
Il paradosso del tempo
di Bernardo Britto
I viaggi nel tempo sono uno dei temi più affascinanti e ricorrenti del cinema di fantascienza. Tra paradossi, salti e loop temporali, questi film hanno la caratteristica che non hanno bisogno di particolari effetti speciali o budget eccessivi, ma soltanto di una buona idea e una sceneggiatura solida.
Tra le tante pellicole di questo genere si inserisce Il paradosso del tempo (Omni Loop), film americano del regista brasiliano Bernardo Britto, che dopo una carriera nel cortometraggio approda alla regia di un lungometraggio mainstream con una storia che mescola sci-fi, dramma e malinconia.
La trama ruota attorno a Zoya Lowe (Mary-Louise Parker), una fisica di mezza età affetta da una misteriosa condizione. I medici gli hanno diagnosticato la presenza di un "buco nero" nel petto e le hanno dato una settimana di vita. Quello che né la sua famiglia né i dottori sanno, però, è che alla fine di quei sette giorni – quando il sangue inizia a colarle dal naso, segnale della sua imminente fine – Zoya si chiude in bagno, ingoia una delle misteriose pillole trovate per caso da bambina, e torna indietro nel tempo di esattamente una settimana. Ogni ciclo ricomincia con il suo risveglio in ospedale, quando il medico la dimette per permetterle di trascorrere gli ultimi giorni con i suoi cari. Costretta a rivivere la stessa settimana migliaia di volte, Zoya si ritrova intrappolata in un loop estenuante. Esausta dalla ripetitività e dal senso di impotenza, decide di allontanarsi dalla cinica subito dopo il suo risveglio. Il fortuito incontro con Paula Campos (Ayo Edebiri), una giovane studentessa di fisica, gli permette di trovare un alleata per provare a studiare i i misteri dei viaggi nel tempo e capire se c'è il modo per interrompre questo ciclo… e forse, riappropriarsi della propria vita.
Il paradosso del tempo prende in prestito suggestioni da classici del genere – da Ricomincio da capo a Predestination, passando per Looper – ma utilizza il meccanismo del loop temporale, più che sulle dinamiche del viaggio nel tempo, per riflettere sull’inevitabilità della morte, il tempo che sprechiamo e gli affetti che trascuriamo. Il film, leggero e malinconico, parla di una donna che non cerca tanto di sfuggire alla fine quanto di fare pace con la propria vita. Mary-Louise Parker è molto brava e sostiene una narrazione che vuole essere toccante per un film mainstream da seconda serata. Se invece parliamo di fantascienza, ho trovato la sceneggiatura tutt'altro che convicente. Buchi logici, disordine narrativo, trovate poco riuscite e risibili – come il buco nero nel petto della protagonista e sopratutto l’uomo nanoscopico, un tizio che un esperimento quantistico sta facendo rimpicciolire all’interno di una scatola, la cui funziona a livello di trama rimane per me sconosciuta.
Un film che intrattiene, facendo leva sull'aspetto romantico, ma dimenticabile.

In a Violent Nature
di Chris Nash
Uscito recentemente in Italia in home video, In a Violent Nature è un horror slasher indipendente diretto dall'esordiente Chris Nash e prodotto da Shudder. Presentato al Sundance Festival, il film ha stimolato un vivace dibattito in rete grazie ad alcune sequenze particolarmente crude, che hanno contribuito ad aumentare la sua notorietà.
La storia non è il massimo dell'originalità. Un gruppo di ragazzi in vacanza nei boschi canadesi trova un vecchio ciondolo in un capanno abbandonato risvegliando involontariamente un colosso putrescente di nome Johnny che giaceva sotto terra in attesa di tornare a seminare morte. Inizia così una caccia inesorabile in cui l'implacabile assassino, con passo lento ma inarrestabile, elimina uno dopo l’altro i malcapitati con una brutalità che non lascia spazio all’immaginazione.
Fin qui, nulla di nuovo. Potrebbe sembrare il solito slasher alla Venerdì 13 o Non aprite quella porta, con l'energumeno di turno che fa mattanza di adolescenti idioti e rumorosi. Solo che in questo caso Nash ribalta la prospettiva, e la narrazione si sposta interamente dal punto di vista dell’assassino, relegando le vittime a mere comparse di un dramma annunciato. Il risultato è una sorta di videogioco in terza persona in cui lo spettatore si ritrova a seguire Johnny nelle sue lunghe camminate silenziose, spesso inquadrato di spalle, immerso in una natura tanto ostile quanto lui.
L’estetica del film si costruisce su piani sequenza lunghissimi, panoramiche lente, e inquadrature statiche che trasformano la foresta in un labirinto opprimente. L’assenza totale di colonna sonora amplifica la tensione e l'angoscia.
Quando arriva la violenza, però, il film non fa sconti. La uccisioni, realizzate con effetti speciali prostetici curati da Steven Kostanski, sono particolarmente brutali. Tra queste spicca quello della ragazza che fa yoga, la cui testa viene uncinata e tirata fino ad attraversare il suo torso, diventata già un mezzo cult tra gli appassionati dello splatter.
L’approccio autoriale e sperimentale di Nash potrebbe non piacere a tutti. Le lunghe sequenze di Johnny che vaga per la foresta possono risultare estenuanti, soprattutto per chi si aspetta il ritmo più serrato di uno slasher tradizionale. Non ci sono personaggi memorabili, non c’è una vera trama, non c’è altro che la lenta, inesorabile avanzata di un mostro vendicativo.
Io l'ho trovato interessante, quasi una boccata d’aria fresca in un panorama slasher fossilizzato su se stesso. Il finale, quello in cui la final girl viene caricata dalla donna in macchina, mi ha trasmesso una paura nera, la tensione disturbante di un pericolo incombente.
In a Violent Nature non è un film perfetto ma secondo me merita di essere visto dagli appassionati del genere che cercano qualcosa di originale.
Film
Anora
di Sean Baker
Sean Baker è un giovane regista americano attivo da una ventina di anni nel cinema indipendente. Non conosco il suo cinema e probabilmente se Anora non avesse vinto la palma d'oro al 77° Festival di Cannes ottenendo diverse candidature agli oscar*, sarebbe continuato a rimanere, almeno per me, uno sconosciuto.
La storia vede come protagonista Ani (Mikey Madison) una spogliarellista di origini russe che si guadagna da vivere nei nightclub di New York. Quando incontra Vanya (Mark Ejdelštejn), figlio viziato di un oligarca russo, perso tra droghe, soldi facili e un'eterna adolescenza dorata, scatta la scintilla. Lui la paga per fingere di essere la sua ragazza per una settimana, poi, in un delirio di euforia e incoscienza, le chiede di sposarlo. Una fuga a Las Vegas, un matrimonio lampo, l’illusione di un futuro diverso. Ma come in tutte le favole sbagliate, il sogno si spezza brutalmente. I genitori di Vanya, potenti e senza scrupoli, non possono tollerare che il loro figlio si sia legato a una "prostituta". Mandano i loro uomini a risolvere la questione, e Vanya, che fino a un momento prima sembrava pronto a sfidare il mondo per Ani, scappa come un coniglio, lasciando sua "moglie" nelle mani degli scagnozzi. Ani, però, non è una tipa che si lascia spazzare via senza combattere. Si dimena, protesta, si aggrappa a quell’illusione con le unghie e con i denti. Ma il suo destino è già scritto, e quello che sembrava un biglietto di sola andata per un futuro dorato si rivela un’illusione, dissolvendosi nell’aria con la stessa rapidità con cui era nato.
Scritto dallo stesso Baker, Anora è una rilettura moderna e crudele di Cenerentola, divisa in tre atti ben distinti. La prima parte sembra una versione cinica e spinta di Pretty Woman. Ma Ani non è una principessa da salvare, ma una ragazza ammaliata dalla ricchezza di un giovane e irresponsabile rampollo di un magnate moscovita, che usa il proprio corpo e la sua sensualità per sfruttare l'occasione della vita.
La seconda parte, con l’arrivo degli scagnozzi dell’oligarca russo, la favola si incrina e il film si trasforma in una commedia noir dai toni grotteschi, con echi tarantiniani e rimandi a Tutto in una notte e Una notte da leoni per ritmo e dinamiche.
Infine, l’ultima parte, il film si fa malinconico. Strappata da quel mondo di lusso che aveva solo sfiorato, Ani trova nell’unica figura umana del film, Igor (Yura Borisov), la guardia del corpo mandata a sorvegliarla, un’inaspettata spalla su cui appoggiarsi. Non c’è romanticismo, solo la consapevolezza di un vuoto che nessuna illusione può colmare. Il finale è amaro, disilluso, privo di retorica. La favola del sogno americano si sgretola sotto il peso della realtà.
Anora è un film brillante e frizzante, una storia d’amore senza amore, un’illusione che si dissolve sotto i riflettori di un'america che mastica e sputa senza guardarsi indietro. Non è un film rivoluzionario, né forse tra i più memorabili, ma ha un’energia pulsante e un ritmo che cattura. A tenere tutto in piedi c’è Mikey Madison, straordinaria nel dare anima e corpo a un personaggio che oscilla tra cinismo e disperazione, tra forza e fragilità.
