
Pandemonium
di Quarxx
Quarxx è un regista, pittore e artista multimediale francese con una spiccata inclinazione per il cinema fantastico e horror. Dopo l’esordio con Tous Les Dieux Du Ciel e una serie di cortometraggi, nel 2023 porta sullo schermo Pandemonium, un viaggio visionario negli Inferi. Entrambi i film, al momento, restano inediti in Italia.
Tutto comincia su una strada di montagna avvolta nella nebbia, dove un'auto e una moto si sono da poco scontrate violentemente. Nathan (Hugo Dillon), il conducente dell'auto, si risveglia sull’asfalto, illeso ma confuso. Poco distante si trova il motociclista, Daniel (Arben Bajraktaraj), il quale gli rivela che entrambi sono morti. inizialmente Nathan non gli crede, ma quando vede il proprio cadavere all'interno della macchina, è costretto ad accettare la tragica verità. Inaspettatamente, appare anche una bambina, vittima dell’incidente, e mentre per lei si spalanca la porta verso la luce, per Nathan e Daniel si apre l’ingresso all’Inferno.
Il viaggio infernale di Nathan diventa il filo conduttore di altre due storie che scavano nel senso di colpa e nella disperazione umana. La prima riguarda una bambina profondamente disturbata che uccide i suoi genitori e poi la sorellina, mentre nella seconda incontriamo una giovane suicida, vittima di bullismo, e sua madre, troppo assorbita dal lavoro per rendersi conto della sofferenza della figlia. La storia della bambina è grottesca e raccapricciante, mentre quella della madre e della figlia suicida è particolarmente straziante.
Quarxx si ispira dichiaratamente a "…E tu vivrai nel terrore! – L’aldilà" di Lucio Fulci, un film che lo ha segnato fin da bambino, e l’influenza è evidente. Pandemonium condivide con il cult italiano lo stesso senso di oppressione e di ineluttabilità. Ma ci sono anche richiami all’estetica sadica di Hellraiser di Barker soprattutto nella parte finale, dove Nathan si ritrova condannato a un’eternità di sofferenza, diventando il "giocattolo" del suo carnefice. Visivamente, il film è potente. L'Inferno immaginato da Quarxx ha una qualità pittorica, oscura e ipnotica. Ma la narrazione? Qui iniziano i problemi.
L’aspetto antologico rende il film frammentato, quasi disorientante. Le storie, per quanto affascinanti, sembrano poco coese e il tutto risulta discontinuo e un pò confusionario. Per esempio dove è andato a finire il motocilista? E la bambina che ha ucciso i genitori quando muore? E quella sottotrama sull'anticristo che appare sul finale, è un accenno a un possibile seguito o solo un’idea abbozzata?
Alla fine, Pandemonium lascia una sensazione strana. È come se Quarxx avesse tra le mani un concept perfetto per una serie televisiva antologica, con ogni episodio dedicato a una delle storie e un filo conduttore più solido. Così com'è, sembra un esperimento dal potenziale enorme, ma non del tutto realizzato. Eppure, nonostante la sua discontinuità, il film riesce a colpire. È destabilizzante, angosciante, visivamente ipnotico, e non lascia indifferenti. In fondo, non è forse questo lo scopo dell’horror?

E non liberarci dal male
di Joël Séria
Censurato in Francia e in altri paesi per le sue tematiche provocatorie e dissacranti, E non liberarci dal male (Mais ne nous délivrez pas du mal, 1971) di Joël Séria è un film che inquieta e affascina al tempo stesso. Ispirato al caso Parker-Hulme – lo stesso che diede origine a Creature del cielo di Peter Jackson – racconta una discesa vertiginosa negli abissi della giovinezza corrotta, dove la trasgressione si confonde con la seduzione del male.
Anne (Jeanne Goupil) e Lore (Catherine Wagner), due adolescenti benestanti cresciute in un ambiente cattolico repressivo, stringono un legame di amicizia ossessivo e morboso. Tra le mura del collegio, insofferenti alle regole e annoiate da una realtà che non le soddisfa, scoprono nella trasgressione un nuovo gioco, un modo per sentirsi vive. Affascinate dall’idea del male come atto di ribellione assoluta, il loro viaggio nell'oscurità inizia con piccoli atti di disobbedienza e giochi maliziosi alla scoperta della loro sessualità, finendo – con il sopraggiungere delle vacanze – per degenerare in rituali satanici, seduzioni avventate di uomini fragili e crudeltà di ogni genere. Quando il loro universo di fantasie oscure si scontra con la realtà, l’unico epilogo possibile è una tragedia rituale che suggella il loro patto eterno.
