
The Ghoul
di T. Hayes Hunter
The Ghoul è un film horror inglese del 1933 diretto da T. Hayes Hunter.
Perduto per decenni, venne ritrovato nei primi anni settanta, inizialmente in una copia danneggiata, poi – circa dieci anni dopo – in una versione integra che fu restaurata e distribuita in home video.
Liberamente tratto da un romanzo di Frank King, il film racconta la storia del professor Morlant (Boris Karloff), egittologo ossessionato dall’aldilà, convinto che un antico gioiello possa garantirgli la vita eterna. Alla sua morte, il servitore a cui aveva dato precise disposizioni sul suo funerale, gli sottrae il prezioso manufatto. A complicare le cose, un gruppo di ospiti indesiderati – nipoti ereditieri, un avvocato viscido, un prete sospetto – si aggira per la sua tetra dimora. E quando il cadavere di Morlant esce dalla suo sarcofago e scopre che il gioiello è scomparso, l’ira del morto vivente si abbatte contro tutti i presenti nella sua casa.
Nonostante il titolo evochi creature mostruose, The Ghoul ha poco di soprannaturale. Il suo orrore si muove nella penombra della Old Dark House, tra mistery teatrale e commedia nera. È il cugino inglese di Il gatto e il canarino, ma con le suggestioni dell’antico Egitto, già viste ne La mummia di Freund, per rivestire di esotismo e inquietudine una vicenda tutta terrena fatta di avidità, superstizione e tradimenti. Prodotto dalla piccola casa britannica Gaumont, che cercava di emulare i successi dell’horror hollywoodiano, il film segna anche il ritorno di Boris Karloff nel Regno Unito. Il suo personaggio è quasi muto, ma basta la sua gestualità, la rigidità delle movenze e lo sguardo febbrile a restituire un’icona del terrore. Il resto del cast si muove tra fanciulle svenevoli e servitori dall’etica discutibile, dentro un impianto visivo dall'estetica espressionista.
Nostante una trama assai esile e un finale che smonta l’apparente soprannaturale riportando tutto al terreno, The Ghoul si lascia apprezzare per l'estetica, grazie alla fotografia firmata da Günther Krampf – già direttore della fotografia di Nosferatu – che trasforma la casa in un labirinto d’ombre, manufatti egizi e silenzi inquetanti.

Presence
di Steven Soderbergh
Steven Soderbergh, regista di Sesso, bugie e videotape e tanti altri film, firma con Presence un thriller soprannaturale atipico, più inquietante che spaventoso, dove l’elemento horror resta in sottofondo, a favore di un’indagine intima sul lutto e l'incomunicabilità.
La storia, scritta da David Koepp, ruota attorno a una famiglia che si trasferisce in una grande casa suburbana appena ristrutturata nel New Jersey. Rebecca (Lucy Liu) e Chris (Chris Sullivan), si stabiliscono lì con i loro due figli adolescenti. Chloe (Callina Liang) è una ragazza fragile, ancora scossa dalla morte improvvisa della sua migliore amica Nadia, un evento attribuito a un’overdose. Tyler (Eddy Maday), il fratello maggiore, è una giovane promessa del nuoto, poco empatico verso la sorella e "cocco" di mamma.
All’apparenza la nuova casa sembra perfetta, due piani, un’ampia cucina e una scuola di prestigio nei paraggi. Ma dietro quella facciata si nasconde qualcosa di inquieto. Una presenza invisibile abita la casa, un fantasma che osserva ogni cosa in silenzio e sembra interessarsi in modo particolare a Chloe. Lei è l’unica a percepirla e si convince che possa trattarsi del fantasma della sua amica morta.
La vera particolarità che distingue Presence da molte ghost story è la scelta radicale della messa in scena. Tutto il film si svolge dal punto di vista della presenza che abita la casa, una soggettiva fluttuante che dà forma a lunghi piani sequenza. Silenzioso e invisibile, il fantasma osserva giorno dopo giorno una famiglia tesa da rancori, favoritismi, segreti, egoismi e silenzi. L’effetto è straniante, quasi voyeuristico, ma mai gratuito. La cinepresa di Soderbergh – che firma anche fotografia e montaggio – si comporta come uno spettro curioso, alla ricerca di un senso tra le crepe del quotidiano.
Con il passare del tempo, la presenza inizia a interagire con Chloe, attraverso piccoli segni e movimenti impercettibili. Ma è con l’arrivo di Ryan (West Mulholland), amico del fratello, che qualcosa cambia. Troppo affettuoso, troppo rapido nell’instaurare una confidenza con la ragazza, Ryan rivela presto un’ambiguità disturbante. È qui che la presenza smette di limitarsi a osservare e comincia a manifestarsi con maggiore decisione.
Costato poco più di due milioni di dollari, il film di Soderbergh non è solo un esercizio di stile travestito da ghost story e thriller. Sì, alla fine si scoprirà l’identità della presenza – anche se l’idea di un fantasma [spoiler] tornato indietro nel tempo per proteggere Chloe [/spoiler] appare piuttosto forzata – ma si tratta a tutti gli effetti di un esperimento autoriale coraggioso. Un film quasi sperimentale, dove alla staticità di Skinamarink (sì, lo so, non c’entra nulla ma lo cito come esempio di horror di "rottura" - qualcuno potrebbe aggiungere in tutti i sensi) si sostituisce la fluidità dei movimenti.
Un film di fantasmi anomalo, in cui Soderbergh gioca con lo spazio, i silenzi e l’invisibile. Più che un horror "de paura", una riflessione sul vuoto affettivo. Perché il vero fantasma, qui, è l’incapacità di ascoltare chi ci sta vicino.

La casa delle bambole - Ghostland
di Pascal Laugier
Nonostante qualche difficoltà tecnica nella visione, mi sono visto Ghostland, un horror di Pascal Laugier del 2018 distribuito in Italia con il titolo La casa delle bambole, in aggiuta al titolo originale. Per una volta mi sento di condividere questa scelta, anche perché più che i fantasmi, a dominare la scena sono proprio le bambole.
Il film racconta la storia di due sorelle adolescenti, Beth (Emilia Jones da giovane, Crystal Reed da adulta) e Vera (Taylor Hickson e Anastasia Phillips), che si trasferiscono con la madre (Mylène Farmer) nella casa ereditata da una zia eccentrica, in una località sperduta della provincia americana.
Due sconosciuti, a bordo di un sinistro furgone dei dolci, fanno irruzione nella casa. Una coppia di psicopatici — una donna ambigua e sfuggente e un energumeno calvo con disturbi psichici — aggredisce la madre e inizia a torturare le due ragazze.
Anni dopo, Beth, ormai scrittrice di successo, torna in quella casa per ritrovare la sorella e affrontare il trauma. I confini tra realtà e allucinazione si sfaldano. Il vero orrore è nella mente o nella realtà?
Senza entrare nei dettagli — anche se il colpo di scena a metà film è tutt’altro che sorprendente — Ghostland si muove nel territorio del torture porn, senza estremi, ma con ritmo serrato e montaggio frenetico.
La casa, tra bambole inquietanti, luci soffuse, tappezzerie pesanti e specchi segreti, è la vera protagonista. Dei due psicopatici — un Severus Piton transgender e un obeso bamboccione dalle pulsioni sessuali deviate — non sappiamo nulla. Servono solo alla messa in scena, come le bambole, che restano puro elemento visivo.
A un certo punto spunta anche H. P. Lovecraft, già citato nel cartello iniziale, che appare alla giovane Beth con il suo bel mascellone per darle consigli da scrittrice. Un omaggio gradito, ma francamente scollegato dalla trama.
Una nota tragica accompagna il film: l’attrice Taylor Hickson si è ferita seriamente al volto durante una scena sul set.
Pascal Laugier, dopo Martyrs, realizza un horror derivativo ma ben confezionato. Sceneggiatura scarna, atmosfera cupa, qualche suggestione visiva azzeccata. Ghostland si lascia guardare. Non è memorabile, ma neanche da buttare.
Film
La morte corre incontro a Jessica
di John Hancock
La morte corre incontro a Jessica, diretto da John Hancock nel 1971, è un film semisconosciuto che con il tempo è stato rivalutato come una delle pellicole più interessanti del cinema horror americano degli anni settanta. Nato in un’epoca di sperimentazioni e contaminazioni, mescola suggestioni gotiche, disagio mentale e inquietudini post-hippie, costruendo un’atmosfera sospesa e disturbante.
Dopo un periodo trascorso in un istituto psichiatrico, Jessica (Zohra Lampert) si trasferisce con il marito Duncan (Barton Heyman) e l’amico Woody (Kevin O’Connor) in una vecchia casa colonica del Connecticut, sperando di ritrovare equilibrio e serenità. All’arrivo trovano Emily (Mariclare Costello), una giovane misteriosa senza fissa dimora che dice di aver trovato riparo in quella casa da qualche tempo. Invitata a restare, la sua presenza innesca una serie di eventi inquietanti: Jessica comincia a sentire voci, a vedere una figura spettrale e a temere una ricaduta nella follia. Mentre il clima si fa più opprimente, la linea tra realtà e paranoia si assottiglia, lasciando emergere dubbi, tensioni e presagi oscuri.
Il film si muove sul confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tra il disagio e la follia, lasciando lo spettatore in una zona grigia, ambigua, dove nulla è spiegato fino in fondo. Jessica sospetta che Emily sia una vampira, ma il film evita di prendere posizione e resta sospeso tra paranoia e soprannaturale. Può spiazzare, certo, ma è proprio questo spaesamento a creare un senso di inquietudine duraturo.
Visivamente, è un’opera affascinante. La fotografia è splendida, i paesaggi hanno un che di spettrale, la casa isolata in riva al lago sembra uscita da un incubo. Anche la colonna sonora contribuisce con suoni acidi e dissonanti, generati da synth analogici, a costruire un’atmosfera tesa e ipnotica.
Quello che funziona meno non è tanto il ritmo dilatato — che in un film così ci può anche stare — quanto certe situazioni ripetitive e dei dialoghi davvero troppo banali. Se ci si aspetta un horror classico, con trama lineare e colpi di scena, si rischia la delusione. Ma se lo si accoglie per ciò che è — un viaggio disturbato nella mente di una donna fragile — allora riesce a colpire nel segno.
Consiglio di vederlo in lingua originale.

