi, con qualche eco della Trilogia del Drive-In di Joe R. Lansdale, ma senza la carica dissacrante che la rendeva irresistibile. Il risultato è una storia banale e prevedibile, che più che spaventare annoia.
Poi arriva la seconda parte e scopriamo che tutto quello che abbiamo letto non era altro che un romanzo scritto e pubblicato dal protagonista per una collana horror young adult (ah, ecco). Ma non basta, anche la rimpatriata con i vecchi compagni di scuola, tra situazioni grottesche e surreali, si rivela alla fine un sogno. E con lei pure la prima parte. Insomma, quasi duecento pagine di vicende strampalate e incongruenti si dissolvono in un colpo solo: era tutto nella testa di Richard, ricoverato da quindici anni in un ospedale psichiatrico e sottoposto a elettroshock per rimuovere un trauma infantile.
Che dire, un colpo di genio… o una bella cagata. Per più di due terzi Nesbø ci racconta una storia bislacca che non fa paura neanche per sbaglio, per poi liquidarla con il classico "era tutto un sogno". Una scelta che più che sorprendere irrita, perché lascia il lettore con la spiacevole sensazione di aver perso tempo.
Il problema di leggere un libro deludente è che un film brutto lo guardi in un paio d’ore e al massimo ti fai una risata, un libro, invece, ti chiede giorni, settimane, energie. Quando alla fine ti accorgi che non solo non è valso lo sforzo, ma che ti ha pure preso in giro, la delusione pesa il doppio.
Jo, l'horror lascialo a chi lo sa fare.
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