Joël Séria costruisce un film diabolico, pervaso di erotismo e dissacrazione, che racconta il progressivo disfacimento morale di due adolescenti (in realtà le attrici erano appena maggiorenni, ma nel film dimostrano molti anni di meno), tra insofferenza religiosa, primi desideri sessuali e voglia di evasione. Anne e Lore non sono vittime di un mondo crudele, ma due ragazze che cercano di sfuggire alla monotonia della loro esistenza e alle loro famiglie borghesi, più attente alle apparenze che ai sentimenti, consegnandosi al male, a Satana e alla propria autodistruzione. Così, in una torrida estate francese, danno fuoco a una fattoria, celebrano messe nere con un giardiniere mentalmente instabile, torturano animali, si offrono agli uomini con malizia. E infine, compiono un omicidio.
Il contrasto tra la loro innocenza apparente e la brutalità delle loro azioni amplifica il senso di inquietudine. I loro sorrisi, la loro leggerezza, rendono tutto ancora più disturbante. Il film culmina in una scena finale che ha il sapore di un sacrificio blasfemo.
E non liberarci dal male ancora oggi conserva intatta la sua carica disturbante. Un film pruriginoso, provocatorio, spietato, che non offre risposte, ma affonda le mani nel torbido dell’adolescenza, portando all'estremo i suoi incubi più morbosi.
Film
Titane
di Julia Ducournau
Quando il cinema francese decide di osare, sa essere disturbante come pochi. E per disturbante intendo qualcosa che ti si insinua sotto la pelle, lacera e lascia il segno. Titane, diretto da Julia Ducournau e vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2021, è un film estremo, provocatore e spiazzante.
Alexia (Agathe Rousselle) porta nel cranio una placca di titanio, souvenir di un incidente d’auto avuto da bambina. Forse è per questo che, da adulta, sembra più macchina che umana. Lavora come ballerina di lap dance alle fiere automobilistiche, strusciandosi su auto fiammanti, ipersessualizzata e inaccessibile. Un sogno proibito per chi la osserva, ma non per le automobili, verso cui prova un’attrazione così viscerale da arrivare ad avere un rapporto sessuale con una Cadillac (probabilmente con la leva del cambio, ma meglio non farsi troppe domande). Il rapporto con gli esseri umani invece è un pò più problematico e chiunque osi avvicinarsi troppo, uomo o donna che sia, finisce con un fermaglio da capelli piantato nel cranio. La situazione precipita quando la nostra protagonista compie una strage in una festa privata e si ritrova braccata dalla polizia. In cerca di una via di fuga, Alexia decide di compiere la metamorfosi più estrema, si sfigura il volto e assume l’identità di Adrien, il figlio scomparso di un comandante dei pompieri (Vincent Lindon), un uomo che si aggrappa disperatamente all’illusione di aver ritrovato il figlio perduto. Nel frattempo, piccolo dettaglio da non trascurare, Alexia scopre di essere incinta. Dell'auto.
Titane è un body horror senza freni, disturbante, ed estremo. Il suono delle ossa che si spezzano, il metallo che stride sulla pelle, lo strazio del corpo che si lacera diventa così irritante e fastidioso, che a tratti bisogna distogliere lo sguardo dallo schermo. Le influenze di Crash di Cronenberg e di Tetsuo di Tsukamoto sono evidenti, ma Ducournau ci mette del suo, mescolando il disgusto con un’ironia sottile e irriverente. Basta vedere la scena dell’omicidio compiuto con uno sgabello sulle note di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli, o il momento surreale in cui Alexia canta la Macarena durante una respirazione bocca a bocca. È un horror del corpo, ma anche dell’identità. In un mondo ossessionato dalle etichette, Alexia diventa un’entità fluida, senza un nome, senza un genere, senza più un’origine chiara. Un corpo in costante trasformazione, né uomo né donna, né carne né metallo.
Dall’altro lato, Vincent, il comandante dei pompieri, è il contrappeso umano, ma non meno devastato. La sua mascolinità ipertrofica è solo un guscio fragile, alimentato da steroidi e disperazione. Il suo bisogno d’amore è così cieco da non voler vedere la realtà, abbracciando l’inganno con una dolcezza straziante. Il loro rapporto è un paradosso che funziona. Un gioco di specchi tra corpi spezzati che cercano di ripararsi a vicenda, senza mai riuscirci davvero.
