
Until Dawn - Fino all'alba
di David F. Sandberg
Quando si guarda un film, il giudizio è sempre figlio dell’aspettativa. Nel caso di Until Dawn, horror diretto da David F. Sandberg, le mie aspettative erano quelle di passare un oretta e mezza di intrattenimento a base di sgozzamenti, sangue e mutilazioni. E alla fine, sì, il suo compito lo ha fatto. Senza infamia e senza lode.
Tratto dall'omonimo videogioco della Sony, il film è stato oggetto di critiche da parte dei fan, che non hanno preso benissimo lo stravolgimento della storia e dei personaggi. Personalmente, non avendoci mai giocato, non entro in merito e passo oltre, raccontandovi per sommi capi la storia.
Un anno dopo la misteriosa scomparsa di sua sorella, Clover e i suoi quattro amici decidono di mettersi sulle sue tracce giungendo in una casa sperduta in mezzo al nulla che sembra essere un centro visitatori abbandonato. Sulla parete una clessidra gigante con tanto di inquietante teschio e ingranaggio che la fa girare al calar della notte. Da questo momento in poi il gruppo di ragazzi viene ucciso da un assassino mascherato, risvegliandosi però nello stesso punto, costretti a rivivere quella notte e a morire in nuovi modi a ogni ciclo.
Non c’è molto altro da aggiungere, se non che Until Dawn è un vero e proprio festival dei clichè dei film horror. L’assenza di una sceneggiatura capace di generare un minimo di tensione cerebrale è compensata solo nel vedere come una manciata di attori anonimi venga eliminata uno dopo l’altro da maniaci mascherati, demoni invisibili, streghe, zombie e scienziati pazzi. Il tutto condito da spargimenti di sangue, corpi che esplodono, una pioggia di jumpscare e gore in abbondanza, realizzati con buoni effetti pratici e una post-produzione non troppo invasiva.
Un teen-horror ludico e citazionista, senza troppe pretese, che strizza l’occhio a Quella casa nel bosco ma senza averne l’intelligenza metanarrativa né il gusto per la sovversione.

Il settimo sigillo
di Ingmar Bergman
Il settimo sigillo è probabilmente il film più conosciuto di Ingmar Bergman. Non necessariamente il più intimo né il più complesso, ma di certo il più rappresentativo. L’opera che ha consacrato il regista svedese sulla scena internazionale e che ha impresso alcune delle sue immagini più potenti nell’immaginario collettivo.
La partita a scacchi con la morte, i paesaggi spogli battuti dal vento, lo sguardo inquieto dei protagonisti, tutto in questo film è diventato simbolo, omaggiato e parodiato fino a farsi mito.
Nel cuore di un Medioevo devastato dalla peste e dalla disperazione, il cavaliere Antonius Block (Max von Sydow), insieme al suo fedele scudiero (Gunnar Björnstrand), fa ritorno in Svezia dopo anni di crociate. Ma ad attenderlo sulla spiaggia non c’è la pace, bensì la Morte in persona, venuta a reclamare la sua anima. Deciso a guadagnare tempo per trovare un senso all’esistenza e alla fede perduta, il cavaliere sfida la Morte a una partita a scacchi. Il loro duello diventa il filo conduttore di un viaggio attraverso un paesaggio desolato e simbolico, popolato da contadini superstiziosi, flagellanti, attori erranti, donne accusate di essersi concessa al diavolo e uomini senza Dio. Un pellegrinaggio terreno e spirituale, tra la paura dell’Apocalisse e il desiderio di redenzione.
Il settimo sigillo nasce come trasposizione cinematografica di un’opera teatrale scritta dallo stesso Bergman per i suoi studenti, ispirata agli affreschi delle chiese contadine svedesi, dove la Morte danza con i vivi accompagnandoli in silenzio verso la fine.
Non stupisce, quindi, che il film porti con sé un’impronta teatrale, fatta di dialoghi intensi e situazioni emblematiche, quasi da sacra rappresentazione. A tratti sembra di assistere a un dramma shakespeariano, ma più spoglio, più essenziale, e soprattutto più esistenziale.
Il protagonista, Antonius Block, non è l’eroe tragico, ma un uomo stanco, che si interroga sul senso dell’esistenza e sulla presenza – o assenza – di Dio, che si chiede se la vita sia solo un caso, una parentesi prima del nulla. Il suo ritorno dalle crociate non ha nulla dell’epico, è il viaggio di un’anima svuotata, che cerca risposte in un mondo in cui la fede è diventata fanatismo, la peste divora i corpi e la paura brucia le streghe. E intorno a lui si muovono figure che sembrano simboli viventi, Lo scudiero cinico e disilluso, la coppia di attori di strada pieni di speranza, il fabbro e la moglie grotteschi, la ragazza muta che solo davanti alla fine ritrova la parola. Sembra quasi un mazzo di tarocchi (il cavaliere, la morte, il saltimbanco, la vergine, etc), ognuno con il suo archetipo da incarnare. Tutti parlano, a modo loro, dell’essere umani.
La partita a scacchi non è solo la scena più celebre del film, è il cuore della pellicola, una lunga sfida contro il nulla, un tentativo disperato di rinviare l’appuntamento con la fine e di trovare qualche indizio sul senso dell’esistenza. La morte, col suo volto pallido e impassibile, gioca ma non rivela nulla. Ascolta, sorride, fa il suo lavoro. E il cavaliere, nel suo bisogno disperato di credere in qualcosa, non ottiene altro che il silenzio.
Perché questo film non consola, non offre risposte, non apre spiragli. Al massimo, fa spazio al dubbio. E ci mette davanti a un’idea scomoda, che l’unica vera risposta potrebbe essere il nulla.
Non è un film perfetto, e non lo vuole essere. È freddo, a tratti distante. Non ti prende per mano, non ti commuove facilmente. Ma ti resta dentro. Ti interroga. E magari non subito, ma dopo un po’ ti accorgi che ti ha lasciato addosso qualcosa.
Dal punto di vista visivo è straordinario. La regia è rigorosa e precisa, la fotografia in bianco e nero di Gunnar Fischer è qualcosa che non si dimentica. Il paesaggio svedese sembra scolpito nella pietra, e riflette alla perfezione l’animo inquieto dei personaggi. I volti, le ombre, i contrasti, tutto ha un peso, tutto racconta qualcosa.
