
Wolf Man
di Leigh Whannell
L’horror del 2025 segna il ritorno in grande stile dei mostri classici della Universal. Tra il gotico suggestivo del Dracula di Robert Eggers – sì lo so, è Nosferatu ma è la stessa cosa – e l’attesissimo Frankenstein di Guillermo Del Toro, da un paio di settimane è uscito al cinema il nuovo Wolf Man di Leigh Whannell, una rilettura moderna del classico Uomo Lupo del 1941 con Lon Chaney Jr.
Prodotto da Blumhouse e scritto e diretto dallo stesso Whannell – regista di Upgrade, L’uomo invisibile e co-creatore di Saw e Insidious – il film si propone come un aggiornamento della leggenda dell’Uomo Lupo, mescolando horror e dramma familiare.
La trama è davvero molto semplice. Blake Lovell (Christopher Abbott), uno scrittore in crisi, torna nella remota baita di famiglia in Oregon per occuparsi degli effetti personali del padre, ufficialmente dichiarato deceduto dopo trent’anni di assenza. Insieme a lui ci sono la moglie Charlotte (Julia Garner), donna che pare più protesa alla carriera che alla famiglia, e la loro figlia Ginger, spettatrice silenziosa delle tensioni tra i genitori. Durante il viaggio, proprio in prossimità della baita, i nostri protagonisti hanno un incidente e Blake viene graffiato da una creatura feroce, più lupo che uomo. Blake sopravvive all’aggressione, ma il veleno della bestia si insinua dentro di lui, scatenando una metamorfosi lenta e inesorabile. I suoi sensi si acuiscono, il suo corpo cambia, la sua mente si annebbia. L'istinto prende il sopravvento, e la famiglia che voleva proteggere diventa la sua prossima preda.
Evitando paragoni con il classico di Waggner o con Un lupo mannaro americano a Londra – che considero il miglior film sui licantropi – il film di Whannell si muove tra intuizioni interessanti e scelte poco incisive.
Apprezzabile è il tentativo, seppur non del tutto riuscito, di raccontare la trasformazione dal punto di vista dell'infettato, abbandonando cliché come lune piene, ululati e proiettili d’argento. Qui il licantropismo non è una maledizione sovrannaturale, ma una malattia degenerativa, un virus che consuma il corpo, altera la percezione del mondo e spezza ogni forma di comunicazione. Un'idea intrigante, che però si perde in una sceneggiatura debole, dialoghi a tratti forzati e interpretazioni poco memorabili.
La tensione è presente, ma ripetitiva, e non esplode mai davvero. L’orrore si insinua, ma resta ai margini. Il dramma familiare si fa sentire, ma non lascia il segno. L’eredità paterna, il fallimento coniugale, il contagio, il conflitto tra istinto e ragione: tutti spunti affascinanti, ma mai approfonditi con la giusta incisività.
Dal punto di vista visivo, la trasformazione è realizzata con effetti pratici che evitano l’abuso del digitale, una scelta coraggiosa e lodevole. Tuttavia, il risultato finale è poco efficace: la creatura appare più simile a uno zombie peloso che a un licantropo, privandola di quel senso di terrore primordiale che un film del genere dovrebbe evocare.
In definitiva, Wolf Man è un horror che non è né spaventoso, né emozionante, né davvero incisivo. Un peccato, perché le potenzialità c’erano.
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