Probabilmente Titane verrà ricordato come "il film in cui una ragazza resta incinta dopo aver fatto sesso con un’automobile", senza ombra di dubbio, ma è anche una storia d’amore. Malata, deviata, dolorosa e impossibile, ma pur sempre amore. Il bisogno disperato di essere accettati, di essere visti, di essere amati nonostante tutto. Anche se stai secernendo olio motore dalla vagina.
Un film che lascia il segno, come una cicatrice sul metallo.

Possession
di Andrzej Zulawski
Possession è un film di culto di cui ho sempre sentito parlare, ma che, per un motivo o per un altro, non ero mai riuscito a vedere. Ora che finalmente l'ho recuperato, mi trovo in difficoltà nel cercare di fare un analisi ragionata di una pellicola così complessa, stratificata e carica di simbolismi, aperta a innumerevoli interpretazioni. Ma andiamo con ordine.
Realizzato nel 1981 dal visionario regista polacco Andrzej Zulawski, Possession venne presentato in concorso al 34º Festival di Cannes, dove Isabelle Adjani fu premiata come miglior attrice per la sua straordinaria performance. Fin dalla sua uscita, il film subì pesanti censure, ottenendo il divieto ai minori di 18 anni in quasi tutti i paesi in cui venne distribuito. In Italia venne tagliato e rimontato, negli Stati Uniti fu mutilato di ben 45 minuti, mentre in Germania, dove peraltro è ambientato, venne ufficialmente proiettato solo nel 2009.
Ci troviamo nella Berlino divisa degli anni '80, con il Muro che incombe sulla città come un simbolo di separazione e alienazione. Mark (un giovane Sam Neill) torna a casa dopo un viaggio di lavoro e scopre che sua moglie Anna (la splendida Isabelle Adjani) lo tradisce e vuole lasciarlo. Il loro matrimonio, già in crisi da tempo, ruota attorno al figlio piccolo, Bob. Incapace di accettare l'abbandono, Mark, dopo essersi ripreso da una forte crisi depressiva, stringe un legame con Helen, la maestra di Bob identica ad Anna nell'aspetto ma dolce e rassicurante, ingaggiando successivamente un investigatore privato per pedinare Anna e scoprire il suo amante. Quello che emerge è inquietante: la donna non si limita a frequentare Heinrich, personaggio eccentrico e sopra le righe, ma, all'insaputa di tutti, si reca segretamente in un appartamento abbandonato, dove nasconde una creatura mostruosa e tentacolare, dall'aspetto indefinito.
Possession è un film visionario e grottesco, quasi esasperato nella sua forma e nell'interpretazione dei suoi protagonisti. La performance della Adjani è leggendaria, una prova attoriale che travalica i confini dell'umano. La celebre scena della metropolitana, in cui il suo corpo si contorce in una danza selvaggia di dolore e follia, è una delle sequenze più sconvolgenti mai girate.
Zulawski fonde realtà e delirio per raccontare il fallimento dei rapporti umani, il conflitto tra caos e ordine, e la perdita dei valori di una società moderna destinata a sgretolarsi. Il Male si insinua nella coppia in crisi, assume la forma di una creatura lovecraftiana – peraltro realizzata da Rambaldi – e si manifesta in un finale apocalittico. Il tema del doppio è onnipresente: Berlino è divisa dal Muro così come i personaggi sono scissi tra la loro natura razionale e il loro lato oscuro. Anna ha il suo doppio in Helen, versione angelica di sé stessa, mentre Mark trova il suo riflesso distorto nella creatura mostruosa partorita dalla moglie, che diventerà la sua inquietante controparte.
E poi c'è Bob, il figlio innocente e fragile, simbolo di purezza e normalità, che viene tragicamente schiacciato dai conflitti degli adulti e dalle loro ambizioni autodistruttive. La sua scelta finale – quella di annegarsi – è una disperata fuga da un mondo ormai dominato dal caos.
Possession è un film unico, profondamente inquietante, che travolge con il suo nichilismo e le sue immagini disturbanti. Difficile da catalogare, in quanto combina più generi e sottogeneri insieme, dall'orrore al dramma psicologico, dal grottesco al surreale. Non è un film perfetto né per tutti, ma per chi ama il genere, è un'opera imperdibile e impossibile da dimenticare. Il grande e compianto David Lynch lo definì "il film più completo degli ultimi 30 anni".
Film
The Animal Kingdom
di Thomas Cailley
The Animal Kingdom è un film francese del 2023 diretto da Thomas Cailley, che mescola elementi di fantascienza, fantasy e dramma esplorando temi legati all'identità e all'accettazione.