Final Destination
di James Wong
La morte. Nel cinema è stata rappresentata in diverse forme. Austera e filosofica ne Il settimo sigillo di Bergman, grottesca e sarcastica ne Il senso della vita, affascinante e seduttiva in Vi presento Joe Black.
In Final Destination, film del 2000 diretto da James Wong, la Morte si reinventa diventando una presenza invisibile che non ha volto né voce, una forza astratta che attraverso coincidenze, oggetti quotidiani e piccoli dettagli si riprende ciò che le è stato sottratto.
La storia ha per protagonista Alex, un liceale in partenza con i suoi compagni di classe per una gita a Parigi. Poco prima del decollo viene colto da una visione agghiacciante, l’aereo esploderà in volo. In preda al panico, viene fatto scendere insieme ad alcuni compagni e a un’insegnante. Pochi minuti dopo l’incubo si avvera, l’aereo esplode davvero, proprio come aveva previsto.
Ma la vera minaccia deve ancora rivelarsi. I superstiti scoprono presto di non essere affatto al sicuro. Uno dopo l’altro iniziano a morire in circostanze bizzarre e inquietanti, come se un disegno invisibile stesse rimettendo le cose al loro posto.
Alex intuisce che la Morte ha un piano, e che sfuggirle una volta non basta.
Final Destination nasce da un’idea di Jeffrey Reddick, inizialmente pensata per un episodio mai realizzato di X-Files. Il progetto viene poi trasformato in un film dalla New Line Cinema, con la sceneggiatura firmata da James Wong e Glen Morgan, volti noti proprio della serie di Chris Carter.
Rivedendolo oggi, il film porta addosso tutti i segni del tempo. Ingenuità narrative, un cast acerbo formato da giovani attori pescati dalle serie televisive dell’epoca, e una struttura che ricalca in pieno gli stereotipi del teen-horror di fine anni novanta. Ma l’intuizione alla base resta originale e dirompente. Togliere di mezzo il killer mascherato per affidare la strage alla morte stessa, trasformata in una presenza invisibile ma implacabile, capace di costruire incidenti come trappole a orologeria. È lo slasher che diventa soprannaturale.
Nel panorama horror post-Scream, ormai in fase calante, Final Destination cambia le regole: non importa chi uccide, ma quando e come. Il film gioca sull’attesa e sull’ingegno delle morti, restituendo una buona tensione (soprattutto nei primi quindici minuti) per poi intrattenere grazie all’inventiva della morte improvvisa, efferata e, in un certo qual modo, divertente – quella dell’insegnante resta tra le più memorabili per ironia e costruzione.
E se pensiamo che questo è solo il primo capitolo di una lunga saga (proprio in questi giorni è uscito il sesto), vuol dire che l’idea in fin dei conti non era per niente male. Una struttura semplice ma solida, capace di rinnovarsi restando fedele a un concept forte, che ha saputo parlare al pubblico giusto nel momento giusto.

Bring Her Back - Torna da me
di Danny e Michael Philippou
A distanza di tre anni dal successo ottenuto con Talk to me tornano i fratelli Philippou con un nuovo horror. Prodotto sempre dalla A24, Bring Her Back - Torna da me, abbandona le possessioni adolescenziali affrontando il tema del lutto e dell'ossessione.
La storia ruota attorno a due fratelli, Piper (Sora Wong) e Andy (Billy Barratt). Piper è una ragazzina ipovedente che riesce a distinguere solo luci e forme sfocate, ma questo non le impedisce di essere curiosa e piena di vitalità. Andy, protettivo nei suoi confronti, porta dentro di sé le ferite di un passato difficile. Alla morte del padre, i due vengono affidati a Laura (Sally Hawkins), una nuova madre adottiva che vive in una casa isolata di campagna insieme a un altro bambino, Oliver (Jonah Wren Phillips), un ragazzino muto, calvo e dal comportamento inquietante. Col passare dei giorni, Piper e Andy scoprono che la casa è circondata da un misterioso cerchio di gesso bianco, e che Laura, segnata dalla perdita della figlia Cathy, sembra nascondere un oscuro segreto.
Bring Her Back è un horror che punta tutto sulla tensione psicologica. I Philippou evitano i colpi di scena facili e preferiscono costruire l’inquietudine scena dopo scena, senza mai dare una visione chiara e completa. L’atmosfera è disturbante, sospesa, con influenze da folk horror, rituali oscuri e found footage che accentuano il senso di spaesamento. Le sequenze più estreme sfiorano lo splatter, ma sono sempre funzionali e ben realizzate, grazie a ottimi effetti pratici. Il cuore del film, però, è la prova di Sally Hawkins, magnetica nel ruolo di una madre adottiva fragile e disturbata, sospesa tra tenerezza e follia.
Rispetto a Talk to Me, questo film è meno commerciale e più disordinato. La trama lascia diversi interrogativi – il rituale, ad esempio, è spiegato in modo confuso con la protagonista che sembra apprenderlo da vecchie videocassette come se stesse vedendo un tutorial su YouTube – ma sul piano emotivo e visivo resta potente. Un horror imperfetto, ma che colpisce per l’intensità del suo disagio.

