
Nymphomaniac
di Lars von Trier
Nymphomaniac, il film scritto e diretto da Lars von Trier nel 2013, che insieme ad Antichrist e Melancholia conclude la cosidetta "trilogia della depressione", è un film decisamente impegnativo. Sia per la durata, il tema e la messa in scena.
Presentato al Festival di Berlino 2014 e poi alla Mostra di Venezia, il film, a causa della sua lunghezza (all'incirca quattro ore) è stato diviso in due pellicole distinte e proiettato nelle sale con diversi tagli. Successivamente è stato distribuito, in DVD e BlueRay, la director's cut, la versione definitiva voluta dal regista danese, sempre divisa in due film, ma della durata complessiva di circa cinque ore e mezza.
Io, ovviamente, mi sono visto la versione definitiva. La versione dove, oltre ai dialoghi nella loro interezza, ci sono le scene di sesso, che tanto hanno fatto scalpore e scandalo, mostrate in modo esplicito.
Diviso in otto capitoli più un epilogo, Nymphomaniac è la storia di Joe (interpretata da Charlotte Gainsbourg), una donna che si definisce "ninfomane". Ritrovata in un vicolo, sanguinante e piena di contusioni dal vecchio Seligman (Stellan Skarsgård), accetta di essere portata a casa dell'uomo per farsi curare. Tra una tazza di tè e un letto in cui riposare, Joe decide di confidargli la sua vita, iniziando dal periodo giovanile (interpretata da Stacy Martin). Nel lungo racconto emergono le prime esperienze sessuali, i rapporti compulsivi e le relazioni emotivamente distaccate, in un percorso che ripercorre la sua evoluzione erotica fin dall’infanzia.
Dopo l’horror di Antichrist e la fantascienza apocalittica di Melancholia, con Nymphomaniac Lars von Trier affronta il tema della pornografia. Ma attenzione, non si tratta di un film pensato per suscitare eccitazione. Le scene di sesso, pur esplicite e con i genitali in primo piano, non hanno nulla di seducente o invitante. Sono atti compulsivi, freddi, quasi meccanici, più vicini a una fame bulemica che a un piacere condiviso. Von Trier utilizza il sesso come strumento narrativo e provocatorio, un’esca per attirare lo spettatore, così come il pescatore fa con i pesci. E lo fa con una consapevolezza calcolata, basti pensare alla campagna promozionale del film, con i poster degli attori ritratti nel momento dell’orgasmo, che generò scandalo e curiosità in parti uguali.
Le scene più spinte – amplessi con doppia penetrazione, fellatio, sadomasochismo – non sono state girate dagli attori principali. Come ha spiegato al tempo la produttrice Louise Vesth, questi simulavano i rapporti, mentre le controfigure (probabilmente degli attori porno) li eseguivano realmente. In fase di montaggio, grazie alla post-produzione digitale, i due materiali venivano fusi in un’unica immagine.
Tolte le scene di sesso, che rientrano nella narrazione e che dopo un pò passano in secondo piano, la scena che mette davvero alla prova lo spettatore è probabilmente quella dell’aborto autoindotto da Joe, girata senza filtri né anestesia. Una sequenza cruda e disturbante, reso ancora più insostenibile dagli inserti radiografici. È uno dei tanti esempi di come Von Trier porti il corpo femminile al limite, privandolo di qualsiasi grazia per mostrarne la sofferenza e la disperazione.
Al di là delle provocazioni, il film è un’esplorazione cupa e spietata della sessualità femminile, decisamente al negativo. Joe si racconta senza filtri, svelando un percorso segnato da alienazione, dolore e incomprensioni. È anaffettiva, egoista, crudele. Rifiuta l’amore considerandolo una debolezza, un ostacolo al desiderio. Non a caso, con Jerome – l’uomo più importante della sua vita, da cui avrà una gravidanza indesiderata – non riesce a provare orgasmo. Ciò che sperava fosse una cura alla depressione si rivela invece la malattia stessa: il sesso come dipendenza, come voragine che alimenta frustrazione e insoddisfazione. Da qui la deriva verso esperienze sempre più estreme, fino al coinvolgimento nella criminalità.