La trama si svolge in un futuro prossimo in cui una misteriosa "malattia" trasforma gradualmente gli esseri umani in animali antropomorfi. Il protagonista, François (interpretato da Romain Duris), intraprende un viaggio con il figlio sedicenne Émile (Paul Kircher) per seguire la moglie, anch'essa vittima di questa trasformazione, nel centro specializzato nel sud-ovest della Francia dove verrà ricoverata. Durante il tragitto la donna, in seguito a un incidente stradale, fugge insieme ad altre “creature”, iniziando a vagare nei boschi e a vivere la sua vita animale. François e suo figlio, affiancati da una volitiva poliziotta (Adèle Exarchopoulos) si mettono alla sua ricerca, ma proprio durante le loro esplorazioni Émile inizia a mostrare i primi segni di mutazione.
The Animal Kingdom è un racconto di formazione e trasformazione, ma sopratutto di accettazione. Una favola fantastica che vede protagonisti un padre e un figlio costretti a confrontarsi con la sfida emotiva di adattarsi a un mondo che non solo è intollerante verso ciò che è diverso, ma che fatica ad accettare una realtà in trasformazione. I "mutanti" non sono i supereroi degli X-Men, ma individui che perdono la loro umanità – sia sociale che comportamentale – per abbracciare la natura e i loro istinti animaleschi. La loro trasformazione avviene gradualmente. Spuntano artigli al posto delle unghie, canini al posto dei denti, ali al posto degli arti superiori, e lentamente si perde le abilità umane, come pedalare la bicicletta, scrivere e comunicare verbalmente, fin quando anche il linguaggio scompare venendo sostituito dal verso dell'animale di cui stanno assumendo le fattezze.
Il film beneficia di un'ottima recitazione da parte dei protagonisti, con Duris e Kircher che offrono performance convincenti e ricche di sfumature. Peccato che il personaggio della poliziotta, che inizialmente sembrava poter avere un ruolo più centrale, venga poi lasciato in secondo piano, con il suo sviluppo che sfuma senza un vero senso. La tensione narrativa è ben dosata, senza il ritmo frenetico che spesso caratterizza il cinema americano, e gli effetti speciali, che combinano il trucco prostetico con la CGI, sono gestiti con eleganza e discrezione.
Seppur non apportando nulla di particolarmente innovativo a livello di trama e contenuti, The Animal Kingdom si rivela un buon film, distinguendosi per la sua abilità nel combinare l'intimità di un rapporto generazionale con una profonda riflessione sulle dinamiche di adattamento in un mondo in continua evoluzione.
Film
L'âge d'or
di Luis Buñuel e Salvador Dalì
L'âge d'or è il secondo film nato dalla collaborazione tra Luis Buñuel e Salvador Dalí, dopo l'iconico Un chien andalou. Considerato uno dei manifesti più potenti del surrealismo cinematografico, questa pellicola è un'opera visionaria e provocatoria che si scaglia con feroce ironia contro le convenzioni borghesi dell'epoca. Un delirante pugno allo stomaco che sfida dogmi morali, religiosi e sociali, spingendo il pubblico in un territorio di pura anarchia creativa.
Alla sua uscita nel 1930, L'âge d'or scatenò un vero e proprio scandalo. Le immagini provocatorie e il messaggio dirompente del film portarono a una censura immediata in Francia. La pellicola venne accusata di blasfemia e oscenità, soprattutto per le sue rappresentazioni dissacranti della religione e per il modo in cui metteva alla berlina la morale borghese. Dopo solo pochi giorni di proiezioni il film fu ritirato dalle sale e bandito per quasi vent'anni. Solo nel 1950, grazie a una rivalutazione critica e storica, il film tornò a essere proiettato, confermando il suo status di capolavoro controverso e intramontabile.
L'âge d'or si apre con un prologo documentaristico sugli scorpioni, un'immagine simbolica che suggerisce tensioni sotterranee e conflitti velenosi. Da qui, la narrazione si sviluppa in modo frammentato, seguendo l'amore appassionato e tormentato dei due protagonisti, due amanti. La loro relazione, però, è costantemente ostacolata da una società ipocrita e repressiva, dominata da convenzioni religiose, morali e sociali.
Il film è una successione di scene che si alternano in un flusso onirico e disarticolato. Passiamo da una processione religiosa interrotta dai due amanti che, cedendo alla passione, si rotolano nel fango, a un ricevimento in una villa borghese che si trasforma in un circo grottesco, dove i due amanti provano a consumare il loro desiderio, fino ad arrivare a un finale che, richiamando i temi di 120 giornate di Sodoma di De Sade, rasenta la blasfemia. In questa scena vediamo quattro nobili che escono da un castello dove sono avvenute orge e violenze indicibil preceduti nientemeno che da Gesù Cristo.