Il signor Diavolo
di Pupi Avati
Nel 2019, Pupi Avati – maestro del cinema italiano da sempre attratto dai territori ambigui dell’occulto e della memoria, come dimostrano La casa dalle finestre che ridono e L’arcano incantatore – torna al genere che meglio gli appartiene con Il signor Diavolo, un horror rurale che affonda le radici nella tradizione del gotico padano. Con la sua consueta sensibilità per l’inquietudine quotidiana, Avati ci porta in una provincia veneta cattolicissima, sospesa tra fede cieca e superstizione popolare.
La storia è ambientata nell’autunno del 1952, in una frazione lagunare del Veneto. Un giovane funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia (Gabriele Lo Giudice) viene inviato da Roma per indagare su un caso delicatissimo: un ragazzo di quattordici anni, Carlo Mongiorgi, ha ucciso un coetaneo, Emilio Vestri Musy, sostenendo che fosse “il Diavolo in persona”. Il caso rischia di mettere in imbarazzo la Democrazia Cristiana, il partito politico che all’epoca era alla guida del paese e molto legato alla chiesa cattolica. Attraverso una serie di flashback e testimonianze, si ricostruisce un mondo dominato da fanatismo, pregiudizio e paure ataviche. Emilio, figlio di una famiglia influente, viene descritto come una creatura disturbante, con denti animaleschi e un comportamento inquietante, al punto da essere temuto dai suoi stessi compagni di catechismo. La figura del “bambino-demonio” nasce dall’immaginario collettivo, alimentata da una religiosità più vicina al terrore che alla speranza. L’indagine, presto, si trasforma in un viaggio sempre più incerto, in cui razionalità e superstizione si confondono, e il male sembra potersi manifestare in forme del tutto ordinarie.
Il signor Diavolo è un film che lascia sensazioni ambivalenti. Girato con mezzi limitati, presenta una fotografia desaturata, dominata da toni marroni, che restituisce un certo sapore d’epoca ma finisce per appiattire l’immagine. Il sonoro è debole, con dialoghi spesso sussurrati e difficili da seguire, mentre la messa in scena richiama per ritmo e impostazione quella degli sceneggiati della RAI. A questo si aggiungono un protagonista poco carismatico, una sceneggiatura discontinua e un finale un pò troppo sbrigativo.
Eppure, nonostante i limiti, il film ha quel sapore nostalgico apprezzato dagli amanti del cinema del passato. I riferimenti storici sono ben calibrati e restituiscono un’Italia del dopoguerra ancora profondamente immersa nella religione, dove politica e fede si intrecciano fino a diventare indistinguibili. Le location agresti – campi brulli, chiese isolate, canoniche polverose – sono perfettamente in linea con l’estetica avatiana e contribuiscono a creare un’atmosfera autentica, carica di inquietudine.
Il cast, almeno quello composto da volti noti del cinema di Avati come Gianni Cavina, Lino Capolicchio e Alessandro Haber, offre interpretazioni capaci di compensare le prove anonime e fastidiosamente sussurrate dei giovani attori. Da segnalare anche la buona prova di Chiara Caselli nel ruolo della madre di Emilio, figura ambigua e carica di tensione.
Più che spaventare, Il signor Diavolo lavora sulla suggestione, sul non detto, sull’idea che il male possa annidarsi nelle pieghe più banali della realtà. È un film nostalgico, forse anche un po’ autocelebrativo, ma elegante e coerente con il percorso autoriale di Avati. Un'opera che guarda a un’Italia scomparsa, ma ancora capace di farci tremare, se solo sappiamo ascoltarne i fantasmi.
Film
You'll Never Find Me - Nessuna via d'uscita
di Josiah Allen, Indianna Bell
A distanza di due anni dalla sua uscita originale, arriva in Italia You’ll Never Find Me – Nessuna via d’uscita, thriller horror australiano firmato da Josiah Allen e Indianna Bell, qui al loro debutto alla regia di un lungometraggio. Il film è un piccolo esperimento di tensione claustrofobica, ambientato in un’unica location (una roulotte), con due soli attori e una lunga, lunga notte da attraversare.
La storia si svolge durante una notte tempestosa. All’interno di una grande roulotte, parcheggiata in un’area desolata, Patrick (Brendan Rock), uomo solitario e non proprio il tipo da aperitivo con gli amici, viene disturbato da colpi insistenti alla porta. Fuori c’è una ragazza (Jordan Cowan), scalza, fradicia e visibilmente scossa, che chiede di poter fare una telefonata e magari ottenere un passaggio per tornare in città. Lui non ha il telefono, né l’auto, ma le offre ospitalità fino a quando il temporale non sarà passato. Tra reciproca diffidenza e inquietudine, i due iniziano a parlarsi, in un clima che si fa via via più misterioso e carico di tensione.
Il film gioca molto sull'ambiguità e su chi dei due sia davvero in pericolo. La giovane senza nome è vittima o manipolatrice? E Patrick è solo un tipo bizzarro o qualcosa di molto peggio? Nessuno dei due sembra dire tutta la verità, e più parlano, più cresce la sensazione che entrambi abbiano parecchio da nascondere. Le contraddizioni abbondano, i racconti non tornano, e lo spettatore si ritrova intrappolato in un gioco psicologico dove ogni gesto è potenzialmente una minaccia.
La regia lavora benissimo sul non detto, sulle attese e sui silenzi, con inquadrature di porte e tende che fanno presagire presenze nascoste e pericoli in agguato. Il sound design fa il resto: la pioggia incessante, i tuoni, il vento, gli scricchiolii della roulotte diventano parte integrante della tensione, quasi fossero altri personaggi nella scena.
Il film, nonostante i tempi dilatati, tiene lo spettatore incollato fino all’ultima mezz'ora, quando i ruoli si chiariscono, le maschere cadono – o almeno così sembra – e il thriller psicologico si trasforma in un vero e proprio horror allucinato. Il finale, pur non essendo un colpo di scena memorabile, è gestito con mestiere e riesce a chiudere il cerchio con un tocco disturbante, tra sensi di colpa, giochi mentali e incubi psicotici.
Nel complesso You’ll Never Find Me è un piccolo (di budget) film costruito sull’atmosfera e sull’ambiguità. Certo, il finale potrà sembrare un po’ prevedibile e forse anche confusionario, ma la tensione c’è, e tiene. Se vi piacciono le storie claustrofobiche, giocate sul filo della paranoia e della suggestione, questo è un titolo che merita una visione. Magari in una notte di pioggia.
Film
Sinister
di Scott Derrickson
Sinister non lo avevo ancora visto. Ne avevo sempre sentito parlare bene e, da amante dei film horror, lo avevo in lista da tempo. Alla regia c’è Scott Derrickson, giovane regista americano conosciuto per L'Esorcismo di Emily Rose ma anche per aver diretto il marvelmovie Doctor Strange, e il più recente Black Phone. Pare che l’idea per Sinister sia venuta allo sceneggiatore Christopher Robert Cargill dopo aver visto il The Ring americano. Ma la cosa più curiosa è un’altra: secondo un esperimento chiamato "Science of Scare" – in cui un gruppo di volontari ha guardato film horror con il cardiofrequenzimetro al polso – Sinister risulterebbe il film più spaventoso di tutti i tempi. Almeno secondo la scienza.
Protagonista del film è Ellison Oswalt (Ethan Hawke), scrittore di true crime in crisi creativa. Alla ricerca di ispirazione, si trasferisce con la famiglia nella casa dove è avvenuto un brutale omicidio, sperando di ricavarne materiale per il suo prossimo libro. In soffitta trova una scatola con vecchie pellicole Super 8 apparentemente innocue. Ma una volta proiettate, rivelano una serie di efferati omicidi familiari, ciascuno accompagnato da un sottofondo disturbante e da una presenza enigmatica. Indagando, Ellison scopre un antico culto legato alla figura del Bughuul, un’entità demoniaca che si nutre dell’anima dei bambini.
Sinister è un horror decisamente riuscito. Non ha nulla di particolarmente originale, sia chiaro, ma il risultato funziona. L’idea di base è quella del ritrovamento di vecchie pellicole in super 8, degli snuff movies che documentano con glaciale freddezza una serie di omicidi familiari avvenuti in epoche e luoghi diversi. In comune hanno tutti due elementi: il figlio più piccolo sparisce sempre, e in un angolo dell’inquadratura – sfocato, riflesso, seminascosto – si intravede un volto inquietante. Il nostro protagonista, convinto di aver trovato del materiale valido per scrivere il suo nuovo bestseller, comincia a guardare i filmini compulsivamente, entrando in una spirale paranoica. Più analizza, più le immagini lo ossessionano. Finché le cose iniziano a prendere una piega pericolosamente reale: quei filmini non sono solo testimonianze di omicidi, ma veri e propri strumenti per evocare Bughuul.
A un certo punto ho messo in pausa il film per prendere un gelato dal frigo (Antò, fa caldo), e neanche a farlo apposta l'ho fermato nel frame in cui appare la faccia del demone. Esperienza metafilmica al limite dell’inquietante. Detto ciò, Bughuul non è proprio il mostro più spaventoso che si sia mai visto. Ha un’estetica un po’ death metal – sembra il frontman di una band norvegese – e non ha il carisma visivo dei grandi boogeyman dell’horror. Però l’idea che possa esistere solo se “visto”, se la sua immagine viene trovata e guardata, è interessante e aggiunge un bel livello di paranoia.
Originale o no, il film è ben costruito e Derrickson sa esattamente cosa fare. L’atmosfera è cupa, disturbante, avvolgente. Niente jump scare a raffica, qui la tensione arriva nei modi più sottili – un’inquadratura troppo silenziosa, un’ombra che si muove appena, il suono della pellicola che gira da sola nel buio.
La storia regge, il finale funziona (e non è scontato), ed Ethan Hawke regge bene il ruolo. Peccato per il resto del cast: la moglie sembra una comparsa in vacanza, i figli sono ritagliati con lo stampino, e il vicesceriffo è lì solo per fare da spalla. Anche i bambini fantasma, forse per via del trucco un po' posticcio, non fanno tutto questa gran paura.
Ma dove Sinister colpisce davvero è nel suono. Il montaggio sonoro è fondamentale per costruire la tensione, e la colonna sonora di Christopher Young è una delle più interessanti sentite negli ultimi anni. Tra rumori industriali e inserti ambient, ci sono brani degli Ulver, Aghast e persino dei Boards of Canada che aumentano il senso di isolamento e claustrofobia come un macigno sulla schiena.

La maschera di cera (1933)
di Michael Curtiz
La maschera di cera, in originale Mystery of the Wax Museum, è uno dei primi film a colori della storia del cinema. La tecnica usata è il Technicolor a due colori, che riproduceva solo una gamma limitata di tonalità, combinando rosso e verde ma escludendo il blu. Il risultato è una palette cromatica calda e innaturale, spesso con una dominante rosso-marrone o verdognola. Una resa pittorica e surreale, perfetta per l’atmosfera gotica e inquietante del racconto.
Diretto da Michael Curtiz, regista ungherese trapiantato negli Stati Uniti e noto soprattutto per Casablanca, il film è prodotto dalla Warner Bros. e si ispira a un’opera teatrale mai realizzata.
Nel cuore di una tetra Londra ottocentesca, l’artista Igor (Lionel Atwill) scolpisce statue di cera talmente realistiche da sembrare vive. Tra le sue opere più ammirate ci sono Voltaire, Giovanna d’Arco e Maria Antonietta, ma l’attività non rende e il suo socio decide di incassare l’assicurazione appiccando un incendio. Il museo va distrutto e Igor, nel tentativo di salvare le sue creazioni, resta orrendamente sfigurato.
Anni dopo, nella New York del 1933, Igor riappare con un nuovo museo delle cere, specializzato in rappresentazioni macabre e morbose. Quando iniziano a sparire cadaveri dall’obitorio cittadino, la giovane giornalista Florence (Glenda Farrell) nota una somiglianza inquietante tra le nuove statue e le vittime scomparse. Decisa a scoprire la verità, si troverà di fronte a un orrore ben più tangibile della semplice cera.
I musei delle cere hanno sempre avuto qualcosa di inquietante. Statue immobili con occhi vitrei, sorrisi congelati e dettagli morbosamente realistici si prestano bene ad alimentare quella sottile linea tra il vivo e il morto, tra l’arte e il perturbante. La maschera di cera del 1933 è uno dei primi film a giocare con questo tipo di fascinazione (non il primo in assoluto — Il gabinetto delle figure di cera di Paul Leni lo aveva anticipato di quasi un decennio), e lo fa con eleganza gotica e scenografie che rimandano all’espressionismo tedesco.
Più che un horror, il film è un melodramma macabro con punte grottesche e una forte vena ironica. Merito soprattutto della giornalista Florence, interpretata da una frizzante Glenda Farrell, più interessata allo scoop del secolo che alla verità metafisica. Le sue battute ("l’amore è bello, ma solo se ha un conto in banca") sono fulminanti, ciniche e per certi versi ancora attualissime. Le scene davvero inquietanti si concentrano nel finale, ma è l’atmosfera, più che la paura, a dominare il racconto.
Vent’anni dopo, Vincent Price avrebbe reso la storia ancora più sinistra, in un remake che riprende quasi alla lettera dialoghi e sceneggiatura del film di Curtiz.
Film
Skinamarink - Il risveglio del male
di Kyle Edward Ball
Skinamarink – Il risveglio del male è un horror decisamente fuori dall’ordinario.
Film d’esordio del canadese Kyle Edward Ball, che si era fatto notare su YouTube con una serie di corti ispirati agli incubi raccontati dai suoi follower, Skinamarink è un’opera che potremmo definire radicalmente sperimentale. Un film che richiede tempo, pazienza e attenzione. Non si preoccupa di spiegare, non cerca di intrattenere nel senso classico del termine, ma punta tutto sull’atmosfera, sull’astrazione e sul non-detto. Diventato virale tramite passaparola sui social, è stato definito da alcuni un viaggio ipnotico nell’inconscio, da altri una prova di resistenza alla noia. Non sorprende che abbia spaccato in due pubblico e critica.
Girato interamente all’interno dell’appartamento in cui il regista è cresciuto, il film restituisce immagini che sembrano provenire da una vecchia VHS sgranata, come se qualcuno avesse lasciato accesa per errore una telecamera in casa. Lunghe inquadrature statiche, spesso decentrate, sfocate, rivolte verso angoli vuoti, su pareti spoglie, soffitti, prese elettriche.
La trama – se così si può chiamare – ruota attorno a due bambini lasciati soli in una grande casa buia. Siamo nel 1995, Kevin, quattro anni, e sua sorella Kaylee, sei anni, si svegliano nel cuore della notte e scoprono che il padre è sparito. Con lui, cominciano a scomparire anche finestre, porte, oggetti quotidiani. Kevin propone di dormire al piano di sotto, davanti alla TV, che trasmette vecchi cartoni animati. Ma al risveglio, la casa è ancora più buia, ancora più vuota. Si sentono rumori inspiegabili, voci distorte, e a un certo punto una sedia appare capovolta sul soffitto. Una presenza invisibile sembra aggirarsi nell’oscurità, durante una notte che non vuole finire mai.
Ball cerca di evocare le paura che tutti, da bambini, abbiamo avuto almeno una volta, quella di svegliarsi nel cuore della notte, da soli, senza genitori, in una casa che improvvisamente ci appare ostile, vuota, e silenziosa. I due bambini protagonisti, Kevin e Kaylee, non ci vengono mai mostrati chiaramente. Sono sagome che attraversano in silenzio l’inquadratura, spesso di spalle. Anche il padre resta una figura indistinta. Lo si sente solo all’inizio, al telefono, raccontare – forse alla madre – di aver portato Kevin in ospedale dopo averlo trovato a terra, sonnambulo, con una ferita alla testa. Ma non vediamo nulla. Tutto si svolge fuori campo, mentre la macchina da presa indugia su dettagli apparentemente insignificanti. E così sarà per tutto il film. Un’ora e quaranta di riprese fisse nella penombra, interrotte soltanto dalla luce fredda del televisore acceso. Ball lavora per sottrazione. Svuota i fotogrammi, dilata il tempo narrativo, elimina quasi del tutto l’azione, creando una tensione fatta di vuoto, attesa e disorientamento. A colmare questa rarefazione visiva interviene il suono: un sound design curatissimo, fatto di fruscii, disturbi elettrici, bisbigli, rumori ovattati che sembrano provenire da un’altra dimensione.
Skinamarink è un film fatto di sensazioni e percezioni. Non racconta, suggerisce. Il significato – sempre che ce ne sia uno preciso – è lasciato completamente allo spettatore, che può interpretarlo come metafora dell’abbandono, sogno febbrile o viaggio nell’inconscio. La casa diventa un limbo, un vuoto sospeso in cui i bambini sembrano prigionieri di un incubo senza uscita.
Vedendolo mi ha ricordato l'atmosfera di Strade Perdute di Lynch, soprattutto nella sua prima parte domestica, ma l'ho collegato anche al romanzo Casa di foglie di Mark Z. Danielewski, con cui condivide quella sensazione disturbante di oppressione e spazio che si piega su se stesso.
Dal punto di vista estetico, il film è affascinante, senza dubbio. Ma una volta capito l’intento – quello di prolungare indefinitamente una tensione quasi astratta, senza mai esplodere in scene realmente spaventose – l’esperienza tende a esaurirsi. Nella scena potenzialmente più paurosa, quella in cui la madre si trova seduta di spalle sul letto, nella penombra. Anche lì, nulla accade davvero.
Skinamarink è un’esperienza, questo sì. Ma forse sarebbe stata più efficace in forma breve. Cento minuti di piani fissi e sussurri in una casa buia sono un esperimento interessante, ma anche una sfida estrema per lo spettatore.

