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giovedì, 16 ottobre 2025
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La mesita del comedor - The Coffe Table

di Caye Casas

Ogni tanto mi piace spulciare tra quei film poco conosciuti, quelli di nicchia, passati magari in qualche rassegna di cinema di genere e mai arrivati nelle sale. E' il caso di La mesita del comedor, un film spagnolo del 2022 diretto da Caye Casas, conosciuto a livello internazionale come The Coffe Table, disponibile in Italia su MyMovies One, la piattaforma streaming di MyMovies. Il film ha guadagnato un certa notorietà quando Stephen King l’ha consigliata sui social, definendola uno dei film più macabri che avesse mai visto.
E che faccio, me lo perdo? Non sia mai.

La storia è semplice, ma non per questo meno sconvolgente. Si svolge quasi interamente all’interno di un appartamento.
Jesus (David Pareja) e María (Estefanía de los Santos) sono una coppia che da poche settimane ha avuto un figlio. Si sono appena trasferiti nella loro nuova casa e Jesus, per celebrare l’arrivo del bambino, decide di comprare un tavolino di vetro — un oggetto di dubbio gusto, che il commerciante descrive come “pregiato e indistruttibile” — nonostante l’esplicito disappunto della moglie.
Il tavolino, un oggetto apparentemente banale e insignificante, sarà l'inizio della loro tragedia.

Il regista Caye Casas ha descritto il suo film come "un’opera scomoda e politicamente scorretta, con un umorismo estremamente nero, una tragedia basata sulla crudeltà casuale della vita reale e su un destino avverso".
Da qui in avanti mi è impossibile parlarne senza entrare nel territorio degli spoiler. Posso dire soltanto che, da padre, questo film ha toccato corde particolarmente sensibili e che per tutta la visione ho provato un disagio crescente, aspettando la sua conclusione per potermi finalmente liberare della tensione accumulata.
Arrivati a questo punto, è chiaro che il bambino muore. Mentre Jesus inizia a montare il tavolino, María esce per fare la spesa, lasciandolo solo col neonato per la prima volta. Poi accade la tragedia: un banalissimo incidente domestico che, nel giro di pochi secondi, trasforma la quotidianità di questa coppia in un incubo irreversibile. Jesus inciampa e cade sul tavolino di vetro, decapitando il bambino che aveva in braccio. Una scena che rimane fuori campo e che mi ha ricordato quella di Love Life di Koji Fukada.
La perdita di un figlio, violenta e provocata, è un dolore troppo grande per essere accettato. Si prova a negarlo, a rimuoverlo, a fingere che non sia mai accaduto. Ed è ciò che fa Jesus, che sotto shock ripone il corpo del neonato nella culla, pulisce il sangue dal tappeto, raccoglie i vetri ma non ha il coraggio di toccare la testa del piccolo, finita sotto la poltrona. Quando María rientra, le racconta di essersi ferito durante il montaggio del tavolo, di aver messo a dormire il piccolo, aiutandola a preparare il pranzo per il fratello e la nuova compagna, arrivati proprio per conoscere il bambino.
È una strada senza via d’uscita, che non fa che rimandare l’inevitabile. Casas costruisce una tensione insostenibile, che cresce scena dopo scena fino a un finale che ha il sapore amaro della liberazione. La mesita del comedor è un film di una potenza emotiva devastante, sorretto da due interpretazioni straordinarie. Pur muovendosi sul confine del grottesco, mantiene una ferocia realistica, come una satira crudele sull’assurdità della vita, sulla fragilità del caso e sulla violenza del dolore umano.
Uno di quei film che ti rimane addosso.

