
Vivarium
di Lorcan Finnegan
Quando ho letto la trama di questo film, mi sono detto ecco un altra storia in cui i protagonisti finiscono in una cittadina, in questo caso un quartiere di periferia, da cui non riescono a uscire perchè ogni strada li riporta al punto di partenza. Da Wayward Pines a From, da Dark City a The Truman Show, il tema della "città-trappola" è stato esplorato numerose volte e in molteplici varianti.
Vivarium, però, non è solo un film di fantascienza claustrofobico, ma una metafora feroce sulla routine, la famiglia e l’incubo del conformismo. Diretto dall’irlandese Lorcan Finnegan, questo thriller esistenziale e surreale prende il concetto della casa perfetta e lo trasforma in un incubo senza uscita. Un'opera che sembra rubata a una puntata de I confini della realtà, – episodio 30 della quinta stagione – ma che scava più a fondo, affontando temi come la disumanizzazione della quotidianità, il peso delle aspettative sociali e la famiglia come trappola evolutiva.
Gemma (Imogen Poots) e Tom (Jesse Eisenberg), una giovane coppia alla ricerca di una casa in cui andare a vivere, si rivolgono a uno strambo e inquietante agente immobiliare (Jonathan Aris) che li conduce nel quartiere residenziale di Yonder, un complesso di recente costruzione, ancora disabitato, composto da una schiera di villette tutte uguali. Il quartiere è avvolto da un silenzio innaturale, il cielo è irreale, e tutto sembra artificioso. Accompagnati dall'agente immobiliare, la coppia entra nella villetta numero nove ma appena visitano il giardino sul retro, l'uomo inspiegabilmente sparisce. I due ragazzi risalgono in macchina per andare via, ma per quanto girino e rigirino, tutte le strade finiscono sempre per ricondurli allo stesso punto, davanti alla villetta numero 9. Trascorrono i giorni e i tentativi disperati di lasciare il posto si trasformano presto in rassegnazione, finché una mattina trovano davanti alla porta una scatola con dentro un neonato e un messaggio che invita i due poveri ragazzi ad accudire il bambino se vogliono riconquistare la libertà.
Vivarium è un film che si presta a una duplice lettura.
Da una parte abbiamo quella prettamente fantascientifica che ci fa intendere [spoiler on] che i due protagonisti siano stati rapiti da una civiltà aliena, o comunque da delle creature parassitarie, che li tengono in un vivarium - termine usato dagli antichi romani per indicare un allevamento - affinchè possano crescere la propria progenie, destinata a rimpiazzare gli esseri umani [spoiler off]. Naturalmente, è solo una mia interpretazione, perché il film non da molte spiegazioni e risposte chiare.
Dall'altra, il film ha un significato allegorico, Il quartiere-labirinto diventa il simbolo della vita moderna, del sogno borghese preconfezionato che si trasforma in una prigione. La coppia di protagonisti è vittima di un sistema che li ha incasellati nel ruolo di genitori senza via di fuga. Il bambino non è solo un figlio indesiderato, ma l’incarnazione della pressione sociale: crescere una creatura che non si comprende, che non restituisce amore, che si nutre della tua energia e che ti scarica, gettandoti in una fossa, quando non sei più necessario.
A livello estetico, il film è un gioiello. Le scenografie riportano ai quadri di Magritte e Hopper, mentre la fotografia dai colori pastello trasforma la perfezione di Yonder in un inferno sterile. Vivarium è un horror esistenziale che parla di routine, di alienazione, dell’orrore della prevedibilità. Ed è proprio questa assenza di una via d’uscita a renderlo così disturbante.
Certo, il film non è perfetto. Nella seconda metà la ripetitività rischia di smorzare l’impatto, e chi cerca una narrazione più dinamica potrebbe trovarlo frustrante. Tuttavia è un film che non si dimentica, che scava dentro di noi, come Tom con la sua buca infinita. E, una volta finito, lascia solo una certezza che non c’è via di fuga dal sistema.
Disturbante, claustrofobico, essenziale. Un Black Mirror ancora più crudele.

Oddity
di Damian Mc Carthy
Oddity è il secondo film del regista irlandese Damian Mc Carthy.
In rete viene appprezzato parecchio e alcuni lo hanno già eletto come uno degli horror più riusciti dell'anno.
Ambientato in una remota casa di campagna irlandese, il film racconta la storia di Darcy (Carolyn Bracken), una sensitiva cieca che torna nel luogo dove la sorella gemella Dani (sempre Carolyn Bracken) è stata brutalmente uccisa. A uccidere la donna sembra essere stato un paziente della struttura di igiene mentale poca lontana, dove Ted, il marito della vittima (Gwilym Lee), lavora come psichiatra. Darcy però è convinta che l'omicidio di sua sorella non sia avvenuto come vogliono fargli credere e portandosi dietro una macabra statua di legno e degli oggetti che appartengono alla sua strana collezione cerca a suo modo di scoprire la verità.
Il film mantiene una costante tensione alternando momenti introspettivi a scene di intensa suspense. L'inquietudine e la tensione è generata da un uso sapiente del silenzio e dei suoni ambientali, come scricchiolii e rumori sinistri, e presenta alcuni colpi di scena ben assestati con jumpscare utilizzati in maniera estramemente eleganti e funzionali.
Forse un pò prevedibile a livello di trama, poiché si intuisce piuttosto presto chi sia il colpevole, ma sicuramente molto coinvolgente a livello di atmosfera e tensione. La fotografia è particolarmente curata, con un sapiente uso della luce fioca e delle ombre, che trasforma ogni angolo della casa in una minaccia nascosta e contribuisce a creare una sensazione di isolamento e claustrofobia.
Un horror psicologico che, pur non sorprendendo per originalità, riesce a coinvolgere lo spettatore con un’atmosfera ricercata e uno stile visivo affascinante.
Buono ma non memorabile.