Seligman, il suo interlocutore, rappresenta l’altra faccia, quella più razionale e logica. Ascolta con calma, interviene con divagazioni filosofiche, religiose, matematiche. Paragona la vita di Joe a Bach, ai numeri di Fibonacci, al fly fishing, cercando sempre un appiglio razionale che gli permetta di assolverla, di ricondurre il caos a un ordine che in realtà non esiste.
Sul piano tecnico, Von Trier alterna cinepresa a mano, split screen, bianco e nero, sovrimpressioni, costruendo un linguaggio visivo frammentato ma coerente. A risaltare è soprattutto la direzione degli attori. Charlotte Gainsbourg offre una prova intensa, mentre Stacy Martin porta sullo schermo la fase giovanile di Joe con sorprendente naturalezza. Tra i comprimari spiccano Uma Thurman in una scena memorabile, otto minuti di pura disperazione nei panni di una moglie tradita, e Christian Slater nel ruolo del padre di Joe. Accanto a loro Shia LaBeouf che interpreta Jerome, Jamie Bell, Connie Nielsen, una giovanissima Mia Goth alla sua prima esperienza cinematografica, e l’immancabile Willem Dafoe. Un cast internazionale, eterogeneo e sorprendentemente compatto.
Arrivati alla fine di questa maratona, resta la sensazione di aver assistito a un film ambizioso, imperfetto, sfrontato. Nymphomaniac è politicamente scorretto, la protagonista viene descritta come una donna moralmente riprovevole, e il sesso non è mai liberazione ma malattia. Non stupisce che Von Trier sia stato accusato di misoginia, ma al tempo stesso bisogna riconoscergli il coraggio di spingersi oltre i confini del cinema, sfidando lo spettatore. In fondo, più che sul sesso, Nymphomaniac è un film sull’isolamento e la solitudine. Il finale, che capovolge il ruolo di Seligman, non offre alcuna redenzione. Un pugno nello stomaco che ti lascia senza fiato.
È un’opera che non lascia indifferenti. Disturbante, spietato, a tratti respingente, ma capace di imprimersi con forza. Nel bene e nel male.

Vampyros Lesbos
di Jesús Franco
Vampyros Lesbos è un film erotico a tema vampiresco, uno di quei film conosciuti solo dai cinefili più incalliti e da chi si nutre di cinema di genere. Io non l’avevo mai visto, anche perché in Italia non è mai uscito, ma oggi, con un po’ di pazienza, si riesce a recuperare quasi tutto. La copia che ho trovato è in spagnolo con sottotitoli in italiano, leggermente sfasati, ma poco importa, perché la trama e i dialoghi in questo film non sono essenziali.
Vampyros Lesbos è uno dei film più noti di Jesús Franco, regista spagnolo prolifico e anarchico, un outsider che ha lavorato sempre ai margini, tra produzioni a basso costo e un’estetica fatta di erotismo, delirio e fascinazioni morbose. Per anni considerato un autore di film da serie B, è stato in parte riscoperto grazie all’interesse per il cinema trash degli anni settanta e alla stima di registi come Quentin Tarantino, che lo ha citato più volte tra le sue ispirazioni.
Girato tra Istanbul, Berlino e Alicante, Vampyros Lesbos è una rilettura psichedelica, femminile ed erotica del Dracula di Bram Stoker. A incarnare il fascino ipnotico del vampiro è Soledad Miranda, attrice con cui Franco aveva già collaborato in passato. Questo fu uno dei suoi ultimi ruoli, prima di morire in un incidente d’auto pochi mesi dopo, a soli ventisette anni.