Film
Drammatico
Disturbante
Spagna
2022
domenica, 14 settembre 2025
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La ragazza della porta accanto

di Gregory Wilson

Vedere questo film è stato devastante.
Quando penso all’horror, non sono le case infestate, gli zombi o i mostri nascosti in soffitta a turbarmi davvero. Tutto ciò che appartiene al soprannaturale resta confinato nella fantasia, e finisce per diventare quasi un esercizio di evasione. Diverso è quando l’orrore prende forma attraverso persone comuni, uomini e donne capaci di compiere atrocità inimmaginabili. Quando la crudeltà è radicata nell’animo umano, non c’è filtro, non c’è distanza di sicurezza. Se poi ciò che vediamo è ispirato a una vicenda realmente accaduta, il disagio diventa ancora più insopportabile.
È proprio questo il caso di La ragazza della porta accanto, film del 2007 diretto da Gregory Wilson, tratto dall’omonimo romanzo di Jack Ketchum  ispirato al terribile omicidio di Sylvia Likens.

Negli anni cinquanta, in una tranquilla cittadina americana, due ragazzine rimaste orfane – Meg (Blythe Auffarth) e sua sorella Susan, rimasta disabile nell’incidente che ha causato la morte dei loro genitori – vengono affidate alle cure della zia Ruth Chandler (Blanche Baker), madre di tre ragazzi. All’apparenza rispettabile, Ruth si rivela presto autoritaria e disturbata, trascinando i figli e i giovani del quartiere in un perverso gioco di crudeltà e soprusi. Meg, la maggiore, diventa il bersaglio di una spirale di violenze sempre più disumane, mentre l’amico David, segretamente innamorato di lei, assiste impotente alla sua segregazione in cantina, dove subisce un calvario sadico e crudele.

Sebbene la violenza e gli atti sadici siano perlopiù tenuti fuori campo, La ragazza della porta accanto è un film estremamente disturbante, destinato a stomaci forti. Nulla a che vedere con i vari torture-porn che imperversavano negli anni in cui uscì la pellicola di Wilson. Nonostante le sevizie e le atroci umiliazioni restino fuori campo, il film non ha bisogno di scene esplicite per colpire duro. Lo fa attraverso dialoghi, tensione psicologica e suggestioni, riuscendo a creare nello spettatore una forte empatia per la povera protagonista e il suo lungo percorso di degradazione morale e fisica, atrocemente travestito da innocente gioco infantile.
A orchestrare tutto c’è la zia, donna disturbata che coinvolge i figli e altri giovani del quartiere, offrendo loro birre e sigarette e trasformandoli in complici delle sue crudeltà. Ciò che fa più male è la perversione dei ragazzi, ormai plagiati in maniera incredibile dalla donna, che finiscono per compiere ogni tipo di nefandezza contro Meg. L’unico che si sottrae a queste atrocità è il giovane David, che inizialmente assiste in silenzio, impotente, incapace di intervenire. La sua frustrazione e il senso di colpa si trasformano in una voragine di dolore quando Meg gli confessa il suo amore, poco prima di espiare per le violenze subite.
Tecnicamente ineccepibile e interpretato da un cast eccellente – molto brava la Baker, il film lascia un’impronta indelebile, soprattutto perché si ispira a fatti realmente accaduti a Indianapolis nel 1965, quando la sedicenne Sylvia Likens fu torturata e uccisa dalla donna a cui era stata affidata. Il film non è una ricostruzione fedele degli eventi – anche i nomi dei protagonisti sono diversi, ma alcune delle sevizie documentate sono state riportate in questa pellicola. Nello stesso anno uscì anche An American Crime, ispirato allo stesso caso, ma tra i due, da quello che leggo in giro, questo risulterebbe più crudo e spietato.

La ragazza della porta accanto è un horror viscerale e diretto, che si insinua sotto la pelle e lascia scosso per ore dopo la visione. Un film da vedere, pur sapendo che può fare molto male.

Film
Drammatico
Horror
Disturbante
USA
2007
sabato, 2 agosto 2025
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Martyrs

di Pascal Laugier

L’horror è sicuramente il mio genere preferito. Ne ho visti tanti, continuo a guardarne, ma raramente riescono ancora a farmi davvero paura. Col tempo ho imparato ad apprezzarne le sfumature, i sottogeneri, i giochi visivi e narrativi. Ma dopo anni passati ad assorbire i meccanismi tipici del genere, la mia attenzione si è spostata altrove. Ora guardo più al modo in cui viene trattata una tematica, a una messa in scena originale, a una scelta registica fuori dal comune.