Le immagini più iconiche del film, come la mucca adagiata sul letto della protagonista, i vescovi ridotti a scheletri su una scogliera, un uomo che spara ad un ragazzino per vendicarsi di uno scherzo innocuo, o gli insetti che infestano il volto di un borghese, sono cariche di un simbolismo disturbante e provocatorio. L'erotismo permea l’intero film, con momenti di trasgressione come il conturbante fellatio della protagonista al dito del piede di una statua, oppure le dita degli amanti infilate in bocca e poi mutilate, evidenziando come il desiderio possa essere una forza liberatoria ma anche distruttiva. I protagonisti, schiavi delle loro pulsioni, si rivelano vittime e carnefici al tempo stesso, incapaci di vivere il loro amore senza sfociare nella distruzione.
L'âge d'or è una critica feroce e delirante rivolta alla chiesa, alla borghesia e al capitalismo, visti come pilastri repressivi di una società soffocante. È un’opera anarchica e graffiante, che demolisce qualsiasi convenzione – familiare, culturale, religiosa o sociale – in nome di una libertà creativa e assoluta.
Film
La caduta della casa Usher (1928)
di Jean Epstein
Figura chiave dell’avanguardia francese, Jean Epstein, regista e teorico noto per il suo approccio visionario e sperimentale, nel 1928 ci regala una delle sue opere più celebri: La caduta della casa Usher. Prima trasposizione cinematografica dell'omonimo racconto di Edgar Allan Poe, il film, pur rimanendo poco noto al grande pubblico, è considerato uno dei capolavori del cinema muto capace di influenzare profondamente il cinema gotico degli anni trenta e quaranta.
La trama riprende quella del racconto di Poe, ma con significative variazioni. Un uomo (Charles Lamy) si reca nella sinistra dimora dell’amico Roderick Usher (Jean Debucourt), dove la giovane moglie Madeleine (Marguerite Gance) sta lentamente consumandosi mentre il marito ne dipinge ossessivamente il ritratto. Alla morte di Madeleine, Roderick si rifiuta di seppellirla, lasciandola in una bara coperta solo da un sottile velo. Durante una notte di tempesta, tra candele tremolanti, vento spettrale e un incendio devastante, Madeleine ritorna, trascinando con sé l’ultimo respiro della casa.
Epstein compie alcune sostanziali modifiche rispetto al racconto che da il titolo al film. Il rapporto tra Roderick e Madeleine diventa coniugale invece che fraterno, e il finale viene radicalmente trasformato. Inoltre, il regista intreccia suggestioni di altri racconti di Poe, come Ligeia e, soprattutto, Il ritratto ovale, con l’elemento del quadro che sembra sottrarre la vitalità di Madeleine man mano che il marito lo completa.
Epstein non si limita a raccontare una storia, non è interessato a una semplice trasposizione narrativa. Con l’ausilio di un giovane Luis Buñuel, qui in veste di aiuto-regista, utilizza il linguaggio delle avanguardie del tempo, attingendo al surrealismo e, in parte, all’espressionismo, per dare forma visiva all’essenza dell’opera di Poe. Il risultato è un’esperienza cinematografica profondamente sensoriale, dove inquietudine e tormento si manifestano attraverso tecniche innovative, come l’esposizione multipla e le dissolvenze. Le immagini, più che narrare, evocano: la nebbia che avvolge, le luci tremolanti e il movimento ipnotico del pendolo trasformano il film in un’allucinazione visiva che cattura l’anima decadente della casa Usher e dei suoi abitanti.
Una pellicola estremamente affascinante che dimostra come il cinema muto, affidandosi esclusivamente alla potenza delle immagini, possa esplorare con profondità emozioni, stati d’animo e visioni oniriche.
Film
MadS
di David Moreau
MadS è un film del 2024 diretto da David Moreau, regista francese conosciuto per aver diretto film come Them e The Eye.
Il film è una variazione sul tema degli zombie e vede un giovane di "buona" famiglia, Romain (Milton Riche), che dopo essersi rifornito di droga dal suo abituale spacciatore, tornando a casa in macchina soccorre una ragazza ferita lungo la strada. Salita sulla sua auto, la donna, che pare essere uscita da un ospedale, inizia a dare di matto pugnalandosi alla gola e contaminando il giovane con il suo sangue. Da qui in avanti Roman inizia a non capirci nulla e la sua vita, insieme a quella delle sua ragazza, Anaïs (Laurie Pavy), e dell'amica Julia (Lucille Guillaume), precipita nella follia di una notte da incubo.