Straordinari gli attori, su cui spicca un giovane Max von Sydow, il cui volto scavato riesce a restituire tutta la malinconia e la disperazione del cavaliere. Ma è anche impossibile dimenticare la maschera inquietante e compassata della Morte, interpretata da Bengt Ekerot, diventata icona della settima arte – chissà se Marty Feldman si sia ispirato a lui per il suo Igor, ovviamente in chiave comica.
Il settimo sigillo è un film figurativamente magnetico, stratificato. Pieno di simboli, riferimenti religiosi, allegorie medievali. Bergman prende l’arte sacra, trasformando le paure di un’epoca in domande universali. Un film pieno di metafore e profondamente esistenzialista che ci ricorda che è umano cercare risposte - e cedere alla religione e al fanatismo per trovare conforto e un senso di appartenenza - ma che in fondo ognuno di noi è destinato, prima o poi, a guardare negli occhi la morte, quindi tanto vale nel frattempo vivere con leggerezza e magari assaporare delle fragole appena raccolte.
Vabbè, detto questo, il prossimo film me lo scelgo un pò più leggero.

Mulholland Drive
di David Lynch
Se dovessi stilare una classifica dei miei film preferiti, Mulholland Drive occuperebbe senza esitazione il primo posto. Nutro un amore viscerale per David Lynch e una venerazione profonda per Mulholland Drive che considero un capolavoro.
Secondo una classifica della BBC che ha coinvolto 177 critici cinematografici di 36 paesi, Mulholland Drive è considerato il miglior film del ventunesimo secolo. Un film enigmatico, stratificato, che ha generato fiumi di interpretazioni, saggi, recensioni, e analisi di ogni tipo. Al di là delle parole, vedere un film di Lynch non è mai semplicemente "guardare un film". È un’esperienza. E Mulholland Drive è, forse, la sua manifestazione più sublime.
Mulholland Drive nasce nel 1999 come un progetto televisivo destinato alla ABC, concepito come pilota di una serie che avrebbe dovuto proseguire l'eredità di Twin Peaks. Nonostante l'entusiasmo iniziale, la ABC rifiutò il progetto, giudicandolo troppo oscuro, lento e confuso per il pubblico televisivo mainstream. Dopo il rifiuto, Lynch si trovò con un'opera incompleta, senza una destinazione e con nessun produttore americano disposto a finanziare il film. Fu grazie all'intervento del produttore francese Pierre Edelman e al sostegno finanziario di StudioCanal che il progetto trovò nuova vita. Lynch riscrisse e ampliò la sceneggiatura, aggiungendo nuove scene che trasformarono il pilota in un film completo. Le riprese aggiuntive si svolsero nell'ottobre del 2000, con un finanziamento di 7 milioni di dollari.
Il risultato fu un'opera che trascendeva le convenzioni narrative, mescolando realtà e sogno in un'esperienza cinematografica unica. Mulholland Drive venne presentato al Festival di Cannes nel 2001, dove Lynch vinse il premio per la miglior regia, consacrando il film come uno dei capolavori del cinema contemporaneo.
A grandi linee, la trama di Mulholland Drive è la seguente.
Una misteriosa donna (Laura Harring) scampata a un incidente d’auto lungo la celebre strada collinare di Los Angeles si rifugia, spaesata e priva di memoria, in un appartamento apparentemente disabitato. Poco dopo, nello stesso appartamento arriva Betty (Naomi Watts), un’aspirante attrice dal sorriso luminoso, appena atterrata a Hollywood con il sogno di sfondare nel cinema. Dall'incontro tra le due ragazze nasce un legame ambiguo e intenso, mentre insieme tentano di scoprire l’identità perduta di Rita (il nome adottato dalla sconosciuta) seguendo una serie di indizi che si fanno via via più oscuri.
Nel frattempo un regista hollywoodiano (Justin Theroux) viene minacciato da grotteschi e ambigui mafiosi affinche scelga l'attrice che dovrà interpretare il ruolo della protagonista del suo prossimo film. Un killer pasticcione, un uomo terrorizzato da un sogno ambientato dietro un ristorante, un cowboy enigmatico, e uno spettacolo teatrale dove tutto è finto ma sembra tremendamente reale, completano un mosaico narrativo dove i confini tra realtà e illusione si dissolvono.
Chi ama Lynch sa che non bisogna cercare un senso razionale nelle sue storie. Il suo cinema non chiede di essere capito, ma vissuto. È un’esperienza da attraversare lasciandosi trasportare dalle suggestioni, dai simboli, dai sogni che si mescolano alla realtà e all’inconscio. Eppure, tra Lost Highway, Mulholland Drive, e Inland Empire — quella che potremmo chiamare, seppur con qualche forzatura, la sua trilogia del sogno — è proprio Mulholland Drive a essere il più leggibile e comprensibile. E allora, proviamo a rimettere insieme i pezzi di questo intricato puzzle.
Da qui in avanti, inevitabilmente, partono gli spoiler.
Il film si divide, sostanzialmente, in due parti. La prima è il sogno. O forse una realtà alternativa, un mondo interiore, un rifugio dell’inconscio. In questa dimensione la protagonista, Naomi Watts, è Betty, un’aspirante attrice appena arrivata a Hollywood e ospite in un appartamento elegante, ingenua ma determinata, piena di talento. È bella, luminosa, e al suo primo provino incanta tutti con una performance sbalorditiva. Incontra Rita (Laura Harring), donna misteriosa colpita da amnesia, e tra le due nasce una complicità profonda, anche sentimentale. Tutto sembra andare per il verso giusto, finché Betty apre una scatola blu — oggetto simbolico e portale — e la realtà, o qualcosa che ci somiglia, irrompe.
Da quel momento in poi tutto si ribalta. Il sogno svanisce. Betty non è più Betty, ma Diane. E Rita è Camilla. Diane è un’attrice fallita, frustrata, spezzata. Vive nell’ombra di Camilla, che invece è affermata, desiderata, sicura di sé. La loro relazione è sbilanciata, tossica, e quando Diane scopre che Camilla sta per sposare un regista (Justin Theroux), sopraffatta dalla gelosia e dal senso d’abbandono, assolda un killer per eliminarla. Ma non regge il peso del suo stesso gesto. Mentalmente devastata, trova rifugio proprio nel sogno che abbiamo visto nella prima parte, per poi — incalzata dal senso di colpa e dalla disgregazione psichica — togliersi la vita.