Tra i sottogeneri che ancora riescono a scuotermi c’è quello comunemente definito "torture porn". Un’etichetta forse riduttiva, ma utile per orientarsi. Da Hostel a Saw, da The Devil’s Rejects fino al giapponese Grotesque, è emersa una corrente in cui la violenza non è solo presente, ma fulcro narrativo. Viene ostentata, protratta, spinta fino al limite della sopportazione.

Martyrs, film francese del 2008 diretto da Pascal Laugier, parte da lì. Dal dolore, dalla tortura. Ma va molto oltre. Non è il solito film estremo che punta a scioccare lo spettatore. È qualcosa di più disturbante, più profondo, più spiazzante. E lascia addosso un senso di disagio che non svanisce facilmente.

Il film si apre con una bambina, Lucie, che fugge urlando da una fabbrica abbandonata, quasi nuda e ricoperta di sangue.  Per oltre un anno è stata tenuta prigioniera e sottoposta a torture fisiche e psicologiche. Gravemente traumatizzata, viene accolta in un orfanotrofio dove stringe un legame profondo con Anna, un'altra ragazza con un passato difficile alle spalle. Crescendo insieme, le due diventano amiche intime.
Quindici anni più tardi, Lucie ormai adulta (interpretata da Mylène Jampanoï), è convinta di aver finalmente individuato i responsabili delle sue sofferenze. Senza esitare, fa irruzione nella casa di una famiglia borghese uccidendola a colpi di fucile. Poi, disperata, telefona ad Anna (Morjana Alaoui) chiedendole di venire ad aiutarla. Anna si precipita, sconvolta, trovandosi di fronte a una scena devastante. Teme che l’amica abbia perso il contatto con la realtà, travolta dai propri fantasmi interiori. Lucie, infatti, continua ad autoinfliggersi ferite sostenendo di essere perseguitata da una creatura mostruosa. Ma quello che Anna scoprirà in quella casa è qualcosa che va oltre ogni sua immaginazione, oltre ogni limite. E rappresenta solo l’inizio di una spirale di orrore che non lascia vie d’uscita.

Altro non dico, perché Martyrs è costruito su una serie di svolte narrative che vanno scoperte passo dopo passo. Quella che sembra una semplice storia di vendetta alla Old Boy, si trasforma presto in qualcos’altro, spiazzante e radicale. La prima parte, intensa e brutale, è solo un preludio. È la preparazione emotiva, visiva e tematica per un secondo atto che ribalta tutto, portando lo spettatore in un territorio completamente diverso, dove l’orrore non è più solo fisico ma esistenziale. È qui che il film mostra la sua vera natura.
Martyrs non è un film piacevole. Non cerca di esserlo, nemmeno per un attimo. Non è il disgusto a prevalere, non lo schifo da corpi mutilati che spesso accompagna certo cinema estremo. Qui si prova dolore, puro e senza filtri. È un horror dell’anima, un’esperienza che annichilisce. Nero come la pece, privo di qualunque ironia o compiacimento, spinge lo spettatore dentro un abisso in cui la tortura non è mai spettacolo, ma accanimento insopportabile.
Eppure, dal punto di vista narrativo, Martyrs non cede mai. La tensione resta costante, serrata. Gli ambienti sono spogli, bui, opprimenti, e il frequente uso della camera a mano amplifica il senso di disorientamento e terrore. Tecnicamente è un film ineccepibile. Girato con rigore, orchestrato con lucidità, interpretato con una credibilità emotiva che toglie il fiato.
Pascal Laugier rilegge il torture porn, lo stravolge, lo svuota del suo compiacimento visivo per restituirci qualcosa di più intimo, più viscerale. Qui non ci sono frattaglie che esplodono sullo schermo come nei film americani. L’orrore è sottopelle, nascosto dietro l’apparenza di una società borghese, anziana e decadente, terrorizzata dall’approssimarsi della fine. Una società che sceglie di infliggere sofferenza a vittime innocenti nel disperato tentativo di trovare una risposta all’unica domanda che davvero ci accomuna: cosa c’è dopo la morte?
Il finale è stato molto discusso. C’è chi lo ha trovato vago, chi pretenzioso. Personalmente lo considero uno dei finali più potenti del cinema horror — forse non al livello di The Mist, ma non lontano. È crudele, definitivo, e probabilmente l’unico possibile. Chiude il film con una nota disturbante che rimane dentro, come un graffio che non si rimargina.