Vampyros Lesbos
di Jesús Franco
Vampyros Lesbos è un film erotico a tema vampiresco, uno di quei film conosciuti solo dai cinefili più incalliti e da chi si nutre di cinema di genere. Io non l’avevo mai visto, anche perché in Italia non è mai uscito, ma oggi, con un po’ di pazienza, si riesce a recuperare quasi tutto. La copia che ho trovato è in spagnolo con sottotitoli in italiano, leggermente sfasati, ma poco importa, perché la trama e i dialoghi in questo film non sono essenziali.
Vampyros Lesbos è uno dei film più noti di Jesús Franco, regista spagnolo prolifico e anarchico, un outsider che ha lavorato sempre ai margini, tra produzioni a basso costo e un’estetica fatta di erotismo, delirio e fascinazioni morbose. Per anni considerato un autore di film da serie B, è stato in parte riscoperto grazie all’interesse per il cinema trash degli anni settanta e alla stima di registi come Quentin Tarantino, che lo ha citato più volte tra le sue ispirazioni.
Girato tra Istanbul, Berlino e Alicante, Vampyros Lesbos è una rilettura psichedelica, femminile ed erotica del Dracula di Bram Stoker. A incarnare il fascino ipnotico del vampiro è Soledad Miranda, attrice con cui Franco aveva già collaborato in passato. Questo fu uno dei suoi ultimi ruoli, prima di morire in un incidente d’auto pochi mesi dopo, a soli ventisette anni.
Linda (Ewa Strömberg) è una giovane donna che lavora per uno studio legale a Istanbul. Da qualche tempo è tormentata da un sogno ricorrente in cui compare una donna misteriosa, bruna, e sensuale. Lo racconta al suo psicanalista, che liquida tutto come semplici fantasie. Quando Linda accompagna il suo compagno in un night club, riconosce sul palco, in un numero erotico e surreale, proprio la donna dei suoi sogni. Poco dopo, incaricata di occuparsi di un’eredità, Linda viene mandata su un’isola sperduta per incontrare una certa Contessa Nadine Carody (Soledad Miranda), discendente della stirpe di Dracula. Per Linda inizia un lento viaggio nell’abisso, tra eros e incubo, fino a un finale enigmatico che lascia il sospetto che nulla si sia davvero concluso.
Se si mette da parte la trama, i dialoghi e più di qualche incongruenza narrativa, Vampyros Lesbos riesce pure a catturarti. Il film di Franco più che un vero horror è un viaggio psichedelico e onirico che vive di suggestioni, erotismo e visioni. Il sangue c’è, ma è così acceso da sembrare porporina, quasi a voler dichiarare sin da subito la natura artificiale e teatrale del film. Franco punta tutto sull’atmosfera, sulle scene erotiche e prolungate tra le due protagoniste, sulle scenografie lisergiche e su una colonna sonora magnetica a metà tra il jazz, la lounge e la psichedelia pura. Un film di vampiri senza buio, abbagliante e solare, dove al posto del Dracula gotico e notturno troviamo una contessa lesbica che prende il sole seminuda su una sdraio e si esibisce in locali underground con abiti succinti. Le location turche, con le loro architetture stranianti e le luci irreali, amplificano la sensazione di trovarsi in uno spazio altro, sospeso tra sogno, incubo e allucinazione. Tutto contribuisce a creare un mondo fuori asse, dove ogni gesto sembra rallentato, ipnotico, carico di un erotismo morboso e rituale.
Visto oggi, il film può spiazzare per il ritmo dilatato, per un montaggio a tratti sgangherato, e per l’uso ossessivo dello zoom, ma se ci si lascia trasportare dalle immagini e dalla musica, e non si hanno troppe aspettative in fatto di tensione narrativa o capacità degli attori, Vampyros Lesbos riesce ancora a esercitare un suo fascino.

L'isola degli zombies
di Victor Halperin
L’isola degli zombies è un horror indipendente del 1932 diretto e prodotto da Victor Halperin. La particolarità di questo film — il cui titolo originale è White Zombie — non sta solo nell’aver ispirato il nome dell’omonima band industrial degli anni novanta capitanata da Rob Zombie (poi regista e produttore horror), ma soprattutto nel fatto che è considerato il primo film a portare gli zombie sul grande schermo.
Attenzione però, non stiamo ancora parlando dei morti viventi famelici e contagiosi che George Romero codificherà ne La notte dei morti viventi. Qui gli zombie sono cadaveri riportati in vita attraverso rituali di magia nera haitiana, utilizzati come forza lavoro, servi docili e senz’anima al servizio di un oscuro maestro voodoo.
La storia racconta le vicende di Madeleine e Neil, una giovane coppia americana sbarcata ad Haiti per sposarsi nella tenuta del facoltoso Charles Beaumont. L'ospitalità di Beaumont però nasconde un’ossessione morbosa per Madeleine che lo porta, pur di averla, a rivolgersi a un sinistro maestro voodoo, il misterioso Legendre (interpretato da un magnetico Bela Lugosi).
Con l’aiuto di un potente veleno, Legendre trasforma la ragazza in una sorta di morta vivente, privandola della volontà ma non della bellezza. Mentre Neil tenta disperatamente di salvarla, scopre un mondo fatto di zombie schiavizzati, piantagioni inquietanti e incantesimi oscuri.
L'isola degli zombies, come molti horror dell’epoca, è fortemente influenzato dall’estetica dell’espressionismo tedesco: ombre nette, atmosfere sinistre, scenografie evocative. La regia di Halperin, pur semplice, sfrutta questi elementi con intelligenza, restituendo un film visivamente affascinante. Certo, siamo ancora agli albori del sonoro, e si sente. La recitazione è teatrale, con gesti melodrammatici e pause enfatiche che oggi fanno sorridere — la grazia con cui Madeleine sviene tra le braccia del suo promesso sposo è quasi esilarante. Bela Lugosi, reduce dal successo di Dracula, ruba la scena con la sua presenza inquietante. La sua interpretazione è così manierata da risultare straniante e affascinante. I ripetuti primi piani sui suoi occhi lo trasformano in un demiurgo oscuro, capace di piegare i vivi e animare i morti.
Un film certamente datato, poco conosciuto ma dal valore storico enorme in quanto segna la nascita degli zombie cinematografici.