(*) Nota a margine. Anora ha trionfato agli Oscar, portando a casa cinque statuette, tra cui quelle per il Miglior Film e la Migliore Attrice Protagonista. Un successo che ha acceso il dibattito sui social, con molti a mettere in discussione il reale valore del film. Come se un Oscar fosse automaticamente sinonimo di capolavoro. Del resto, il fatto che registi come Kubrick, Hitchcock o Lynch non abbiano mai vinto un oscar dovrebbe già far riflettere sul peso effettivo di questi riconoscimenti.
Film
The Brutalist
di Brady Corbet
Devo ammettere che, quando mi hanno proposto di vedere The Brutalist al cinema, ho avuto qualche esitazione. Tre ore e mezza di film non sono uno scherzo. Per fortuna, il regista ha pensato bene di inserire un intervallo di quindici minuti a metà film, dando agli spettatori la possibilità di sgranchirsi le gambe.
Ma veniamo al film.
Definito "monumentale", sia per la sua ambizione epica sia per il riferimento all’architettura brutalista, The Brutalist è il nuovo film di Brady Corbet, vincitore del Leone d’Argento per la miglior regia al Festival di Venezia 2024 e candidato a dieci premi Oscar nel 2025.
Il protagonista è un architetto ebreo di origine ungherese, László Tóth (interpretato da Adrien Brody) scampato all’Olocausto e ai campi di sterminio nazisti, che dopo un lungo viaggio in nave, arriva a New York. Siamo nel 1947, nella Terra della Libertà e delle opportunità. Come tanti altri immigrati fuggiti dall’Europa, László è in cerca di un mondo nuovo e di qualcosa a cui aggrapparsi per il futuro. A Budapest ha lasciato la moglie (Felicity Jones) e la nipote (Raffey Cassidy), con la speranza che possano presto raggiungerlo. In America ritrova il cugino Attila, che gestisce un negozio di arredamento in Pennsylvania, provando a ricostruire la sua carriera di architetto, interrotta dall’ascesa dei nazisti. Il suo primo incarico è progettare una libreria in legno per un ricco e facoltoso costruttore, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un regalo commissionato dai figli. Tuttavia, a causa di una serie di contrasti e fraintendimenti, il lavoro, almeno in un primo momento, non viene apprezzato e László viene allontanato e poi cacciato di casa dal cugino. Senza prospettive, accetta lavori umili, soffre la fame e cade vittima delle droghe, perseguitato dai fantasmi della guerra. Quando tutto sembra perduto, Van Beuren, rivaluta la sua opera, e lo ingaggia per progettare un colossale centro culturale multifunzionale. È l’opportunità di una vita.
The Brutalist potrebbe sembrare un biopic, un film biografico, ma in realtà il protagonista non si basa su un personaggio realmente esistito. László Tóth è la rappresentazione di tante vite, di tanti migranti geniali che hanno plasmato l’immaginario americano rimanendone sempre ai margini.
Brady Corbet ha impiegato sette anni alla preparazione di The Brutalist, investendo un'enorme quantità di tempo e risorse per portare avanti un progetto in cui solo lui sembrava credere. Con un budget di soli 10 milioni di euro, raccolti tra mille difficoltà, ha sfidato le logiche produttive di Hollywood, rifiutando compromessi per mantenere intatta la sua visione autoriale pura e ambiziosa. La scelta di girare in VistaVision, un formato cinematografico panoramico che garantisce un’eccezionale profondità di campo e una definizione straordinaria, molto popolare tra gli anni ’50 e ’60, amplifica l’imponenza del film, trasportando lo spettatore in un’epoca passata con una forza visiva che dialoga perfettamente con il tema del brutalismo.
Di questa corrente architettonica, Corbet coglie soprattutto la solennità e il senso di oppressione. Eppure, paradossalmente, non è la scenografia a dominare – anche se la parte girata alle cave di Carrara è molto affascinante – né tantomeno l’architettura brutalista – che compare solo nella parte finale, in un segmento documentaristico che prova a spiegare tutto ciò che il film non ha spiegato prima. Il vero pilastro è l’interpretazione di Adrien Brody, una prova intensa, struggente, e carica di dolore. Accanto a lui, Guy Pearce incarna con gelida eleganza il mecenate-predatore, in un contrasto che rende ancora più evidente la disperata vulnerabilità del protagonista.
Ho apprezzato molto anche la colonna sonora firmata dal compositore britannico Daniel Blumberg, a tratti invadente ma che accompagna con carattere la messa in scena, amplificando il peso esistenziale della storia.
Eppure, The Brutalist resta un film riuscito solo a metà. Nonostante la durata proibitiva non pesi eccessivamente, la narrazione si inceppa nella seconda parte. Se l’inizio è solido e plausibile, la svolta, questa sì brutale, nel rapporto tra Tóth e Van Buren appare forzata, magari simbolica ma poco credibile. Corbet mette in gioco troppi temi – arte e potere, compromesso e purezza, capitalismo e ingiustizie sociali, il sogno americano e la sua illusione – ma tutto sembra essere appena accennato non riuscendo a dar loro il giusto respiro.
Alla fine, The Brutalist assomiglia all’edificio che il protagonista cerca disperatamente di costruire: imponente, esagerato, coraggioso, ma ancora imprigionato nella sua stessa materia. È un film che aspira alla grandezza, che vuole imporsi come opera monumentale, ma che rischia di restare schiacciato dal peso della sua stessa ambizione.

The Girl with the Needle
di Magnus von Horn
Ci sono film che raccontano una storia e altri che ti entrano sotto la pelle, scavano in profondità e lasciano il segno. The Girl with the Needle (Pigen med nålen) è uno di questi.
Diretto e sceneggiato da Magnus Von Horn, e presentato alla 77ª edizione del Festival di Cannes, il film è stato candidato agli Oscar 2025 come miglior film internazionale, ed è attualmente disponibile su Mubi, la piattaforma dedicata al cinema d'autore.
Prendendo spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto in Danimarca all'inizio del novecento, Von Horn racconta la vicenda – evito di parlarne per non rovinarvi il colpo di scena – attraverso gli occhi di una giovane donna, spezzata dalla miseria e dalla disperazione.
Copenhagen, primi del novecento. Koraline (Vic Carmen Sonne) è una giovane operaia che lotta per sopravvivere in una società crudele e impietosa. Sedotta e abbandonata dal suo capo dopo essere rimasta incinta, la donna, disperata e senza lavoro, cerca di sbarazzarsi del bambino. Nel fratempo torna dalla guerra il marito che nasconde il suo volto sfigurato con una maschera. Karoline non ne vuole sapere di lui, e dopo aver tentato un aborto improvvisato in un bagno pubblico, decide di portare a termine la gravidanza per poi affidare la bambina a Dagmar (Trine Dyrholm), una donna di mezza età che gestisce un'agenzia di adozioni clandestina e aiuta le madri povere a trovare case ai loro figli. La donna le offre aiuto, un rifugio, forse anche una nuova possibilità di vita. Ma dietro quella gentilezza si cela un orrore che Koraline scoprirà troppo tardi, ritrovandosi intrappolata in un incubo senza via di fuga.
The Girl with the Needle è un film che parla di miseria, di disperazione, di donne isolate da una società dura e respingente. Koraline non è un'eroina, e non lo è tantomeno Dagmar. Sono due figure tragiche, due facce della stessa medaglia, vittime e carnefici di un mondo che le ha condannate in partenza. Alla fine, ciò che resta impresso non è solo l'orrore dei crimini di Dagmar, ma il modo in cui il film riesce a farti provare empatia per questi personaggi, senza mai scadere nel sentimentalismo. Il regista danese, con il suo bianco e nero gelido, buio e oscuro e una regia che sembra attingere tanto dal cinema espressionista tedesco quanto al realismo del cinema di Bergman e le atmosfere cupe di David Lynch (in particolare The Elephant Man), costruisce un'esperienza visiva che scuote e ti trascina in una spirale di disperazione senza fondo.
Straordinarie le interpretazioni delle due attrici protagoniste capaci di raccontare la disperazione e la fragilità delle donne dell'epoca, così come ottima la colonna sonora elettronica di Frederikke Hoffmeier in arte Puce Mary che contribuisce a creare un'atmosfera di costante oppressione e alienzione.
Un film duro e senza compromessi, che forse si addolcisce un pò nel finale ma che alla fine difficilmente si dimentica.

Silo (stagione 1-2)
Graham Yost
Fino a qualche tempo fa ero un divoratore di serie TV. Negli ultimi tempi, però, ho iniziato a recuperare i grandi classici del cinema e a riscoprire vecchi capolavori - senza mai trascurare i miei amati horror e i weird movie - diventando molto più selettivo nel dedicare il mio tempo libero alle serie televisive. Spesso le trovo eccessivamente dilatate, mi annoiano, e finisco per abbandonarle dopo poche puntate. Finalmente, dopo diversi mesi, complice la presenza di un ospite in casa (che ha gentilmente insistito), sono riuscito a portare a termine non una, ma ben due stagioni di una serie.
