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giovedì, 24 luglio 2025
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Presence

di Steven Soderbergh

Steven Soderbergh, regista di Sesso, bugie e videotape e tanti altri film, firma con Presence un thriller soprannaturale atipico, più inquietante che spaventoso, dove l’elemento horror resta in sottofondo, a favore di un’indagine intima sul lutto e l'incomunicabilità.

La storia, scritta da David Koepp, ruota attorno a una famiglia che si trasferisce in una grande casa suburbana appena ristrutturata nel New Jersey. Rebecca (Lucy Liu) e Chris (Chris Sullivan), si stabiliscono lì con i loro due figli adolescenti. Chloe (Callina Liang) è una ragazza fragile, ancora scossa dalla morte improvvisa della sua migliore amica Nadia, un evento attribuito a un’overdose. Tyler (Eddy Maday), il fratello maggiore, è una giovane promessa del nuoto, poco empatico verso la sorella e "cocco" di mamma.
All’apparenza la nuova casa sembra perfetta, due piani, un’ampia cucina e una scuola di prestigio nei paraggi. Ma dietro quella facciata si nasconde qualcosa di inquieto. Una presenza invisibile abita la casa, un fantasma che osserva ogni cosa in silenzio e sembra interessarsi in modo particolare a Chloe. Lei è l’unica a percepirla e si convince che possa trattarsi del fantasma della sua amica morta.

La vera particolarità che distingue Presence da molte ghost story è la scelta radicale della messa in scena. Tutto il film si svolge dal punto di vista della presenza che abita la casa, una soggettiva fluttuante che dà forma a lunghi piani sequenza. Silenzioso e invisibile, il fantasma osserva giorno dopo giorno una famiglia tesa da rancori, favoritismi, segreti, egoismi e silenzi. L’effetto è straniante, quasi voyeuristico, ma mai gratuito. La cinepresa di Soderbergh – che firma anche fotografia e montaggio – si comporta come uno spettro curioso, alla ricerca di un senso tra le crepe del quotidiano.
Con il passare del tempo, la presenza inizia a interagire con Chloe, attraverso piccoli segni e movimenti impercettibili. Ma è con l’arrivo di Ryan (West Mulholland), amico del fratello, che qualcosa cambia. Troppo affettuoso, troppo rapido nell’instaurare una confidenza con la ragazza, Ryan rivela presto un’ambiguità disturbante. È qui che la presenza smette di limitarsi a osservare e comincia a manifestarsi con maggiore decisione.
Costato poco più di due milioni di dollari, il film di Soderbergh non è solo un esercizio di stile travestito da ghost story e thriller. Sì, alla fine si scoprirà l’identità della presenza – anche se l’idea di un fantasma [spoiler] tornato indietro nel tempo per proteggere Chloe [/spoiler] appare piuttosto forzata – ma si tratta a tutti gli effetti di un esperimento autoriale coraggioso. Un film quasi sperimentale, dove alla staticità di Skinamarink (sì, lo so, non c’entra nulla ma lo cito come esempio di horror di "rottura" - qualcuno potrebbe aggiungere in tutti i sensi) si sostituisce la fluidità dei movimenti.
Un film di fantasmi anomalo, in cui Soderbergh gioca con lo spazio, i silenzi e l’invisibile. Più che un horror "de paura", una riflessione sul vuoto affettivo. Perché il vero fantasma, qui, è l’incapacità di ascoltare chi ci sta vicino.

Film
Horror
Thriller
USA
2024
mercoledì, 23 luglio 2025
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La casa delle bambole - Ghostland

di Pascal Laugier

Nonostante qualche difficoltà tecnica nella visione, mi sono visto Ghostland, un horror di Pascal Laugier del 2018 distribuito in Italia con il titolo La casa delle bambole, in aggiuta al titolo originale. Per una volta mi sento di condividere questa scelta, anche perché più che i fantasmi, a dominare la scena sono proprio le bambole.

Il film racconta la storia di due sorelle adolescenti, Beth (Emilia Jones da giovane, Crystal Reed da adulta) e Vera (Taylor Hickson e Anastasia Phillips), che si trasferiscono con la madre (Mylène Farmer) nella casa ereditata da una zia eccentrica, in una località sperduta della provincia americana.
Due sconosciuti, a bordo di un sinistro furgone dei dolci, fanno irruzione nella casa. Una coppia di psicopatici — una donna ambigua e sfuggente e un energumeno calvo con disturbi psichici — aggredisce la madre e inizia a torturare le due ragazze.
Anni dopo, Beth, ormai scrittrice di successo, torna in quella casa per ritrovare la sorella e affrontare il trauma. I confini tra realtà e allucinazione si sfaldano. Il vero orrore è nella mente o nella realtà?

Senza entrare nei dettagli — anche se il colpo di scena a metà film è tutt’altro che sorprendente — Ghostland si muove nel territorio del torture porn, senza estremi, ma con ritmo serrato e montaggio frenetico.
La casa, tra bambole inquietanti, luci soffuse, tappezzerie pesanti e specchi segreti, è la vera protagonista. Dei due psicopatici — un Severus Piton transgender e un obeso bamboccione dalle pulsioni sessuali deviate — non sappiamo nulla. Servono solo alla messa in scena, come le bambole, che restano puro elemento visivo.
A un certo punto spunta anche H. P. Lovecraft, già citato nel cartello iniziale, che appare alla giovane Beth con il suo bel mascellone per darle consigli da scrittrice. Un omaggio gradito, ma francamente scollegato dalla trama.
Una nota tragica accompagna il film: l’attrice Taylor Hickson si è ferita seriamente al volto durante una scena sul set.

Pascal Laugier, dopo Martyrs, realizza un horror derivativo ma ben confezionato. Sceneggiatura scarna, atmosfera cupa, qualche suggestione visiva azzeccata. Ghostland si lascia guardare. Non è memorabile, ma neanche da buttare.

Film
Horror
Canada
Francia
2018
martedì, 22 luglio 2025
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La morte corre incontro a Jessica

di John Hancock

La morte corre incontro a Jessica, diretto da John Hancock nel 1971, è un film semisconosciuto che con il tempo è stato rivalutato come una delle pellicole più interessanti del cinema horror americano degli anni settanta. Nato in un’epoca di sperimentazioni e contaminazioni, mescola suggestioni gotiche, disagio mentale e inquietudini post-hippie, costruendo un’atmosfera sospesa e disturbante.

Dopo un periodo trascorso in un istituto psichiatrico, Jessica (Zohra Lampert) si trasferisce con il marito Duncan (Barton Heyman) e l’amico Woody (Kevin O’Connor) in una vecchia casa colonica del Connecticut, sperando di ritrovare equilibrio e serenità. All’arrivo trovano Emily (Mariclare Costello), una giovane misteriosa senza fissa dimora che dice di aver trovato riparo in quella casa da qualche tempo. Invitata a restare, la sua presenza innesca una serie di eventi inquietanti: Jessica comincia a sentire voci, a vedere una figura spettrale e a temere una ricaduta nella follia. Mentre il clima si fa più opprimente, la linea tra realtà e paranoia si assottiglia, lasciando emergere dubbi, tensioni e presagi oscuri.

Il film si muove sul confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tra il disagio e la follia, lasciando lo spettatore in una zona grigia, ambigua, dove nulla è spiegato fino in fondo. Jessica sospetta che Emily sia una vampira, ma il film evita di prendere posizione e resta sospeso tra paranoia e soprannaturale. Può spiazzare, certo, ma è proprio questo spaesamento a creare un senso di inquietudine duraturo.
Visivamente, è un’opera affascinante. La fotografia è splendida, i paesaggi hanno un che di spettrale, la casa isolata in riva al lago sembra uscita da un incubo. Anche la colonna sonora contribuisce con suoni acidi e dissonanti, generati da synth analogici, a costruire un’atmosfera tesa e ipnotica.
Quello che funziona meno non è tanto il ritmo dilatato — che in un film così ci può anche stare — quanto certe situazioni ripetitive e dei dialoghi davvero troppo banali. Se ci si aspetta un horror classico, con trama lineare e colpi di scena, si rischia la delusione. Ma se lo si accoglie per ciò che è — un viaggio disturbato nella mente di una donna fragile — allora riesce a colpire nel segno.
Consiglio di vederlo in lingua originale.

Film
Horror
Psicologico
USA
1971
domenica, 20 luglio 2025
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Melancholia

di Lars von Trier

Dopo aver decostruito l'orrore con Antichrist, Lars von Trier decide di utilizzare la fantascienza, trasformandola in una tragedia privata e universale con il suo solito stile drammatico e introspettivo. Melancholia è il secondo film della cosiddetta trilogia della depressione, e come ogni sua opera, è tutto fuorché conciliatorio.

Melancholia racconta la storia di due sorelle, Justine (Kirsten Dunst) e Claire (Charlotte Gainsbourg), nel momento in cui un misterioso pianeta minaccia di collidere con la Terra. Diviso in due parti, il film si apre con una sequenza di immagini al rallentatore, veri e propri quadri in movimento sospesi tra bellezza e presagio.
Nella prima parte assistiamo al matrimonio di Justine con Michael (Alexander Skarsgård), figlio del suo capo (Stellan Skarsgård). Justine inizialmente appare radiosa, ma con il passare del tempo il ricevimento sontuoso si svuota di senso, e la sposa — tra una madre sprezzante (Charlotte Rampling) e un padre ubriaco (John Hurt) — comincia a isolarsi e a mostrare segni di ansia e tristezza, fino a sabotare il proprio matrimonio.
Nella seconda parte, Claire ospita Justine a casa sua, ormai sprofondata in una forte crisi depressiva, cercando di prendersene cura. Il pianeta — chiamato Melancholia — si avvicina, e mentre John (Kiefer Sutherland), marito di Claire, prova a rassicurare tutti, convinto che passerà vicino alla Terra senza conseguenze, Justine sembra accogliere l’inevitabile con una calma inquietante, come se avesse sempre saputo che l’umanità è in procinto di scomparire per sempre.

Melancholia non è un film sulla fine del mondo, ma sulla depressione. L’evento cosmico che incombe — il pianeta che si avvicina alla Terra — è solo un riflesso, gigantesco e silenzioso, dello stato mentale di Justine. Un malessere che si insinua fin dall’inizio e cresce scena dopo scena, fino a coincidere con la catastrofe finale.
Lars von Trier ha più volte dichiarato di aver concepito Melancholia durante un periodo particolarmente buio della sua vita. Non sorprende, quindi, che il film ne porti addosso il peso e la grazia disturbata. Lo stesso vale per Kirsten Dunst, che ha attraversato momenti simili e che qui ci regala una prova attoriale senza filtri, senza protezioni. Non recita, si espone. Ed è proprio questa nudità emotiva a renderla così magnetica. La sua performance — premiata a Cannes — è magistrale. Sublime in abito da sposa, immersa nell’acqua come una moderna Ofelia. Un’icona decadente, bellissima e inerme.
La depressione non viene mai spiegata, ma mostrata nel suo effetto paralizzante. Justine non riesce a reagire, a partecipare, nemmeno a camminare. E intorno a lei, tutto si fa inconsistente. Un ricevimento nuziale che si svuota di senso, una famiglia disfunzionale fatta di assenze, cinismo e incapacità d’amore. Persino il suo capo, simbolo di un capitalismo predatorio e indifferente, che arriva a chiederle di lavorare il giorno delle nozze.