I Peccatori (Sinners)
di Ryan Coogler
Fin dalla sua uscita al cinema, I Peccatori, il film di Ryan Coogler, regista noto per Creed e Black Panther, ha fatto parlare di sè, raccogliendo consensi positivi tra pubblico e critica.
Mississippi, 1932. Due fratelli gemelli, Smoke e Stack (entrambi interpretati da Michael B. Jordan), tornano nella loro terra d’origine dopo un passato burrascoso nei bassifondi di Chicago. Con in tasca le lezioni imparate tra racket e notti violente, acquistano una vecchia segheria con l’intenzione di trasformarla in un juke joint, un locale notturno dove la comunità nera possa ballare, bere, ascoltare musica e dimenticare, per qualche ora, le fatiche nei campi di cotone. A unirsi alla loro impresa c’è Sammie, detto Preacher Boy (Miles Caton), un giovane chitarrista blues, capace di evocare qualcosa di più grande della musica stessa. Insieme a lui, amici, parenti e vecchi complici si danno da fare per aprire il locale la sera stessa dell’arrivo dei gemelli. Tutto sembra pronto per una notte di festa, sudore e redenzione — ma qualcosa, nell’aria densa del Delta, annuncia che la vera oscurità non arriva mai bussando alla porta.
Sinners mi ha ricordato, e non poco, Dal tramonto all’alba. Stessa struttura narrativa, con due parti nettamente distinte e la virata all'horror vampiresco nel finale. Nessuno spoiler, Coogler non gioca sull’effetto sorpresa, anzi si intuisce già dalla prima scena la direzione che prenderà il film. Lo stesso predicatore mette in guardia il figlio sul potere oscuro della musica, richiamando le leggende legate alla nascita del blues e al patto col diavolo.
Restando nel gioco delle affinità cinematografiche, la prima parte de I Peccatori richiama, almeno come tematiche, Mississippi Burning, con la sua atmosfera tesa, il razzismo, il Ku Klux Klan, polvere, sudore e rabbia repressa. Vengono presentati i personaggi, introdotto il contesto storico, e reso palpabile il clima culturale e politico dell’America del sud degli anni '30. Poi, nella seconda metà, il film cambia pelle e si trasforma in un assedio alla John Carpenter, un western notturno e furibondo, dove i vampiri emergono da ogni angolo e l’istinto di sopravvivenza diventa l’unica legge.
Ma il cuore del film, il suo nucleo pulsante, è la musica. Il blues, nella sua dimensione sacra e viscerale, è il vero centro gravitazionale della narrazione. In opposizione a esso, la musica dei "bianchi" – quella irlandese, filtrata dai non-morti – diventa un controcanto sinistro, una filastrocca stregata che sembra arrivare da un’altra epoca, e da un altro mondo.
E' proprio alla musica è legata una delle sequenze più riuscite del film, quella ambientata nel juke joint, quando la serata si accende, l’alcol scorre a fiumi, i corpi sudano, danzano, si stringono. Nell’aria si respira un’euforia febbrile, carica di desiderio e carnalità. In un lungo piano sequenza – autentico momento di cinema visionario – la musica squarcia il tempo, si connette passato, presente e futuro, mette in contatto i personaggi con i loro antenati e con chi erediterà la loro storia. Corpi separati da generazioni si muovono al ritmo di una stessa pulsione, in una sinfonia che fonde strumenti, culture, sangue e memoria.
Certo, I Peccatori non è un film perfetto. Non so se sia davvero "l’horror dell’anno", come si legge in giro. Anche perchè secondo me è proprio la seconda parte, quella più horror, la più debole e priva di tensione. Anche la caratterizzazione dei vampiri bianchi come puro simbolo oppressivo, certi momenti didascalici, suonano un po' prevedibili. Ma resta un film audace, che osa fondere folklore, storia afroamericana e horror gotico senza puntare tutto sull’action. Coogler, forte di un budget solido, mette in scena un’ambientazione curata, una fotografia evocativa – quei campi di cotone sotto cieli infuocati sono puro spettacolo – e una regia consapevole dei propri mezzi.
Michael B. Jordan, nel doppio ruolo dei gemelli Smoke e Stack, non mi ha particolarmente entusiasmato. La sua performance è solida ma poco sfaccettata, e se non fosse per il cappello, spesso i due personaggi risulterebbero indistinguibili. Ma il film regge, anzi avvolge. Due ore e un quarto di horror blues caldo e viscerale, con una coda finale che prosegue anche dopo i titoli, lasciandoti addosso il sapore di un’idea di cinema popolare, contaminato, e profondamente fisico. E sì, mi è piaciuto.

La casa che grondava sangue
di Peter Duffell
La casa che grondava sangue è un horror antologico del 1971 diretto da Peter Duffell e prodotto dalla Amicus, casa di produzione britannica che, tra gli anni sessanta e settanta, fu una delle principali rivali della Hammer nel panorama del cinema horror e fantastico. Nota per il formato ad episodi – i cosiddetti portmanteau – la Amicus si distingueva per un approccio più sobrio e psicologico rispetto alla rivale storica, preferendo atmosfere più raffinate al sangue e agli eccessi visivi.
Il film è composto da quattro episodi, ognuno legato alla misteriosa casa che dà il titolo all’opera, e introdotto da una cornice narrativa in cui un ispettore di Scotland Yard, indagando sulla scomparsa di un attore, si reca nella villa affittata dall’uomo, venendo a sapere dall’agente immobiliare, alcuni fatti racappriccianti avvenuti precedentemente tra le mura di quella casa.
Nel primo episodio, uno scrittore (Denholm Elliott) si ritira nella villa per lavorare al suo nuovo romanzo, ma inizia a essere tormentato dalla figura del personaggio da lui stesso creato, un assassino psicopatico uscito forse dalle pagine per diventare reale.
Il secondo episodio, ha come protagonista un uomo solitario (Peter Cushing) che ha preso in affitto la casa per starsene da solo e dedicarsi alla lettura. Un giorno, passeggiando per il paese, visita un inquietante museo delle cere, restando affascinato dalla statua di una donna misteriosa, ignaro della pericolosa ossessione che lo attende.
Nel terzo episodio, un vedovo (Christopher Lee) si trasferisce nella casa con la figlia, una bambina dallo sguardo enigmatico e dalle inclinazioni inquietanti, che inizia a mostrare comportamenti sempre più disturbanti.
Chiude l’antologia la storia di un attore (Jon Pertwee) impegnato nelle riprese di un film horror, che entra troppo a fondo nel proprio ruolo di vampiro dopo aver acquistato un vecchio mantello di scena dalle origini sinistre.
Le quattro storie, scritte da Robert Bloch – autore leggendario di noir, thriller e horror (suo il romanzo che ha ispirato Psycho) – hanno oggi un gusto decisamente retrò, e non nascondono qualche inevitabile segno del tempo. Nonostante il titolo altisonante, di sangue non se ne vede nemmeno una goccia, ma in compenso la presenza di Christopher Lee e Peter Cushing basta da sola a nobilitare l'intero film.
Il mio episodio preferito è quello con Lee, alle prese con la bambina malefica, mentre l'ultimo, invece, quello con una splendida Ingrid Pitt che sembra divertirsi a parodiare se stessa e Vampiri Amanti, è quello più ironico e divertente.
Un film più che dignitoso, perfetto per i cultori del genere e per chi ha voglia di riscoprire un elegante horror all’inglese carico di fascino vintage.
Film
La casa che grondava sangue
di Peter Duffell
La casa che grondava sangue è un horror antologico del 1971 diretto da Peter Duffell e prodotto dalla Amicus, casa di produzione britannica che, tra gli anni sessanta e settanta, fu una delle principali rivali della Hammer nel panorama del cinema horror e fantastico. Nota per il formato ad episodi – i cosiddetti portmanteau – la Amicus si distingueva per un approccio più sobrio e psicologico rispetto alla rivale storica, preferendo atmosfere più raffinate al sangue e agli eccessi visivi.
Il film è composto da quattro episodi, ognuno legato alla misteriosa casa che dà il titolo all’opera, e introdotto da una cornice narrativa in cui un ispettore di Scotland Yard, indagando sulla scomparsa di un attore, si reca nella villa affittata dall’uomo, venendo a sapere dall’agente immobiliare, alcuni fatti racappriccianti avvenuti precedentemente tra le mura di quella casa.
Nel primo episodio, uno scrittore (Denholm Elliott) si ritira nella villa per lavorare al suo nuovo romanzo, ma inizia a essere tormentato dalla figura del personaggio da lui stesso creato, un assassino psicopatico uscito forse dalle pagine per diventare reale.
Il secondo episodio, ha come protagonista un uomo solitario (Peter Cushing) che ha preso in affitto la casa per starsene da solo e dedicarsi alla lettura. Un giorno, passeggiando per il paese, visita un inquietante museo delle cere, restando affascinato dalla statua di una donna misteriosa, ignaro della pericolosa ossessione che lo attende.
Nel terzo episodio, un vedovo (Christopher Lee) si trasferisce nella casa con la figlia, una bambina dallo sguardo enigmatico e dalle inclinazioni inquietanti, che inizia a mostrare comportamenti sempre più disturbanti.
Chiude l’antologia la storia di un attore (Jon Pertwee) impegnato nelle riprese di un film horror, che entra troppo a fondo nel proprio ruolo di vampiro dopo aver acquistato un vecchio mantello di scena dalle origini sinistre.
Le quattro storie, scritte da Robert Bloch – autore leggendario di noir, thriller e horror (suo il romanzo che ha ispirato Psycho) – hanno oggi un gusto decisamente retrò, e non nascondono qualche inevitabile segno del tempo. Nonostante il titolo altisonante, di sangue non se ne vede nemmeno una goccia, ma in compenso la presenza di Christopher Lee e Peter Cushing basta da sola a nobilitare l'intero film.
Il mio episodio preferito è quello con Lee, alle prese con la bambina malefica, mentre l'ultimo, invece, quello con una splendida Ingrid Pitt che sembra divertirsi a parodiare se stessa e Vampiri Amanti, è quello più ironico e divertente.
Un film più che dignitoso, perfetto per i cultori del genere e per chi ha voglia di riscoprire un elegante horror all’inglese carico di fascino vintage.
Film
Until Dawn - Fino all'alba
di David F. Sandberg
Quando si guarda un film, il giudizio è sempre figlio dell’aspettativa. Nel caso di Until Dawn, horror diretto da David F. Sandberg, le mie aspettative erano quelle di passare un oretta e mezza di intrattenimento a base di sgozzamenti, sangue e mutilazioni. E alla fine, sì, il suo compito lo ha fatto. Senza infamia e senza lode.
Tratto dall'omonimo videogioco della Sony, il film è stato oggetto di critiche da parte dei fan, che non hanno preso benissimo lo stravolgimento della storia e dei personaggi. Personalmente, non avendoci mai giocato, non entro in merito e passo oltre, raccontandovi per sommi capi la storia.
Un anno dopo la misteriosa scomparsa di sua sorella, Clover e i suoi quattro amici decidono di mettersi sulle sue tracce giungendo in una casa sperduta in mezzo al nulla che sembra essere un centro visitatori abbandonato. Sulla parete una clessidra gigante con tanto di inquietante teschio e ingranaggio che la fa girare al calar della notte. Da questo momento in poi il gruppo di ragazzi viene ucciso da un assassino mascherato, risvegliandosi però nello stesso punto, costretti a rivivere quella notte e a morire in nuovi modi a ogni ciclo.
Non c’è molto altro da aggiungere, se non che Until Dawn è un vero e proprio festival dei clichè dei film horror. L’assenza di una sceneggiatura capace di generare un minimo di tensione cerebrale è compensata solo nel vedere come una manciata di attori anonimi venga eliminata uno dopo l’altro da maniaci mascherati, demoni invisibili, streghe, zombie e scienziati pazzi. Il tutto condito da spargimenti di sangue, corpi che esplodono, una pioggia di jumpscare e gore in abbondanza, realizzati con buoni effetti pratici e una post-produzione non troppo invasiva.
Un teen-horror ludico e citazionista, senza troppe pretese, che strizza l’occhio a Quella casa nel bosco ma senza averne l’intelligenza metanarrativa né il gusto per la sovversione.