Sto parlando di Silo, la serie sci-fi di Apple TV+ che ha appena chiuso la sua seconda stagione.
Creata da Graham Yost e tratta dai romanzi di Hugh Howey, Silo è ambientata in un futuro distopico, dove da centinaia di anni, una comunità di persone vive in un gigantesco silo sotteraneo, ignorando cosa abbia reso la superficie terrestre tossica e inabitabile. Con i suoi oltre cento piani, il silo è una città verticalmente organizzata, strutturata a livello piramidale e governata da leggi inflessibili che regolano ogni aspetto della vita quotidiana. Il fatto di essere una società fortemente gerarchizzata, con i meccanici che si occupano dei lavori più duri collocati in basso, e quelli del reparto IT, i giudiziari e le diverse autorità che governano il silo, nei piani più alti, porta a inevitabili e periodici conflitti e tensioni. Dopo la morte dello sceriffo - uscito all'esterno convinto che il mondo sia vivibile e che le immagini dei monitor che mostrano una terra desolata siano finte - Juliette Nichols (Rebecca Ferguson), caposquadra del reparto meccanico, viene inspiegabilmente promossa a capo delle forze di sicurezza. Investita di un nuovo potere e decisa a scoprire cosa si nasconde dietro ai segreti, i misteri, e le incongruenze che aleggiano sul silo, Juliette, donna determinata e dalla forte tempra, si scontra con il Sindaco e capo dell'IT Bernard Holland (Tim Robbins), che insieme Robert Sims, il temibile capo dei Giudiziari, sembra coinvolto in un complotto per nascondere la verità.
Silo si rifà alle grandi opere distopiche come 1984, Il mondo nuovo e Fahrenheit 451, usando un futuro inquietante per parlare del presente. La scenografia rétrofuturistica, con il suo fascino claustrofobico, i toni scuri dell’ocra e del marrone e una fotografia cupa, contribuisce a creare un’atmosfera opprimente, ma visivamente affascinante.
Apple TV+ ci ha abituati a produzioni di alta qualità, e Silo non è da meno: una regia solida, un cast eccellente (Rebecca Ferguson e Tim Robbins su tutti), e una scrittura che bilancia bene politica, rivolte sociali e misteri. Tuttavia, il ritmo non è sempre impeccabile. La narrazione si dilunga inutilmente nella parte centrale di entrambe le stagioni, con episodi che aggiungono poco alla storia e rischiano di annoiare. Un peccato, perché il materiale è ricco di spunti interessanti e i personaggi sono ben caratterizzati.
La prima stagione introduce l'ambiente distopico del silo sotterraneo diventando quasi una detective-story, mentre la seconda amplia la visione, presentando nuovi personaggi e svelando una società sempre più complessa. Il finale della seconda stagione non solo lascia molte domande aperte, ma ci porta indietro nel tempo, mostrando un frammento dei giorni pre-apocalittici e suggerendo che nella terza stagione scopriremo cosa ha portato alla distruzione del pianeta e alla creazione dei silos.
Se amate i misteri distopici con una vena politica e una buona dose di tensione, Silo è sicuramente una serie da tenere d’occhio. Non è perfetta, ma è avvincente, ben realizzata e pone le basi per un’esplorazione ancora più profonda nella prossima stagione. La terza (e quarta) sono già state confermate, e non vedo l’ora di scoprire cosa ci riserveranno.
Serie TV
The Animal Kingdom
di Thomas Cailley
The Animal Kingdom è un film francese del 2023 diretto da Thomas Cailley, che mescola elementi di fantascienza, fantasy e dramma esplorando temi legati all'identità e all'accettazione.
La trama si svolge in un futuro prossimo in cui una misteriosa "malattia" trasforma gradualmente gli esseri umani in animali antropomorfi. Il protagonista, François (interpretato da Romain Duris), intraprende un viaggio con il figlio sedicenne Émile (Paul Kircher) per seguire la moglie, anch'essa vittima di questa trasformazione, nel centro specializzato nel sud-ovest della Francia dove verrà ricoverata. Durante il tragitto la donna, in seguito a un incidente stradale, fugge insieme ad altre “creature”, iniziando a vagare nei boschi e a vivere la sua vita animale. François e suo figlio, affiancati da una volitiva poliziotta (Adèle Exarchopoulos) si mettono alla sua ricerca, ma proprio durante le loro esplorazioni Émile inizia a mostrare i primi segni di mutazione.
The Animal Kingdom è un racconto di formazione e trasformazione, ma sopratutto di accettazione. Una favola fantastica che vede protagonisti un padre e un figlio costretti a confrontarsi con la sfida emotiva di adattarsi a un mondo che non solo è intollerante verso ciò che è diverso, ma che fatica ad accettare una realtà in trasformazione. I "mutanti" non sono i supereroi degli X-Men, ma individui che perdono la loro umanità – sia sociale che comportamentale – per abbracciare la natura e i loro istinti animaleschi. La loro trasformazione avviene gradualmente. Spuntano artigli al posto delle unghie, canini al posto dei denti, ali al posto degli arti superiori, e lentamente si perde le abilità umane, come pedalare la bicicletta, scrivere e comunicare verbalmente, fin quando anche il linguaggio scompare venendo sostituito dal verso dell'animale di cui stanno assumendo le fattezze.
Il film beneficia di un'ottima recitazione da parte dei protagonisti, con Duris e Kircher che offrono performance convincenti e ricche di sfumature. Peccato che il personaggio della poliziotta, che inizialmente sembrava poter avere un ruolo più centrale, venga poi lasciato in secondo piano, con il suo sviluppo che sfuma senza un vero senso. La tensione narrativa è ben dosata, senza il ritmo frenetico che spesso caratterizza il cinema americano, e gli effetti speciali, che combinano il trucco prostetico con la CGI, sono gestiti con eleganza e discrezione.
Seppur non apportando nulla di particolarmente innovativo a livello di trama e contenuti, The Animal Kingdom si rivela un buon film, distinguendosi per la sua abilità nel combinare l'intimità di un rapporto generazionale con una profonda riflessione sulle dinamiche di adattamento in un mondo in continua evoluzione.
Film
Appartamento 7A
di Natalie Erika James
Appartamento 7A è un thriller/horror del 2024 diretto dal Natalie Erika James, regista australiana che si era fatta conoscere con Relic.
Rilasciato direttamente sulla piattaforma Paramount+, il film è, niente meno che, il prequel di Rosemary Baby, il capolavoro di Polanski. Il fatto che non sia stata fatta una adeguata campagna marketing per evidenziare il suo retaggio e che la pellicola non sia mai uscita sul grande schermo lascia supporre che la produzione non abbia creduto pienamente nel progetto.
La protagonista della storia è Terry Gionoffro, la giovane donna che, all'inizio di Rosemary's Baby, si toglie la vita gettandosi dalla finestra. Dunque, fin dal principio del film conosciamo l'epilogo, e questo, è un aspetto che, inevitabilmente, penalizza il coinvolgimento narrativo.
Terry (Julia Garner) è una ballerina con grandi ambizioni e il sogno di sfondare a Broadway. Quando un infortunio spezza il suo cammino, la sua vita si sgretola, tra audizioni fallite e un produttore crudele (Jim Sturgess) che si approfitta del suo momento di debolezza. Sul punto di crollare, Terry viene accolta da Minnie (Dianne Wiest) e Roman Castevet, due anziani gentili che le offrono ospitalità nell'appartamento 7A del famigerato Bramford. Ma l’apparente gentilezza della coppia nasconde il piano diabolico di farle partorire il figlio di Satana.
Appartamento7A gioca a carte scoperte. La sua natura di prequel di Rosemary's Baby è al tempo stesso il suo biglietto da visita e la sua condanna. La regista Natalie Erika James sa di essere in trappola, costretta a seguire binari già fissati, ma con il brillante uso del linguaggio musicale e della danza, perfettamente incastonati nella narrazione, riesce a piegare queste limitazioni e fornirci una sua originalità al capolavoro originale.
Julia Garner è molto brava a interpretare il conflitto interiore di una donna che desidera il successo, ma a un prezzo che rischia di distruggerla. Ottima intepretazione anche per Dianne Wiest, tanto leziosa quanto terrificante.
Il punto debole di Appartamento7A è la sua stessa esistenza come prequel. Per quanto si intravedano momenti di autentica originalità, il film non riesce mai a scrollarsi di dosso il peso dell'opera madre, restando imbrigliato in un destino già scritto.
E' un film piacevole, girato bene e interpretato in modo impeccabile, ma nel ricalcare la storia originale finisce per soffrire un confronto inevitabile e, purtroppo, impietoso con il capolavoro da cui trae ispirazione.

Joker: Folie à Deux
di Todd Phillips
Joker: Folie à Deux, il sequel del Joker di Todd Phillips, è stato il caso cinematografico dell'anno, ma in negativo! Raramente mi è capitato di vedere critica e pubblico così allineati in una netta bocciatura. Pur avendo apprezzato il primo capitolo, ammetto che questo clima generale di delusione mi ha spinto a rimandare la visione, rinunciando al grande schermo, per aspettare l'uscita in home video.