Un horror che riesce a suscitare orrore ha raggiunto il suo scopo. E Martyrs ci riesce benissimo. La prima volta che l’ho visto sono rimasto mezz’ora a fissare il soffitto prima di riuscire ad addormentarmi. La seconda volta ho messo in pausa più volte, costretto ad alzarmi e prendere fiato. È un film che non si dimentica. E proprio per questo, rimane uno dei miei horror preferiti del XXI secolo.

Film
Horror
Disturbante
Francia
2008
Retrospettiva
giovedì, 13 marzo 2025
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Audition

di Takashi Miike

La prima volta che ho visto Audition di Takashi Miike, in una videocassetta a casa di un amico, non avevo idea di cosa mi aspettasse. Mi affascinavano gli horror giapponesi, che in quel periodo stavano proliferando, e avevo già visto film estremi e disturbanti. Tuttavia con Audition, di cui ignoravo la svolta nella trama, avevo un aspettativa diversa. Forse il titolo, forse la premessa da dramma sentimentale. Fatto sta che mi ha colto completamente alla sprovvista.

Quando il film viene presentato in anteprima al Festival di Rotterdam nel gennaio del 2000, Miike ha già diretto una decina di film. È noto per il suo stile prolifico e anticonvenzionale — in trent'anni di carriera girerà più di un centinaio di film spaziando tra i generi più disparati — ma è proprio con Audition, tratto dall’omonimo romanzo di Ryu Murakami, che il suo nome esplode a livello internazionale, consacrandolo come uno dei cineasti più estremi e provocatori del panorama giapponese.

Shigeharu Aoyama (Ryo Ishibashi) è un uomo di mezza età rimasto vedovo, che vive solo con il figlio adolescente. Su insistenza di quest’ultimo, decide di rimettersi in gioco e cercare una nuova moglie. L’amico Yoshikawa (Jun Kunimura), produttore cinematografico, gli propone una idea bizzarra, quella di organizzare un’audizione per un film inesistente, in modo da poter selezionare, tra tante giovani aspiranti attrici, la donna perfetta per Aoyama. È così che l’uomo incontra Asami Yamazaki (Eihi Shiina), una giovane di ventiquattro anni, eterea, timida e misteriosa. Aoyama ne è subito rapito. Asami sembra delicata, quasi irreale, con una storia di sofferenza che la rende ancora più affascinante. Ma dietro quel volto angelico si nasconde qualcosa di oscuro. Un passato di dolore, abusi e violenza repressa, che trascinerà Aoyama in un incubo a occhi aperti.

La forza di Audition sta proprio nella sua costruzione e nella sua messa in scena. Inizialmente il film sembra una semplice storia d’amore, quasi una commedia grottesca, in cui un uomo di mezza età si affida a una finta audizione organizzata dall’amico per trovare moglie, sfogliando i profili delle candidate con la stessa leggerezza con cui oggi si "swippa" su un’app di incontri. La donna perfetta deve essere giovane, bella, gentile, devota, pronta a soddisfare ogni necessità dell’uomo. Ma Asami non è un oggetto. È il riflesso distorto di una società patriarcale che impone alle donne di essere compiacenti, di curare il dolore degli uomini dimenticandosi del proprio. E quando la sua maschera cade, quando Aoyama si dimostra incapace di darle quell’amore assoluto che lei chiede, l’uomo diventa la vittima perfetta su cui riversare tutta la sofferenza accumulata da anni di solitudine, abusi e molestie.

