
L'abominevole dr. Phibes
di Robert Fuest
L'abominevole Dr. Phibes è un horror inglese del 1971 diretto da Robert Fuest, diventato con gli anni un piccolo cult. È un film strano, visivamente esagerato, che mescola il gusto per l'orrore gotico con un'ironia molto teatrale. In un certo senso, ha anticipato quella che oggi chiamiamo commedia horror, con il suo mix di omicidi assurdi, scenografie barocche e una vena di umorismo nero che rende tutto più surreale che spaventoso.
La storia de L'Abominevole Dr. Phibes è, prima di tutto, una storia di vendetta.
Dopo la morte improvvisa della moglie Victoria durante un intervento chirurgico, il dottor Anton Phibes (Vincent Price), scienziato, musicista e teologo, rimane coinvolto in un misterioso incidente d'auto e viene creduto anch'egli deceduto. Ma Phibes è sopravvissuto, seppur sfigurato, e ha passato gli anni successivi nascosto nell'ombra, progettando nei minimi dettagli la sua vendetta contro i medici che ritiene responsabili della tragedia. Aiutato dalla sua enigmatica assistente Vulnavia, inizia a uccidere, uno a uno, i membri dell'équipe medica in modi tanto creativi quanto raccapriccianti, seguendo un rituale ispirato alle dieci piaghe d'Egitto. Nel frattempo, l'ispettore Trout di Scotland Yard, supportato dal dottor Vesalius (Joseph Cotten), il chirurgo che operò la donna, cerca disperatamente di decifrare il mistero e fermare la scia di sangue.
Quello che colpisce di più oggi, più ancora della trama, è lo stile del film. L'Abominevole Dr. Phibes è un piccolo gioiello, una pellicola dallo stile gotico e dall'estetica eccessiva e squisitamente kitsch, che mescola elementi art déco, colori psichedelici e design anni settanta - anche se la storia è ambientata negli anni venti.
Il film sembra quasi un'opera teatrale, con l'organo gigante, l'orchestra di automi, i costumi elaborati e le sue invenzioni stravaganti usate da Phibes per compiere i suoi delitti. Per certi versi può ricordare Il Fantasma dell'Opera, con quella sua teatralità romantica e oscura.
Vincent Price è perfetto. Non dice una parola per tutto il film — lo si sente solo attraverso un congegno che collega le sue corde vocali a un grammofono — ma riesce comunque a comunicare tutto con lo sguardo e la mimica. È inquietante, elegante, tragico e grottesco al tempo stesso. La sua presenza da sola regge tutto il film.
L'idea di usare le piaghe d'Egitto come filo conduttore per gli omicidi è originale e aggiunge un tocco in più. Pipistrelli, ratti, cavallette, rane meccaniche… ogni morte diventa un piccolo spettacolo. Ed è impossibile non pensare a film come Seven o Saw, che anni dopo riprenderanno il concetto degli omicidi ingegnosi "a tema", anche se Phibes, va detto, alleggerisce spesso la tensione con una buona dose di humor inglese (vedi i siparietti con Scotland Yard).
Più che un horror nel senso stretto del termine, L'Abominevole Dr. Phibes è un film a sé, difficile da incasellare. Elegante, strano, una commedia horror dal black humor che ancora oggi conserva tutto il suo fascino, grazie allo stile visivo, al carisma del protagonista e a quell'atmosfera sospesa tra l'incubo e la farsa.

Una lucertola con la pelle di donna
di Lucio Fulci
Fin dalle prime scene, guardando Una lucertola con la pelle di donna, ti rendi conto di essere precipitato in un vortice psichedelico in cui il sogno e la realtà si confondono in un delirio psicanalitico. Il secondo giallo scritto e diretto da Lucio Fulci è un thriller psicologico che prende la Londra borghese dei primi anni settanta, e la infila in un frullatore di pellicce, visioni erotiche, e desideri repressi.
La storia ha per protagonista Carol Hammond (Florinda Bolkan), figlia di un influente politico inglese, la quale racconta al suo psichiatra di un ricorrente sogno erotico e violento in cui uccide la sua vicina di casa, Julia Durer (Anita Strindberg), una donna affascinante e alquanto disinibita che conduce una vita dissoluta. Quando Julia viene ritrovata brutalmente assassinata proprio secondo le modalità dell'incubo di Carol, un tenace investigatore cerca di ricostruire la verità, domandandosi se sia possibile che Carol abbia commesso il delitto nel sonno o se qualcuno stia cercando di incastrarla. Mentre l'indagine si dipana, Carol sprofonda in un vortice di incubi, allucinazioni e depistaggi, dove nulla è come sembra e la mente si trasforma in un labirinto senza uscita.