Visivamente, Melancholia è un capolavoro. La fotografia trasforma ogni inquadratura in un sogno a occhi aperti. L’apertura, con le note solenni del Tristano e Isotta di Wagner, è un prologo pittorico che condensa in pochi minuti tutta l’estetica del film. È la fine del mondo vista come arte, come arresto del tempo.

Nella prima parte, durante il matrimonio, sembra di rivedere il Festen di Vinterberg. La macchina da presa di von Trier si muove intrusiva, straniante, restituendo il ritratto di una borghesia svuotata e sull’orlo del collasso. Nella seconda, con l’avvicinarsi del pianeta, tutto si fa più intimo, più fisico, più immobile. Claire diventa la nuova protagonista, cerca di prendersi cura della sorella, ma si ritrova impotente. Suo marito John — razionale, insensibile, sicuro della scienza — si rivelerà l’anello più debole, dimostrandosi un vigliacco. Claire, forte e razionale nella prima parte, si disintegra — molto brava anche la Rampling — mentre Justine, fragile e disfunzionale, si fa roccia. Non combatte, non spera, ma accetta, in maniera liberatoria. "La Terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei", dice. Una frase che non è solo il pensiero di Justine, ma l’intera poetica di von Trier.
In mezzo a loro c’è Leo, il bambino. Non ancora corrotto, non ancora formato, osserva il mondo che cade a pezzi e si affida alla zia “spezzacciaio”. Sarà proprio lui a riconoscere per primo quella forza nascosta in Justine, quella capacità di vedere al di là dell’ovvio, e scegliere lei come guida per il suo ultimo viaggio.

Il finale, annunciato sin dall’inizio, arriva con la potenza visiva di un’incudine nel silenzio. Nessuna fuga, nessuna salvezza, nessuna redenzione. Solo bellezza e devastazione. Eppure, qualcosa resta. Una forma di pace, o forse di verità. Un’accettazione lucida del fatto che, come nella mente di chi soffre, non c’è via di fuga. La fine è già scritta. E Lars von Trier ce la mostra con la serenità gelida di chi ha sempre saputo che il mondo è destinato a finire.

Melancholia non è solo cinema, è qualcosa che rimane dentro. Un’esperienza totalizzante che mi colpito nel profondo. Per me, un capolavoro assoluto.

Film
Drammatico
catastrofico
Fantascienza
Danimarca
2011
sabato, 19 luglio 2025
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Il condominio

J. G. Ballard

Considerato uno degli scrittori più originali e disturbanti della letteratura britannica del novecento, J.G. Ballard è noto soprattutto per la sua fantascienza distopica e psicologica, capace di trasformare ambienti ordinari in scenari di alienazione e follia. Tra i suoi romanzi più celebri figurano La mostra delle atrocità (1969), L’isola di cemento (1974), Crash (1973) e L’impero del sole (1984). Da quest'ultimi due sono stati tratti anche i film diretti rispettivamente da David Cronenberg e Steven Spielberg.
Il condominio, pubblicato nel 1975, è uno dei suoi lavori più emblematici, un ritratto spietato della società borghese intrappolata in un grattacielo di lusso. Un esperimento sociologico travestito da romanzo, che analizza il disfacimento dell’ordine civile e morale. Oltre a High-Rise, adattamento ufficiale uscito nel 2015, sono numerosi i film che si sono ispirati a questo romanzo, da Snowpiercer a Il buco, fino al più recente Lockdown Tower.

Un moderno grattacielo di quaranta piani ospita cinquemila persone. Dirigenti, medici, giornalisti, professionisti. Una popolazione benestante che rientra ogni sera nei propri cubicoli dopo aver parcheggiato l’auto nei livelli interrati. Al suo interno non manca nulla: piscine, supermercati, palestre, scuole, persino un sistema di raccolta rifiuti. Un microcosmo perfetto, autosufficiente e protetto, dove i residenti non hanno più bisogno di uscire. Ma proprio questa autarchia lucida e razionale si trasforma lentamente in una trappola. Quando iniziano i primi guasti, le prime frizioni tra i diversi piani del palazzo, l’equilibrio si incrina. I condomini si organizzano in clan, la legge sparisce, l’isolamento si intensifica, e la civiltà comincia a sgretolarsi, piano dopo piano. In un’atmosfera sempre più claustrofobica, il palazzo diventa teatro di una regressione feroce, un’arena chiusa dove l’istinto prende il sopravvento.

Non è stata una lettura facile. Il condominio è il primo romanzo di Ballard che affronto, e se da un lato ne ho riconosciuto l'originalità e la forza seminale, capace di influenzare decenni di narrativa e cinema distopico, dall’altro ho faticato moltissimo ad andare avanti. L’idea alla base è potente, inquietante nella sua apparente semplicità. Una metafora della civiltà divisa nelle sue classi sociali che si sgretola dall’interno di un grattacielo, senza bisogno di eventi apocalittici. Ma una volta afferrato questo concetto, il romanzo sembra rimanere lì, a girarci attorno ossessivamente. I protagonisti - il medico, l’architetto, e il giornalista -  che si alternano durante il racconto, sono archetipi, più che persone reali. Nessuno con cui empatizzare davvero. Nessun personaggio che provi a opporsi al disastro, che lo metta in discussione. Tutti sembrano rassegnati, come se la barbarie fosse un passaggio naturale e inevitabile. E forse è proprio questo che ho trovato più faticoso. Dopo le prime cinquanta, sessanta pagine, ho cominciato a perdere interesse. Le scene si ripetono, lo schema si fa prevedibile: ascensori bloccati, spazzatura ovunque, appartamenti devastati, ostilità crescenti tra i piani. Una spirale di degrado che non sorprende più, perché segue sempre lo stesso ritmo. Senza sussulti, senza pause, senza evoluzione. Ho trascinato il libro per settimane, incapace di finirlo in tempi ragionevoli, come se anche per me, lettore, fosse diventato una prigione verticale da cui non riuscivo a uscire.
Lo stile di Ballard è freddo, controllato, chirurgico. Una scelta coerente con l’atmosfera alienata del romanzo, certo. Ma questa lucidità estrema finisce per anestetizzare ogni possibilità di coinvolgimento emotivo. La violenza diventa routine, la follia quotidianità, e tutto si appiattisce su un unico registro, come un esperimento sociologico osservato da dietro un vetro opaco.
Non so se tornerò presto a Ballard, ma so che Il condominio mi ha lasciato addosso una sensazione strana. Non quella del disgusto, non quella della fascinazione, ma qualcosa di più stanco, più opaco. Come se, alla fine, fossi uscito anche io da quel palazzo, stordito e un po’ più vuoto.

Libri
Distopia
UK
1975
venerdì, 18 luglio 2025
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Secretary

di Steven Shainberg

Molto prima che Cinquanta sfumature di grigio trasformasse il BDSM in una moda da romanzo rosa fintamente trasgressivo, agli inizi degli anni duemila esce Secretary, film diretto da Steven Shainberg, che racconta una relazione sadomasochistica con ironia e sorprendente delicatezza. Un film che parla di sottomissione e controllo non come deriva patologica, ma come possibile forma d’intimità, equilibrio e riscatto personale.

Lee Holloway (Maggie Gyllenhaal) è una giovane donna fragile, con tendenze autolesionistiche, appena uscita da un ospedale psichiatrico e tornata a vivere con la sua disfunzionale famiglia nei sobborghi americani. Dopo un corso da dattilografa, trova lavoro nello studio legale dell’eccentrico avvocato E. Edward Grey (James Spader). Il loro rapporto professionale si trasforma presto in qualcosa di più complesso, una dinamica di dominazione e sottomissione che, tra punizioni, carezze e lettere battute a macchina, aiuta entrambi a confrontarsi con le proprie nevrosi, a disinnescarle e – forse – a guarire.

Tratto da un racconto breve di Mary Gaitskill, Secretary è una commedia nera che esplora i territori ambigui delle relazioni, del potere e della dipendenza emotiva. Parla di perversioni sessuali e dinamiche tossiche, ma lo fa con leggerezza, ironia, e un tocco grottesco che a tratti sfiora il surreale. In mezzo a tutto questo, però, resta soprattutto una storia d’amore. Strana, deviata, ma pur sempre d’amore.
Lee è timida e dimessa, entra nello studio legale con l’aria da cerbiatta spaurita e si ritrova presto coinvolta in un gioco sadomasochista fatto di errori battuti apposta a macchina, posture di obbedienza e punizioni simboliche. Ma non è una vittima: è lei ad accettare il gioco, ad assecondarlo e infine a guidarlo. Nella sottomissione scopre una forma di piacere che dà finalmente un senso alla sua inquietudine.
Grey, invece, è un uomo ossessivo e represso, che cerca di soffocare i propri impulsi attraverso l’ordine e l’isolamento. Quando cede al desiderio, lo fa con esitazione e senso di colpa. Sarà proprio Lee, la parte "debole", a sfidarlo, ad aspettarlo, a salvarlo. In un ribaltamento sottile e potente, la segretaria obbediente diventa protagonista attiva di una relazione che si costruisce fuori dagli schemi, ma su basi molto reali: il riconoscersi, il scegliersi, l’accettarsi.

Maggie Gyllenhaal è brava a interpretare una ragazza all’inizio fragile e impacciata, poi sempre più consapevole, seducente, padrona di sé. Spader è altrettanto convincente nel ruolo dell’uomo che esercita il controllo ma ne è, in fondo, vittima.

Se uscisse oggi, Secretary sarebbe un film divisivo. Travolto da critiche e accuse di misoginia, abuso di potere e rappresentazione tossica del maschile. Una relazione tra un uomo potente e la sua dipendente sottomessa? Inaccettabile nell’era del #MeToo. Poco importa che Lee sia consenziente. Per molti sembrerebbe solo un altro caso di patriarcato travestito da romance alternativo.
Eppure Secretary non parla di abuso. Parla di libertà. Di due persone che, nel dolore e nel desiderio, trovano una forma d’equilibrio possibile. Scomoda, certo. Ma profondamente umana.

Film
Commedia
sentimentale
USA
2002
Retrospettiva
giovedì, 17 luglio 2025
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Final Destination

di James Wong

La morte. Nel cinema è stata rappresentata in diverse forme. Austera e filosofica ne Il settimo sigillo di Bergman, grottesca e sarcastica ne Il senso della vita, affascinante e seduttiva in Vi presento Joe Black.
In Final Destination, film del 2000 diretto da James Wong, la Morte si reinventa diventando una presenza invisibile che non ha volto né voce, una forza astratta che attraverso coincidenze, oggetti quotidiani e piccoli dettagli si riprende ciò che le è stato sottratto.

La storia ha per protagonista Alex, un liceale in partenza con i suoi compagni di classe per una gita a Parigi. Poco prima del decollo viene colto da una visione agghiacciante, l’aereo esploderà in volo. In preda al panico, viene fatto scendere insieme ad alcuni compagni e a un’insegnante. Pochi minuti dopo l’incubo si avvera, l’aereo esplode davvero, proprio come aveva previsto.
Ma la vera minaccia deve ancora rivelarsi. I superstiti scoprono presto di non essere affatto al sicuro. Uno dopo l’altro iniziano a morire in circostanze bizzarre e inquietanti, come se un disegno invisibile stesse rimettendo le cose al loro posto.
Alex intuisce che la Morte ha un piano, e che sfuggirle una volta non basta.