Stavolta, la storia si sviluppa in gran parte all'interno dell'Arkham Asylum dove Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) si trova detenuto in attesa del processo. Mentre all'esterno cresce il numero dei suoi sostenitori, Fleck è un uomo sconfitto, vinto e disilluso che ha smesso di indossare i panni del Joker e viene deriso e umiliato dalle guardie carcerarie. L'incontro con Lee Quinzel (Lady Gaga), una paziente che afferma di provenire dal suo stesso quartiere e di ammirare la personalità del Joker, portano Arthur a confrontarsi con la sua identità e le conseguenze delle sue azioni.
Joker: Folie à Deux è sostanzialmente un meta-film la cui narrazione - intervallata dalle numerose e stranianti parentesi musical - è solo l'immaginazione di un psicopatico, un pretesto per raccontare al pubblico che non è un film sul Joker ma quella di un uomo traumatizzato, bullizzato ed emarginato dalla società. Il film è una operazione di autosabotaggio, un suicidio volontario. Sicuramente coraggioso ma al tempo stesso un pò paraculo. Consapevole di non poter replicare il successo del primo capitolo, Phillips rompe volutamente il "giocattolo" facendo allontanare lo spettatore dal personaggio del Joker. In questo senso la figura di Lady Gaga sta a rappresentare proprio il pubblico, invaghito del primo film e dalla maschera che lo rappresenta, che lo rifiuta quando si ritrova di fronte solo il patetico Arthur Fleck.
Nel suo essere un film di rottura, volutamente alieno nel panorama mainstream, Joker: Folie à Deux è apprezzabile e in qualche modo interessante. Purtroppo, mettendo da parte l'aspetto puramente concettuale, non mi ha saputo emozionare né coinvolgere. Va bene che non amo particolarmente i musical, ma qui si canta - tra una sigaretta e l'altra - vecchie canzoni noiose, in scene realizzate (volutamente?) male e che sembrano montate a caso. Al di là della malinconica riflessione sul suo senso, è un film mi ha lasciato poco è nulla e mi ha fatto inevitabilmente domandare se questo sequel fosse davvero necessario.
Film
Nosferatu
di Robert Eggers
Approcciandomi a questo film con così tante aspettative, più cresceva l’attesa, più prendeva forma la possibilità di una delusione. Robert Eggers è uno dei registi contemporanei che più apprezzo, e la sua rilettura del Nosferatu di Murnau, una delle opere più importanti della storia del cinema, mi è sembrata fin da subito una sfida affascinante ma assai pericolosa. Ma d’altronde, chi meglio di lui poteva raccogliere un’eredità così impegnativa? L'estetica gotica e crepuscolare di Eggers, la sua passione per il folklore, la mitologia e il cinema espressionista, sembravano adattarsi perfettamente a omaggiare il capolavoro di Murnau, già ripreso da Herzog nel 1979 con Klaus Kinski nel ruolo del vampiro.
La storia è conosciuta. Non avendo i diritti per una trasposizione cinematografica del Dracula di Bram Stoker, Murnau cambiò i nomi e le location rispetto al romanzo originale. La vedova di Stoker però lo sgamò e ottene la distruzione di tutte le copie del film. Fortunatamente una copia si salvò e la pellicola del 1922 è potuta arrivare fino ai giorni nostri.
La trama del film di Eggers, dunque, segue quella del Dracula originale, offrendo poche sorprese a chi già conosce la storia. Forse, proprio questa prevedibilità rappresenta l'unico punto debole del film. Se c’è un elemento che distingue questa versione dalla narrazione dell’opera originale, risiede nella meticolosa ricostruzione storica del folklore legato al vampiro e, soprattutto, nell’attenzione rivolta al rapporto tra la protagonista femminile e la creatura della notte. È proprio questa dinamica, carica di tensione erotica e profondità emotiva, a rappresentare il cuore pulsante del racconto.
Nella Germania del 1833, Thomas Hutter (Nicholas Hoult), giovane agente immobiliare, viene mandato in un luogo sperduto della Romania. Il suo compito è quello di far firmare al Conte Orlok (Bill Skarsgard), un nobile della Transilvania che vive in un castello isolato, il contratto di acquisto di una vetusta dimora signorile che ha comprato nella città di Wisborg. In realtà il Conte Orlok è un antico vampiro ossessionato da Ellen (Lily Rose Depp), la giovane moglie di Hutter, che inconsapevole delle sue doti parananormali, lo ha risvegliato dal suo sonno eterno attirando su di sé l’oscura attenzione del vampiro. Determinato a raggiungerla, Orlok abbandona il castello, e a bordo di un nave arriva a Wisborg portando con sé una scia di morte e disperazione.
La versione di Eggers è fedele, ma al tempo stesso profondamente personale. Dal punto di vista estetico, è un'opera impeccabile, caratterizzata da una meticolosa attenzione alle inquadrature, alla fotografia e a ogni minimo dettaglio. I colori, volutamente desaturati, conferiscono al film un aspetto che richiama i toni virati tipici dei film muti degli anni Venti, evocando un fascino d’altri tempi. La scena dell'arrivo di Thomas nel villaggio rumeno è resa con un’atmosfera sospesa e spettrale, il suo ingresso al castello con il Conte Orlok che lo accoglie trasuda di orrore e marciume. Azzeccata l'idea di non mostrare subito il volto del vampiro, così come ho apprezzato anche il modo in cui Eggers ha reinterpretato il personaggio, discostandosi dalle versioni precedenti e traendo ispirazione dall’iconografia di Vlad II di Valacchia: un vampiro con dei baffoni e il corpo logorato dal peso dei secoli.
Conoscendo a fondo la storia di Dracula e le innumerevoli rivisitazioni che ne sono state fatte, il fascino di questo film risiede nell'estetica decadente e nell'angosciante atmosfera opprimente che Eggers ha saputo infondere in ogni scena. Realizzando un'opera che sognava fin dall'infanzia, il regista propone un vampiro che, attingendo alle radici del folklore, incarna la malattia, la morte e il sesso in una forma crudele, brutale e spietata, restituendo a questa figura mitica la sua carica più malevola e disturbante.
Convincenti le interpretazioni dei protagonisti con il grande Willem Dafoe nei panni del professor Von Franz e una diafana e languida Lily-Rose Depp, brava a esprimere la zona d'ombra e il tormento interiore causato dell'attrazione morbosa, oscura e irresistibile per un vampiro che incarna la morte, la malattia e il male assoluto.
Il male nasce dentro di noi o viene dall’aldilà?
Alla fine mie aspettative sono state pienamente soddisfatte. Un film che richiede senza dubbio una seconda visione per coglierne appieno tutte le sfumature.
ll fotogramma finale è arte.

Chime
di Kiyoshi Kurosawa
Noto per il suo approccio unico e autoriale al genere horror giapponese con opere come Cure e Pulse, il regista e sceneggiatore Kiyoshi Kurosawa firma Chime, un mediometraggio di 45 minuti concepito per promuovere Roadstead, una nuova piattaforma di streaming giapponese.
Presentato in anteprima alla Berlinale 2024, Chime condensa in meno di un’ora tutta la maestria del regista nel creare tensione, alienazione e un’inquietudine sottile e persistente.
La storia vede come protagonista un insegnante di cucina francese (Mutsuo Yoshioka) che dopo aver assistito al suicidio di uno dei suoi studenti, viene contaminato da una follia omicida che lo porta a perdere il controllo sulla propria mente e sulle sue azioni.
Kurosawa ha la straordinaria capacità di evocare il terrore attraverso dettagli minimi e apparentemente insignificanti: l'ombra dietro una tenda, il riflesso in una finestra, il suono di un condizionatore. Un esempio perfetto di questa tecnica si trova nella scena in cui il protagonista pranza con la famiglia, e la moglie si alza improvvisamente per gettare un intero sacco di lattine nel secchione. Questo gesto, che si ripete nel corso del film, non solo provoca un rumore fragoroso, ma riesce a suscitare un senso di profonda inquietudine. La tensione, pur rimanendo nascosta sotto la superficie, diventa palpabile, infondendo un'ansia persistente che cresce con ogni ripetizione del gesto, fino a diventare decisamente disturbante.
Un altra scena, in cui apparentemente non succede nulla ma la tensione sale alle stelle, è quella finale in cui il protagonista esce di casa per vedere chi ha suonato al citofono venendo sovrastata da un rumore alieno e dissonante che amplifica il disagio interiore del personaggio
Kurosawa, fedele al suo stile, costruisce un orrore che non viene mostrato, non si manifesta in modo esplicito, ma si insinua silenziosamente, restando percepibile a livello emotivo. Il sonoro diventa il fulcro della narrazione con rumori amplificati, suoni discordanti e il silenzio stesso che si trasformano in strumenti per creare disagio. Chime è un piccolo gioiello di paranoia, un concentrato di inquietudine che dimostra ancora una volta come Kurosawa sia capace di trasformare l’ordinario in un’esperienza straordinariamente perturbante.