Mulholland Drive è un gioco a incastri, una struttura a specchio dove sogno e realtà, conscio e inconscio, desiderio e trauma si confondono, si fondono, si rincorrono. Lynch non ci fornisce una spiegazione univoca, ma dissemina indizi, frammenti, immagini ricorrenti. Non ci guida, ci abbandona dolcemente nel labirinto.
Ma Mulholland Drive è anche – forse soprattutto – una feroce, allucinata critica al sistema hollywoodiano, a quella macchina patinata e crudele che promette sogni e spesso restituisce incubi. Hollywood è una trappola emotiva, un meccanismo che plasma e distrugge, che premia l’immagine e punisce la fragilità. Betty arriva con entusiasmo e talento, ma viene risucchiata in un mondo fatto di poteri invisibili, scelte imposte, manipolazioni subdole. Adam, il regista, è costretto a cedere alle pressioni di oscuri burattinai, incapace di difendere la propria libertà creativa. Tutto è recitazione. Tutto è illusione.
E poi c’è Naomi Watts, che in questo film firma una delle prove attoriali più intense e devastanti degli ultimi decenni. Il suo coinvolgimento emotivo va oltre la finzione. Prima di Mulholland Drive, Watts faticava a emergere. Anni di rifiuti, ruoli minori, provini falliti. Era arrivata a pensare di smettere, a sfiorare l’idea del suicidio. Lynch non sceglie solo un’attrice, sceglie una ferita aperta. Una donna che ha conosciuto il lato oscuro del sogno hollywoodiano. Betty e Diane non sono solo personaggi. Sono due volti della stessa ossessione. E Naomi Watts le interpreta con una verità così disarmante da lasciare il segno per sempre.
Tralasciando la trama, il senso, la narrazione — che poi è forse l’ultima cosa che interessava davvero a Lynch — Mulholland Drive è costellato di sequenze magistrali, capaci di far accapponare la pelle.
Partiamo da una delle prime scene, tra le più inquietanti dell’intero film, quella in cui un uomo racconta a un amico di aver sognato il locale in cui si trovano. Nel sogno, dietro al ristorante, si nasconde una figura orribile, la cui sola presenza gli provoca un terrore profondo. Quando i due escono per controllare, la creatura appare davvero. L’uomo crolla a terra, sopraffatto dallo shock. Apparentemente slegata dalla trama principale, questa scena è in realtà una potente metafora, un incubo che prende corpo, o forse un sogno dentro un altro sogno. Il mostro dietro il diner è l’incarnazione dell’orrore rimosso, la parte più oscura della psiche, il prezzo da pagare per inseguire un sogno o di chi ha commissionato un omicidio. Una sequenza di meno di cinque minuti, girata in pieno giorno, che culmina con quello che potremmo definire un vero e proprio jumpscare, ma di una raffinatezza inquietante: tensione pura, orrore viscerale, senza bisogno di ombre o buio. Magistrale.
Proseguiamo con la scena del cowboy, in un luogo isolato e illuminato a intermittenza — cifra stilistica inconfondibile di Lynch — in cui un personaggio dal volto impassibile pronuncia un dialogo criptico e inquietante, che sembra venire da un’altra dimensione. O con quella del caffè, in cui uno dei fratelli Castigliane (interpretato da Angelo Badalamenti, storico compositore lynchiano e autore della bellissima colonna sonora del film) siede al tavolo con i produttori e il regista del film. Beve l’espresso servito dal cameriere e, con glaciale disprezzo, lo sputa nel tovagliolo. Un gesto teatrale e volutamente disturbante, che comunica autorità, potere, e intimidazione.
Ma la scena più potente resta senza dubbio quella del Club Silencio. Le due protagoniste entrano in un teatro decadente. Sul palco, un personaggio luciferino rivela la finzione: "No hay banda… tutto è registrato". La musica, la voce, le emozioni: nulla è reale. Poi arriva la cantante Rebekah Del Rio, che canta Llorando con un’intensità straziante, prima di crollare a terra, mentre la sua voce continua a riempire il teatro. È il punto di rottura. La consapevolezza che tutto ciò che Betty ha vissuto è una costruzione mentale, un sogno artificiale per sfuggire a una realtà intollerabile. Ma è anche una riflessione meta-cinematografica sulla natura stessa del cinema: finzione capace di toccare il vero. Sublime.
Mulholland Drive, che Lynch descrisse come "una storia d’amore nella città dei sogni", è la quintessenza del suo cinema. Un profondo atto d’amore per la settima arte, ma anche un bilancio esistenziale del regista. Un film fatto di misteri, visioni oniriche, simboli nascosti, bruschi salti narrativi, venature grottesche e una tensione psicologica costante — il tutto orchestrato con un montaggio ipnotico e una tecnica impeccabile. Un capolavoro del cinema moderno.
Ho visto Mulholland Drive per la prima volta al cinema, quando uscì nel 2000. Ricordo perfettamente, all’uscita dal cinema, il senso di smarrimento, la sensazione di non aver capito nulla della storia, ma al tempo stesso di essere stato profondamente scosso, emotivamente travolto. È uno di quei rari film capaci di smuoverti dentro senza bisogno di spiegazioni. Pochi giorni dopo, sono tornato a vederlo di nuovo, sempre al cinema. Da allora, l’avrò rivisto almeno una decina di volte. E ogni volta è come se fosse la prima: cambia, si trasforma, rivela qualcosa di nuovo. Come un sogno che ti rimane addosso. Eterno e inafferrabile
Grazie maestro.

The Innocents
di Eskil Vogt
The Innocents è il secondo film del regista e sceneggiatore norvegese Eskil Vogt. Si tratta di un horror psicologico con protagonisti dei bambini dotati di poteri soprannaturali.
La famiglia della piccola Ida si trasferisce in un complesso residenziale alla periferia di una città scandinava, durante un’estate serena. Un giorno, nel parco giochi, Ida incontra Ben, un bambino solitario con doti telecinetiche. Poco dopo si unisce anche Aisha, in grado di percepire le emozioni altrui e di comunicare telepaticamente con Anna, la sorella maggiore di Ida, affetta da una grave forma di autismo. I quattro formano un legame ambiguo, fatto di curiosità, potere e crudeltà. Ma i giochi si fanno sempre più violenti, i poteri più incontrollabili, e mentre il mondo degli adulti — muto e distante — resta ai margini, il rapporto tra i bambini prende una piega sempre più oscura e pericolosa.