Final Destination nasce da un’idea di Jeffrey Reddick, inizialmente pensata per un episodio mai realizzato di X-Files. Il progetto viene poi trasformato in un film dalla New Line Cinema, con la sceneggiatura firmata da James Wong e Glen Morgan, volti noti proprio della serie di Chris Carter.
Rivedendolo oggi, il film porta addosso tutti i segni del tempo. Ingenuità narrative, un cast acerbo formato da giovani attori pescati dalle serie televisive dell’epoca, e una struttura che ricalca in pieno gli stereotipi del teen-horror di fine anni novanta. Ma l’intuizione alla base resta originale e dirompente. Togliere di mezzo il killer mascherato per affidare la strage alla morte stessa, trasformata in una presenza invisibile ma implacabile, capace di costruire incidenti come trappole a orologeria. È lo slasher che diventa soprannaturale.
Nel panorama horror post-Scream, ormai in fase calante, Final Destination cambia le regole: non importa chi uccide, ma quando e come. Il film gioca sull’attesa e sull’ingegno delle morti, restituendo una buona tensione (soprattutto nei primi quindici minuti) per poi intrattenere grazie all’inventiva della morte improvvisa, efferata e, in un certo qual modo, divertente – quella dell’insegnante resta tra le più memorabili per ironia e costruzione.
E se pensiamo che questo è solo il primo capitolo di una lunga saga (proprio in questi giorni è uscito il sesto), vuol dire che l’idea in fin dei conti non era per niente male. Una struttura semplice ma solida, capace di rinnovarsi restando fedele a un concept forte, che ha saputo parlare al pubblico giusto nel momento giusto.

Film
Horror
USA
2000
Retrospettiva
martedì, 15 luglio 2025
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Bring Her Back - Torna da me

di Danny e Michael Philippou

A distanza di tre anni dal successo ottenuto con Talk to me tornano i fratelli Philippou con un nuovo horror. Prodotto sempre dalla A24, Bring Her Back - Torna da me, abbandona le possessioni adolescenziali affrontando il tema del lutto e dell'ossessione.

La storia ruota attorno a due fratelli, Piper (Sora Wong) e Andy (Billy Barratt). Piper è una ragazzina ipovedente che riesce a distinguere solo luci e forme sfocate, ma questo non le impedisce di essere curiosa e piena di vitalità. Andy, protettivo nei suoi confronti, porta dentro di sé le ferite di un passato difficile. Alla morte del padre, i due vengono affidati a Laura (Sally Hawkins), una nuova madre adottiva che vive in una casa isolata di campagna insieme a un altro bambino, Oliver (Jonah Wren Phillips), un ragazzino muto, calvo e dal comportamento inquietante. Col passare dei giorni, Piper e Andy scoprono che la casa è circondata da un misterioso cerchio di gesso bianco, e che Laura, segnata dalla perdita della figlia Cathy, sembra nascondere un oscuro segreto.

Bring Her Back è un horror che punta tutto sulla tensione psicologica. I Philippou evitano i colpi di scena facili e preferiscono costruire l’inquietudine scena dopo scena, senza mai dare una visione chiara e completa. L’atmosfera è disturbante, sospesa, con influenze da folk horror, rituali oscuri e found footage che accentuano il senso di spaesamento. Le sequenze più estreme sfiorano lo splatter, ma sono sempre funzionali e ben realizzate, grazie a ottimi effetti pratici. Il cuore del film, però, è la prova di Sally Hawkins, magnetica nel ruolo di una madre adottiva fragile e disturbata, sospesa tra tenerezza e follia. 
Rispetto a Talk to Me, questo film è meno commerciale e più disordinato. La trama lascia diversi interrogativi – il rituale, ad esempio, è spiegato in modo confuso  con la protagonista che sembra apprenderlo da vecchie videocassette come se stesse vedendo un tutorial su YouTube – ma sul piano emotivo e visivo resta potente. Un horror imperfetto, ma che colpisce per l’intensità del suo disagio.

Film
Horror
Australia
2025
sabato, 12 luglio 2025
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Superman (2025)

di James Gunn

Ho un rapporto piuttosto contrastato con i cinecomic. Da vecchio nerd appassionato e collezionista di fumetti, in principio li amavo. Poi è arrivata una crisi di rigetto. Hanno cominciato a stancarmi, a sembrarmi tutti uguali, e ho finito per detestarli.
Superman, tra l’altro, non è mai stato il mio supereroe preferito. Se restiamo in casa DC Comics, il mio cuore è sempre appartenuto a Batman. Eppure Superman, forse perché è stato il primo supereroe della storia dei fumetti moderni, resta il supereroe per antonomasia. Un’icona culturale globale, riconoscibile ovunque, come la Coca-Cola o il volto di Marilyn Monroe.
Sul grande schermo, almeno per quelli della generazione X, Superman ha il volto inconfondibile di Christopher Reeve. Le versioni più recenti firmate da Zack Snyder non mi hanno lasciato molto. Ma oggi c’è James Gunn, regista capace di mescolare ironia, azione, empatia e visione pop. È a lui che la Warner ha affidato non solo il reboot di Superman, ma l’intero rilancio dell’universo DC. Questo Superman è il primo passo.
Spinto dalla curiosità — e anche da mio figlio, che con l’incanto tipico dell’infanzia sta iniziando a lasciarsi alle spalle i cartoni per scoprire un altro tipo di racconto — sono tornato in sala.

La storia la conosciamo tutti, ed è forse proprio per questo che Gunn decide di saltare le origini del personaggio ed entrare subito nel vivo dell’azione. Superman (David Corenswet) è già attivo da tre anni, in un mondo affollato di metaumani, mostri e tecnologie avanzatissime. Dopo essere intervenuto nel conflitto tra Boravia e Jarhanpur, viene sconfitto da una gigantesca creatura meccanizzata e salvato dal supercane Krypto, che lo trascina nella Fortezza della Solitudine.
Dietro l’attacco c’è Lex Luthor (Nicholas Hoult), magnate spregiudicato che manipola la verità per i propri scopi, diffondendo l’idea che Superman sia stato inviato sulla Terra non per proteggerla, ma per dominarla. Mentre Lois Lane (Rachel Brosnahan) e Jimmy Olsen (Skyler Gisondo) cercano di fare luce sulla verità, una squadra di metaumani – la Justice Gang, composta da Mr. Terrific (Edi Gathegi), Hawkgirl (Isabela Merced) e Lanterna Verde (Nathan Fillion) – cerca di capire da che parte stare.

Il Superman di Gunn è lontano dall’eroe infallibile e muscolare a cui siamo abituati. È vulnerabile, idealista, perfino goffo con quel costume retrò. Non incarna l’America, ma l’umanità intera. Forse è proprio per questo che viene visto con sospetto, come un corpo estraneo, un immigrato, un alieno in tutti i sensi. Lex Luthor — qui un tecno-capitalista modellato su Elon Musk — non solo guida una campagna diffamatoria per screditarlo, (utilizzando un esercito di scimmie addestrate per generare commenti e hashtag di odio contro di lui), ma fornisce l'aiuto militare e tecnologico alla Bovaria e al suo sanguinario dittatore. Inutile giraci intorno, il conflitto tra Boravia e Jarhanpur, più che la guerra tra Russia e Ucraina, richiama con forza la situazione israelo-palestinese, con Superman che sceglie di schierarsi con i più deboli. Che un blockbuster hollywoodiano prenda una posizione così chiara è raro. Gunn lo fa senza retorica, lasciando parlare le immagini e i personaggi.

Ma Superman è anche — e soprattutto — una giostra visiva travolgente. Un film pieno di colori, azione, mostri colossali, battaglie epiche e distruzioni spettacolari. Bellissimo il piano sequenza dell’assalto di Mr. Terrific a una base militare.
È probabilmente il film più "marveliano" della DC.  Un cinecomic pop, accessibile, ricco di idee, ma con una propria identità. Ogni personaggio è trattato con attenzione. Finalmente abbiamo una Lois Lane pensante: Rachel Brosnahan è perfetta nel ruolo, audace, pragmatica, mai in ombra. Memorabile la scena in cui chiede un’intervista a Superman e lui, impacciato, finisce quasi per “prenderle” dalla donna che ama.
Lex Luthor è un villain semplice ma efficace, radicato nel nostro presente. Ossessionato dal potere, dall’immagine, da una tecnologia usata come mezzo di controllo, senza scrupoli etici.
Anche i personaggi secondari trovano tutti un momento di rilievo. Qualcuno sfiora la macchietta — come la spasimante di Jimmy Olsen che gli passa informazioni in cambio di attenzioni — ma in un racconto così ampio sono dettagli trascurabili.

Superman non è un film perfetto, alcune situazioni si ripetono, certi passaggi sono ridondanti. Ma è un cinecomic riuscito, che diverte, emoziona e fa riflettere. Parla di identità, appartenenza, famiglia. E di un alieno che, paradossalmente, si rivela più umano degli umani.
James Gunn ha fatto centro. È riuscito a restituire anima e attualità a un simbolo che sembrava ormai superato.

Film
Fantastico
Azione
cinecomic
USA
2025
Cinema
venerdì, 11 luglio 2025
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Giornata nera per l'ariete

di Luigi Bazzoni

Nei primi anni settanta, sulla scia del Dario Argento di quegli anni e del giallo all’italiana, Luigi Bazzoni, regista poco conosciuto al publico ma dotato di un’impronta stilistica unica, quasi autoriale, firma Giornata nera per l’ariete, un film che mescola l’eleganza visiva a un'atmosfera morbosa e carica di suspense.

Andrea Bild (Franco Nero) è un giornalista alcolizzato e tormentato, coinvolto suo malgrado in una serie di inquietanti omicidi che scuotono un gruppo di colleghi di una scuola internazionale. Mentre cerca di fare luce su questi crimini, sempre più persone legate al suo passato e al suo presente vengono aggredite o uccise, e Andrea si trova a lottare contro i suoi demoni personali e contro il sospetto che lo circonda. Tra rapporti ambigui e verità nascoste, l’indagine si trasforma in un percorso oscuro e destabilizzante che lo conduce davanti all'assassino, in procinto di compiere il suo quinto delitto.

Giornata nera per l’ariete non brilla certo per la solidità della trama. La vicenda è piuttosto prevedibile, a tratti confusa, e qua e là presenta evidenti buchi di sceneggiatura. Tuttavia, il film riesce comunque a distinguersi grazie a una regia sorprendentemente raffinata. Luigi Bazzoni mostra una cura estetica rara per il genere, facendo largo uso di grandangoli distorcenti, composizioni geometriche e movimenti di macchina eleganti. Superlativa la fotografia di Vittorio Storaro, che regala inquadrature capaci di imprimere al film un’identità visiva forte e riconoscibile. Anche la colonna sonora firmata da Ennio Morricone – discreta ma insinuante – accompagna con efficacia l’evolversi della tensione, mentre le location suburbane romane (alcune parecchio familiari) restituiscono la sensazione di un paesaggio urbano sospeso tra modernità alienante e memoria decadente. Il cast è variegato e funziona nel complesso bene. Franco Nero regge il film nonostante la sua monoespressività, affiancato da Silvia Monti, Agostina Belli, Ira von Fürstenberg, Pamela Tiffin, Edmund Purdom e Rossella Falk, ognuno con un ruolo che contribuisce a costruire quella rete di relazioni ambigue che alimenta il mistero. Il ritmo non è forsennato – anzi, a tratti risulta lento – ma l’atmosfera è sempre densa, carica di sospetto e angoscia.
Giornata nera per l’ariete è un giallo atipico, più interessato alla forma che all’intreccio, e proprio per questo capace di affascinare chi cerca nel cinema di genere una certa eleganza stilistica. Un film imperfetto, ma visivamente parecchio interessante, che trasuda anni settanta in ogni fotogramma e che saprà farsi apprezzare dagli estimatori più curiosi del giallo all’italiana.