L'innocenza
di Hirokazu Kore'eda
L'Innocenza, titolo italiano scelto per Monster, è il primo film che vedo di Hirokazu Kore'eda, regista giapponese conosciuto per Nobody Knows, Father and Son e Un affare di famiglia. Vincitore al 76° Festival di Cannes del premio per la migliore sceneggiatura, il film si avvale della scrittura di Sakamoto Yûji e della colonna sonora di Ryuichi Sakamoto, il celebre compositore, scomparso poco tempo dopo la sua uscita.
La film racconta la storia di Minato, un ragazzino di 11 anni che ha perso il padre e vive solo con la madre. Un giorno, tornato da scuola visibilmente turbato, Minato inizia a comportarsi in modo strano. La madre, preoccupata, si precipita a scuola venendo a sapere che un insegnante gli ha messo le mani addosso. La verità però è diversa da come ci viene raccontata.
L'Innocenza è un film emotivamente complesso che racconta la stessa storia da tre diverse prospettive: quella di una madre preoccupata, quella di un insegnante accusato di molestie e quella di due bambini il cui rapporto evolve da una semplice amicizia a un legame più profondo e ambiguo. Nella prima parte Kore'Eda descrive l'ipocrisia e la rigidità di una società giapponese contemporanea spesso più attenta a preservare la facciata rispettabile e l'onore piuttosto che indagare la verità. La seconda parte, in cui gli elementi del puzzle si ricompongono, si concentra sul mondo dei bambini. È qui che emergono le sfumature più intime della storia: i sentimenti nascosti, la vulnerabilità e la complessità del legame tra Minato e Yori, l'altro bambino protagonista della storia, preso di mira perché effemminato. Il regista giapponese, con delicatezza e profondità, racconta il passaggio dall’innocenza dell’infanzia, l'incomprensioni delle relazioni, e il peso delle apparenze, lasciandoci con una verità che si dimostra ingannevole, soggettiva, e mai definitiva, in cui ognuno diventa il "mostro" dell'altro.
Film
MadS
di David Moreau
MadS è un film del 2024 diretto da David Moreau, regista francese conosciuto per aver diretto film come Them e The Eye.
Il film è una variazione sul tema degli zombie e vede un giovane di "buona" famiglia, Romain (Milton Riche), che dopo essersi rifornito di droga dal suo abituale spacciatore, tornando a casa in macchina soccorre una ragazza ferita lungo la strada. Salita sulla sua auto, la donna, che pare essere uscita da un ospedale, inizia a dare di matto pugnalandosi alla gola e contaminando il giovane con il suo sangue. Da qui in avanti Roman inizia a non capirci nulla e la sua vita, insieme a quella delle sua ragazza, Anaïs (Laurie Pavy), e dell'amica Julia (Lucille Guillaume), precipita nella follia di una notte da incubo.
MadS ha la peculiarità di essere stato girato interamente in piano sequenza, ovvero in presa diretta, senza stacchi visibili né montaggio tradizionale. È una sfida tecnica che richiede una grande coordinazione tra regista, attori, operatori di macchina e tecnici, poiché ogni movimento deve essere perfettamente sincronizzato. Ovviamente, nel film sono presenti tagli nascosti, perché sarebbe estremamente complicato, soprattutto in un film d’azione, girare un’intera pellicola senza interruzioni.
In MadS, il piano sequenza non è solo una scelta stilistica ma viene usata per amplificare la tensione e il dinamismo generando una sorta di incubo sensoriale dove i mutamenti psicofisici dei tre protagonisti diventano il fulcro della narrazione. Già alterati dall’uso di droghe, i ragazzi si contagiano con il virus come in una staffetta delirante, correndo per le strade, urlando, piangendo, ridendo, e trasformandosi lentamente in creature bestiali assetate di sangue. La loro follia, oltre che dalla telecamera, è seguita da agenti speciali in tute anticontaminazione in una caccia adrenalinica.
Il film si sviluppa come un trip allucinogeno, con dialoghi ridotti all’essenziale. I protagonisti – giovani ricchi, viziati, annoiati e abbandonati a loro stessi – ricevono il distaccato aiuto solo dalla voce registrata di un bot in macchina o in ascensore, e dalla voce impersonale e insistente della signorina del call center della videosorveglianza. Probabilmente, la scena in cui Romain corre in bicicletta venendo pressato a inserire il codice di sicurezza per disattivare l’allarme di casa sotto la minaccia di un intervento della polizia, è quella che mi ha messo più ansia.
Buona l'interpretazione dei tre attori, con una menzione speciale per Laurie Pavy, che nella sua corsa folle e delirante regala una ottima performance.
A metà strada tra "La città verrà distrutta all’alba" e "Lola corre", MadS, prodotto da Shudder, il servizio di streaming dedicato al genere horror, ci regala un otimo film per chi cerca una serata adrenalinica e piena di intrattenimento horrorifico.
Astenersi per chi è alla ricerca di pellicole più psicologiche o profonde.

Loma
How Will I Live Without A Body?
Loma è il progetto musicale di Emily Cross, Dan Duszynski e Jonathan Meiburg, un trio nato in Texas all'attivo dal 2017. How Will I Live Without A Body? è il titolo del loro terzo album, registrato interamente in un'ex falegnameria sulla costa meridionale dell’Inghilterra. È lì che i tre si sono riuniti, dopo essersi sparsi in paesi diversi per seguire percorsi personali e artistici.
La musica dei Loma è riflessiva, malinconica e minimale. Un post rock con attitudini folk, che evoca atmosfere intime e sognanti. Le sonorità mi hanno ricordato i Low, mentre la voce eterea e sussurata di Emily Cross me la avvicinano alla Gibbons dei Portishead. Niente di nuovo ed eclatante, ma è proprio nella loro semplicità che queste canzoni si sono insinuate lentamente in profondità rivelando nuovi dettagli a ogni ascolto.
Brani come "How It Starts", "Swallowed a Stone", e "Unbraiding" sono quelli che ho preferito ma in realtà l'intero disco emerge per la sua crepuscolare bellezza.
Un album affascinante, ideale per un viaggio musicale notturno e contemplativo.
Musica

Una notte a New York
di Christy Hall
Una notte a New York, titolo italiano scelto per il film Daddio, segna l’esordio alla regia di Christy Hall, già nota per il suo lavoro come sceneggiatrice.
La storia è abbastanza semplice e ha la particolarità di essere ambientata quasi interamente nell’abitacolo di un taxi. Una giovane donna (Dakota Johnson), appena atterrata all’aeroporto JFK di New York, prende un taxi per tornare a casa dopo un viaggio in Oklahoma, dove è andata a trovare sua sorella. Alla guida del taxi c’è un uomo maturo, un pò burbero e un pò piacione (Sean Penn) che si mette a fare due chiacchiere mentre si dirige verso Manhattan. Complice un incidente che prolunga il tragitto più del previsto, la corsa si trasforma in un dialogo intenso in cui i due estranei, che sembrano inizialmente avere poco in comune, si aprono l’uno all’altra, condividendo frammenti delle loro vite. Tra confessioni e battute pungenti, il confronto evolve in una sorta di scontro generazionale e di genere, in cui si affrontano temi come il desiderio di connessione, il senso di perdita e le dinamiche di potere tra uomini e donne.
Oltre al mitico Taxi Driver, il film di Christy Hall non è il primo a essere ambientato in un taxi. Tuttavia, la regista, che firma anche la sceneggiatura, trasforma l’abitacolo in una sorta di confessionale, dove si svolge quello che somiglia a una seduta di terapia improvvisata tra un affascinante boomer e una attraente millennial. Certo, sentire discorsi profondi e riflessioni filosofiche tra due sconosciuti in un taxi, se lo si paragona all'esperienza che potrebbe avere una ragazza che dall'aeroporto di Fiumicino prende un taxi per andare alla Garbatella, rende ancora più evidente quanto l’incontro nel film sembri forzatamente artificioso. C'è da dire che Sean Peen e Dakota Johnson sono davvero bravi. Non è una sorpresa per il primo, veterano del grande schermo, che dà vita a un personaggio complesso, a metà tra il paterno e il predatore, capace di essere inquietante e rassicurante al tempo stesso. Lo è invece per la Johnson, che riesce a rendere con autenticità una donna forte e determinata, ma allo stesso tempo profondamente vulnerabile, catturando perfettamente le sfumature di un personaggio scritto con sensibilità.
In conclusione, il film di Hall, pur muovendosi su un un incontro un pò inverosimile, trova nei suoi interpreti e nei loro dialoghi la forza per mantenere vivo l’interesse dello spettatore per tutta la durata e il film.
Film
Heretic
di Scott Beck e Bryan Woods
Heretic, l'ultima produzione di A24, è un horror psicologico a tema religioso.
Diretto da Scott Beck e Bryan Woods, già noti per "A Quiet Place", il film affronta temi come la fede e il libero arbitrio, rovesciando i cliché dell’horror religioso, dove i fanatici perseguitano le vittime di turno. Qui accade l'esatto contrario.
La storia segue due giovani missionarie della chiesa mormone, sorella Paxton (Chloe East) e sorella Barnes (Sophie Thatcher), che girano per una piccola città del Colorado, andando di porta in porta nella speranza di convertire gli abitanti. In una serata piovosa, le due missionarie decidono di bussare alla porta di una casa isolata. Accolte dal carismatico sig. Reed (Hugh Grant) che con una scusa le invita a entrare in casa, le due ragazze si rendono presto conto di essere cadute in una trappola, oscura e manipolativa.