Linda (Ewa Strömberg) è una giovane donna che lavora per uno studio legale a Istanbul. Da qualche tempo è tormentata da un sogno ricorrente in cui compare una donna misteriosa, bruna, e sensuale. Lo racconta al suo psicanalista, che liquida tutto come semplici fantasie. Quando Linda accompagna il suo compagno in un night club, riconosce sul palco, in un numero erotico e surreale, proprio la donna dei suoi sogni. Poco dopo, incaricata di occuparsi di un’eredità, Linda viene mandata su un’isola sperduta per incontrare una certa Contessa Nadine Carody (Soledad Miranda), discendente della stirpe di Dracula. Per Linda inizia un lento viaggio nell’abisso, tra eros e incubo, fino a un finale enigmatico che lascia il sospetto che nulla si sia davvero concluso.
Se si mette da parte la trama, i dialoghi e più di qualche incongruenza narrativa, Vampyros Lesbos riesce pure a catturarti. Il film di Franco più che un vero horror è un viaggio psichedelico e onirico che vive di suggestioni, erotismo e visioni. Il sangue c’è, ma è così acceso da sembrare porporina, quasi a voler dichiarare sin da subito la natura artificiale e teatrale del film. Franco punta tutto sull’atmosfera, sulle scene erotiche e prolungate tra le due protagoniste, sulle scenografie lisergiche e su una colonna sonora magnetica a metà tra il jazz, la lounge e la psichedelia pura. Un film di vampiri senza buio, abbagliante e solare, dove al posto del Dracula gotico e notturno troviamo una contessa lesbica che prende il sole seminuda su una sdraio e si esibisce in locali underground con abiti succinti. Le location turche, con le loro architetture stranianti e le luci irreali, amplificano la sensazione di trovarsi in uno spazio altro, sospeso tra sogno, incubo e allucinazione. Tutto contribuisce a creare un mondo fuori asse, dove ogni gesto sembra rallentato, ipnotico, carico di un erotismo morboso e rituale.
Visto oggi, il film può spiazzare per il ritmo dilatato, per un montaggio a tratti sgangherato, e per l’uso ossessivo dello zoom, ma se ci si lascia trasportare dalle immagini e dalla musica, e non si hanno troppe aspettative in fatto di tensione narrativa o capacità degli attori, Vampyros Lesbos riesce ancora a esercitare un suo fascino.

E non liberarci dal male
di Joël Séria
Censurato in Francia e in altri paesi per le sue tematiche provocatorie e dissacranti, E non liberarci dal male (Mais ne nous délivrez pas du mal, 1971) di Joël Séria è un film che inquieta e affascina al tempo stesso. Ispirato al caso Parker-Hulme – lo stesso che diede origine a Creature del cielo di Peter Jackson – racconta una discesa vertiginosa negli abissi della giovinezza corrotta, dove la trasgressione si confonde con la seduzione del male.
Anne (Jeanne Goupil) e Lore (Catherine Wagner), due adolescenti benestanti cresciute in un ambiente cattolico repressivo, stringono un legame di amicizia ossessivo e morboso. Tra le mura del collegio, insofferenti alle regole e annoiate da una realtà che non le soddisfa, scoprono nella trasgressione un nuovo gioco, un modo per sentirsi vive. Affascinate dall’idea del male come atto di ribellione assoluta, il loro viaggio nell'oscurità inizia con piccoli atti di disobbedienza e giochi maliziosi alla scoperta della loro sessualità, finendo – con il sopraggiungere delle vacanze – per degenerare in rituali satanici, seduzioni avventate di uomini fragili e crudeltà di ogni genere. Quando il loro universo di fantasie oscure si scontra con la realtà, l’unico epilogo possibile è una tragedia rituale che suggella il loro patto eterno.