Film
Thriller
Giallo
Italia
1971
giovedì, 10 luglio 2025
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Il signor Diavolo

di Pupi Avati

Nel 2019, Pupi Avati – maestro del cinema italiano da sempre attratto dai territori ambigui dell’occulto e della memoria, come dimostrano La casa dalle finestre che ridono e L’arcano incantatore – torna al genere che meglio gli appartiene con Il signor Diavolo, un horror rurale che affonda le radici nella tradizione del gotico padano. Con la sua consueta sensibilità per l’inquietudine quotidiana, Avati ci porta in una provincia veneta cattolicissima, sospesa tra fede cieca e superstizione popolare.

La storia è ambientata nell’autunno del 1952, in una frazione lagunare del Veneto. Un giovane funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia (Gabriele Lo Giudice) viene inviato da Roma per indagare su un caso delicatissimo: un ragazzo di quattordici anni, Carlo Mongiorgi, ha ucciso un coetaneo, Emilio Vestri Musy, sostenendo che fosse “il Diavolo in persona”. Il caso rischia di mettere in imbarazzo la Democrazia Cristiana, il partito politico che all’epoca era alla guida del paese e molto legato alla chiesa cattolica. Attraverso una serie di flashback e testimonianze, si ricostruisce un mondo dominato da fanatismo, pregiudizio e paure ataviche. Emilio, figlio di una famiglia influente, viene descritto come una creatura disturbante, con denti animaleschi e un comportamento inquietante, al punto da essere temuto dai suoi stessi compagni di catechismo. La figura del “bambino-demonio” nasce dall’immaginario collettivo, alimentata da una religiosità più vicina al terrore che alla speranza. L’indagine, presto, si trasforma in un viaggio sempre più incerto, in cui razionalità e superstizione si confondono, e il male sembra potersi manifestare in forme del tutto ordinarie.

Il signor Diavolo è un film che lascia sensazioni ambivalenti. Girato con mezzi limitati, presenta una fotografia desaturata, dominata da toni marroni, che restituisce un certo sapore d’epoca ma finisce per appiattire l’immagine. Il sonoro è debole, con dialoghi spesso sussurrati e difficili da seguire, mentre la messa in scena richiama per ritmo e impostazione quella degli sceneggiati della RAI. A questo si aggiungono un protagonista poco carismatico, una sceneggiatura discontinua e un finale un pò troppo sbrigativo.
Eppure, nonostante i limiti, il film ha quel sapore nostalgico apprezzato dagli amanti del cinema del passato. I riferimenti storici sono ben calibrati e restituiscono un’Italia del dopoguerra ancora profondamente immersa nella religione, dove politica e fede si intrecciano fino a diventare indistinguibili. Le location agresti – campi brulli, chiese isolate, canoniche polverose – sono perfettamente in linea con l’estetica avatiana e contribuiscono a creare un’atmosfera autentica, carica di inquietudine.
Il cast, almeno quello composto da volti noti del cinema di Avati come Gianni Cavina, Lino Capolicchio e Alessandro Haber, offre interpretazioni capaci di compensare le prove anonime e fastidiosamente sussurrate dei giovani attori. Da segnalare anche la buona prova di Chiara Caselli nel ruolo della madre di Emilio, figura ambigua e carica di tensione.

Più che spaventare, Il signor Diavolo lavora sulla suggestione, sul non detto, sull’idea che il male possa annidarsi nelle pieghe più banali della realtà. È un film nostalgico, forse anche un po’ autocelebrativo, ma elegante e coerente con il percorso autoriale di Avati. Un'opera che guarda a un’Italia scomparsa, ma ancora capace di farci tremare, se solo sappiamo ascoltarne i fantasmi.

Film
Horror
Italia
2019
mercoledì, 9 luglio 2025
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You'll Never Find Me - Nessuna via d'uscita

di Josiah Allen, Indianna Bell

A distanza di due anni dalla sua uscita originale, arriva in Italia You’ll Never Find Me – Nessuna via d’uscita, thriller horror australiano firmato da Josiah Allen e Indianna Bell, qui al loro debutto alla regia di un lungometraggio. Il film è un piccolo esperimento di tensione claustrofobica, ambientato in un’unica location (una roulotte), con due soli attori e una lunga, lunga notte da attraversare.

La storia si svolge durante una notte tempestosa. All’interno di una grande roulotte, parcheggiata in un’area desolata, Patrick (Brendan Rock), uomo solitario e non proprio il tipo da aperitivo con gli amici, viene disturbato da colpi insistenti alla porta. Fuori c’è una ragazza (Jordan Cowan), scalza, fradicia e visibilmente scossa, che chiede di poter fare una telefonata e magari ottenere un passaggio per tornare in città. Lui non ha il telefono, né l’auto, ma le offre ospitalità fino a quando il temporale non sarà passato. Tra reciproca diffidenza e inquietudine, i due iniziano a parlarsi, in un clima che si fa via via più misterioso e carico di tensione.

Il film gioca molto sull'ambiguità e su chi dei due sia davvero in pericolo. La giovane senza nome è vittima o manipolatrice? E Patrick è solo un tipo bizzarro o qualcosa di molto peggio? Nessuno dei due sembra dire tutta la verità, e più parlano, più cresce la sensazione che entrambi abbiano parecchio da nascondere. Le contraddizioni abbondano, i racconti non tornano, e lo spettatore si ritrova intrappolato in un gioco psicologico dove ogni gesto è potenzialmente una minaccia.
La regia lavora benissimo sul non detto, sulle attese e sui silenzi, con inquadrature di porte e tende che fanno presagire presenze nascoste e pericoli in agguato. Il sound design fa il resto: la pioggia incessante, i tuoni, il vento, gli scricchiolii della roulotte diventano parte integrante della tensione, quasi fossero altri personaggi nella scena.
Il film, nonostante i tempi dilatati, tiene lo spettatore incollato fino all’ultima mezz'ora, quando i ruoli si chiariscono, le maschere cadono – o almeno così sembra – e il thriller psicologico si trasforma in un vero e proprio horror allucinato. Il finale, pur non essendo un colpo di scena memorabile, è gestito con mestiere e riesce a chiudere il cerchio con un tocco disturbante, tra sensi di colpa, giochi mentali e incubi psicotici.

Nel complesso You’ll Never Find Me è un piccolo (di budget) film costruito sull’atmosfera e sull’ambiguità. Certo, il finale potrà sembrare un po’ prevedibile e forse anche confusionario, ma la tensione c’è, e tiene. Se vi piacciono le storie claustrofobiche, giocate sul filo della paranoia e della suggestione, questo è un titolo che merita una visione. Magari in una notte di pioggia.

Film
Thriller
Horror
Australia
2023
lunedì, 7 luglio 2025
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Sinister

di Scott Derrickson

Sinister non lo avevo ancora visto. Ne avevo sempre sentito parlare bene e, da amante dei film horror, lo avevo in lista da tempo. Alla regia c’è Scott Derrickson, giovane regista americano conosciuto per L'Esorcismo di Emily Rose ma anche per aver diretto il marvelmovie Doctor Strange, e il più recente Black Phone. Pare che l’idea per Sinister sia venuta allo sceneggiatore Christopher Robert Cargill dopo aver visto il The Ring americano. Ma la cosa più curiosa è un’altra: secondo un esperimento chiamato "Science of Scare" – in cui un gruppo di volontari ha guardato film horror con il cardiofrequenzimetro al polso – Sinister risulterebbe il film più spaventoso di tutti i tempi. Almeno secondo la scienza.

Protagonista del film è Ellison Oswalt (Ethan Hawke), scrittore di true crime in crisi creativa. Alla ricerca di ispirazione, si trasferisce con la famiglia nella casa dove è avvenuto un brutale omicidio, sperando di ricavarne materiale per il suo prossimo libro. In soffitta trova una scatola con vecchie pellicole Super 8 apparentemente innocue. Ma una volta proiettate, rivelano una serie di efferati omicidi familiari, ciascuno accompagnato da un sottofondo disturbante e da una presenza enigmatica. Indagando, Ellison scopre un antico culto legato alla figura del Bughuul, un’entità demoniaca che si nutre dell’anima dei bambini.

Sinister è un horror decisamente riuscito. Non ha nulla di particolarmente originale, sia chiaro, ma il risultato funziona. L’idea di base è quella del ritrovamento di vecchie pellicole in super 8, degli snuff movies che documentano con glaciale freddezza una serie di omicidi familiari avvenuti in epoche e luoghi diversi. In comune hanno tutti due elementi: il figlio più piccolo sparisce sempre, e in un angolo dell’inquadratura – sfocato, riflesso, seminascosto – si intravede un volto inquietante. Il nostro protagonista, convinto di aver trovato del materiale valido per scrivere il suo nuovo bestseller, comincia a guardare i filmini compulsivamente, entrando in una spirale paranoica. Più analizza, più le immagini lo ossessionano. Finché le cose iniziano a prendere una piega pericolosamente reale: quei filmini non sono solo testimonianze di omicidi, ma veri e propri strumenti per evocare Bughuul.
A un certo punto ho messo in pausa il film per prendere un gelato dal frigo (Antò, fa caldo), e neanche a farlo apposta l'ho fermato nel frame in cui appare la faccia del demone. Esperienza metafilmica al limite dell’inquietante. Detto ciò, Bughuul non è proprio il mostro più spaventoso che si sia mai visto. Ha un’estetica un po’ death metal – sembra il frontman di una band norvegese – e non ha il carisma visivo dei grandi boogeyman dell’horror. Però l’idea che possa esistere solo se “visto”, se la sua immagine viene trovata e guardata, è interessante e aggiunge un bel livello di paranoia.
Originale o no, il film è ben costruito e Derrickson sa esattamente cosa fare. L’atmosfera è cupa, disturbante, avvolgente. Niente jump scare a raffica, qui la tensione arriva nei modi più sottili – un’inquadratura troppo silenziosa, un’ombra che si muove appena, il suono della pellicola che gira da sola nel buio.
La storia regge, il finale funziona (e non è scontato), ed Ethan Hawke regge bene il ruolo. Peccato per il resto del cast: la moglie sembra una comparsa in vacanza, i figli sono ritagliati con lo stampino, e il vicesceriffo è lì solo per fare da spalla. Anche i bambini fantasma, forse per via del trucco un po' posticcio, non fanno tutto questa gran paura.

Ma dove Sinister colpisce davvero è nel suono. Il montaggio sonoro è fondamentale per costruire la tensione, e la colonna sonora di Christopher Young è una delle più interessanti sentite negli ultimi anni. Tra rumori industriali e inserti ambient, ci sono brani degli Ulver, Aghast e persino dei Boards of Canada che aumentano il senso di isolamento e claustrofobia come un macigno sulla schiena.