Nonostante il titolo argentiano imposto dalla produzione, il film si concentra non tanto sulla scoperta dell'identità dell’assassino, quanto sulla messa in scena di Fulci che, alternando sequenze oniriche di grande impatto visivo, si diverte ad attaccare l'odiata psicanalisi, ritraendo l'ipocrisia della borghesia inglese, nei suoi salotti ovattati e dai dialoghi educatamente vuoti, attratta — e al tempo stesso terrorizzata — dal mondo "sporco" e sfacciato di chi vive senza freni tra sesso, droga e libertà.
Florinda Bolkan, sensuale ma mai volgare, inquieta ma sempre elegante, regge l’intera narrazione. Anita Strindberg incarna invece il desiderio in forma pura, quasi mitologica. Intorno a loro, uomini che non capiscono, psicologi con fare rassicurante e un paio di hippie del periodo.
Accompagnato dalle dissonanti musiche di Ennio Morricone, Fulci inserisce in Una lucertola con la pelle di donna la sua vena più disturbante e personale, mescolando i generi e ritraendo una Londra visionaria, abitata da killer in impermeabile, scale vertiginose, pipistrelli isterici e cani vivisezionati. Proprio questa scena portarono Fulci in tribunale con l'accusa di crudeltà verso gli animali. Carlo Rambaldi, l'autore degli effetti speciali, dovette presentare in aula i modelli animatronici per dimostrare che nessun animale era stato realmente maltrattato, salvando così il regista da una possibile condanna. Ovviamente all'epoca il film subì numerosi tagli di censura che andarono a eliminare le sequenze più violente e le scene di sesso delle due protagoniste. Fortunamente oggi possiamo facilmente recuperare il film nella sua versione originale.
Pur con una sceneggiatura parecchio confusionaria a e qualche pausa eccessivamente dilatata che spezza il ritmo della tensione, Una lucertola con la pelle di donna colpisce per la potenza visiva delle sue sequenze oniriche, costruite con una cura e un senso dell’estetica davvero notevoli. Nel pieno fermento del thriller all’italiana, il film si distingue come una delle vette del genere, non solo per lo stile elegante e ricercato, ma anche per la capacità di muoversi fuori dai binari argentiani, scegliendo una strada più psicologica e allucinata.
Conoscevo Fulci soprattutto per i suoi film horror, ma questo lato "giallo" del suo cinema si sta rivelando una scoperta interessante.

Il gatto a nove code
di Dario Argento
Nei primi anni settanta, dopo il clamoroso successo de L’uccello dalle piume di cristallo, Dario Argento torna dietro la macchina da presa con Il gatto a nove code, secondo tassello della cosiddetta "trilogia degli animali" – saga non ufficiale unita più dai titoli zoologici che da un vero filo conduttore. Meno impattante del suo predecessore e meno visionario del successivo Quattro mosche di velluto grigio, questo film si colloca come un’opera di transizione, un capitolo intermedio che, pur con i suoi limiti, si rivela fondamentale per la crescita stilistica e narrativa del regista romano. Un film di passaggio, sì, ma tutt’altro che trascurabile.
La vicenda prende il via con un misterioso furto in un laboratorio di genetica di Torino. Non viene sottratto nulla, ma il giorno dopo uno degli scienziati finisce sotto un treno in circostanze decisamente sospette. A interessarsi al caso sono Franco Arno (Karl Malden), un ex giornalista cieco con un fiuto da detective e una nipotina sveglia, e Carlo Giordani (James Franciscus), un reporter d’assalto pronto a tutto.I due iniziano a scavare tra piste inconcludenti, silenzi sospetti e una catena di omicidi sempre più inquietanti. Tutto sembra ruotare attorno a quell’istituto scientifico, dove si conducono ricerche d'avanguardia sulla genetica e la predisposizione al crimine.