Il dottor Miracolo
di Robert Florey
Il dottor Miracolo, titolo italiano di Murders in the Rue Morgue, è un film horror del 1932 prodotto dalla Universal e liberamente ispirato al racconto I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe. Protagonista della pellicola è Bela Lugosi, reduce dal successo travolgente di Dracula. Dopo aver rifiutato il ruolo del mostro in Frankenstein — poi affidato a Boris Karloff — Lugosi viene scritturato insieme al regista Robert Florey, anch’egli inizialmente coinvolto nel progetto Frankenstein, per quello che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di una trilogia dedicata ai racconti di Poe.
Nella Parigi di metà ottocento, un circo itinerante attira folle curiose grazie allo strano spettacolo del dottor Miracolo (Bela Lugosi), uno scienziato carismatico che sostiene di poter comunicare con Erik, un possente gorilla ammaestrato. Lo spettacolo, in realtà, si rivela una copertura per permette allo scienziato di compiere i suoi esperimenti folli e dimostrare la sua personale teoria sull’evoluzione, tentando di creare un ibrido uomo-scimmia attraverso trasfusioni di sangue tra primati e giovani donne rapite. Quando le sue cavie umane non sopravvivono al trattamento, il dottore si sbarazza dei corpi gettandoli nella Senna con l’aiuto di un losco assistente. I ritrovamenti dei cadaveri attirano l’attenzione di Pierre Dupin, giovane studente di medicina, che inizia una indagine che lo porterà a scoprire l’agghiacciante verità e a un confronto finale sui tetti di Parigi, dove Erik, ormai invaghito della fidanzata di Dupin, scatenerà una furia animalesca.
Alla sua uscita, Il dottor Miracolo si rivelò un mezzo fiasco. Il produttore Carl Laemmle Jr impose numerosi cambiamenti alla sceneggiatura, chiedendo un adattamento più "moderno" del racconto di Poe. Tra le modifiche più evidenti, una sequenza iniziale in cui il folle scienziato espone – con decenni di anticipo rispetto alla pubblicazione de L’origine della specie di Charles Darwin – le sue bizzarre teorie evoluzionistiche a un pubblico sconcertato. Anche il celebre investigatore Auguste Dupin, figura centrale nel testo originale, nel film di Florey conserva solo il nome, trasformandosi in uno studente smielato e piagnucoloso, ben lontano dalla figura brillante e razionale immaginata da Poe. La sceneggiatura fatica a costruire una vera tensione orrorifica, e persino il dottor Miracolo – che avrebbe dovuto incarnare il magnetismo ambiguo dello scienziato folle – risulta più caricaturale che disturbante, incapace di imprimersi davvero nella memoria dello spettatore.
Nonostante tutto, Il dottor Miracolo si fa notare per le suggestive scenografie che riprendono il cinema espressionista e per la sequenza di fuga sui tetti del gorilla con la sua preda femminile, che omaggia Il gabinetto del dottor Caligari, e, per certi versi, anticipa il successivo King Kong, sopratutto per il tema della bestia che si innamora della bella e lo scontro finale nei tetti della città.

L'abominevole dr. Phibes
di Robert Fuest
L'abominevole Dr. Phibes è un horror inglese del 1971 diretto da Robert Fuest, diventato con gli anni un piccolo cult. È un film strano, visivamente esagerato, che mescola il gusto per l'orrore gotico con un'ironia molto teatrale. In un certo senso, ha anticipato quella che oggi chiamiamo commedia horror, con il suo mix di omicidi assurdi, scenografie barocche e una vena di umorismo nero che rende tutto più surreale che spaventoso.
La storia de L'Abominevole Dr. Phibes è, prima di tutto, una storia di vendetta.
Dopo la morte improvvisa della moglie Victoria durante un intervento chirurgico, il dottor Anton Phibes (Vincent Price), scienziato, musicista e teologo, rimane coinvolto in un misterioso incidente d'auto e viene creduto anch'egli deceduto. Ma Phibes è sopravvissuto, seppur sfigurato, e ha passato gli anni successivi nascosto nell'ombra, progettando nei minimi dettagli la sua vendetta contro i medici che ritiene responsabili della tragedia. Aiutato dalla sua enigmatica assistente Vulnavia, inizia a uccidere, uno a uno, i membri dell'équipe medica in modi tanto creativi quanto raccapriccianti, seguendo un rituale ispirato alle dieci piaghe d'Egitto. Nel frattempo, l'ispettore Trout di Scotland Yard, supportato dal dottor Vesalius (Joseph Cotten), il chirurgo che operò la donna, cerca disperatamente di decifrare il mistero e fermare la scia di sangue.
Quello che colpisce di più oggi, più ancora della trama, è lo stile del film. L'Abominevole Dr. Phibes è un piccolo gioiello, una pellicola dallo stile gotico e dall'estetica eccessiva e squisitamente kitsch, che mescola elementi art déco, colori psichedelici e design anni settanta - anche se la storia è ambientata negli anni venti.
Il film sembra quasi un'opera teatrale, con l'organo gigante, l'orchestra di automi, i costumi elaborati e le sue invenzioni stravaganti usate da Phibes per compiere i suoi delitti. Per certi versi può ricordare Il Fantasma dell'Opera, con quella sua teatralità romantica e oscura.
Vincent Price è perfetto. Non dice una parola per tutto il film — lo si sente solo attraverso un congegno che collega le sue corde vocali a un grammofono — ma riesce comunque a comunicare tutto con lo sguardo e la mimica. È inquietante, elegante, tragico e grottesco al tempo stesso. La sua presenza da sola regge tutto il film.
L'idea di usare le piaghe d'Egitto come filo conduttore per gli omicidi è originale e aggiunge un tocco in più. Pipistrelli, ratti, cavallette, rane meccaniche… ogni morte diventa un piccolo spettacolo. Ed è impossibile non pensare a film come Seven o Saw, che anni dopo riprenderanno il concetto degli omicidi ingegnosi "a tema", anche se Phibes, va detto, alleggerisce spesso la tensione con una buona dose di humor inglese (vedi i siparietti con Scotland Yard).
Più che un horror nel senso stretto del termine, L'Abominevole Dr. Phibes è un film a sé, difficile da incasellare. Elegante, strano, una commedia horror dal black humor che ancora oggi conserva tutto il suo fascino, grazie allo stile visivo, al carisma del protagonista e a quell'atmosfera sospesa tra l'incubo e la farsa.