Film
Horror
USA
2012
giovedì, 3 luglio 2025
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Il dormiglione

di Woody Allen

Il dormiglione (Sleeper, in originale) è uno dei titoli più divertenti della prima fase creativa di Woody Allen, quella in cui il regista era ancora fortemente ispirato dalla slapstick comedy più esuberante, ispirato alla comicità visiva e fisica di maestri come Buster Keaton e Charlie Chaplin. Co-sceneggiato con il fido Marshall Brickman, il film è una parodia fantascientifica che prende in giro i cliché distopici e futuribili del genere, con leggerezza anarchica e ritmo sincopato. 

Woody Allen interpreta un vegetariano suonatore di jazz che, dopo esser stato ricoverato per una semplice ulcera, viene ibernato negli anni '70 e risvegliato due secoli dopo in un futuro ipertecnologico e totalitario. L’America del 2173 è governata da un regime oppressivo che controlla ogni aspetto della vita dei cittadini, e il nostro protagonista — del tutto spaesato — si ritrova suo malgrado coinvolto in una rivolta sotterranea contro il sistema. Travestimenti improbabili, robot servizievoli, cibo in pillole e marchingegni per il piacere sessuale sono solo alcune delle tappe assurde di questa fuga surreale, durante la quale l’uomo finirà per innamorarsi di Luna (Diane Keaton), un’artista svampita che vive immersa in un mondo finto e anestetizzato.

Prima ancora della psicanalisi e delle nevrosi da salotto, Woody Allen affida tutto al corpo, al nonsense, alla mimica più sfrenata, inanellando una dopo l'altra gag deliranti e situazioni paradossali. La trama? Un puro pretesto. Un filo conduttore labile, utile solo a tenere insieme una giostra di trovate comiche, travestimenti improbabili e improvvise virate nel surreale.
Eppure, sotto la superficie scanzonata, si intravede una satira politica ben più consapevole di quanto sembri. Il film riprende lo spirito dissacrante di Bananas, ma lo proietta avanti nel tempo, verso un futuro distopico che è in realtà lo specchio deformante del presente. Il potere è sempre più astratto, la società sempre più omologata, il benessere sempre più finto. Allen guarda al domani con il cinismo disilluso degli anni ’70, servendosi di una narrazione anarchica e caotica proprio per ridicolizzare ogni forma di controllo.
Visivamente, Il dormiglione è una festa retrofuturista: architetture sinuose, design curvilineo, plastica ovunque, oggetti di scena che sembrano usciti da un sogno psichedelico sponsorizzato dalla NASA. E a dare ritmo a tutto c’è la colonna sonora jazzata, brillante, eseguita dallo stesso Allen al clarinetto insieme alla sua band: un tappeto sonoro ironico e svagato, perfettamente funzionale al tono generale.

Il dormiglione non sarà il suo film più riuscito, ma resta una commedia vivace e piena di inventiva, che — se la si prende per quello che è — può ancora divertire con la sua leggerezza anarchica e quel sorriso da cartoon anni trenta incollato in faccia al futuro.

Film
Commedia
Fantascienza
USA
1973
mercoledì, 2 luglio 2025
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Linoleum

di Colin West

Un razzo in giardino, una replica di sé che irrompe nella quotidianità, un universo che si piega lentamente su se stesso. Linoleum è un film che fonde con intelligenza commedia surreale, dramma familiare e fantascienza. Colin West, regista e sceneggiatore, firma una pellicola bizzarra e particolare, tanto intima quanto ambiziosa, che merita un posto nelle orbite degli spettatori più curiosi.

Cameron Edwin (Jim Gaffigan) è il pacato conduttore di un programma scientifico per bambini, ormai dimenticato e relegato a orari improbabili. La sua vita sembra sgretolarsi giorno dopo giorno: il matrimonio con Erin (Rhea Seehorn) è in crisi, il rapporto con la figlia Nora (Katelyn Nacon) si logora tra silenzi e distanze, il lavoro non offre alcuna gratificazione. Finché un satellite non precipita nel suo cortile. Da quel momento, Cameron decide di costruire un razzo nel garage, convinto che l’unico modo per ritrovare sé stesso sia quello di diventare un astronauta e raggiungere le stelle.

Linoleum è un film indipendente che in parte potrebbe ricordare – con le dovute cautele – titoli come Sto pensando di finirla qui o Donnie Darko. Colin West costruisce un mondo che sembra familiare ma sfugge continuamente tra le dita, disseminando lungo la narrazione piccoli elementi anomali che inizialmente paiono marginali, ma che con il progredire della storia acquisiscono un significato sempre più profondo. Dietro le riflessioni su carriere mancate, rimpianti mai risolti e una storia d’amore adolescenziale, si insinua lentamente l’impressione che ci sia qualcosa di più. Un velo. Un codice nascosto sotto la superficie.
Ci vogliono oltre settanta minuti per iniziare a intuire davvero dove stia andando a parare il film, probabilmente troppi, ed è qui che si concentra uno dei suoi limiti più evidenti. Molte delle intuizioni più riuscite sono concentrate negli ultimi dieci minuti, quando realtà e fantasia finalmente si fondono e quella normalità punteggiata di stranezze trova un senso compiuto. È un finale che getta una luce nuova su tutto ciò che abbiamo visto fino a quel momento, e che invita, quasi obbliga, a rivedere il film con occhi diversi.
Io personalmente avrei preferito che il film abbracciasse il suo lato più weird fin dall’inizio, lasciandosi andare fin da subito a quella deriva surreale che poi, quando arriva, risulta un pò tardiva.

Linoleum è un film che non riesce a decollare davvero, ma che ha il coraggio di puntare in alto. E anche solo per questo, merita di essere visto.

Film
Commedia
Fantascienza
USA
2022
martedì, 1 luglio 2025
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Il posto delle fragole

di Ingmar Bergman

Scrivere qualcosa su un film di Ingmar Bergman, mi da sempre una sensazione di inadeguatezza. Se il film in questione è Il posto delle fragole, la soggezione cresce ancora di più.
Senza elencare tutti i premi e i riconoscimenti (li potete trovare facilmente su Wikipedia), dirò solo che Il posto delle fragole è un capolavoro senza tempo. Un’opera intima e introspettiva che cattura quel momento fragile della vita in cui si compie un bilancio esistenziale, si guarda indietro e si cerca di mettere ordine al disordine. Un poema visivo che mescola dolcezza e malinconia, sogno e realtà, vita e presagio di morte. Nulla è mai perduto e Bergman ce lo insegna.

Il professor Isak Borg (Victor Sjöström), medico in pensione, deve recarsi a Lund per ricevere un prestigioso riconoscimento accademico. Invece di prendere l’aereo, decide di affrontare il viaggio in auto, insieme alla nuora Marianne (Ingrid Thulin). Quello che inizia come un semplice tragitto si trasforma presto in un pellegrinaggio interiore: lungo la strada, Isak rivive sogni, ricordi d'infanzia e incontri simbolici che lo costringono a fare i conti con se stesso, con le sue scelte, con l’aridità emotiva che ha lasciato dietro di sé. Tra una sosta e l’altra — una casa che non c’è più, tre giovani autostoppisti, una coppia che litiga — il viaggio si fa via via più onirico e personale, fino a diventare una resa dei conti con la propria memoria. E in fondo, forse, anche una timida riconciliazione col passato.

Nonostante i simbolismi, presenti come in tutti i film di Bergman, Il posto delle fragole è uno dei suoi film più accessibili, forse uno dei più lirici, delicati e coinvolgenti. 
E' un viaggio on the road alla ricerca del tempo perduto, un viaggio interiore tra sogni inquieti, ricordi sbiaditi, persone amate e perdute.
L'incubo iniziale è magistrale. Un incubo, avuto la notte prima di partire, in cui il nostro protagonista vaga in una città silenziosa, deserta e illuminata, dove il tempo ha smesso di funzionare. L'orologio sul lampione è privo di lancette così come il suo orologio da tasca. Si sente un tichiettio rimbombante - e nella mia testa subito echeggia Times di pinkfloidiana memoria. Compare un uomo con un cappello di spalle. Quando si volta l'uomo, senza occhi né bocca, cade a terra afflosciandosi su se stesso. Poi, in un’atmosfera irreale, un carro funebre trainato da due cavalli, senza alcun cocchiere si schianta contro un lampione, rovesciando una bara sul selciato. Quando Borg si china per esaminare la bara aperta, una mano lo afferra tirandolo a sé, riconoscendo nel volto del morto il proprio volto. Più tardi, durante il viaggio, Borg confiderà alla nuora che da qualche tempo fa sogni strani, come se volesse dire a se stesso qualcosa che non vuole ascoltare da sveglio. Che è morto pur essendo vivo.
Il protagonista, interpretato dal leggendario Victor Sjöström (regista del capolavoro Il carretto fantasma, che Bergman considerava un mentore), è un anziano medico in pensione, chiuso in una corazza di buone maniere e misantropia. Una sorta di Scrooge dickensiano, ma più trattenuto ed educato.  Il suo nome, "Isak Borg", tradotto dallo svedese può suonare come “fortezza di ghiaccio” e condivide le iniziali con lo stesso Bergman. Ma il regista ha dichiarato più volte che Borg non è un suo alter ego, bensì un ritratto del padre. Un uomo freddo, distante, che ha sacrificato il contatto umano in nome di un’immagine rassicurante di sé. La nuora, personaggio bellissimo e sfumato, lo inchioda fin da subito: “un egoista che si nasconde dietro la sua bonarietà e i suoi modi raffinati.”

Il viaggio da Stoccolma a Lund è solo un pretesto per raccontare una vita intera. In ogni sosta, Borg incontra qualcosa che lo riguarda: la giovinezza perduta, l’amore non vissuto, il rancore che ha lasciato crescere nei rapporti familiari, la madre che è ancora viva ma più fredda di lui, il figlio Evald bloccato tra il cinismo e una tristezza trattenuta.

Ma il film non è un funerale. È un gesto di riconciliazione. La parabola di Isak è quella di un uomo che si guarda finalmente allo specchio, senza schermi. Scopre di essere ancora vivo. Scopre che la maschera che ha indossato per tutta la vita non era una protezione, ma una prigione. E che forse, alla fine, si può ancora sussurrare una parola gentile, regalare un gesto di tenerezza, lasciare uno spiraglio aperto.

Il finale è pieno di grazia. Isak conversa con la governante, quella figura ruvida e amorevole che gli è rimasta accanto come un’ombra fedele. Lei gli dice, con un sorriso: "Lascio la porta socchiusa. Se ha bisogno di qualcosa, sa dove trovarmi". E forse è lì, in quella frase semplice, che il professor Borg trova finalmente il suo posto delle fragole: un luogo non reale, ma emotivo. Un angolo della memoria in cui poter riposare, senza più difese.

Girato in un bianco e nero straordinario che esalta i contrasti e la densità degli spazi, Il posto delle fragole è diretto con mano magistrale, scritto con delicatezza e lucidità, interpretato con una profondità rara.
Un capolavoro che riesce a essere profondo con leggerezza.
Da rivedere a distanza di anni.

Film
Drammatico
Svezia
1957
Retrospettiva
venerdì, 27 giugno 2025
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La maschera di cera (1933)

di Michael Curtiz

La maschera di cera, in originale Mystery of the Wax Museum, è uno dei primi film a colori della storia del cinema. La tecnica usata è il Technicolor a due colori, che riproduceva solo una gamma limitata di tonalità, combinando rosso e verde ma escludendo il blu. Il risultato è una palette cromatica calda e innaturale, spesso con una dominante rosso-marrone o verdognola. Una resa pittorica e surreale, perfetta per l’atmosfera gotica e inquietante del racconto.