Eskil Vogt mette in scena un film freddo, austero, e sospeso. La distanza tra il mondo dei bambini e quello degli adulti diventa abissale, invalicabile. Gli adulti, infatti, sono figure di contorno. Non vedono, non capiscono, non intervengono. L’infanzia è lasciata sola ad affrontare poteri troppo grandi, e con essi responsabilità ben oltre la propria età.
Seguendo il solco del filone sui "bambini crudeli" in chiave fantastica — dal Villaggio dei dannati in poi — Vogt ci racconta il lato oscuro dell’infanzia: dagli scherzi atroci e gratuiti di Ida verso la sorella disabile, fino a momenti di autentico sadismo difficili da sostenere (sarà un problema mio, ma la scena di crudeltà verso il gatto, anche se fittizia, personalmente l’ho trovata assai fastidiosa).
A differenza di molti film del genere, The Innocents evita sia le facili spiegazioni psicologiche che ogni deriva melodrammatica. Il male non arriva da una possessione o da qualche trauma passato: è interno, naturale, quasi organico. Nasce da un cuore troppo giovane per distinguere davvero il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. I poteri dei bambini vengono mostrati con sobrietà, senza mai cedere alla spettacolarizzazione da blockbuster. Insomma non aspettatevi azione, effetti visivi o ritmo da cinecomic da film Marvel, tanto per intenderci.
Il film è lento, dilatato, e forse una durata leggermente più contenuta gli avrebbe giovato. Ma quello che per molti potrebbero rappresentare dei difetti, costruibuiscono a creare un’atmosfera densa di tensione e disagio, amplificato dallo stile visivo — movimenti di macchina lenti, inquadrature strette sui volti, campi lunghi — e dalla bravura dei giovani protagonisti, tutti diretti con notevole sensibilità.
The Innocents è un film difficile, aspro, e allo stesso tempo profondamente umano. Non è solo un horror, è una riflessione cupa sull’età dell’innocenza, sul confine sottile tra empatia e indifferenza. In un’epoca dominata da superpoteri urlati e mondi salvati, The Innocents sceglie il silenzio, la lentezza e una ferocia sommessa. E ci ricorda, con inquietante lucidità, che i mostri più spaventosi non sono quelli che immaginiamo… ma quelli che crescono tranquilli nei cortili sotto casa.

Uzumaki (anime)
Hiroshi Nagahama
Dopo aver letto Uzumaki, non potevo esimermi dal guardare anche la miniserie animata in quattro episodi disponibile su Netflix, adattamento dell’omonimo manga horror di Junji Ito.
Partiamo dal presupposto che Uzumaki è un anime atipico perchè nasce dalla collaborazione tra lo studio di animazione giapponese Production IG e la Adult Swim, la divisione rivolta a un pubblico adulto della piattaforma americana Cartoon Network. La serie ha avuto una produzione piuttosto travagliata. Originariamente previsto per il 2020, Uzumaki è stata rimandato più volte per motivi mai del tutto chiariti, fino ad arrivare finalmente a settembre 2024.
La storia è ambientata nella piccola cittadina giapponese di Kurouzu-cho, dove una misteriosa maledizione si manifesta sotto forma di spirali. Queste spirali invadono ogni aspetto della vita quotidiana — dagli oggetti più banali alle persone stesse — generando una crescente ossessione e follia tra gli abitanti. Kirie Goshima e il suo fidanzato Shuichi Saito cercano di capire come sottrarsi a questa presenza invisibile e inquietante.
La serie ha uno stile che ricorda molto i disegni di Ito, mantenendo il bianco e nero, i tratteggi a mano e l’estetica del manga. Il primo episodio mi ha colpito molto per l’animazione fluida e l’attenzione ai dettagli. Purtroppo, dal secondo episodio in poi, la qualità cade drasticamente (pare che gli episodi successivi siano stati realizzati da una squadra diversa rispetto al primo).
Sul fronte narrativo c’è poco da dire. I manga di Junji Ito non si distinguono certo per lo spessore della trama, quanto per l’immaginario visivo e l’atmosfera delirante, sospesa tra il grottesco e il disturbante. Concentrare un’opera composta da una ventina di capitoli in soli quattro episodi da poco più di venti minuti l’uno si rivela una scelta un pò penalizzante. Nelle stesso episodio si passa da una storia all'altra in modo troppo precipitoso, senza il tempo necessario per creare la giusta tensione o far sedimentare il senso di inquietudine.
Peccato, perché Junji Ito meriterebbe un adattamento all’altezza del suo talento visionario. Ma, ancora una volta, sembra che il suo mondo renda molto di più sulla carta che su schermo.

Il dottor Miracolo
di Robert Florey
Il dottor Miracolo, titolo italiano di Murders in the Rue Morgue, è un film horror del 1932 prodotto dalla Universal e liberamente ispirato al racconto I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe. Protagonista della pellicola è Bela Lugosi, reduce dal successo travolgente di Dracula. Dopo aver rifiutato il ruolo del mostro in Frankenstein — poi affidato a Boris Karloff — Lugosi viene scritturato insieme al regista Robert Florey, anch’egli inizialmente coinvolto nel progetto Frankenstein, per quello che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di una trilogia dedicata ai racconti di Poe.
Nella Parigi di metà ottocento, un circo itinerante attira folle curiose grazie allo strano spettacolo del dottor Miracolo (Bela Lugosi), uno scienziato carismatico che sostiene di poter comunicare con Erik, un possente gorilla ammaestrato. Lo spettacolo, in realtà, si rivela una copertura per permette allo scienziato di compiere i suoi esperimenti folli e dimostrare la sua personale teoria sull’evoluzione, tentando di creare un ibrido uomo-scimmia attraverso trasfusioni di sangue tra primati e giovani donne rapite. Quando le sue cavie umane non sopravvivono al trattamento, il dottore si sbarazza dei corpi gettandoli nella Senna con l’aiuto di un losco assistente. I ritrovamenti dei cadaveri attirano l’attenzione di Pierre Dupin, giovane studente di medicina, che inizia una indagine che lo porterà a scoprire l’agghiacciante verità e a un confronto finale sui tetti di Parigi, dove Erik, ormai invaghito della fidanzata di Dupin, scatenerà una furia animalesca.