MadS ha la peculiarità di essere stato girato interamente in piano sequenza, ovvero in presa diretta, senza stacchi visibili né montaggio tradizionale. È una sfida tecnica che richiede una grande coordinazione tra regista, attori, operatori di macchina e tecnici, poiché ogni movimento deve essere perfettamente sincronizzato. Ovviamente, nel film sono presenti tagli nascosti, perché sarebbe estremamente complicato, soprattutto in un film d’azione, girare un’intera pellicola senza interruzioni.
In MadS, il piano sequenza non è solo una scelta stilistica ma viene usata per amplificare la tensione e il dinamismo generando una sorta di incubo sensoriale dove i mutamenti psicofisici dei tre protagonisti diventano il fulcro della narrazione. Già alterati dall’uso di droghe, i ragazzi si contagiano con il virus come in una staffetta delirante, correndo per le strade, urlando, piangendo, ridendo, e trasformandosi lentamente in creature bestiali assetate di sangue. La loro follia, oltre che dalla telecamera, è seguita da agenti speciali in tute anticontaminazione in una caccia adrenalinica.
Il film si sviluppa come un trip allucinogeno, con dialoghi ridotti all’essenziale. I protagonisti – giovani ricchi, viziati, annoiati e abbandonati a loro stessi – ricevono il distaccato aiuto solo dalla voce registrata di un bot in macchina o in ascensore, e dalla voce impersonale e insistente della signorina del call center della videosorveglianza. Probabilmente, la scena in cui Romain corre in bicicletta venendo pressato a inserire il codice di sicurezza per disattivare l’allarme di casa sotto la minaccia di un intervento della polizia, è quella che mi ha messo più ansia.
Buona l'interpretazione dei tre attori, con una menzione speciale per Laurie Pavy, che nella sua corsa folle e delirante regala una ottima performance.
A metà strada tra "La città verrà distrutta all’alba" e "Lola corre", MadS, prodotto da Shudder, il servizio di streaming dedicato al genere horror, ci regala un otimo film per chi cerca una serata adrenalinica e piena di intrattenimento horrorifico.
Astenersi per chi è alla ricerca di pellicole più psicologiche o profonde.

Un chien andalou
di Luis Buñuel e Salvador Dalì
Un chien andalou (Un cane andaluso) è un cortometraggio di una quindicina di minuti realizzato nel 1929 da Luis Buñuel con la complicità creativa di Salvador Dalí.
Considerato il primo film surrealista della storia del cinema, la pellicola fece scalpore all’epoca per le sue scene audaci, oniriche e profondamente provocatorie.
Oggi Un chien andalou è celebrato come uno dei manifesti del cinema d’avanguardia, un’opera fondamentale del cinema muto che ha infranto le convenzioni narrative tradizionali. La celebre scena dell’occhio tagliato da un rasoio, attorno alla quale sono stati versati fiumi di inchiostro, è ormai un’icona culturale. Sebbene si tratti di un fotomontaggio – l’occhio tagliato appartiene in realtà a un vitello morto – l’immagine riesce a suscitare ancora oggi repulsione e stupore. E una sequenza che rappresenta alla perfezione lo spirito del surrealismo come atto di rottura, che "squarcia" letteralmente l’occhio dello spettatore, costringendolo a vedere oltre la superficie della realtà e a immergersi in un universo più profondo, quello dell’inconscio.
Il cortometraggio, privo di una trama lineare, si dipana attraverso una successione di immagini che sfidano la logica e la razionalità. Buñuel e Dalí utilizzano simboli potenti, spesso inquietanti, per evocare temi universali come il desiderio, la morte, la violenza e la sessualità. La scena in cui il protagonista, che brama la donna, trascina con delle catene due preti morti (uno dei quali interpretato dallo stesso Dalí nei primi fotogrammi), insieme a due pianoforti con sopra le carcasse di animali, è particolarmente significativa. E' una scena in cui emerge la volontà di abbattere simbolicamente le istituzioni oppressive, come la religione e la cultura borghese, per accedere a un mondo più autentico, fatto di desideri primordiali e libertà assoluta. L’uso del montaggio e dei contrasti visivi contribuisce a creare un’atmosfera disturbante, capace di trascinare lo spettatore in un viaggio onirico e surreale.