Diretto da Michael Curtiz, regista ungherese trapiantato negli Stati Uniti e noto soprattutto per Casablanca, il film è prodotto dalla Warner Bros. e si ispira a un’opera teatrale mai realizzata.

Nel cuore di una tetra Londra ottocentesca, l’artista Igor (Lionel Atwill) scolpisce statue di cera talmente realistiche da sembrare vive. Tra le sue opere più ammirate ci sono Voltaire, Giovanna d’Arco e Maria Antonietta, ma l’attività non rende e il suo socio decide di incassare l’assicurazione appiccando un incendio. Il museo va distrutto e Igor, nel tentativo di salvare le sue creazioni, resta orrendamente sfigurato.
Anni dopo, nella New York del 1933, Igor riappare con un nuovo museo delle cere, specializzato in rappresentazioni macabre e morbose. Quando iniziano a sparire cadaveri dall’obitorio cittadino, la giovane giornalista Florence (Glenda Farrell) nota una somiglianza inquietante tra le nuove statue e le vittime scomparse. Decisa a scoprire la verità, si troverà di fronte a un orrore ben più tangibile della semplice cera.

I musei delle cere hanno sempre avuto qualcosa di inquietante. Statue immobili con occhi vitrei, sorrisi congelati e dettagli morbosamente realistici si prestano bene ad alimentare quella sottile linea tra il vivo e il morto, tra l’arte e il perturbante. La maschera di cera del 1933 è uno dei primi film a giocare con questo tipo di fascinazione (non il primo in assoluto — Il gabinetto delle figure di cera di Paul Leni lo aveva anticipato di quasi un decennio), e lo fa con eleganza gotica e scenografie che rimandano all’espressionismo tedesco.
Più che un horror, il film è un melodramma macabro con punte grottesche e una forte vena ironica. Merito soprattutto della giornalista Florence, interpretata da una frizzante Glenda Farrell, più interessata allo scoop del secolo che alla verità metafisica. Le sue battute ("l’amore è bello, ma solo se ha un conto in banca") sono fulminanti, ciniche e per certi versi ancora attualissime. Le scene davvero inquietanti si concentrano nel finale, ma è l’atmosfera, più che la paura, a dominare il racconto.

Vent’anni dopo, Vincent Price avrebbe reso la storia ancora più sinistra, in un remake che riprende quasi alla lettera dialoghi e sceneggiatura del film di Curtiz.

Film
Horror
Thriller
USA
1933
mercoledì, 25 giugno 2025
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Sabotatori

di Alfred Hitchcock

Certo, rivedendo i film di Alfred Hitchcock uno dopo l'altro, salta subito all’occhio il canovaccio che il regista inglese amava intrecciare nelle sue storie. Un tizio qualunque finisce nei guai per colpa di un evento più grande di lui, viene scambiato per colpevole, scappa, cerca di dimostrare la propria innocenza e, nel frattempo, si ritrova invischiato in un complotto. Ah, dimenticavo, ovviamente lungo la fuga incontra una bella ragazza che prima non gli crede, poi cambia idea e, inevitabilmente, si innamora di lui.
È il caso di Sabotatori, film del 1942, che rientra perfettamente in questo schema ma riesce comunque a rimescolarlo con energia e ritmo.

Barry Kane (Robert Cummings), operaio in una fabbrica di aeroplani in California, viene ingiustamente accusato di aver causato l'esplosione che ha ucciso il suo amico. Pur consapevole di essere stato incastrato, capisce che il vero responsabile è un certo Frank Fry (Norman Lloyd), e decide di fuggire dalla polizia per incastrarlo e provare la propria innocenza. Lungo la fuga, Barry attraversa gli Stati Uniti, dai deserti dell’Ovest fino a New York, raccogliendo alleanze insospettabili — un simpatico camionista, un vecchio cieco e sua nipote, Pat  Martin (Priscilla Lane), inizialmente diffidente ma poi convinta della sua innocenza e disposta ad aiutarlo.
Ben presto Barry scopre l’esistenza di una rete di spie naziste ben radicate nella società americana, decise a portare avanti un piano di sabotaggio su larga scala.

Sicuramente Sabotatori non è tra i migliori film di Alfred Hitchcock — e a quanto pare, nemmeno il maestro del brivido ne era particolarmente entusiasta. La sceneggiatura è piuttosto confusa e a tratti forzata, e i due attori protagonisti, imposti dalla Universal (che per la prima volta produceva un suo film), non hanno quell’alchimia che spesso accompagna le coppie hitchcockiane più riuscite.
Inoltre, l'aspetto propagandistico è fortemente marcato — gli Stati Uniti erano alle soglie dell’ingresso nella Seconda guerra mondiale — e oggi il messaggio retorico dell'America come patria della libertà e baluardo della democrazia contro le forze del male suona piuttosto fastidioso, se non addirittura indigesto. 
Nonostante tutto, il film non è privo di fascino. L’intreccio, pur con qualche deviazione non sempre necessaria, ha un suo ritmo, e Hitchcock riesce comunque a incastonare alcune scene davvero interessanti, come quella nella casa del vecchio cieco, l’episodio sul treno con i freaks da fiera, e soprattutto l’iconico finale sulla Statua della Libertà, entrato a buon diritto nella storia del cinema.
Da segnalare anche il primo ruolo importante per Norman Lloyd, perfetto con il suo volto tagliente e l’aria sfuggente. Un cattivo da manuale, che Hitchcock tornerà a utilizzare.
Insomma, Sabotatori è una sorta di prova generale per quello che sarà, anni dopo, il molto più riuscito Intrigo Internazionale. Se questo film è servito a tracciare il sentiero verso capolavori futuri, allora ben venga. 

Film
Thriller
Spionaggio
Alfred Hitchcock
USA
1942
martedì, 24 giugno 2025
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Skinamarink - Il risveglio del male

di Kyle Edward Ball

Skinamarink – Il risveglio del male è un horror decisamente fuori dall’ordinario.
Film d’esordio del canadese Kyle Edward Ball, che si era fatto notare su YouTube con una serie di corti ispirati agli incubi raccontati dai suoi follower, Skinamarink è un’opera che potremmo definire radicalmente sperimentale. Un film che richiede tempo, pazienza e attenzione. Non si preoccupa di spiegare, non cerca di intrattenere nel senso classico del termine, ma punta tutto sull’atmosfera, sull’astrazione e sul non-detto. Diventato virale tramite passaparola sui social, è stato definito da alcuni un viaggio ipnotico nell’inconscio, da altri una prova di resistenza alla noia. Non sorprende che abbia spaccato in due pubblico e critica.

Girato interamente all’interno dell’appartamento in cui il regista è cresciuto, il film restituisce immagini che sembrano provenire da una vecchia VHS sgranata, come se qualcuno avesse lasciato accesa per errore una telecamera in casa. Lunghe inquadrature statiche, spesso decentrate, sfocate, rivolte verso angoli vuoti, su pareti spoglie, soffitti, prese elettriche.

La trama – se così si può chiamare – ruota attorno a due bambini lasciati soli in una grande casa buia. Siamo nel 1995, Kevin, quattro anni, e sua sorella Kaylee, sei anni, si svegliano nel cuore della notte e scoprono che il padre è sparito. Con lui, cominciano a scomparire anche finestre, porte, oggetti quotidiani. Kevin propone di dormire al piano di sotto, davanti alla TV, che trasmette vecchi cartoni animati. Ma al risveglio, la casa è ancora più buia, ancora più vuota. Si sentono rumori inspiegabili, voci distorte, e a un certo punto una sedia appare capovolta sul soffitto. Una presenza invisibile sembra aggirarsi nell’oscurità, durante una notte che non vuole finire mai.

Ball cerca di evocare le paura che tutti, da bambini, abbiamo avuto almeno una volta, quella di svegliarsi nel cuore della notte, da soli, senza genitori, in una casa che improvvisamente ci appare ostile, vuota, e silenziosa. I due bambini protagonisti, Kevin e Kaylee, non ci vengono mai mostrati chiaramente. Sono sagome che attraversano in silenzio l’inquadratura, spesso di spalle. Anche il padre resta una figura indistinta. Lo si sente solo all’inizio, al telefono, raccontare – forse alla madre – di aver portato Kevin in ospedale dopo averlo trovato a terra, sonnambulo, con una ferita alla testa. Ma non vediamo nulla. Tutto si svolge fuori campo, mentre la macchina da presa indugia su dettagli apparentemente insignificanti. E così sarà per tutto il film. Un’ora e quaranta di riprese fisse nella penombra, interrotte soltanto dalla luce fredda del televisore acceso. Ball lavora per sottrazione. Svuota i fotogrammi, dilata il tempo narrativo, elimina quasi del tutto l’azione, creando una tensione fatta di vuoto, attesa e disorientamento. A colmare questa rarefazione visiva interviene il suono: un sound design curatissimo, fatto di fruscii, disturbi elettrici, bisbigli, rumori ovattati che sembrano provenire da un’altra dimensione.
Skinamarink è un film fatto di sensazioni e percezioni. Non racconta, suggerisce. Il significato – sempre che ce ne sia uno preciso – è lasciato completamente allo spettatore, che può interpretarlo come metafora dell’abbandono, sogno febbrile o viaggio nell’inconscio. La casa diventa un limbo, un vuoto sospeso in cui i bambini sembrano prigionieri di un incubo senza uscita.
Vedendolo mi ha ricordato l'atmosfera di Strade Perdute di Lynch, soprattutto nella sua prima parte domestica, ma l'ho collegato anche al romanzo Casa di foglie di Mark Z. Danielewski, con cui condivide quella sensazione disturbante di oppressione e spazio che si piega su se stesso.
Dal punto di vista estetico, il film è affascinante, senza dubbio. Ma una volta capito l’intento – quello di prolungare indefinitamente una tensione quasi astratta, senza mai esplodere in scene realmente spaventose – l’esperienza tende a esaurirsi. Nella scena potenzialmente più paurosa, quella in cui la madre si trova seduta di spalle sul letto, nella penombra. Anche lì, nulla accade davvero.
Skinamarink è un’esperienza, questo sì. Ma forse sarebbe stata più efficace in forma breve. Cento minuti di piani fissi e sussurri in una casa buia sono un esperimento interessante, ma anche una sfida estrema per lo spettatore. 

Film
Horror
Canada
2022
lunedì, 23 giugno 2025
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Vampyros Lesbos

di Jesús Franco

Vampyros Lesbos è un film erotico a tema vampiresco, uno di quei film conosciuti solo dai cinefili più incalliti e da chi si nutre di cinema di genere. Io non l’avevo mai visto, anche perché in Italia non è mai uscito, ma oggi, con un po’ di pazienza, si riesce a recuperare quasi tutto. La copia che ho trovato è in spagnolo con sottotitoli in italiano, leggermente sfasati, ma poco importa, perché la trama e i dialoghi in questo film non sono essenziali.
Vampyros Lesbos è uno dei film più noti di Jesús Franco, regista spagnolo prolifico e anarchico, un outsider che ha lavorato sempre ai margini, tra produzioni a basso costo e un’estetica fatta di erotismo, delirio e fascinazioni morbose. Per anni considerato un autore di film da serie B, è stato in parte riscoperto grazie all’interesse per il cinema trash degli anni settanta e alla stima di registi come Quentin Tarantino, che lo ha citato più volte tra le sue ispirazioni.
Girato tra Istanbul, Berlino e Alicante, Vampyros Lesbos è una rilettura psichedelica, femminile ed erotica del Dracula di Bram Stoker. A incarnare il fascino ipnotico del vampiro è Soledad Miranda, attrice con cui Franco aveva già collaborato in passato. Questo fu uno dei suoi ultimi ruoli, prima di morire in un incidente d’auto pochi mesi dopo, a soli ventisette anni.