Il film si divide essenzialmente in due parti distinte. La prima è un thriller giocato sull'ambiguità e sulla tensione, con dei dialoghi affilati, un’atmosfera tesa e una regia che sa valorizzare i silenzi e gli sguardi. Nella seconda metà, invece, il film cambia marcia, abbracciando completamente il genere horror. L'atmosfera precipita in un crescendo di terrore, con le due protagoniste costrette a confrontarsi con la messa alla prova della loro fede, intrappolate in una casa che si trasforma in un labirinto infernale.
Interessante la riflessione sulla natura della fede e del libero arbitrio, così come provocatorio, e per certi versi divertente, il paragone con le diverse edizioni del Monopoli, Guerre Stellari e Creep dei Radiohead (spunti e influenze mi erano già noti) per sostenere che la maggior parte delle religioni non sono altro che adattamenti l'una dell'altra. Certo, qualche fedele potrebbe offendersi, ma del resto, il titolo del film mi pare sia abbastanza esplicito.
Per il resto la regia di Beck e Woods è solida, con una gestione sapiente dei tempi narrativi nella prima parte e un uso abile degli spazi claustrofobici nella seconda. Brave le due attrici, Chloe East che interpreta la sorella ingenua a timorosa, e Sophie Thatcher, la sorella più carismatica e dallo sguardo profondo, che spicca per la sua fresca bellezza. Il vero mattatore del film è però Hugh Grant che offre una grande performance attoriale, interpretando con ironia e sottile inquietudine un folle teologo che si diverte a manipolare le due giovani missionarie, orchestrando un disturbante gioco psicologico.
"Heretic" è un film che esplora temi di prevaricazione psicologica, sfruttando il contesto religioso come un veicolo per parlare di manipolazione e controllo. Con il suo mix di tensione, riflessioni filosofiche e atmosfera cupa, il film si è rivelato uno dei più interessanti dell'anno. In Italia uscirà a febbraio del 2025.
Film
Beezel
di Aaron Fradkin
Beezel è un film horror indipendente diretto da Aaron Fradkin nel 2024.
Sui social pare abbia suscitato un certo clamore, quindi, nonostante non sia ancora stato distribuito in Italia, incuriosito, me lo sono visto in streaming con i sottotitoli in inglese.
La trama è semplice e lineare, una strega cieca e sfigurata, Beezel, si nasconde nel seminterrato di una vecchia casa del New England, nutrendosi degli abitanti che hanno la sfortuna di trasferirvisi. Il film segue diverse linee temporali, mostrando come la maledizione della casa abbia colpito diverse famiglie nel corso dei decenni.
Fradkin deve aver avuto un’infanzia decisamente difficile se ha deciso di girare il film nella casa in cui è cresciuto. In effetti, ogni angolo della casa, con i suoi scricchiolii e ombre minacciose, creano un’atmosfera decisamente spaventosa. Le scene nel seminterrato riescono a trasmettere tensione, rendendo la casa un personaggio vivo e spaventoso quanto la stessa Beezel.
Tolta l'ambientazione e le scene in cui le varie telecamere, registratori analogici e cellulari si alternano nei decenni per raccontare quanto sta accadendo, Beezel non offre nulla di nuovo. La storia della casa maledetta infestata da un oscuro male è stata già raccontata decine di volte. Gli jumpscare, seppur ben orchestrati, sono telefonati e prevedibili per chiunque abbia visto più di un paio di film horror. I personaggi poi rasentano il ridicolo. Capisco il cliché del film horror che vuole la vittima non fuggire di fronte all'evidenza ma consegnarsi al mostro avventurarsi nel seminterrato sfida ogni logica.
Il film potrebbe risultare piacevole per gli amanti del genere in cerca di una serata di paura ma l'assenza di un approfondimento sulla storia di Beezel, i motivi della sua maledizione o il legame con la casa, rende la narrazione piatta e priva di spessore.
Un film horror di intrattenimento come tanti destinato a essere dimenticato subito dopo i titoli di coda.

Della donna aracnide
Luigi Musolino
Da amante dell'horror e del genere weird, Luigi Musolino in breve tempo è diventato uno dei miei autori preferiti. Recentemente è uscito "Della donna aracnide", un romanzo breve pubblicato da Zona 42, la stessa casa editrice che qualche anno fa aveva dato alle stampe "Pupille".
La storia è ambientata nella prima metà degli anni ’90 a Idrasca, un piccolo paese immaginario del Piemonte, già noto ai lettori delle opere di Musolino. I protagonisti sono due fratelli, Martina e Filippo, rispettivamente di tredici e nove anni, che vivono una quotidianità segnata da conflitti familiari, solitudine e un forte desiderio di evasione. Un giorno, in occasione della festa patronale, arriva in paese un circo itinerante. Tra luci colorate e musiche degli 883, i due giovani scorgono un carrozzone particolare, quello della "Donna Aracnide". Attratti dalla figura enigmatica e inquietante di Serafina, un freak mostruoso che promette di esaudire i desideri, Martina e Filippo decidono di entrare nella roulotte, ignari che quell’incontro cambierà per sempre le loro vite.
Musolino racconta con maestria una storia di traumi, crescita e sofferenze in cui il mostro diventa l'unico motivo di esistere per affrontare la soffocante realtà e le cicatici del passato. La scrittura dell’autore è fluida e convolgente, capace di creare una tensione tangibile, in cui l'orrore non risiede solo nella antica e mostruosa creatura che si nutre delle sofferenze dei bambini, ma soprattutto nella memoria, nel senso di colpa e nella solitudine esistenziale. Per certi aspetti le atmosfere di "Della donna aracnide" mi hanno ricordato "It" di Stephen King, ma la storia è decisamente più disperata puntando più alle dinamiche psicologiche dei protagonisti e dei traumi subiti.
Tra inquietudine e fascinazione, il romanzo è una fiaba dark cupa e potente, decisamente poco adatta agli aracnofobici. Un libro scorrevole ma non meno coinvolgente che ho letto in un pomeriggio.
Libri
Smile 2
di Parker Finn
Smile, il primo film del 2022, non mi aveva particolarmente entusiasmato. Un horror carino, come tanti, ma senza spunti originali o momenti memorabili.
A seguito dell'inaspettato successo ottenuto, Parker Finn, regista e sceneggiatore di quello che si annuncia essere un nuovo franchise orrorifico, torna con un sequel e grazie a un budget maggiore (28 milioni di dollari contro i 17 del primo capitolo) propone qualcosa di più ambizioso e interessante rispetto al predecessore.
Al centro del film troviamo Skye Riley (Naomi Scott), una popstar di fama mondiale dal passato tormentato. Tra un incidente d’auto in cui ha perso il fidanzato, una dipendenza dalle droghe e la pressione di una madre-manager asfissiante, Skye, proprio quando si prepara a rilanciare la sua carriera con un tour mondiale, riceve la maledizione dalla malvagia entità del sorriso assistendo al suicidio di uno spacciatore a cui aveva chiesto dei potenti antidolorifici per sopperire ai dolori cronici alla schiena come conseguenza dell'incidente. La maledizione si manifesta con sorrisi inquietanti e visioni distorte della realtà, trascinando Skye in un incubo in cui tutti i suoi traumi personali e le paure più profonde vengono amplificate.
Rispetto al primo capitolo, Smile 2 abbandona la struttura classica del j-horror e costruisce una storia più sfaccettata e coinvolgente. La figura di Skye Riley, magistralmente interpretata da Naomi Scott, è un personaggio complesso e stratificato, che offre una critica incisiva all'industria musicale, un ambiente segnato da falsità e pressioni psicologiche. In questo contesto, il sorriso forzato diventa una potente e significativa metafora.
Dal punto di vista tecnico e visivo, Smile 2 si distingue per scelte registiche decisamente più interessanti rispetto al primo capitolo, a partire dal lungo piano sequenza nella scena iniziale. Pur mantenendo i consueti jumpscare, questi sono dosati con maggiore attenzione, creando un equilibrio più armonioso tra suspense narrativa e momenti di paura, che risultano più efficaci e meno meccanici. Tra i momenti memorabili del film spicca la scena nella stanza d’albergo, dove un gruppo di ballerini con sorrisi inquietanti dà vita a una sequenza che mescola danza e orrore in modo straniante. In questa scena, Finn dimostra di saper giocare con il linguaggio visivo, collegando con efficacia il mondo delle popstar a quello del cinema di genere. Anche il finale è riuscito, lasciando intravedere una visione chiara per un possibile terzo capitolo. Ottima anche la colonna sonora di Cristobal Tapia de Veer, che avevo già apprezzato nella serie Utopia.
Sì, questo sequel è decisamente migliore dimostrando che anche nel mainstream horror c’è spazio per crescita e innovazione. Non ci resta che scoprire se Finn riuscirà a mantenere questa direzione, portando avanti il progetto con altrettanta coerenza e originalità.