Un chien andalou non è un’opera da guardare con occhi "normali". È un’esperienza che deve essere vista lasciandosi trasportare dal flusso delle immagini, proprio come in un sogno. La sua eredità ha influenzato numerosi registi e artisti, da Alfred Hitchcock, con il suo uso del simbolismo in "Io ti salverò" e "Vertigo", a David Lynch, che ne ha assorbito l’estetica surreale in "Eraserhead" e "Mulholland Drive". Anche registi visionari come Federico Fellini, Terry Gilliam e Lars von Trier hanno attinto dal linguaggio audace e disturbante di Buñuel, mantenendo vivo il suo spirito rivoluzionario.
Film
Play Time - Tempo di divertimento
di Jacques Tati
Ne ho visto di film strambi e bizzarri, ma quasi tutti legati all'horror. Play Time, invece, è una commedia surreale la cui stranezza si manifesta attraverso la semplice osservazione della vita moderna in un mondo iperorganizzato e asettico.
Uscito nel 1967, Play Time - Tempo di divertimento è il film più ambizioso e complesso del regista e comico francese Jacques Tati.
Difficile raccontare la trama. In pratica, un uomo impacciato, Monsieur Hulot (personaggio creato e interpretato da Jacques Tati e già apparso in altri suoi film), si ritrova in un quartiere ultramoderno di Parigi insieme a un gruppo di turisti americani. Nella prima parte, Hulot entra in un palazzo di vetro per un appuntamento, perdendosi in un labirinto di stanze e corridoi asettici. Nella seconda parte ci troviamo in un ristorante di lusso alla sua serata inaugurale, dove una serie di piccoli imprevisti, dall'aria condizionata difettosa ai mobili che si rompono, si accumulano gradualmente fino a trasformare l'elegante locale in una scena di caos crescente. Il film si chiude con una rotonda stradale, dove il traffico caotico si trasforma in una giostra di un luna park.
Play Time è un film privo di una vera storia, senza protagonisti e quasi senza dialoghi. Sembra quasi un documentario surreale, esasperato e ironico in cui la quotidianità di una città moderna diventa uno spettacolo visivo fatto di piccoli gesti, routine ripetitive e interazioni che sfiorano l’assurdo. E' un cinema che si ispira fortemente all'era del muto e alla comicità fisica di maestri come Charlie Chaplin e Buster Keaton. Le gag nascono e si sviluppano all'interno della singola inquadratura, sfruttando l'equivoco e l'imprevisto per creare momenti comici. Il film è stato girato con una pellicola di 70 mm ed è costruito su lunghi piani sequenza e sull’utilizzo della profondità di campo. I movimenti di macchina sono ridotti al minimo, lasciando che siano i personaggi e l'ambiente a creare il ritmo. Il risultato è un film in cui lo spettatore è invitato a esplorare ogni angolo dell’inquadratura, e dove i dettagli nascosti e i piccoli eventi si accumulano lentamente, all'interno di una coreografia visiva complessa e minuziosa. Ogni elemento dello spazio, dall'arredamento agli oggetti quotidiani, fino ai passanti anonimi, contribuisce a creare un quadro in continuo movimento.
Un'esperienza visiva sperimentale, profondamente radicata nel suo tempo.
Film
Vermines
di Sébastien Vanicek
Un film horror sui ragni? Non è il primo e non sarà l'ultimo. Dagli anni cinquanta in poi, questi simpatici animaletti dalle zampette pelose hanno accompagnato le nostre paure più profonde e ci hanno fatto saltare dalla sedia innumerevoli volte. Che siano mutanti giganti, creature preistoriche risvegliate o semplici aracnidi ingigantiti dalla scienza impazzita, i ragni sono da sempre protagonisti di incubi cinematografici.
Io non sono particolarmente impressionato dai ragni, anzi, se sono piccoli e innocui, li trovo persino carini. Tuttavia, conosco una persona che ne è letteralmente terrorizzata (e non è una donna).
Vermines (Infested è il titolo scelto per la distribuzione all'estero) è il film di esordio del regista francese Sébastien Vanicek.