Linda (Ewa Strömberg) è una giovane donna che lavora per uno studio legale a Istanbul. Da qualche tempo è tormentata da un sogno ricorrente in cui compare una donna misteriosa, bruna, e sensuale. Lo racconta al suo psicanalista, che liquida tutto come semplici fantasie. Quando Linda accompagna il suo compagno in un night club, riconosce sul palco, in un numero erotico e surreale, proprio la donna dei suoi sogni. Poco dopo, incaricata di occuparsi di un’eredità, Linda viene mandata su un’isola sperduta per incontrare una certa Contessa Nadine Carody (Soledad Miranda), discendente della stirpe di Dracula. Per Linda inizia un lento viaggio nell’abisso, tra eros e incubo, fino a un finale enigmatico che lascia il sospetto che nulla si sia davvero concluso. 

Se si mette da parte la trama, i dialoghi e più di qualche incongruenza narrativa, Vampyros Lesbos riesce pure a catturarti. Il film di Franco più che un vero horror è un viaggio psichedelico e onirico che vive di suggestioni, erotismo e visioni. Il sangue c’è, ma è così acceso da sembrare porporina, quasi a voler dichiarare sin da subito la natura artificiale e teatrale del film. Franco punta tutto sull’atmosfera, sulle scene erotiche e prolungate tra le due protagoniste, sulle scenografie lisergiche e su una colonna sonora magnetica a metà tra il jazz, la lounge e la psichedelia pura. Un film di vampiri senza buio, abbagliante e solare, dove al posto del Dracula gotico e notturno troviamo una contessa lesbica che prende il sole seminuda su una sdraio e si esibisce in locali underground con abiti succinti. Le location turche, con le loro architetture stranianti e le luci irreali, amplificano la sensazione di trovarsi in uno spazio altro, sospeso tra sogno, incubo e allucinazione. Tutto contribuisce a creare un mondo fuori asse, dove ogni gesto sembra rallentato, ipnotico, carico di un erotismo morboso e rituale.
Visto oggi, il film può spiazzare per il ritmo dilatato, per un montaggio a tratti sgangherato, e per l’uso ossessivo dello zoom, ma se ci si lascia trasportare dalle immagini e dalla musica, e non si hanno troppe aspettative in fatto di tensione narrativa o capacità degli attori, Vampyros Lesbos riesce ancora a esercitare un suo fascino.

Film
Horror
Erotico
Vampiri
Spagna
1971
sabato, 21 giugno 2025
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The Sick Man Of Europe

The Sick Man Of Europe

Erano mesi che non postavo una recensione su un disco. Il problema è, almeno nel campo delle novità, che non c'era nulla che attirasse più di tanto la mia attenzione. In quest’epoca di playlist, streaming e marasma di proposte mordi e fuggi, è sempre più difficile rimanere colpiti da qualcosa.
A ridestare il mio interesse ci pensa questo gruppo londinese, The Sick Man Of Europe, il cui album, che porta lo stesso nome, è uscito proprio in questi giorni, anticipato nelle ultime settimane da una manciata di singoli.
The Sick Man of Europe è un termine storicamente associato all’Impero Ottomano, ma che oggi torna utile per descrivere lo stato confusionale del Regno Unito post-Brexit. E la musica di questo disco sembra partite proprio da lì, da un'Europa senza bussola, iperconnessa e disumanizzata.

Il trio – semisconosciuto, avvolto da un alone di mistero, nessuna intervista, pochissime informazioni, solo qualche apparizione live in piccoli club – arriva con un debutto che suona sintetico, minimale, monocromatico, ossessivo nella forma, radicale nel contenuto.
Le influenze sono dichiarate e nobili, una sorta di Joy Division in chiave elettronica con influenze krautrock alla Neu!. Pattern elettronici gelidi e ripetitivi, costruiti su drum machine e tastiere analogiche su cui una voce distaccata, spettrale e filtrata parla del malessere dell’epoca digitale, dell’identità umana, dell’alienazione tecnologica, e della ricerca di un significato nel mondo moderno. A che punto diventiamo obsoleti?
Sono i temi dei primi due brani, Obsolete e Transactional, dal ritmo incalzante e ripetitivo. Sanguine si prende nove minuti per mappare ansie geopolitiche e futuri possibili, mentre Profane Not Profound inchioda l’ascoltatore con un ritornello brutale: "We eat, we bite, we shit. The modern world makes me sick. Let’s destroy it. Si continua con la penetrante Movement, e la meno interessante Acidity Regulator. Chiude tutto I’m Alive, l’unico spiraglio di affermazione vitale in un disco che sembra scritto dentro un server che ha appena acquisito autocoscienza. È la luce fredda di un neon rotto. Ma è luce.

The Sick Man Of Europe è un disco fuori dal tempo, claustrofobico, rigido, a tratti impenetrabile. Ma se si accetta il suo codice, è uno di quei dischi che ti si pianta dentro il cranio. Al momento è il mio disco dell'anno.

https://thesickmanofeurope.bandcamp.com/album/the-sick-man-of-europe

Musica
Post-Punk
Krautrock
UK
2025
venerdì, 20 giugno 2025
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Le notti di Cabiria

di Federico Fellini

Le notti di Cabiria di Federico Fellini è probabilmente il film che ha consacrato Giulietta Masina come una delle attrici più straordinarie del nostro cinema. Un piccolo clown malinconico, fragile ma testardo, che cammina in equilibrio sul bordo di una Roma notturna e disperata. Tra neorealismo e poesia malinconica, il film, girato nel 1957, ha vinto l’Oscar come miglior film straniero, il secondo consecutivo per Fellini dopo La strada, ed è stato scritto a sei mani da Fellini insieme a Ennio Flaiano e Pier Paolo Pasolini.

La storia ha per protagonista una prostituta romana di periferia che si fa chiamare Cabiria (Giulietta Masina), piccola donna fiera e ostinata, abituata a cavarsela da sola tra bordi di strada e sogni a metà. Ingenua ma non stupida, Cabiria attraversa la notte romana in cerca di qualcosa che assomigli all’amore, o almeno a una tregua dalla solitudine. Rischia di essere uccisa da un amico che la deruba, viene umiliata, derisa, illusa, ma ogni volta si rialza, come se il mondo non fosse riuscito a spegnerle del tutto la speranza. Il film segue le sue peregrinazioni tra clienti volgari, attori vanitosi, santoni improbabili e uomini che promettono una vita nuova. Finché, nel finale, anche l’ultima illusione si spezza. Ma Cabiria, ancora una volta, resta in piedi.

Nonostante Fellini fosse già un regista affermato e riconosciuto a livello internazionale, Le notti di Cabiria ebbe diversi problemi di produzione e distribuzione. Il motivo? La protagonista è una prostituta, figura che nel cinema italiano degli anni ’50 era ancora un tabù. Eppure, sarà proprio questa figura marginale e scomoda a regalare al cinema uno dei suoi personaggi femminili più profondi e indimenticabili. Cabiria è interpretata da Giulietta Masina, attrice feticcio e compagna di vita di Fellini, che con la sua mimica candida e quegli occhi sempre sull’orlo delle lacrime, disegna il ritratto di una donna che vive sospesa tra illusione e disincanto. È sola, ingenua, spesso derisa, ma in lei brucia una vitalità indomita. Si rialza sempre, anche quando la vita la schiaccia. Con un sorriso fragile, forse illuso, ma pieno di speranza. Il personaggio di Cabiria era già apparso brevemente ne I vitelloni, ma è qui che prende forma piena, immersa in una Roma notturna e sottoproletaria, resa viva anche grazie ai dialoghi scritti da Pier Paolo Pasolini, che dona al film un realismo crudo e poetico. Cabiria batte il marciapiede insieme ad altre colleghe, ma sotto la corazza ruvida nasconde un animo gentile, il desiderio di essere amata, la voglia di riscatto.
Il film si apre con la scena in cui Cabiria viene buttata nel fiume dal suo fidanzato, che le ruba la borsetta con i risparmi. È l’inizio di un percorso a tappe, una serie di episodi apparentemente slegati, ma uniti dal filo rosso della disillusione. L’incontro con un famoso attore (interpretato da Amedeo Nazzari), l’episodio al santuario del Divino Amore dove, spinta dalla fede popolare, chiede alla Madonna di cambiare vita, e la struggente scena del teatro, dove viene ipnotizzata da un illusionista e si lascia andare davanti al pubblico, rivelando, tra le risate generali, la sua solitudine e il desiderio disperato di amore.

Le notti di Cabiria è un film ancora legato al neorealismo e lontano dal Fellini surreale e onirico, ma capace di fornire un sincero affresco di una donna sbandata, sola, fuori dal tempo e dal centro, eppure tenacemente viva. Un ritratto femminile che commuove senza mai diventare patetico, che graffia senza retorica. Cabiria è l’emblema di chi, nonostante tutto continua a cercare, a credere, a camminare. E quel sorriso finale, tra le lacrime, è una delle immagini più struggenti e luminose della storia del cinema.

Film
Drammatico
Italia
1957
mercoledì, 18 giugno 2025
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Detachment - Il distacco

di Tony Kaye

Film tristi e pessimisti ne ho visti, ma in un’ipotetica classifica questo starebbe sicuramente tra i primi posti. Sto parlando di Detachment - Il distacco, film del del 2011 diretto Tony Kaye, il regista inglese dell'acclamato American History X, nonchè di numerosi documentari e videoclip.

Henry Barthes (Adrien Brody) è un insegnante supplente di letteratura. E' un uomo riservato, disilluso, segnato da un trauma infantile mai elaborato. Il suo mestiere lo porta a cambiare spesso scuola, e ora si ritrova a occuparsi di una classe di un liceo in una periferia americana profondamente degradata, popolata da adolescenti problematici e aggressivi. Cerca, con pacatezza e determinazione, di mantenere sempre una distanza emotiva da colleghi e studenti, come se l’unico modo per sopravvivere fosse non legarsi a nulla. Con alcuni studenti riesce a stabilire un dialogo, con altri solo un fragile equilibrio. In particolare Meredith, una ragazza sensibile e dotata, ma schiacciata da un padre assente e da compagni ostili, trova in lui una figura che non giudica e sembra comprenderla. Parallelamente, Henry si prende cura del nonno malato di demenza, ricoverato in una casa di cura, e salva dalla strada Erica, una prostituta minorenne che accoglie in casa per offrirle protezione e una possibilità, forse, di redenzione. Nel raccontare in prima persona questa parentesi di vita, Henry osserva con lucidità un sistema scolastico in disfacimento, e riflette sulla propria incapacità di connettersi davvero con il prossimo. Il distacco che lo protegge dal dolore è lo stesso che gli impedisce di guarire del tutto.

