
The Life of Chuck
di Mike Flanagan
Mike Flanagan torna a confrontarsi con Stephen King, dopo Il gioco di Gerald e Doctor Sleep, portando sullo schermo The Life of Chuck, racconto incluso nella raccolta Se scorre il sangue del 2020. Nonostante il nome dei due autori, coloro che si aspettano un horror classico potrebbero rimanere delusi. Il film più che un incubo è un sogno, un viaggio intimo e malinconico sul senso della vita e sul tempo che scivola via.
Nello scrivere questa recensione mi è difficile evitare qualche spoiler. Avvertiti.
La storia è divisa in tre atti e racconta la vita, a ritroso, di Charles "Chuck" Krantz (Tom Hiddleston). Nel primo atto ci troviamo in un mondo sull’orlo della fine, tra improvvisi blackout, scomparsa di internet, città svuotate. Un’apocalisse senza spiegazioni. Eppure, in mezzo al collasso, iniziano a comparire cartelloni pubblicitari con il volto sorridente e rassicurante di Chuck. Nel secondo conosciamo l’uomo dietro quel sorriso, un contabile di banca in trasferta per un congresso che, mentre passeggia per strada, incontra una ragazza che suona la batteria mettendosi a ballare come un professionista. Infine nel terzo, troviamo il nostro protagonista, prima bambino (interpretato dal figlio di Flanagan) poi adolescente. Rimasto orfano da piccolo, Chuck è stato adottato dai nonni paterni (il nonno è intepretato da Mark Hamill) che gli trasmettono l’amore per la danza e la passione per la matematica. La sua infanzia appare serena, se non fosse per una presenza inquietante: nella vecchia casa coloniale in cui vivono c’è una stanza sotto il tetto sempre chiusa a chiave, un luogo proibito che alimenta mistero e curiosità.
The Life of Chuck è un romanzo di formazione raccontato a ritroso. L’apocalisse iniziale è la metafora della malattia che divora Chuck dall’interno, mentre i cartelloni che lo ringraziano "per questi fantastici 39 anni" diventano l’ultimo segnale di memoria prima che il suo universo si spenga. Proprio come le stelle che il professore – riunitosi all’ex moglie – vede sparire nel cielo, con paura ma anche con un'insospettata serenità.
Il momento più riuscito arriva nel secondo atto, con la danza improvvisata in strada di Hiddleston, un gesto semplice, quasi liberatorio che racchiude l’essenza di un'intera vita. Più debole il terzo atto, che nel tentativo di fare da collante con i precedenti finisce per accentuare il sentimentalismo retorico che pervade tutto il film.
The Life of Chuck sembra un Truman Show che si svolge all’interno della propria testa, nel proprio universo interiore, unito alla malinconia esistenziale a ritroso de Il curioso caso di Benjamin Button. Un film che nel momento della morte vuole ricordarci come nei dettagli quotidiani, nei gesti minimi e negli incontri imprevisti si nasconda la vera grandezza, ma che a mio avviso indulge troppo in frasi a effetto, dialoghi carichi di perle di saggezza e un narratore onnipresente che spiega ciò che lo spettatore vede già chiaramente sullo schermo.
Personalmente, continuo a preferire il Flanagan delle sue serie televisive.