Film
Terrifier 3
di Damien Leone
Quello che sorprende di più è come Damien Leone, partendo quasi dal nulla, sia riuscito in pochi anni a trasformare un semplice clown killer in una vera e propria icona dell’horror contemporaneo. "Terrifier 3", l'ultimo film di una saga horror slasher che si preannuncia essere molto lunga, è costato appena 2 milioni di dollari e finora ne ha incassato 85 di milioni. Stiamo parlando di un film indipendente, vietato ai minori di 18 anni, distribuito da una piccola casa di produzione, la Cineverse, che con un budget ridotto e delle spese di promozione e marketing irrisorie è riuscito a sbaragliare i botteghini delle sale cinematografiche di mezzo mondo. In Italia è uscito nelle sale poco dopo Halloween, e in un attimo ha conquistato la vetta dei migliori incassi. Siamo di fronte a un nuovo fenomeno slasher in cui il personaggio di Art il Clown, come poteva essere Freddy Krueger negli anni '80, si è guadagnato uno spazio nell'immaginario collettivo. Una impresa che ha del miracoloso.
Sono trascorsi cinque anni dai tragici eventi di Terrifier 2. Siamo nel periodo delle festività natalizie e Sienna (Lauren LaVera) e suo fratello minore Jonathan, ancora profondamente segnati da quella traumatica esperienza, stanno cercando di ricostruirsi una vita normale. Dimessa da una clinica psichiatrica, Sienna trova ospitalità presso gli zii e stringe un legame con la giovane cugina Gabbie che la idolatra, mentre Jonathan, ora al college, cerca di dimenticare i terribili eventi passati.
Nel frattempo, Art il Clown (David Howard Thornton), dopo essersi riappropriato della sua testa, entra in una sorta di letargo in una casa abbandonata insieme alla sua compagna di omicidi, Vicky, posseduta dallo spirito della sinistra Little Pale Girl. Il loro riposo viene però interrotto quando due operai di una ditta di demolizione si introducono nell’edificio, risvegliando così le due creature malvagie, pronte a scatenare nuovi massacri raccapriccianti. La follia sanguinosa di Art trasforma il Natale in un inferno, culminando in un violento scontro finale con Sienna, la sua implacabile antagonista.
Se siete alla ricerca di una storia profonda e articolata o di un'approfondimento sulle motivazioni psicologiche del killer demoniaco, allora lasciate perdere. Il film di Leone ha poco da raccontare se non quella di presentare un clown muto che se ne va in giro vestito da Babbo Natale a squartare le persone e uccidere sadicamente le sue malcapitate vittime. "Terrifier 3" è un horror estremo, quasi comico nella sua esasperazione. E' un torture porn che con i suoi effetti squisitamente artigianali vuole provocare il disgusto e scioccare il pubblico che apprezza l’aspetto più crudo e splatter dell'horror old-school. Il personaggio di Art è davvero riuscito e nonostante sia muto, riesce a comunicare un’angoscia unica, riuscendo perfino a strappare un sorriso per il suo macabro humour. Leone conosce bene il potenziale di questo personaggio e lo sfrutta senza mezzi termini, dando vita a una nuova icona del terrore destinata a lasciare il segno.

Strange Darling
di J.T. Mollner
Uscito negli Stati Uniti nel 2024, Strange Darling è un insolito thriller diretto da J.T. Mollner. Diviso in sei capitoli non consequenziali - alla Tarantino degli esordi tanto per intenderci - il film non segue una narrazione lineare e vede come protagonista un serial killer e la sua vittima in un gioco di ribaltamenti di ruoli e aspettative.
La storia è ambientata in Oregon e racconta l'incontro fortuito tra un uomo e una donna che decidono di recarsi in un motel vicino per una notte di sesso estremo. Quello che sembra un gioco di seduzione e trasgressione prende rapidamente una piega pericolosa e imprevedibile, trascinando i protagonisti in un vortice di violenza e inganno.
Strange Darling è un film da scoprire senza conoscere troppi dettagli della trama, quindi, se non lo avete ancora visto, è il momento di interrompere la lettura perché da qui in avanti siamo in modalità spoiler.
Abituati a vedere film in cui la donna è vittima indifesa delll'uomo malvagio e violento, Mollner, sovverte abilmente i classici stereotipi di genere, e giocando con le aspettative del pubblico, pur mantenendo viva l’ambiguità e il senso di disagio, a metà film scopre le sue carte rivelando che è proprio la donna (interpretata da Willa Fitzgerald) a essere la pericolosa omicida seriale, conosciuta come "The Electric Lady", che la polizia sta cercando da alcuni anni. L’uomo (Kyle Gallner), che nella scena iniziale vediamo armato di fucile mentre la insegue, è in realtà solo una delle sue numerose vittime - prevalentemente uomini - che cerca disperatamente di vendicarsi delle violenze subite dopo essere stato drogato la notte precedente. Non conosciamo i motivi che spingono la protagonista a uccidere; non è la solita vittima in cerca di vendetta. Nel finale, afferma di vedere demoni al posto delle persone, facendo intuire una psiche profondamente turbata. È un personaggio intrigante, ambiguo e fuori controllo, che uccide senza scrupoli e che sembra cercare nel dolore quell'amore che forse non ha mai ricevuto.
Girato in 35mm, il film vanta una fotografia dai toni saturi e intensi, una splendida colonna sonora e una regia dal ritmo disorientante e incalzante, funzionale a esplorare la complessa dinamica tra i due protagonisti. Notevole l'interpretazione di Willa Fitzgerald (vista recentemente nella serie "La caduta della casa degli Usher"), che nel ruolo di scream queen al contrario offre una performance di grande intensità e versatilità, dimostrando un talento che arricchisce e ribalta la tradizionale figura della donna nel genere horror/thriller.
Film
Longlegs
di Oz Perkins
Longlegs è uno dei film più chiaccherati di questo periodo.
Se ne parla addirittura da mesi grazie a una efficace campagna marketing che ha saputo attirare l'attenzione sia da parte degli addetti ai lavori che del pubblico.
Distribuito da Neon e costato poco meno di 10 milioni di dollari il film in un paio di mesi ne ha incassato più di 100.
Il regista è Oz Penkins che ho già avuto modo di apprezzare nei suoi precedenti film, in particolar modo in "Gretel and Hansel", la rielaborazione gotica della favola dei fratelli Grimm.
Ambientato negli anni novanta, Lee Harker (Maika Monroe) è una giovane agente dell’FBI, apparentemente distaccata e priva di emozioni, che grazie alle sue straordinarie capacità percettive, viene assegnata dal suo capo, l’agente Carter (Blair Underwood), a indagare su una serie di brutali omicidi avvenuti nell'Oregon fin dagli anni settanta. Padri che senza ragione massacrano la loro famiglia, e successivamente si suicidano. Unico elemento in comune è che le figlie femmine assassinate festeggiano il compleanno il 14 del mese e che nella scena dei crimini viene sempre trovata una lettera dai caratteri incomprensibili in cui è riconoscibile solo la firma, Longlegs. Aiutata dal suo intuito, Lee riesce a decifrare il contenuto delle lettere scoprendo che il misterioso serial killer (interpretato da un irriconoscibile Nicholas Cage), è più vicino a lei di quanto pensasse.
Accostato al "Silenzio degli Innocenti" per il fatto che abbiamo una giovane agente dell'FBI che indaga su un serial killer, a "Seven", per via dell'ambientazione cupa e claustrofobica, oppure a "Zodiac" per le lettere scritte con uno strano codice, il film di Perkins, se proprio bisogna trovargli delle analogie, in realtà mi è sembrato più un incrocio tra la prima stagione di "True Detective" e un episodio dilatato di "X-Files", dove gli alieni e l'ignoto vengono sostituiti dal demonio e il culto di Satana. Diviso in tre atti, "Longlegs" parte come un classico thriller procedurale per poi sconfinare in un horror soprannaturale, dove il male si annida nelle pieghe del quotidiano, lasciando nello spettatore una sensazione di inquietudine che persiste ben oltre i titoli di coda. Tra citazioni bibliche, inquietanti bambole di porcellana e inneggiamenti a Satana, il film di Perkins non è certamente il miglior horror degli ultimi anni, e forse nemmeno del 2024, nonostante gli annunci e la grande aspettativa. Tuttavia, resta un'opera notevole, che trova la sua forza nella cura estetica del regista (inquadrature, controcampi e fotografia spettacolare) e sopratutto nell'interpretazione di un Nicholas Cage trasformato in una figura grottesca e ambigua, in cui incarna un “boogeyman” dai tratti glam-rock. Una sorta di Marilyn Manson invecchiato in versione albina. E già solo a pensare a questa immagine mi mette i brividi addosso.
Film
The Cure
Songs of a Lost World
Sono cresciuto con i Cure, la band che più di ogni altra ha segnato la mia formazione musicale. Li ho visti dal vivo numerose volte, e ogni concerto è stato un'esperienza indimenticabile. Tuttavia, il mio entusiasmo per Robert Smith e compagni si è affievolito dopo Wish, con gli album successivi che mi hanno lasciato piuttosto indifferente, per usare un eufemismo. Trent'anni senza una nuova canzone dei Cure capace di riaccendere la scintilla (l'ultima è stata From the Edge of the Deep Green Sea) sono davvero tanti. É una generazione.