Joël Séria costruisce un film diabolico, pervaso di erotismo e dissacrazione, che racconta il progressivo disfacimento morale di due adolescenti (in realtà le attrici erano appena maggiorenni, ma nel film dimostrano molti anni di meno), tra insofferenza religiosa, primi desideri sessuali e voglia di evasione. Anne e Lore non sono vittime di un mondo crudele, ma due ragazze che cercano di sfuggire alla monotonia della loro esistenza e alle loro famiglie borghesi, più attente alle apparenze che ai sentimenti, consegnandosi al male, a Satana e alla propria autodistruzione. Così, in una torrida estate francese, danno fuoco a una fattoria, celebrano messe nere con un giardiniere mentalmente instabile, torturano animali, si offrono agli uomini con malizia. E infine, compiono un omicidio.
Il contrasto tra la loro innocenza apparente e la brutalità delle loro azioni amplifica il senso di inquietudine. I loro sorrisi, la loro leggerezza, rendono tutto ancora più disturbante. Il film culmina in una scena finale che ha il sapore di un sacrificio blasfemo.
E non liberarci dal male ancora oggi conserva intatta la sua carica disturbante. Un film pruriginoso, provocatorio, spietato, che non offre risposte, ma affonda le mani nel torbido dell’adolescenza, portando all'estremo i suoi incubi più morbosi.
Film
Vampiri amanti
di Roy Ward Baker
Negli anni Settanta, la Hammer – leggendaria casa di produzione inglese specializzata in horror gotici – iniziava a mostrare i primi segni di cedimento. Il barocco decadente che aveva ridefinito l'immaginario del genere stava lasciando il passo a un cinema dell'orrore più esplicito, violento e trasgressivo. La Hammer, però, non aveva nessuna intenzione di arrendersi, e con astuzia, offrì al pubblico esattamente ciò che chiedeva. Vampiri amanti (The Vampire Lovers) è un horror spiccatamente erotico che segna un punto di svolta nella produzione della casa britannica. Per la prima volta abbiamo vampiri dichiaratamente lesbici, in un'operazione audace per l'epoca, che alza il tiro su nudi, seduzione e ambiguità sessuale, senza rinunciare all'eleganza formale e al fascino delle ambientazioni gotiche.
Vampire amanti è il primo capitolo della trilogia hammeriana ispirata a Carmilla – il famoso racconto di Sheridan Le Fanu – a cui seguiranno Mircalla, l’amante immortale e Le figlie di Dracula, entrambi realizzati l’anno successivo. Il film segue la figura enigmatica e seducente di Mircalla Karnstein (Ingrid Pitt), una vampira che si insinua nella vita di giovani fanciulle con sguardi ammalianti e un'insaziabile sete d'amore e sangue. La sua prima vittima è Laura, figlia del generale Spielsdorf (Peter Cushing), che soccombe lentamente al fascino oscuro della creatura. Ma la morte di Laura non è che l'inizio. Sotto una nuova identità, Mircalla riappare come Carmilla e punta il suo sguardo sulla dolce e ingenua Emma (Madeline Smith), trascinandola in un vortice di fascinazione e terrore.
Vampiri amanti è un film che, pur essendo commerciale, cerca di svecchiare il gotico vampiresco in un modo quasi autoriale, imprimendo nel genere una maggiore morbosità. Scene di nudo, generosi décolleté e allusioni esplicite alla sessualità lesbo senza però rinunciare ai classici elementi dell’horror hammeriano con cripte, castelli e decapitazioni rituali.
Ottimo cast, dove gli uomini, compreso Cushing, restano in secondo piano per lasciare spazio ad aggraziate fanciulle ambigue e seducenti, tra cui spicca Ingrid Pitt che interpreta una Carmilla magnetica e letale, e la verginale e decisamente più attraente – almeno per i miei gusti – Madeline Smith.
Cult imprescindibile dell’horror vampiresco, il film unisce eleganza e trasgressione, mantenendo ancora oggi il suo fascino ambiguo e decadente.
Film