La storia vede come protagonista Kaleb (Théo Christine), un ragazzo appassionato di animali esotici, che vive con la sorella in un appartamento di un enorme palazzo popolare della periferia di Parigi. Un giorno Kaleb si porta a casa un ragno acquistato nel negozio clandestino in cui si serve ignorando che l'aracnide fa parte di una specie estremamente pericolosa (la prima vittima del ragno è uno dei bracconieri che per primo stava tentando di catturarlo). Ovviamente il ragno scappa dalla scatola in cui era stato messo momentaneamente iniziando rapidamente a deporre uova (all'interno dei malcapitati inquilini) e a diffondere i suoi "piccoli" in tutto il palazzo. Quando la polizia trova la prima vittima, l'autorità parigina, per impedire la diffusione di questa razza di aracnidi particolarmente invasiva e mortale, decide di sigillare lo stabile condannando i poveri condomini a diventare cibo per ragni. Tra ragnatele che ricoprono l'intero edificio e ragni sempre più grandi, Kaleb, sua sorella e i suoi amici cercano disperatamente una via di fuga.
Mi aspettavo di vedere una trashata invece il film non mi è dispiaciuto. L'isolamento forzato e l'ambientazione all'interno di un palazzone della Banlieue mi ha ricordato il recente Lockdown Tower dove i personaggi sono degli emarginati di etnie e culture diverse abbandonati al loro destino da una società che li ha ghettizzati. E' solo il contesto però, perchè l'aggiunta dei letali aracnidi rende il film un movimentato survival horror di intrattenimento con i nostri protagonisti che per non soccombere sono costretti a correre a destra e manca attraverso lunghi corridoi poco illuminati coperti di ragnatele e invasi da centinaia di ragni. Mi sarebbe piaciuto vedere in dettaglio questi disgustosi aracnidi, magari spingere un pò di più sull'aspetto gore, ma il regista, avendo un budget ridotto e di conseguenza dei limiti sugli effetti speciali, ha pensato bene di coprire queste carenze con delle riprese da lontano, in movimento, oppure giocando con le ombre e l'oscurità.
Il film, oltre ad essere stato apprezzato dal solito Stephen King, ha attirato l'attenzione di Sam Raim che ha affidato a Sébastien Vanicek la regia di uno spin-off di La casa. Staremo a vedere.

Il fantasma dell'Opéra
Gaston Leroux
Il fantasma dell'Opéra di Gaston Leroux è un classico della letteratura gotica.
Pubblicato recentemente dalla Abeditore - casa editrice che apprezzo per l'attenzione e la cura grafica che mette nelle sue pubblicazioni (pubblica solo libri "di chi è morto da almeno un secolo", così dicono nel loro profilo instagram) - ho acquistato e letto questa opera che conoscevo solo per i suoi vari adattamenti cinematografici.
Gaston Leroux nato a Parigi nel 1868 è noto principalmente per "Il fantasma dell'Opéra" pubblicato nel 1910. Proveniente da una famiglia borghese alla morte del padre ha dilapidato tutta la sua ricca eredità ai tavoli da gioco. E' stato giornalista e corrispondente estero prima di diventare uno scrittore di romanzi polizieschi e di avventura.
La storia è abbastanza conosciuta e ruota attorno alla figura enigmatica di Erik, il fantasma dal volto sfigurato che cela dietro una maschera e che si aggira nei sotterranei dell'Opéra. Erik è un personaggio complesso, a metà tra genio musicale e mostro, che si innamora perdutamente della giovane e talentuosa cantante Christine Daaé. La storia esplora il triangolo amoroso tra Erik, Christine e Raoul, il suo amato d'infanzia, attraverso una serie di eventi misteriosi e spesso tragici.
Il romanzo non mi ha catturato particolarmente e ammetto che ho fatto pure fatica a portarlo a termine. Il problema non è tanto per la prosa a tratti datata e un ritmo che può sembrare lento rispetto agli standard moderni, quanto per una storia priva di mordente e una caratterizzazione dei personaggi parecchio stereotipata. In pratica il fantasma è una sorta di tragico stalker ante litteram che cerca l'amore di una damigella in perenne pericolo contesa dal classico e prevedibile principe azzurro in un triangolo amoroso servito e condito con un'abbondante dose di melodramma e lacrime. E' la classica storia della Bella e la Bestia che secondo me riprende neanche poco il Notre Dame de Paris di Victor Hugo, un altro grande classico che non ho mai avuto il coraggio di leggere (temo la sua mole).
Affascinante invece è l'ambientazione ovvero il teatro parigino che Leroux descrive in maniera minuziosa con i suoi sotterranei, botole, passaggi segreti, ingranaggi che aprono stanze nascoste, e specchi che si trasformano in foreste tropicali. Ecco, secondo me la forza di questo romanzo sta proprio nell'ambientazione e di come il 'fantasma' sia parte integrante della struttura stessa dell'Opéra, un luogo intricato e misterioso che gli permette di sfuggire dalla realtà esterna ma che alla fine lo intrappola nel suo stesso mondo di ombre e segreti.