Del nuovo album si parlava ormai da anni, e i continui rinvii lo avevano trasformato quasi in un oggetto misterioso. Alla fine, però, dopo sedici anni dall'ultimo lavoro in studio, è arrivato Songs of a Lost World, preceduto da due brani usciti il mese scorso. Molti dei brani presenti nell'album sono stati suonati dal vivo durante il recente tour dei Cure ed essendo stati pubblicati su YouTube i fans più accaniti hanno potuto farsi una idea di quale sarebbe stato il "mood" di questo tanto atteso album.
Il disco si apre con "Alone", una potente ballata che affronta la mortalità. Ecco, questi sono i miei Cure, quelli che riconosco e che non ascoltavo da tempo. Tutto è condensato in otto minuti, con un intro lunghissmo ed emozionante che sfocia con la voce di Robert Smith che canta l'angoscia di sapere che giovinezza e innocenza sono irrimediabilmente perdute. Il miglior brano dell'album così come il loro pezzo migliore degli ultimi trent'anni. (Sì, lo so qualcuno potrà dire ci voleva poco). Il secondo brano, "And Nothing is Forever", parte con un'atmosfera più melodica con pianoforte e archi, per poi esplodere in tutta la sua potenza. Forse un pò stucchevole. "A Fragile Thing" è il secondo singolo ed probabilmente il pezzo più leggero dell'album, anche se molto lontano dai classici brani pop dei Cure del passato. In "Warsong" Smith affronta il tema degli attuali conflitti del mondo in un brano che con quelle chitarre distorte, feedback e organo in apertura mi ha riportato indietro a Disintegration. "Drone: No Drone" è il pezzo più rock del disco, ma francamente a un primo ascolto mi dice ben poco. Il dolore personale di Smith emerge in "I Can Never Say Goodbye" un tributo straziante al fratello scomparso, Richard. Un pianoforte a scandire la linea melodica, stessa batteria secca di "Alone", ma con una composizione meno convincente. "All I Ever Am" ha un ritmo vivace e la chitarra classica di Smith in un brano che, nel complesso, risulta piacevole. L'album si chiude con "End Song", un trascinante brano di oltre dieci minuti, in cui la batteria scandisce ipnoticamente ogni battuta, culminando in un crescendo polifonico di chitarre distorte. Insieme a "Alone", è il brano più emozionante e coinvolgente dell’intero disco.
Queste sono le mie impressioni a caldo dopo un paio di ascolti, anche se molti pezzi li avevo già assimilati nelle versioni live. È un album cupo e solenne, dove il tema della morte ricorre in ogni traccia. Scritto in un periodo difficile per Smith, segnato dalla perdita dei genitori e del fratello maggiore, Songs of a Lost World è un disco che guarda al passato e che probabilmente non aggiunge nulla di nuovo a quanto i Cure hanno già fatto nei loro momenti migliori. Ma tra i tanti gruppetti che oggi popolano il sottobosco dark underground, loro rimangono gli originali e i migliori. E poi, nonostante l’aspetto segnato e il rossetto sbavato, ormai quasi una caricatura del personaggio che fu, la voce di Robert Smith è rimasta praticamente immutata.
Musica
The Substance
di Coralie Fargeat
Mi sono visto al cinema The Substance, il body horror diretto da Coralie Fargeat, recentemente premiato per la miglior sceneggiatura a Cannes.
Elizabeth Sparkle (Demi Moore) è una ex diva di Hollywood che conduce da anni un programma di fitness in televisione. Quando il giorno del suo cinquantesimo compleanno viene licenziata, perchè il viscido produttore (Dennis Quaid) vuole sostituirla con una ragazza più giovane, Elizabeth decide di aderire a un programma sperimentale chiamato The Substance, che gli promette di tornare ad essere "giovane, bella e perfetta". Ottenuto il kit con le dosi, le siringhe, e le relative istruzioni, la donna si inietta quello che viene chiamato l'attivatore, generando dal suo corpo, che si lacera aprendosi sulla schiena, un suo clone, un’altra sé stessa giovane e bellissima (Margaret Qualley). A questo punto, per far sì che tutto funzioni correttamente, la matrice e il clone devono seguire alla lettera la procedura. Mentre un corpo vive, l’altro rimane dormiente alternandosi ogni sette giorni. Nella settimana di attività il clone deve alimentare Elisabeth con un particolare nutriente, iniettandosi quotidianamente una sostanza prelevata e prodotta dal corpo originale. Ovviamente il clone, che si fa chiamare Sue, ottiene il posto che era di Elisabeth incantando il produttore con la sua bellezza e riscuotendo subito un enorme successo di pubblico. Per un po’ Elizabeth e Sue vivono a settimane alterne seguendo scupolosamente il ciclo alternato, ma quando Sue, inebriata dal successo, decide di "restare in attività" più del dovuto, prosciuga eccessivamente la linfa vitale di Elizabeth, che al suo risveglio si ritrova invecchiata e deteriorata irreversibilmente. Diventata vittima del suo doppio e della sua avvenenza, Elisabeth precipita in una lotta disperata e autodistruttiva, in un conflitto di convivenza che si trascina in maniera feroce ed esasperata fino a un finale parossistico.
Coralie Fargeat porta sullo schermo una cruda allegoria della società moderna e della sua ossessione per la giovinezza e la bellezza ai tempi di Instagram e Tik Tok, in un body horror estremo che richiama molto Cronenberg e il "Society" di Brian Yuzna. Girato a tratti con lenti deformanti, inquadrature ravvicinate e un montaggio compulsivo trainato da musica elettronica che mi ha ricordato l'estetica di "Requiem for a Dream" di Aronofsky, "The Substance" è un film grottesco, fortemente caricaturale ed esasperato che a tratti sembra sprofondare nella parodia. Il finale del film è un tripudio splatter che può provocare disgusto e disagio, in coloro che si aspettavano un approccio più psicologico e profondo al tema, o al contrario esaltare chi si diverte a guardare mutazioni e deformazione del corpo con tanto di schizzi di sangue a profusione.
Soprassedendo su alcune ingenuità nella trama - come il clone che realizza un lavoro murario a regola d'arte, o la protagonista diventata vecchia, prima bloccata dall’artrite e poi in grado di correre per le scale - il film, preso per quello che è, ovvero una caricatura estremizzata della "cultura" che celebra l’immagine giovanile come unico valore di successo, è comunque riuscito. Anche se il messaggio rischia di perdersi nella messa in scena volutamente eccessiva, "The Substance" si fa apprezzare per il coraggio con cui punta lo sguardo su un'ossessione contemporanea senza mezze misure.
A mio parere il miglior horror del 2024.
Film
Il buco - Capitolo 2
di Galder Gaztelu-Urrutia
A cinque anni dal film "Il Buco", film spagnolo comparso nel catalogo Netflix che ha riscosso parecchio successo tra gli appassionati del genere fanta-horror distopico, torna sulla stessa piattaforma un secondo capitolo, un prequel diretto nuovamente da Galder Gaztelu-Urrutia.
Ambientato un anno prima rispetto agli eventi del primo film, questo capitolo ci riporta nel mondo della spaventosa prigione verticale composta da 333 livelli, dove una piattaforma distribuisce quotidianamente il cibo, fermandosi per pochi minuti su ogni livello. I detenuti, collocati in coppia su ogni piano, vengono ricollocati casualmente ogni mese, e devono attenersi alla regola di prendere solo ciò che serve, lasciando agli altri la possibilità di sopravvivere. Contrariamente a quanto abbiamo visto nel primo film, nella fossa un gruppo di persone che si fanno chiamare gli "Unti" cercano di far rispettare le leggi imponendo con autorità e severe punizioni che il cibo venga distribuito equamente. In contrapposizione a loro ci sono "i barbari", ovvero ribelli che rifiutano qualsiasi imposizione e vogliono mangiare liberamente, alimentando lo scontro ideologico all’interno della fossa.
La protagonista questa volta è una donna, interpretata da Milena Smit, un artista e affermata scultrice che si è fatta rinchidere nella fossa per espiare una tragedia di cui si sente responsabile. Accanto a lei, almeno nelle prime battute, troviamo un matematico disturbato e ossessionato dal fuoco, interpretato da Hovik Keuchkerian.
L’idea di base è intrigante e funziona, richiamando l'atmosfera della trilogia di The Cube, con cui condivide diverse analogie. Tuttavia, rispetto al primo film, in questo prequel l'effetto novità si affievolisce. L’introduzione di una struttura politica e una sorta di ideologia socialista, spinta quasi al fanatismo religioso, aggiunge un nuovo tema nella narrazione, ma alla fine non riesce a sorprendere del tutto. Mancano spiegazioni chiare, e il finale, come nel primo capitolo, lascia spazio a troppe interpretazioni personali.
Particolarmente suggestiva è la scena dei bambini che giocano in un parco dall'architettura brutalista, simbolo di un futuro distopico dove le nuove generazioni potrebbero non godere più dei semplici privilegi come giocare all’aria aperta. Una metafora potente che chiude con un amaro riflesso sulla società e il destino che ci attende.
Film