Alla sua uscita, Il dottor Miracolo si rivelò un mezzo fiasco. Il produttore Carl Laemmle Jr impose numerosi cambiamenti alla sceneggiatura, chiedendo un adattamento più "moderno" del racconto di Poe. Tra le modifiche più evidenti, una sequenza iniziale in cui il folle scienziato espone – con decenni di anticipo rispetto alla pubblicazione de L’origine della specie di Charles Darwin – le sue bizzarre teorie evoluzionistiche a un pubblico sconcertato. Anche il celebre investigatore Auguste Dupin, figura centrale nel testo originale, nel film di Florey conserva solo il nome, trasformandosi in uno studente smielato e piagnucoloso, ben lontano dalla figura brillante e razionale immaginata da Poe. La sceneggiatura fatica a costruire una vera tensione orrorifica, e persino il dottor Miracolo – che avrebbe dovuto incarnare il magnetismo ambiguo dello scienziato folle – risulta più caricaturale che disturbante, incapace di imprimersi davvero nella memoria dello spettatore.
Nonostante tutto, Il dottor Miracolo si fa notare per le suggestive scenografie che riprendono il cinema espressionista e per la sequenza di fuga sui tetti del gorilla con la sua preda femminile, che omaggia Il gabinetto del dottor Caligari, e, per certi versi, anticipa il successivo King Kong, sopratutto per il tema della bestia che si innamora della bella e lo scontro finale nei tetti della città.

L'abominevole dr. Phibes
di Robert Fuest
L'abominevole Dr. Phibes è un horror inglese del 1971 diretto da Robert Fuest, diventato con gli anni un piccolo cult. È un film strano, visivamente esagerato, che mescola il gusto per l'orrore gotico con un'ironia molto teatrale. In un certo senso, ha anticipato quella che oggi chiamiamo commedia horror, con il suo mix di omicidi assurdi, scenografie barocche e una vena di umorismo nero che rende tutto più surreale che spaventoso.
La storia de L'Abominevole Dr. Phibes è, prima di tutto, una storia di vendetta.
Dopo la morte improvvisa della moglie Victoria durante un intervento chirurgico, il dottor Anton Phibes (Vincent Price), scienziato, musicista e teologo, rimane coinvolto in un misterioso incidente d'auto e viene creduto anch'egli deceduto. Ma Phibes è sopravvissuto, seppur sfigurato, e ha passato gli anni successivi nascosto nell'ombra, progettando nei minimi dettagli la sua vendetta contro i medici che ritiene responsabili della tragedia. Aiutato dalla sua enigmatica assistente Vulnavia, inizia a uccidere, uno a uno, i membri dell'équipe medica in modi tanto creativi quanto raccapriccianti, seguendo un rituale ispirato alle dieci piaghe d'Egitto. Nel frattempo, l'ispettore Trout di Scotland Yard, supportato dal dottor Vesalius (Joseph Cotten), il chirurgo che operò la donna, cerca disperatamente di decifrare il mistero e fermare la scia di sangue.
Quello che colpisce di più oggi, più ancora della trama, è lo stile del film. L'Abominevole Dr. Phibes è un piccolo gioiello, una pellicola dallo stile gotico e dall'estetica eccessiva e squisitamente kitsch, che mescola elementi art déco, colori psichedelici e design anni settanta - anche se la storia è ambientata negli anni venti.
Il film sembra quasi un'opera teatrale, con l'organo gigante, l'orchestra di automi, i costumi elaborati e le sue invenzioni stravaganti usate da Phibes per compiere i suoi delitti. Per certi versi può ricordare Il Fantasma dell'Opera, con quella sua teatralità romantica e oscura.
Vincent Price è perfetto. Non dice una parola per tutto il film — lo si sente solo attraverso un congegno che collega le sue corde vocali a un grammofono — ma riesce comunque a comunicare tutto con lo sguardo e la mimica. È inquietante, elegante, tragico e grottesco al tempo stesso. La sua presenza da sola regge tutto il film.
L'idea di usare le piaghe d'Egitto come filo conduttore per gli omicidi è originale e aggiunge un tocco in più. Pipistrelli, ratti, cavallette, rane meccaniche… ogni morte diventa un piccolo spettacolo. Ed è impossibile non pensare a film come Seven o Saw, che anni dopo riprenderanno il concetto degli omicidi ingegnosi "a tema", anche se Phibes, va detto, alleggerisce spesso la tensione con una buona dose di humor inglese (vedi i siparietti con Scotland Yard).
Più che un horror nel senso stretto del termine, L'Abominevole Dr. Phibes è un film a sé, difficile da incasellare. Elegante, strano, una commedia horror dal black humor che ancora oggi conserva tutto il suo fascino, grazie allo stile visivo, al carisma del protagonista e a quell'atmosfera sospesa tra l'incubo e la farsa.

La strada
di Federico Fellini
Federico Fellini ottiene il primo successo internazionale con La strada, nel 1954. Presentato in anteprima alla 15ª Mostra del Cinema di Venezia, inizialmente il film non fu accolto con troppo entusiasmo. Anzi, la reazione fu piuttosto fredda, se non apertamente ostile. Pubblico e critica, ancora legati al neorealismo italiano, lo giudicarono troppo sentimentale e onirico, distante dal rigore sociale e realistico dominante all’epoca, mentre numerose critiche colpirono anche l’interpretazione di Anthony Quinn e Giulietta Masina, tanto che Dino De Laurentiis, il produttore, fu tentato di interrompere la distribuzione.
Il tempo però diede ragione a Fellini e La strada vinse l’Oscar per il miglior film straniero nel 1957 (il primo film italiano a ottenere questo riconoscimento), venendo apprezzato da autori come Kurosawa, che lo considerava uno dei film più commoventi mai realizzati. Nel giro di pochi anni, il film passò da essere "incompreso" a "fondamentale", aprendo la strada a una nuova stagione del cinema italiano, più personale, metaforico, spirituale.