The Ugly Stepsister
di Emilie Blichfeldt
Prima che la Disney le trasformasse in cartoline animate da lieto fine e canti gioiosi, le fiabe dei fratelli Grimm erano tutt'altro che rassicuranti. Incesti, mutilazioni, matricidi, vendette crudeli. I racconti popolari raccolti da Jacob e Wilhelm Grimm affondavano le radici nell'inconscio collettivo europeo, dove il bosco era davvero oscuro e le principesse raramente uscivano illese. In quelle versioni originarie, le fiabe erano strumenti di ammonimento, più che di intrattenimento, e custodivano dentro di sé un'anima profondamente gotica, a tratti disturbante.
Emilie Blichfeldt, regista e sceneggiatrice norvegese, con The Ugly Stepsister, riporta alla luce l’anima più cupa della fiaba di Cenerentola, ribaltandone il punto di vista e trasformandola in un racconto di ossessione e deformazione emotiva. Questa volta al centro della storia non c’è Cenerentola, ma Elvira, una delle sorellastre, figura marginale nella narrazione classica, qui protagonista di un incubo viscerale, fatto di rancori covati, bellezza malata e desideri corrosi.
La storia la conosciamo tutti, più o meno. In un indefinito paese nordeuropeo del XVIII secolo, Elvira (interpretata da Lea Myren) e sua sorella Alma seguono la madre Rebekka nella casa di un anziano uomo benestante con cui si è sposata nella speranza di ottenere ricchezza e privilegi. Elvira, insicura e sgraziata, si ritrova a convivere con la nuova sorellastra Agnes, la cui bellezza e grazia la rendono immediatamente favorita agli occhi di tutti. Quando il padre di Agnes muore improvvisamente, Rebekka scopre che l’uomo era in realtà privo di ricchezze. Preoccupata di essere troppo vecchia per trovare un nuovo marito facoltoso, decide allora di trasformare Elvira nella candidata ideale per conquistare il principe Julian, che ha appena annunciato un ballo a corte alla ricerca di una sposa.
Per rendere la figlia presentabile agli occhi dell’aristocrazia, Rebekka impone a Elvira un ferreo addestramento alle buone maniere, la sottopone a crudeli interventi di chirurgia estetica rudimentale e la convince a ingerire una tenia per perdere peso rapidamente. Un doloroso calvario che logora il corpo e l’identità di Elvira, alimentando dentro di lei un rancore viscerale nei confronti di Agnes, che invece sembra ottenere tutto senza sforzo, senza dover mai lottare per il proprio aspetto o talento.
The Ugly Stepsister è un body horror che strappa la storia di Cenerentola dalle mani della tradizione fiabesca e la reimmagina in un incubo fatto di chirurgia rudimentale, sangue, vomito e parassiti intestinali. Le sequenze disturbanti non sono molte, ma quando arrivano, colpiscono duro. Sono così insistite, dettagliate e viscerali che mi sono ritrovato a coprirmi gli occhi con le mani, sbirciando tra le dita, proprio come fanno i bambini, terrorizzati eppure incapaci di distogliere lo sguardo.
Una cosa però va chiarita, per chi dovesse indignarsi sostenendo che il film ha "deturpato" una fiaba innocente e romantica, va detto che quando lessi i racconti dei fratelli Grimm, fu proprio Cenerentola a colpirmi più di tutte. Soprattutto quel finale in cui la sorellastra si taglia un pezzo di piede pur di far entrare la scarpetta di vetro. Ecco, la Blichfeldt prende quell’immagine e la porta fino in fondo, senza sconti e senza pietà.
Al di là delle scene violente e dell'aspetto splatter, The Ugly Stepsister offre una riflessione tagliente sul desiderio di accettazione, sull’ossessione per la bellezza e sull’ansia di approvazione sociale. Un film che mette a nudo il legame tossico tra identità femminile e violenza estetica. In fondo, non è forse questa la struttura portante di tante fiabe tradizionali? Una ragazza qualunque che, pur di diventare bella e desiderabile agli occhi di un principe o di un ricco signorotto, si trasforma — si annulla — per ottenere una dote, un matrimonio, una salvezza. La critica di Emilie Blichfeldt aggiorna quel meccanismo con feroce lucidità, puntando il dito contro un’idea contemporanea di femminilità fatta di labbra gonfiate, zigomi scolpiti e seni rifatti. Il sogno non è più il castello, ma la villa con piscina. Non il principe, ma l’imprenditore rampante su uno yacht, immortalato in pose studiate su Instagram. Un desiderio disperato di apparire come merce di scambio, nella speranza che basti l’involucro giusto per sentirsi finalmente scelte, accettate, validate.
Davvero notevole l’esordio alla regia della Blichfeldt, qui affiancata da una fotografia elegante e da una colonna sonora elettronica che crea un interessante contrasto con l’ambientazione d’epoca. Buona pure l'interpretazione fisica e disperata di Lea Myren.
The Ugly Stepsister è sicuramente un film che non si dimentica, un'opera potente, attraversata da una feroce critica sociale. Bisogna ammettere che quando le registe decidono di colpire duro (vedi The Substance o Titane), ci vanno davvero a fondo.
Negli Stati Uniti il film è stato distribuito su Shudder, la piattaforma specializzata in horror, thriller e fantastico. In Italia, al momento, non è ancora uscito ufficialmente — ma chi sa dove cercare potrebbe trovare una versione sottotitolata.
Film
Uzumaki
Junji Ito
Junji Ito, il maestro del body horror giapponese, è senza ombra di dubbio il mio mangaka preferito.
Dopo Tomie e un paio di suoi volumi antologici, ho da poco terminato Uzumaki, una serie horror – raccolta in due corposi volumi pubblicati da Star Comics – che ruota letteralmente e ossessivamente attorno alla figura della spirale.
Personalmente, la spirale è una forma geometrica che mi ha sempre affascinato, tanto da ricorrere spesso nei miei lavori grafici, nei video e, come è evidente, nel simbolo scelto per questo blog. Sequenza aurea e armonica, è una forma che sembra semplice, ma che contiene in sé un movimento ipnotico, una tensione verso l’infinito. Non a caso è una delle strutture più presenti nel mondo naturale e cosmico: dalle conchiglie ai cicloni, dalla disposizione dei semi di un girasole alle galassie lontane. È un simbolo primordiale, archetipico. Una forma a cui sono molto legato e che si è consolidata da quando, alla fine del secolo scorso, ho visto un vecchio film di Aronofsky, del quale prima o poi dovrò proprio parlare.
Uzumaki – che significa appunto spirale o vortice – è ambientato nella fittizia cittadina costiera di Kurouzu-cho, un luogo avvolto da una nebbia perenne e da un’atmosfera inquietante. Protagonisti sono Kirie Goshima, una liceale del posto, e il suo fidanzato Shuichi Saito, i quali si accorgono che la loro città è vittima di una maledizione legata alle spirali. Questa forma geometrica, inizialmente innocua, comincia a manifestarsi ovunque, generando comportamenti ossessivi negli abitanti, a partire dal padre di Shuichi.
Man mano che la maledizione si intensifica, gli abitanti sviluppano fissazioni patologiche per le spirali, che li conducono a grottesche trasformazioni fisiche e mentali. Alcuni si tramutano in creature simili a lumache, altri vengono risucchiati da improvvisi tornado, mentre l’ambiente stesso della città si deforma in strutture spiraliformi. Kirie e Shuichi tentano disperatamente di sfuggire a questa spirale di follia, ma scoprono che la maledizione ha radici profonde e antiche, legate a una città sotterranea composta interamente da spirali.
Uzumaki è uno di quei manga che ti prende piano piano, poi ti strizza come un asciugamano e infine ti lascia lì, con la testa che gira, come se ti trovassi dentro una lavatrice durante la centrifuga. All’inizio sembra una raccolta di storie brevi, una più assurda dell’altra, con gente che si attorciglia, si trasforma in lumaca, viene risucchiata nei capelli o finisce inglobata nei muri. Ma più vai avanti e più ti rendi conto che tutto si incastra, o meglio si avvita, proprio come una spirale. Questa struttura ripetitiva, che alla lunga potrebbe anche annoiare, è in realtà una scelta precisa. Un incubo da cui non riesci a svegliarti. Come quei sogni in cui ti ritrovi a girare sempre intorno allo stesso punto, senza riuscire a uscirne.
A colpire davvero, però, è l’aspetto visivo. Il tratto di Ito è super dettagliato, iper realistico, e rende ogni trasformazione, ogni incubo, incredibilmente credibile. Carne che si torce, occhi che esplodono, corpi che si fondono. Disturbante – sì, lo so che è un termine che disturba – ma anche bellissimo.
Il riferimento all’horror cosmico di Lovecraft è evidente. L’idea che esista una forza arcana e inafferrabile – impersonata qui dalla spirale – che agisce al di là della comprensione umana, e che riduce l’essere umano a una semplice pedina. Ma c’è anche un tocco alla Stephen King, con la cittadina che diventa essa stessa l’origine del male. Kurouzu-cho non è solo il teatro della follia, è l’epicentro stesso della maledizione. Una protagonista silenziosa che osserva tutto mentre il mondo si decompone.
E poi c’è la spirale, ovunque. Di solito simbolo positivo di equilibrio, perfezione, ciclicità. Qui diventa il contrario. Perversione, follia, marcescenza. Junji Ito prende una forma rassicurante e la trasforma in incubo. E ci riesce maledettamente bene.
Dal manga Uzumaki è stato tratto un omonimo film nel 2000, che non ho ancora visto, un paio di videogiochi, e un anime in 4 episodi uscito recentemente su Netflix.
Fumetti
Ash - Cenere mortale
di Flying Lotus
Flying Lotus, al secolo Steven Ellison, è un artista poliedrico tra i più visionari della scena contemporanea. Conosciuto soprattutto per la sua produzione musicale nel campo dell’hip hop sperimentale e dell’elettronica, Ellison ha sempre intrecciato suono e immagine, coltivando un forte legame con il linguaggio cinematografico. Dopo l’esordio dietro la macchina da presa con Kuso del 2017 e un episodio per V/H/S/99 nel 2022, torna alla regia con Ash, un horror fantascientifico che riscrive la paura nello spazio attraverso la lente distorta e allucinata del suo immaginario. Un film che fonde suggestioni videoludiche, di cui Ellison è un grande appassionato, con il retaggio di cult come Alien, Punto di non ritorno e La Cosa, trasformando l’omaggio in visione personale e contaminata.
Il film è ambientato su un pianeta remoto, noto come "Ash", dove un gruppo di giovani scienziati e ricercatori ha costruito una stazione spaziale per determinare se il luogo sia potenzialmente abitabile. Al suo risveglio, però, la protagonista Riya Ortiz (Eiza González) si ritrova circondata dai cadaveri dei suoi compagni di equipaggio, senza memoria degli eventi recenti e tormentata da visioni disturbanti e frammentarie. Mentre tenta di ricostruire l’accaduto, la stazione viene raggiunta da Brion Cargyle (Aaron Paul), un pilota solitario che sostiene di essere stato inviato in risposta a un segnale di soccorso. Costretti a collaborare per sopravvivere in un ambiente sempre più ostile e alienante, i due si troveranno immersi in un incubo in cui nulla è come sembra, dove la realtà si sfalda e il confine tra ciò che è umano e ciò che non lo è si fa sempre più sottile.
La storia si sviluppa in modo frammentato con la bella, ma poco convincente, protagonista che cerca di rimettere insieme i pezzi, guidata da flashback disturbanti e visioni psichedeliche. Alla fine il film risulta essere più allucinato che coinvolgente dove il montaggio frenetico e l’espediente dell’amnesia, più che alimentare il mistero, sembrano coprire le debolezze della sceneggiatura e abbassare la tensione.
Dal punto di vista visivo, Ash si svolge prevalentemente al buio, con un largo uso di luci colorate fluorescenti a intermittenza. Scelta stilistica affascinante, almeno per coloro che non sono fotosensibili. Flying Lotus– che compare brevemente in un flashback – non lesina sullo splatter e sul body horror, regalando nel finale un tripudio di deformazioni e mostri tentacolari che farebbe felice anche John Carpenter (e probabilmente anche qualche gamer nostalgico di Dead Space). Non essendo un grande intenditore di videogiochi, il film, sia per l'ambientazione che per la coloratissima fotografia mi ha ricordato Terrore nello spazio di Mario Bava. Un riferimento forse casuale ma che ho molto apprezzato. Bello anche il design delle tute spaziali, originale e visivamente efficace. La colonna sonora, ovviamente, è firmata dallo stesso Flying Lotus, che realizza un elettronica sospesa tra i synth cosmici di Vangelis e il minimalismo ipnotico del già citato Carpenter.
In conclusione, Ash è un film che intrattiene, visivamente interessante, e che rivela una sincera passione per la fantascienza videoludica e i B-movie vintage. Peccato che tutto questo amore finisca per strabordare, rendendo l’esperienza più derivativa che memorabile. Un bel trip, ma niente che non si sia già visto, e in alcuni casi, meglio.
Ash - Cenere mortale è attualmente disponibile su Prime Video.