Come dicevo, un film triste. Tristissimo. Così negativo e privo di speranza da sfiorare quasi il grottesco. Eppure, proprio in quella sua esagerazione, in quel perdersi nel tormento interiore, c’è qualcosa di autentico. Perché esistono persone che trovano rifugio solo nella malinconica solitudine dell’anima, in quella zona d’ombra dove tutto fa male ma almeno non c’è più nulla da perdere.
Adrien Brody interpreta un professore con l’infanzia rubata, un uomo fondamentalmente buono ma devastato da un trauma antico che gli fa rifiutare ogni forma di legame umano. I ricordi riaffiorano come schegge, flashback frammentati, confusi, come foto strappate e rimesse insieme male. E attraverso una sorta di intervista-confessione, disseminata lungo il film, Henry racconta la sua storia, quella di un uomo che cerca di salvare i suoi studenti, quando forse è proprio lui quello che avrebbe più bisogno di essere salvato.
Intorno a lui, un microcosmo di disadattati: ragazzi allo sbando, anime spente, insegnanti ancor più sfiniti e disillusi degli studenti che dovrebbero motivare. Genitori assenti o completamente falliti, incapaci di offrire una guida, spesso specchio del fallimento di un’intera generazione. La scuola non è più un luogo di crescita, ma un ospedale da campo emotivo, dove nessuno guarisce davvero.
Il distacco emotivo che Henry coltiva come forma di autodifesa comincia a incrinarsi non tanto quando una collega gli mostra interesse, ma quando nella sua vita entrano due ragazzine: Erica, giovanissima prostituta segnata da abusi e abbandoni, e Meredith, studentessa introversa con la passione per la fotografia, vittima di bullismo e genitori tossici. La prima guarda Henry con occhi pieni di stupore, di chi da sempre ha subito violenze e maltrattamenti e per la prima volta si trova di fronte qualcuno che si prende cura di lei. Quei gesti, quasi non riesce a interpretarli ma poi diventano così importanti e vitali che non ne può fare a meno.  L’altra gli mostra una ferita che lui conosce fin troppo bene. E sebbene Henry provi a essere una presenza salvifica, finisce per non riuscire a impedire la caduta di chi lo circonda. Solo con Erica, forse, riesce a offrire un contatto reale, un abbraccio che – per quanto silenzioso – sa di vita. In pratica l'unico spiraglio di luce in tutto il film.
Dal punto di vista visivo, Detachment ha un impianto assai straniante, con un montaggio serrato, inquadrature sbilenche, spesso prese dal basso verso l’alto o distorte con lenti grandangolari, camera a mano sempre in movimento. A interrompere la narrazione, brevi animazioni in stop motion realizzate come disegni a gesso su una lavagna, che accompagnano i momenti più simbolici del film, accentuandone il tono da incubo scolastico.
Molto interessante anche la citazione iniziale di Albert Camus, che introduce il tema del distacco come meccanismo di difesa: anestetizzare le emozioni per non sentire il dolore. Efficace anche la citazione finale con La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe, mentre Henry siede in un’aula vuota, tra sedie rovesciate e fogli sparsi. Immagine potente, metafora visiva di un sistema scolastico allo sfascio, incapace di contenere il disagio che lo abita.

Detachment è un film cupo, doloroso, permeato da un profondo disagio esistenziale a tratti quasi sterotipato che può risultare estremamente irritante.  Eppure, se sei nel giusto stato d’animo, se hai lo spleen adatto per lasciarti andare, questo film può  può riuscire anche a conquistarti nel profondo, e magari farti versare più di una lacrima.

Film
Drammatico
USA
2011
martedì, 17 giugno 2025
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Il seme del fico sacro

di Mohammad Rasoulof

Ammetto di non essere mai stato un grande fan del cosiddetto “cinema di denuncia”. Quello che ti sbatte in faccia ingiustizie sociali, repressioni, soprusi. Per natura, preferisco film che parlano al mondo interiore, che scavano dentro, che aprono finestre sull’invisibile, sull’intimo. Però, a volte, anche se cerchi di restare alla finestra, anche se provi a mantenere una distanza di sicurezza, qualcosa ti raggiunge. Ti sfiora, entra in silenzio, e rimane lì dentro in profondità.

A me è successo qualche tempo fa, quando hanno cominciato a circolare i video e le immagini da Teheran, tra il 2022 e il 2023, nei giorni delle proteste esplose dopo la morte di Mahsa Amini. Una studentessa di 22 anni, arrestata dalla polizia perché – si diceva – non indossava correttamente l’hijab. In Iran, il velo è obbligatorio per legge.
Ma quelle proteste non parlavano solo di lei. Parlavano di un malessere che covava da tempo, di una rabbia collettiva che aspettava solo di esplodere. L’Iran è un paese dove chi comanda usa la religione come strumento di controllo. Le leggi non nascono da un confronto democratico, ma da un’interpretazione rigida dell’Islam imposta dall’alto. È un sistema che pretende di regolarti l’esistenza in nome della fede, e che soffoca ogni forma di dissenso. Chi si oppone viene arrestato, condannato, torturato, pestato a sangue. A volte ucciso.
Il velo è solo uno dei tanti simboli di questa repressione. Dietro c’è un sistema che limita le libertà, zittisce le voci scomode, punisce chi non si adegua. Le donne, in particolare, trattate come cittadine di serie B, sono in prima linea in una battaglia per diritti che altrove diamo per scontati. Insieme a loro ci sono studenti, artisti, giornalisti, gente comune. Tutti con la stesso desiderio di poter essere liberi.

Mohammad Rasoulof è uno dei registi iraniani più lucidi e coraggiosi in circolazione. Da anni sotto osservazione da parte del regime, è stato arrestato più volte, condannato al silenzio, privato del passaporto. Il seme del fico sacro è stato girato in segreto, con una troupe ridotta, lontano da occhi indiscreti. Una volta finito, il film è stato fatto uscire illegalmente dal paese, come un messaggio in bottiglia. Pochi giorni prima della sua presentazione a Cannes, Rasoulof è stato condannato a otto anni di carcere. Da allora ha lasciato l’Iran da esule.

La storia ruota attorno a una famiglia borghese iraniana: un padre, una madre, due figlie adolescenti. Iman, il capofamiglia, ha appena ottenuto una promozione a giudice istruttore presso il tribunale rivoluzionario di Teheran. Un incarico prestigioso, che però lo costringe a scelte contro la sua stessa coscienza, come firmare una condanna a morte senza nemmeno poter leggere il fascicolo. Sua moglie Najmeh, pur combattuta, lo sostiene, sperando che questo nuovo ruolo possa portare a una vita migliore. Magari anche a un appartamento più grande. Intanto, fuori da casa loro, esplodono le proteste per la morte di una giovane studentessa. Le figlie, Rezvan e Sana, simpatizzano apertamente con i manifestanti. E il conflitto si sposta dentro le mura di casa. Il confronto generazionale si fa acceso, la tensione cresce. La situazione degenera quando scompare la pistola d’ordinanza di Iman. Un fatto gravissimo, che può costargli la carriera e la reputazione. Lui è convinto che siano state le figlie, forse con la complicità della moglie. Loro negano. Ma lui non sente ragioni. È deciso ad andare fino in fondo. E non tollera più quella che considera una ribellione domestica.

Il seme del fico sacro è un film impegnativo, certo. Lungo, lento, ma mai noioso. È denso di storie, colpi di scena, tensioni. Rasoulof non si nasconde dietro metafore o allegorie, ma va dritto al punto. E mette in scena, attraverso una famiglia, il funzionamento tossico di un intero regime. La violenza istituzionale si riflette nei rapporti più intimi, trasformando perfino la casa in un teatro di controllo e punizione. La denuncia è limpida, e Rasoulof la porta avanti con uno stile asciutto, ma potente. La tensione narrativa è costante, si muove tra l’emotivo e il psicologico, tra il dramma umano e il thriller sottopelle.
Le proteste vengono narrate attraverso un doppio sguardo. Da una parte, quello delle figlie, che hanno assistito al pestaggio di un’amica e seguono sui social i video, veri, dei massacri. Rasoulof li innesta nel film così come sono, sporchi, girati con lo smartphone, nel loro formato verticale tipico di Instagram. Dall’altra, c’è la madre, che cerca di tenere insieme tutto, completamente servile al marito, mentre guarda solo ciò che i telegiornali ufficiali (controllati dal regime) le permettono di vedere. Un racconto su cosa significa davvero vivere sotto una dittatura, e su quanto la verità, oggi, passi anche dai social, dai video, dalle immagini non filtrate. Ne nasce un racconto potente sulle generazioni a confronto, uno spaccato potente e autentico di un paese e di un sistema che opprime, ma anche di persone che resistono e di una nuova generazione che cerca cambiamento e libertà.

Alla luce di quanto sta accadendo in questi giorni, con l’attacco di Israele all’Iran, fa ancora più male pensare che proprio quei giovani che resistono a un regime autoritario vengano ora travolti da un conflitto ancora più grande, schiacciati nel fuoco incrociato dei poteri.

Film
Drammatico
Iran
2024
lunedì, 16 giugno 2025
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L'isola degli zombies

di Victor Halperin

L’isola degli zombies è un horror indipendente del 1932 diretto e prodotto da Victor Halperin. La particolarità di questo film — il cui titolo originale è White Zombie — non sta solo nell’aver ispirato il nome dell’omonima band industrial degli anni novanta capitanata da Rob Zombie (poi regista e produttore horror), ma soprattutto nel fatto che è considerato il primo film a portare gli zombie sul grande schermo.
Attenzione però, non stiamo ancora parlando dei morti viventi famelici e contagiosi che George Romero codificherà ne La notte dei morti viventi. Qui gli zombie sono cadaveri riportati in vita attraverso rituali di magia nera haitiana, utilizzati come forza lavoro, servi docili e senz’anima al servizio di un oscuro maestro voodoo.

La storia racconta le vicende di Madeleine e Neil, una giovane coppia americana sbarcata ad Haiti per sposarsi nella tenuta del facoltoso Charles Beaumont. L'ospitalità di Beaumont però nasconde un’ossessione morbosa per Madeleine che lo porta, pur di averla, a rivolgersi a un sinistro maestro voodoo, il misterioso Legendre (interpretato da un magnetico Bela Lugosi).
Con l’aiuto di un potente veleno, Legendre trasforma la ragazza in una sorta di morta vivente, privandola della volontà ma non della bellezza. Mentre Neil tenta disperatamente di salvarla, scopre un mondo fatto di zombie schiavizzati, piantagioni inquietanti e incantesimi oscuri.

L'isola degli zombies, come molti horror dell’epoca, è fortemente influenzato dall’estetica dell’espressionismo tedesco: ombre nette, atmosfere sinistre, scenografie evocative. La regia di Halperin, pur semplice, sfrutta questi elementi con intelligenza, restituendo un film visivamente affascinante. Certo, siamo ancora agli albori del sonoro, e si sente. La recitazione è teatrale, con gesti melodrammatici e pause enfatiche che oggi fanno sorridere — la grazia con cui Madeleine sviene tra le braccia del suo promesso sposo è quasi esilarante. Bela Lugosi, reduce dal successo di Dracula, ruba la scena con la sua presenza inquietante. La sua interpretazione è così manierata da risultare straniante e affascinante. I ripetuti primi piani sui suoi occhi lo trasformano in un demiurgo oscuro, capace di piegare i vivi e animare i morti.
Un film certamente datato, poco conosciuto ma dal valore storico enorme in quanto segna la nascita degli zombie cinematografici. 

Film
Horror
Zombi
USA
1932

© , the is my oyster