La trama segue le vicende di Gelsomina (Giulietta Masina), una giovane donna semplice e dallo sguardo smarrito, venduta dalla madre povera a Zampanò (Anthony Quinn), un rozzo saltimbanco girovago, affinché diventi sua moglie e lo assista durante i suoi spettacoli. Inizia così, in sella a uno sgangherato motocarro, un viaggio attraverso l’Italia più povera e desolata, fatto di strade polverose, paesaggi malinconici e cittadine di provincia, vivendo alla giornata nella speranza di racimolare qualche soldo per campare. Gelsomina, ingenua e sensibile, nonostante la brutalità dell’uomo — che la costringe a cucinare, pulire e assolvere varie incombenze coniugali — rimane devota a Zampanò. L’incontro con il Matto (Richard Basehart), un funambolo gentile e misterioso che si diverte a prendere in giro il burbero Zampanò, le apre uno spiraglio su un altro modo di esistere, dove anche le creature più fragili hanno un senso e un posto nel mondo. Ma la realtà è crudele, e il destino di questi personaggi erranti si consuma nel rimpianto e nella solitudine.
La strada è una favola sull’incomprensione, sull’impossibilità di comunicare davvero, ma anche sull’umanità irriducibile che resiste sotto la crosta della miseria e dell’abbandono. Un viaggio nell’Italia dimenticata, quella delle campagne spoglie, dei paesi di provincia, delle strade fangose, delle baracche traballanti e delle osterie fumose. Gelsomina — con il volto tondo, gli occhi spalancati e i capelli a carciofo — è un personaggio chapliniano sospeso tra la tenerezza e il dolore. Triste, ma con una grazia sghemba, mai compiaciuta. I suoi gesti timidi, i sorrisi sbilenchi, i silenzi pieni di attesa: tutto in lei incarna la purezza dell’ingenuità. È una specie di Pinocchio che non mente, ma che resta prigioniera di un Mangiafuoco muscoloso e ignorante, incapace di vedere il valore delle cose fragili.
Zampanò è un animale ferito che non sa amare e non sa chiedere scusa. Un uomo che distrugge ciò che non capisce, semplicemente perché non sa farne altro.
Il film è costruito come un racconto di formazione senza redenzione, un circo senza tende, dove ogni incontro è una possibilità sprecata. Il Matto, l'acrobata dall'animo gentile — un grillo parlante consapevole del proprio destino — è l’unico a cogliere la bellezza di Gelsomina, a dirle che tutto ha un senso, persino lei. E in quella frase («anche il sasso serve a qualcosa») c’è già tutto il Fellini che verrà. Quello sfumato e trasognato, che non si spiega ma si intuisce.
La musica di Nino Rota accompagna tutto il film con un tema diventato immortale, suonato dalla tromba stonata di Gelsomina, dal violino del Matto o fischiettato da una donna che stende i panni.
La strada è una favola amara e malinconica, un viaggio nel mondo del circo e degli artisti di strada, fatto di attese, crudeltà e piccole epifanie. E quando, alla fine, Zampanò si accascia sulla spiaggia e piange — goffo, solo, disarmato — Fellini ci ricorda che anche i più duri, i più chiusi, forse, hanno amato. Solo troppo tardi.
Film

Drop
di Christopher Landon
Drop - Accetta o rifiuta è il nuovo thriller sfornato da casa Blumhouse, per la regia di Christopher Landon — sì, quello di Auguri per la tua morte e altri teen-horror che si prendono poco sul serio. Stavolta Landon prende in prestito la trama di Red Eye di Wes Craven e la trasloca in un ristorante di lusso con vista su Chicago.
La protagonista è Violet (Meghann Fahy), terapeuta e madre single che cerca di lasciarsi alle spalle un passato traumatico e un marito violento. Dopo anni di lutto, decide di rimettersi in gioco con un appuntamento galante. Lui è Henry (Brandon Sklenar), fotografo, barba scolpita, canotta casual, sguardo da pubblicità di profumo. Ma la serata prende una piega inquietante quando Violet inizia a ricevere strani meme e messaggi anonimi sul suo telefono tramite una app chiamata "DigiDrop". Questi messaggi minacciano la vita di suo figlio e di sua sorella, che lo sta accudendo a casa, e le impongono di seguire istruzioni sempre più sinistre, culminando in un ultimatum: uccidere Henry per salvare i suoi cari.
Drop è un thriller d’intrattenimento, sì, ma davvero molto basic. Talmente patinato che più che tensione, sprigiona il profumo di una rivista di moda ancora incelofanata. I due protagonisti hanno la personalità di un manichino di Zara. Lei una Barbie urban-chic con trauma annesso, lui un Ken con la canotta stirata a dovere. In mezzo, un cameriere irritante che dovrebbe – nelle intenzioni – fare da spalla comica, ma che in realtà ti fa solo desiderare che sia il primo a essere ucciso.
Il meccanismo thriller, in teoria, dovrebbe reggere l’intera durata del film. Violet che si agita, corre al bagno, si contorce per nascondere il panico, cerca di non far saltare la copertura con Henry mentre segue istruzioni via smartphone. Ma la tensione proprio non arriva, sembra un escape room mal riuscito, privo di colpi di scena che non siano prevedibili.
Insomma, Drop vorrebbe essere un thriller alla Brian De Palma con ambizioni hitchcockiane, ma finisce per assomigliare a un film anonimo da seconda serata, adatto come riempitivo da catalogo di qualche piattaforma streaming. Perfetto da guardare mentre scrolli il telefono, aspettando la fine. Se proprio non avete niente da fare e volete qualcosa che riempia il tempo senza troppe pretese, potrebbe anche intrattenervi.

Madre!
di Darren Aronofsky
Tra la fine degli anni '90 e l’inizio dei duemila, Darren Aronofsky era uno dei miei registi preferiti. π – Il teorema del delirio e Requiem for a Dream, sono due film che, ciascuno a suo modo, mi hanno segnato nel profondo. Poi, con il passaggio da regista indipendente a nome consolidato nel sistema hollywoodiano, qualcosa si è incrinato. Fatta eccezione per Il cigno nero e, forse, per The Wrestler, la deriva mistico-biblica ed esistenziale di The Fountain e Noah mi ha fatto prendere le distanze dal suo cinema, trovandolo autoreferenziale e ridondante.
Madre!, uscito nel 2017 e presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, si colloca in questa fase della sua filmografia, riprendendo le stesse tematiche ma da un punto di vista diverso e decisamente più interessante. Accolto tra sonori fischi e sporadici applausi, il film ha diviso pubblico e critica, lasciando molti spettatori spaesati, se non apertamente irritati. Eppure, dietro la provocazione e l’allegoria esasperata, qualcosa continua a muoversi.