Miike costruisce un film che inizia come un dramma sentimentale, che si trasforma in un noir lynchano sospeso tra realtà e incubo — l'uomo nel sacco ha la stessa potenza inquietante del barbone di Mulholland Drive — per poi virare nel finale in un horror estremo ai limiti della sopportazione visiva. Audition è un film che gioca sull’ambiguità, lasciandoci costantemente nel dubbio su cosa sia reale e cosa sia frutto della mente dei protagonisti.

Un cult movie, un classico moderno sulla violenza inflitta e ricevuta, sulla fragilità che si trasforma in disperazione. Un’illusione d’amore che si sgretola rivelando il volto della follia. Forse non è un horror nel senso più tradizionale del termine, ma una volta visto, è impossibile dimenticarlo. Sicuramente il capolavoro di Miike.

Film
Drammatico
Horror
Disturbante
giappone
1999
Retrospettiva
domenica, 2 marzo 2025
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Titane

di Julia Ducournau

Quando il cinema francese decide di osare, sa essere disturbante come pochi. E per disturbante intendo qualcosa che ti si insinua sotto la pelle, lacera e lascia il segno. Titane, diretto da Julia Ducournau e vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2021, è un film estremo, provocatore e spiazzante. 

Alexia (Agathe Rousselle) porta nel cranio una placca di titanio, souvenir di un incidente d’auto avuto da bambina. Forse è per questo che, da adulta, sembra più macchina che umana. Lavora come ballerina di lap dance alle fiere automobilistiche, strusciandosi su auto fiammanti, ipersessualizzata e inaccessibile. Un sogno proibito per chi la osserva, ma non per le automobili, verso cui prova un’attrazione così viscerale da arrivare ad avere un rapporto sessuale con una Cadillac (probabilmente con la leva del cambio, ma meglio non farsi troppe domande). Il rapporto con gli esseri umani invece è un pò più problematico e chiunque osi avvicinarsi troppo, uomo o donna che sia, finisce con un fermaglio da capelli piantato nel cranio. La situazione precipita quando la nostra protagonista compie una strage in una festa privata e si ritrova braccata dalla polizia. In cerca di una via di fuga, Alexia decide di compiere la metamorfosi più estrema, si sfigura il volto e assume l’identità di Adrien, il figlio scomparso di un comandante dei pompieri (Vincent Lindon), un uomo che si aggrappa disperatamente all’illusione di aver ritrovato il figlio perduto. Nel frattempo, piccolo dettaglio da non trascurare, Alexia scopre di essere incinta. Dell'auto.

Titane è un body horror senza freni, disturbante, ed estremo. Il suono delle ossa che si spezzano, il metallo che stride sulla pelle, lo strazio del corpo che si lacera diventa così irritante e fastidioso, che a tratti bisogna distogliere lo sguardo dallo schermo. Le influenze di Crash di Cronenberg e di Tetsuo di Tsukamoto sono evidenti, ma Ducournau ci mette del suo, mescolando il disgusto con un’ironia sottile e irriverente. Basta vedere la scena dell’omicidio compiuto con uno sgabello sulle note di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli, o il momento surreale in cui Alexia canta la Macarena durante una respirazione bocca a bocca. È un horror del corpo, ma anche dell’identità. In un mondo ossessionato dalle etichette, Alexia diventa un’entità fluida, senza un nome, senza un genere, senza più un’origine chiara. Un corpo in costante trasformazione, né uomo né donna, né carne né metallo.
Dall’altro lato, Vincent, il comandante dei pompieri, è il contrappeso umano, ma non meno devastato. La sua mascolinità ipertrofica è solo un guscio fragile, alimentato da steroidi e disperazione. Il suo bisogno d’amore è così cieco da non voler vedere la realtà, abbracciando l’inganno con una dolcezza straziante. Il loro rapporto è un paradosso che funziona. Un gioco di specchi tra corpi spezzati che cercano di ripararsi a vicenda, senza mai riuscirci davvero.