Il castello maledetto
di James Whale
Il castello maledetto, diretto da James Whale nel 1932 per la Universal, è un gioiello gotico mascherato da horror, in realtà più vicino a una commedia dallo spiccato humour nero. Nonostante il titolo italiano faccia pensare a torri e manieri infestati, il film si svolge in una vecchia casa isolata, abitata da personaggi grotteschi.
Durante una notte di tempesta, un gruppo di viaggiatori — una coppia sposata, il loro amico e un esploratore burbero — cerca rifugio in una magione sperduta tra le colline del Galles. L’abitazione appartiene ai Femm, una famiglia tanto decadente quanto bislacca, composta da un uomo e sua sorella, Horace e Rebecca Femm (Ernest Thesiger ed Eva Moore), il loro anziano padre Sir Roderick (Elspeth Dudgeon) e un domestico deforme, muto e ubriacone interpretato da Boris Karloff. Mentre la pioggia cade incessantemente e la luce va e viene, arrivano altri due ospiti inattesi a movimentare la serata. Inizialmente tutto sembra procedere per il meglio, ma con il calare delle tenebre, la casa rivela i suoi segreti.
Pur rifacendosi a Il castello degli spettri di Paul Leni, Il castello maledetto trova una sua identità costruendo un’atmosfera tanto gotica quanto grottesca. A colpire non sono tanto i brividi — che quasi non ci sono — quanto l’ambientazione: un temporale incessante, luci tremolanti, candele, ombre che si allungano sui muri e inquadrature oblique che sfiorano l’espressionismo. È un horror d’atmosfera più che di tensione, dove l’inquietudine si insinua silenziosa e non esplode mai davvero, lasciando spazio a un’ironia macabra e sottilissima.
James Whale si diverte a prendere in giro le regole classiche del genere horror, codificandole in uno stile visivo che negli anni a venire influenzerà registi come Mario Bava e Roger Corman, e ispirerà film cult come The Rocky Horror Picture Show, Frankenstein Junior e perfino La famiglia Addams (oltre al maggiordomo interpretato da Karloff che sembra un prototipo di Lurch, troviamo anche "mano"). Momenti come il monologo delirante di Rebecca Femm, riflessa e deformata dagli specchi, restano impressi più per il loro effetto straniante che per una reale tensione narrativa.
Accolto con freddezza alla sua uscita dal pubblico, il film fu apprezzato in Europa più abituato allo humor nero tipicamente britannico. Il Castello Maledetto fu a lungo considerato perduto, fino al suo ritrovamento e restauro nel 1968. Un piccolo classico poco conosciuto.
Di questo film esiste un remake realizzato nel 1963.

Double Blind
di Ian Hunt Duffy
Chiunque abbia provato a resistere al sonno durante una maratona notturna di serie tv sa che, dopo un po’, la mente inizia a vacillare. Ma immaginate cosa succederebbe se addormentarsi non fosse solo sconsigliato... ma letale. È questa la premessa di Double Blind, horror psicologico firmato dal regista esordiente Ian Hunt-Duffy.
Il film si svolge all’interno di un laboratorio isolato, gestito da una spietata multinazionale farmaceutica, dove un gruppo di volontari si sottopone alla sperimentazione di un nuovo farmaco dagli effetti sconosciuti. Iniziato il trattamento, i sette ragazzi, accomunati dalla scarsità di legami sociali e da un disperato bisogno di soldi, iniziano a perdere sonno. Quando però uno di loro si addormenta, muore di una morte violenta (sincope convulsiva, sangue dagli occhi, bava alla bocca e così via). Intrappolati nella struttura, senza via d’uscita e costretti a restare svegli a oltranza, i protagonisti iniziano a perdere il contatto con la realtà. Tra allucinazioni, sospetti reciproci e collassi nervosi, la linea tra percezione e paranoia si fa sempre più sottile.
Nulla di originale, va detto. I film sugli esperimenti con cavie umane intrappolate in qualche struttura non mancano di certo. Tuttavia Double Blind ha dalla sua una confezione curata, un ottimo ritmo e un’atmosfera davvero angosciante. Il budget è visibilmente contenuto – tutta la storia si svolge in un’unica location – ma il regista sa come sfruttare i limiti a suo vantaggio: l’ambientazione asettica diventa una prigione mentale, mentre la privazione del sonno è la miccia perfetta per un’escalation di delirio. Non mancano nemmeno alcuni guizzi splatter, che agli amanti dell'horror non disprezzano mai.
Il film non è stato distribuito in italiano ma è reperibile sottotitolato su alcune piattaforme non ufficiali.
Film
Mimì - Il principe delle tenebre
di Brando De Sica
Ammetto che quando ho visto il nome del regista ho storto un po' il naso. Brando De Sica. Figlio di Christian, nipote di Vittorio, Carlo Verdone come zio. Il pregiudizio che in Italia, se non sei un figlio d'arte, il cinema lo guardi e basta, è scattato immediatamente. E invece Mimì – Il principe delle tenebre mi ha fregato. Non solo perché è un film coraggiosamente fuori tempo, diverso, ma anche perché ha toccato corde familiari della mia indole gotica.
La storia racconta di Mimì (Domenico Cuomo), un adolescente orfano, nato con i piedi deformi, che lavora in una pizzeria a Napoli. Bullizzato dal figlio di un boss camorrista, un giorno incontra Carmilla (Sara Ciocca), una giovane ragazza "dark" convinta di essere una discendente del conte Dracula. Lei rimane affascinata dal goffo Mimì – forse proprio per la sua deformità – e lui trova in Carmilla quel calore umano che gli è sempre mancato.
In una Napoli insolita e decadente, tra bande camorristiche appassionate di neomelodica e gruppi gotici che frequentano cimiteri, cripte, e feste alternative, Mimì – Il principe delle tenebre si presenta come un film strano e affascinante, capace di spaziare dall'horror al fantasy, dal noir alla dark comedy. La commistione di generi è dosata con intelligenza e la virata horror arriva al momento giusto. Brando De Sica, da quanto si dice in giro, è un appassionato di questo genere, e si vede. Le citazioni cinefile sono ovunque, ma non risultano mai esibite. Piuttosto, sono tracce, omaggi ben inseriti in una narrazione personale e visivamente curata. La regia è solida e la fotografia mi ha particolarmente colpito, con quei colori irreali – blu e rosso, caldi e freddi spesso contrapposti – che rimandano al cinema di Mario Bava. L'uso del colore è particolarmente significativo nella scena finale, dove Mimì e Camilla – ehm, Carmilla con la erre (cit) – vengono illuminati dal lampeggiante della polizia, in un contrasto emotivo che trascende la realtà.
L’epilogo, drammatico e ambiguo – è tutto vero o una fantasia del protagonista? – ha un tocco poetico e surreale. Al centro della storia, c'è una relazione d'amore tra due "diversi": una ragazza borderline, fragile e imprevedibile, e un ragazzo in cerca di identità, ingenuo, segnato nel corpo e nell'anima. Due anime rotte che cercano di salvarsi a vicenda.
I due attori protagonisti sono molto bravi. La giovane e minuta Sara Ciocca è sorprendente. Affascinante nella sua versione goth, fragile e vulnerabile nella sua cameretta da bambina. Domenico Cuomo è altrettanto bravo, capace di passare dalla timidezza di Mimì alla trasformazione violenta del "vampiro", con i suoi denti aguzzi e lo sguardo distorto. Il film, inoltre, è recitato bene. Finalmente in un film italiano i dialoghi, anche quando sono sussurrati, sono sempre chiari. Il dialetto napoletano non infastidisce, e quando è troppo stretto, intervengono i sottotitoli.
Guardandolo, mi è venuto spontaneo accostarlo a Lo chiamavano Jeeg Robot, ma con i vampiri al posto dei supereroi. E in alcune scene, come quella nelle catacombe, ho sentito forti echi del cinema di Guillermo del Toro.
Alla fine, Brando De Sica sembra più un orfano adottato da Tim Burton e dalla malinconia di Fellini che un regista cresciuto sulle spalle della becera commedia natalizia. Pare che per realizzare questo film non abbia sfruttato le sue conoscenze familiari, anzi, ci ha messo dieci anni e ha incontrato numerosi ostacoli. E si vede. È un film ostinato, personale, fuori rotta. Farsi strada nel cinema di genere in Italia non è facile. Ma io, sinceramente, tifo per lui. A volte i pregiudizi sono proprio deleteri.