La storia si svolge in una grande casa isolata nel mezzo del nulla e ha per protagonisti uno scrittore di mezz'età in crisi creativa (Javier Bardem) e la sua giovane e devota moglie (Jennifer Lawrence), impegnata a ristrutturare l’abitazione danneggiata da un precedente incendio. La loro apparente tranquillità viene interrotta dall’arrivo improvviso di un misterioso sconosciuto (Ed Harris), seguito poco dopo dalla sua invadente moglie (Michelle Pfeiffer). Lo scrittore accoglie con entusiasmo i due ospiti, ma l’equilibrio comincia a vacillare quando arrivano anche i loro figli. Quel che inizia come un dramma domestico si trasforma progressivamente in un incubo claustrofobico, in cui il confine tra realtà e metafora si assottiglia fino a dissolversi.
Di seguito ci sono degli spoiler, quindi, per chi ancora non l'avesse visto, consiglio vivamente di non proseguire con la lettura.
Madre! si articola in due parti ben distinte. Nella prima, la storia risulta interessante, ambigua e carica di tensione con evidenti riferimenti al cinema di Polanski. La macchina da presa segue ossessivamente la Lawrence, incollandosi al suo volto, ai suoi movimenti, restituendo in modo quasi soffocante la sua angoscia crescente. Il suo sguardo è l’unico tramite attraverso cui assistiamo all’invasione lenta e inesorabile della casa, luogo simbolico che lei ha ricostruito con cura e dedizione, e che ora vede sfaldarsi sotto i suoi occhi. La casa pulsa, soffre, sanguina. E' una creatura viva, specchio delle sue ferite interiori. Il marito, al contrario, appare completamente ignaro (o peggio, indifferente) al disagio crescente della moglie. Accoglie gli ospiti con entusiasmo, attratto dalla loro ammirazione, come se cercasse di alimentare il suo ego. La tensione esplode con il fraticidio compiuto da uno dei figli della coppia molesta. Improvvisamente la casa viene invasa da una folla di estranei, accorsi per una veglia funebre che degenera rapidamente in un rito grottesco e caotico. Dopo essere riuscita, non senza difficoltà, a scacciarli, la protagonista ritrova una fragile intimità con il marito, che culmina in un amplesso quasi liberatorio. Ne segue un concepimento inatteso, che sembra riaccendere anche l’ispirazione dello scrittore, ora pronto a scrivere la sua nuova opera.
Nella seconda metà, il film da dramma surreale si trasforma in un vero e proprio incubo catastrofico. Sono trascorsi nove mesi — anche se il tempo pare essersi fermato — e lo scrittore ha terminato il suo poema, accolto con entusiasmo da una moltitudine di adoratori che assediano la casa. La protagonista è sul punto di partorire, ma continua a essere ignorata. Il suo ruolo rimane subordinato alle esigenze e all’egocentrismo del marito. La casa viene nuovamente invasa, stavolta da una folla fanatica e sempre più violenta, in una lunga sequenza apocalittica in cui esplosioni, saccheggi e brutalità trasformano l’abitazione in un campo di battaglia. Il parto avviene nel mezzo del caos, ma la gioia per la nascita è effimera. Il neonato (figura chiaramente messianica) viene sottratto alla madre e letteralmente divorato dalla folla adorante, in una delle scene più raccapriccianti e simboliche del film. Sconvolta dal dolore, la protagonista appicca un incendio, sacrificando sé stessa e tutto ciò che resta. Sopravvive solo lo scrittore, che estrae dal suo petto il residuo d’amore necessario per far ripartire il ciclo. E infatti, tutto ricomincia. Una nuova Madre, una nuova illusione d’armonia.
Madre! è un film ambizioso e stratificato, costruito su metafore e allegorie religiose piuttosto esplicite. Lei incarna Madre Natura, la Terra, la prima grande musa ispiratrice. Lui è il Creatore, un Dio egoista e distaccato nei confronti della stessa Terra che ha generato. La coppia di intrusi richiama Adamo ed Eva, i loro figli sono Caino e Abele. Il cristallo custodito nello studio rappresenta il frutto proibito, il lavandino che esplode durante la veglia è il Diluvio Universale, il figlio nato nel caos è un Messia sacrificato da un’umanità cieca e idolatra.
Il limite principale del film è proprio questa eccessiva trasparenza simbolica. Il significato non viene evocato, ma ribadito, quasi imposto. L’allegoria è talmente scoperta da risultare prevedibile. Il mistero — quella qualità che invita a tornare su un’opera per coglierne nuove sfumature — qui lascia spazio a una narrazione che cerca costantemente di farsi decifrare. Ed è un peccato, perché un’opera così visivamente potente e concettualmente ricca non avrebbe bisogno di spiegarsi. Il buon cinema d’autore non cerca conferme. Suggerisce, non istruisce. E in questa differenza, sottile ma sostanziale, risiede gran parte del suo fascino.
Il film ha sollevato non poche critiche sulla rappresentazione femminile. La protagonista è una figura passiva, una martire silenziosa e devota che assiste impotente allo scempio del proprio mondo. In questo senso, sembra l’antitesi della donna di Antichrist di Lars von Trier, che da strega diventa santa. In entrambi i casi, la donna è ridotta a simbolo, priva di voce e identità, vittima di una visione maschile che la sublima per poi consumarla.
Al di là dell'aspetto narrativo, dal punto di vista tecnico il film si distingue per una regia invasiva e totalizzante, quasi claustrofobica, e per una fotografia efficace, che dai toni caldi della prima parte si incupisce nel finale, accentuando il senso di disagio. L’assenza di colonna sonora lascia spazio a un sound design ossessivo, fatto di respiri, scricchiolii e battiti, che amplificano la tensione. Riguardo Jennifer Lawrence, lei è pure brava a interpretare la donna sottomessa ma proprio faccio fatica a vederla in questo ruolo. Problema mio.
Madre! è un film eccessivo, caotico, visivamente potente, deliberatamente divisivo. Lo si può leggere come parabola biblica, come critica ecologista, come riflessione sull’atto creativo o sull’egocentrismo dell’artista, o forse come tutte queste cose insieme. Di certo, è un film che non passa inosservato. Che lo si consideri un’allegoria potente o un esercizio di stile pretenzioso, non si può negare il suo impatto emotivo e visivo. Un film coraggioso, ambizioso e imperfetto.