Il gatto a nove code è un thriller dal ritmo serrato, con un montaggio dinamico e un uso costante della soggettiva dell'assassino, spesso anticipata da un inquietante primo piano di una pupilla dilatata. Gli omicidi iniziando a diventare più brutali, ma ancora relativamente “anemici” rispetto agli standard futuri di Argento. Le atmosfere sono ben costruite, ricche di tensione e con evidenti influenze hitchcockiane ma anche con una vena ironica e personaggi quasi caricaturali che alleggeriscono la tensione. Tecnicamente il film funziona. La regia è solida, la fotografia elegante e il tutto è supportato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Bravi Karl Malden e James Franciscus. Meno convincente Catherine Spaak, bella ma legnosa, con una scena di sesso che sembra uscita da una pubblicità vintage del dopobarba.
Certo, è un film imperfetto. A volte sbilenco, con una sceneggiatura che zoppica e un finale che lascia l’amaro in bocca più per le promesse mancate che per il colpo di scena. Ma è anche l’opera di un autore in piena evoluzione, che inizia a maneggiare con sicurezza i ferri del mestiere e che, con la sua cifra stilistica sempre più definita, comincia a lasciare un’impronta inconfondibile nel giallo all’italiana.
Film
E non liberarci dal male
di Joël Séria
Censurato in Francia e in altri paesi per le sue tematiche provocatorie e dissacranti, E non liberarci dal male (Mais ne nous délivrez pas du mal, 1971) di Joël Séria è un film che inquieta e affascina al tempo stesso. Ispirato al caso Parker-Hulme – lo stesso che diede origine a Creature del cielo di Peter Jackson – racconta una discesa vertiginosa negli abissi della giovinezza corrotta, dove la trasgressione si confonde con la seduzione del male.
Anne (Jeanne Goupil) e Lore (Catherine Wagner), due adolescenti benestanti cresciute in un ambiente cattolico repressivo, stringono un legame di amicizia ossessivo e morboso. Tra le mura del collegio, insofferenti alle regole e annoiate da una realtà che non le soddisfa, scoprono nella trasgressione un nuovo gioco, un modo per sentirsi vive. Affascinate dall’idea del male come atto di ribellione assoluta, il loro viaggio nell'oscurità inizia con piccoli atti di disobbedienza e giochi maliziosi alla scoperta della loro sessualità, finendo – con il sopraggiungere delle vacanze – per degenerare in rituali satanici, seduzioni avventate di uomini fragili e crudeltà di ogni genere. Quando il loro universo di fantasie oscure si scontra con la realtà, l’unico epilogo possibile è una tragedia rituale che suggella il loro patto eterno.
Joël Séria costruisce un film diabolico, pervaso di erotismo e dissacrazione, che racconta il progressivo disfacimento morale di due adolescenti (in realtà le attrici erano appena maggiorenni, ma nel film dimostrano molti anni di meno), tra insofferenza religiosa, primi desideri sessuali e voglia di evasione. Anne e Lore non sono vittime di un mondo crudele, ma due ragazze che cercano di sfuggire alla monotonia della loro esistenza e alle loro famiglie borghesi, più attente alle apparenze che ai sentimenti, consegnandosi al male, a Satana e alla propria autodistruzione. Così, in una torrida estate francese, danno fuoco a una fattoria, celebrano messe nere con un giardiniere mentalmente instabile, torturano animali, si offrono agli uomini con malizia. E infine, compiono un omicidio.
Il contrasto tra la loro innocenza apparente e la brutalità delle loro azioni amplifica il senso di inquietudine. I loro sorrisi, la loro leggerezza, rendono tutto ancora più disturbante. Il film culmina in una scena finale che ha il sapore di un sacrificio blasfemo.
E non liberarci dal male ancora oggi conserva intatta la sua carica disturbante. Un film pruriginoso, provocatorio, spietato, che non offre risposte, ma affonda le mani nel torbido dell’adolescenza, portando all'estremo i suoi incubi più morbosi.
Film
La pelle di Satana
di Piers Haggard
La Pelle di Satana (The Blood on Satan’s Claw), diretto da Piers Haggard nel 1971, è un film inglese prodotto dalla Tigon che, pur con le sue ingenuità e un budget limitato, si è ritagliato un posto d’onore tra gli appassionati di folk horror. Stiamo parlando di un genere che, per chi non lo sapesse, mescola superstizioni, credenze e rituali arcaici legati alla natura e alle tradizioni popolari, che verrà definito un paio di anni più tardi nel più riuscito The Wicker Man di Robin Hardy.