Probabilmente Titane verrà ricordato come "il film in cui una ragazza resta incinta dopo aver fatto sesso con un’automobile", senza ombra di dubbio, ma è anche una storia d’amore. Malata, deviata, dolorosa e impossibile, ma pur sempre amore. Il bisogno disperato di essere accettati, di essere visti, di essere amati nonostante tutto. Anche se stai secernendo olio motore dalla vagina.
Un film che lascia il segno, come una cicatrice sul metallo.

Film
Drammatico
Horror
Disturbante
Francia
2021
venerdì, 22 dicembre 2023
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Speak No Evil

di Christian Tafdrup

Speak No Evil, film danese del 2022 diretto da Christian Tafdrup, era da tempo nella mia lista dei film da vedere, e quindi mi pareva giusto, in questo bel clima natalizio, concedermi uno dei film più ansiogeni e disturbanti che abbia mai visto.

La storia è quella di due famiglie, una danese e l'altra olandese, che si conoscono durante una vacanza in toscana. La famiglia danese è composta da Bjørn (Morten Burian), Louise (Sidsel Siem Koch) e la loro piccola figlia Agnes, mentra la famiglia olandese è composta da Patrick (Fedja van Huêt), la moglie Karin (Karina Smulders) e il figlio Abel, un bambino scontroso che non può parlare a causa di una malformazione alla lingua. Le due famiglie si piacciono e si divertono insieme durante la vacanza in Italia. Tempo dopo, tornati nelle loro rispettive case, i danesi ricevono l'invito dagli olandesi di trascorrere un week-end nella loro casa di campagna. I danesi inizialmente sono restii, alla fine non si conoscono per niente, ma per non voler essere scortesi e ricordandosi dei giorni passati bene insieme, decidono di accettare la proposta.
Il nuovo incontro però risulta diverso dal precedente. La coppia olandese accoglie la famiglia danese con ospitalità e allegria ma fin da subito ci sono una serie di comportamenti ambigui e irritanti che mettono a disagio Bjørn e Louise. I due non capiscono se si tratta di usanze e abitudini diverse dalla loro quindi in un primo momento soprassiedono. Tuttavia le continue provocazioni della coppia olandese si fanno più pressanti. Quando finalmente la famiglia danese si rende conto di essere caduta nella classica tela del ragno si ritrova incapace di reagire aspettando con rassegnazione l'inevitabile orrore.

Dal punto di vista emozionale il film di Tafdrup raggiunge indiscutibilmente il suo obiettivo: provocare una forte e crescente ansia nello spettatore che finisce da una parte per identificarsi nella coppia danese mentre dall'altra per provare un forte disagio per la loro passività. La musica, il montaggio, la stessa fotografia contribuiscono a creare una costante e disturbante tensione che a un certo punto diventa quasi impossibile da sostenere. E' per questo che il finale - quando l'orrore vero, non quello soprannaturale ma quello reale, esplode in tutta la sua credultà - diventa quasi liberatorio e accolto con accettazione. Nel comportamento passivo delle vittime ci stà l'evidente critica a una società conformistica, perbenista e repressiva - ovviamente parliamo di quella danese - che pur di agire, ribellarsi e accogliere le proprie pulsioni emotive preferisce consegnarsi inerme al proprio carnefice.

Il senso di Speak No Evil si può racchiudere in questo scambio di battutte tra Bjørn e Patrick: "Perché ci fate questo?" Perché ce lo avete permesso".

Ottimo film, peccato per gli evidenti problemi di sceneggiatura. Se accantoniamo l'aspetto emotivo e andiamo ad analizzare razionalmente il film [spoiler on] è impossibile che i due serial killer possano uccidere così tante coppie per rapire i loro figli in maniera così indisturbata e tutto alla luce del sole [spoiler off].
In tutti i modi, tralasciando questo aspetto inverosimile, Speak No Evil è di certo un film che lascia il segno e non si dimentica facilmente con uno dei finali più feroci e crudeli che abbia mai visto.

Film
Thriller
Horror
Disturbante
2022

© , the is my oyster