Siamo in un remoto villaggio rurale dell’Inghilterra del XVIII secolo. Un contadino, mentre ara il campo, scopre un corpo con un braccio artigliato, appartenenti a qualcosa di decisamente poco umano. Quando mostra il ritrovamento al giudice del villaggio, i resti spariscono misteriosamente, ma da quel momento iniziano a verificarsi strani eventi. Gli abitanti del villaggio iniziano a sviluppare delle inquietanti macchie cutanee pelose, mentre altri si abbandonano a comportamenti sempre più disturbanti. La giovane Angel Blake (una Linda Hayden in stato di grazia, eterea e maledettamente seducente) emerge come la leader di una setta che, tra rituali pagani, sacrifici umani e un progressivo delirio collettivo, trascina il villaggio in un vortice di follia. Solo il giudice, interpretato con carisma da Patrick Wymark, cercherà di fermare il contagio diabolico prima che sia troppo tardi.
La Pelle di Satana è un horror imperfetto, che ha una sceneggiatura scricchiolante, sopratutto nella seconda parte, degli effetti speciali mediocri e un cast modesto. Dalla sua ha però ha una cura nel montaggio, una buona fotografia, e una ottima colonna sonora di Marc Wilkinson, anche se a volte troppo invadente. Nulla di imprescindibile dunque, ma per gli appassionati di folk horror gli ingredienti giusti non mancano. I paesaggi desolati, una buona ricostruzione storica, momenti disturbanti, come la sequenza dello stupro rituale e l’erotismo morboso che permea il personaggio di Angel Blake, censurato negli Stati Uniti per il nudo integrale di Linda Hayden. Non è paragonabile ai grandi classici dell'horror britannico, anche perchè siamo più in territorio B-movie, ma per chi ama il folk horror e le atmosfere malsane, resta un titolo da recuperare. Anche solo per vedere Linda Hayden mentre cerca di sedurre un prete con lo sguardo di chi ha già prenotato un biglietto per l’inferno.
Film
Il dittatore dello stato libero di Bananas
di Woody Allen
Secondo film di Woody Allen in qualità di regista, Il dittatore dello stato libero di Bananas (in originale semplicemente Bananas) è una commedia satirica che intreccia assurdo e politica scritta da Allen insieme all'amico d'infanzia Mickey Rose.
La storia vede come protagonista Fielding Mellish (interpretato da Woody Allen), un giovane impacciato e imbranato che lavora come collaudatore di brevetti per una compagnia industriale. Un giorno incontra Nancy (Louise Lasser), una giovane attivista politica, e inizia con lei una relazione. Tuttavia, quando Nancy lo lascia perché lo ritiene immaturo e incapace di impegnarsi seriamente nelle questioni che le stanno a cuore, Fielding decide di dimostrarle il contrario. Nel tentativo di riconquistare l'ex fidanzata, Fielding si reca nello stato latino-americano di Bananas, un paese fittizio che è caduto sotto la dittatura militare del generale Vargas. Qui, tra una serie di eventi assurdi e tragicomici, viene catturato dai ribelli e, dopo rocambolesche peripezie, finisce addirittura a capo del nuovo governo rivoluzionario.
Il film è una satira al limite del demenziale sui totalitarismi e le ideologie estreme. Anche se non tutte le gag sono riuscite, alcune scene rimangono memorabili, come l'addestramento dei rivoluzionari, il sogno delle croci che litigano per il parcheggio e l'improbabile discorso al popolo del piccolo stato latino-americano. L’umorismo di Allen è spesso più buffo che brillante, e in molte scene si rifà alle comiche del muto. Tuttavia, riesce a strappare risate grazie a un ritmo scoppiettante e a trovate geniali, come la dichiarazione di nuove assurde leggi dello Stato, tra cui il celebre decreto che impone a tutti di indossare la biancheria intima sopra i vestiti.
Numerose sono le citazioni cinematografiche. La scena del collaudo ricorda l'episodio della macchina che nutre gli operai in Tempi Moderni di Chaplin, mentre la carrozzina che precipita da una scalinata è un evidente omaggio alla celebre sequenza de La corazzata Potëmkin di Ejzenštejn, da noi resa celebre dalla parodia di Paolo Villaggio in Fantozzi. In una delle scene ambientate nella metropolitana, compare persino un giovane Sylvester Stallone, che interpreta uno dei teppisti.
In questo film la comicità di Woody Allen è fatta di gag e situazioni al limite del demenziale, ma nello scambio di battute con Louise Lasser (che all'epoca era la sua ex moglie) già si intravedono i primi segni della sua ironia sofisticata e intellettuale che diventerà distintiva nelle sue opere successive.