Film
The Ugly Stepsister
di Emilie Blichfeldt
Prima che la Disney le trasformasse in cartoline animate da lieto fine e canti gioiosi, le fiabe dei fratelli Grimm erano tutt'altro che rassicuranti. Incesti, mutilazioni, matricidi, vendette crudeli. I racconti popolari raccolti da Jacob e Wilhelm Grimm affondavano le radici nell'inconscio collettivo europeo, dove il bosco era davvero oscuro e le principesse raramente uscivano illese. In quelle versioni originarie, le fiabe erano strumenti di ammonimento, più che di intrattenimento, e custodivano dentro di sé un'anima profondamente gotica, a tratti disturbante.
Emilie Blichfeldt, regista e sceneggiatrice norvegese, con The Ugly Stepsister, riporta alla luce l’anima più cupa della fiaba di Cenerentola, ribaltandone il punto di vista e trasformandola in un racconto di ossessione e deformazione emotiva. Questa volta al centro della storia non c’è Cenerentola, ma Elvira, una delle sorellastre, figura marginale nella narrazione classica, qui protagonista di un incubo viscerale, fatto di rancori covati, bellezza malata e desideri corrosi.
La storia la conosciamo tutti, più o meno. In un indefinito paese nordeuropeo del XVIII secolo, Elvira (interpretata da Lea Myren) e sua sorella Alma seguono la madre Rebekka nella casa di un anziano uomo benestante con cui si è sposata nella speranza di ottenere ricchezza e privilegi. Elvira, insicura e sgraziata, si ritrova a convivere con la nuova sorellastra Agnes, la cui bellezza e grazia la rendono immediatamente favorita agli occhi di tutti. Quando il padre di Agnes muore improvvisamente, Rebekka scopre che l’uomo era in realtà privo di ricchezze. Preoccupata di essere troppo vecchia per trovare un nuovo marito facoltoso, decide allora di trasformare Elvira nella candidata ideale per conquistare il principe Julian, che ha appena annunciato un ballo a corte alla ricerca di una sposa.
Per rendere la figlia presentabile agli occhi dell’aristocrazia, Rebekka impone a Elvira un ferreo addestramento alle buone maniere, la sottopone a crudeli interventi di chirurgia estetica rudimentale e la convince a ingerire una tenia per perdere peso rapidamente. Un doloroso calvario che logora il corpo e l’identità di Elvira, alimentando dentro di lei un rancore viscerale nei confronti di Agnes, che invece sembra ottenere tutto senza sforzo, senza dover mai lottare per il proprio aspetto o talento.
The Ugly Stepsister è un body horror che strappa la storia di Cenerentola dalle mani della tradizione fiabesca e la reimmagina in un incubo fatto di chirurgia rudimentale, sangue, vomito e parassiti intestinali. Le sequenze disturbanti non sono molte, ma quando arrivano, colpiscono duro. Sono così insistite, dettagliate e viscerali che mi sono ritrovato a coprirmi gli occhi con le mani, sbirciando tra le dita, proprio come fanno i bambini, terrorizzati eppure incapaci di distogliere lo sguardo.
Una cosa però va chiarita, per chi dovesse indignarsi sostenendo che il film ha "deturpato" una fiaba innocente e romantica, va detto che quando lessi i racconti dei fratelli Grimm, fu proprio Cenerentola a colpirmi più di tutte. Soprattutto quel finale in cui la sorellastra si taglia un pezzo di piede pur di far entrare la scarpetta di vetro. Ecco, la Blichfeldt prende quell’immagine e la porta fino in fondo, senza sconti e senza pietà.
Al di là delle scene violente e dell'aspetto splatter, The Ugly Stepsister offre una riflessione tagliente sul desiderio di accettazione, sull’ossessione per la bellezza e sull’ansia di approvazione sociale. Un film che mette a nudo il legame tossico tra identità femminile e violenza estetica. In fondo, non è forse questa la struttura portante di tante fiabe tradizionali? Una ragazza qualunque che, pur di diventare bella e desiderabile agli occhi di un principe o di un ricco signorotto, si trasforma — si annulla — per ottenere una dote, un matrimonio, una salvezza. La critica di Emilie Blichfeldt aggiorna quel meccanismo con feroce lucidità, puntando il dito contro un’idea contemporanea di femminilità fatta di labbra gonfiate, zigomi scolpiti e seni rifatti. Il sogno non è più il castello, ma la villa con piscina. Non il principe, ma l’imprenditore rampante su uno yacht, immortalato in pose studiate su Instagram. Un desiderio disperato di apparire come merce di scambio, nella speranza che basti l’involucro giusto per sentirsi finalmente scelte, accettate, validate.
Davvero notevole l’esordio alla regia della Blichfeldt, qui affiancata da una fotografia elegante e da una colonna sonora elettronica che crea un interessante contrasto con l’ambientazione d’epoca. Buona pure l'interpretazione fisica e disperata di Lea Myren.
The Ugly Stepsister è sicuramente un film che non si dimentica, un'opera potente, attraversata da una feroce critica sociale. Bisogna ammettere che quando le registe decidono di colpire duro (vedi The Substance o Titane), ci vanno davvero a fondo.
Negli Stati Uniti il film è stato distribuito su Shudder, la piattaforma specializzata in horror, thriller e fantastico. In Italia, al momento, non è ancora uscito ufficialmente — ma chi sa dove cercare potrebbe trovare una versione sottotitolata.
Film
Uzumaki
Junji Ito
Junji Ito, il maestro del body horror giapponese, è senza ombra di dubbio il mio mangaka preferito.
Dopo Tomie e un paio di suoi volumi antologici, ho da poco terminato Uzumaki, una serie horror – raccolta in due corposi volumi pubblicati da Star Comics – che ruota letteralmente e ossessivamente attorno alla figura della spirale.
Personalmente, la spirale è una forma geometrica che mi ha sempre affascinato, tanto da ricorrere spesso nei miei lavori grafici, nei video e, come è evidente, nel simbolo scelto per questo blog. Sequenza aurea e armonica, è una forma che sembra semplice, ma che contiene in sé un movimento ipnotico, una tensione verso l’infinito. Non a caso è una delle strutture più presenti nel mondo naturale e cosmico: dalle conchiglie ai cicloni, dalla disposizione dei semi di un girasole alle galassie lontane. È un simbolo primordiale, archetipico. Una forma a cui sono molto legato e che si è consolidata da quando, alla fine del secolo scorso, ho visto un vecchio film di Aronofsky, del quale prima o poi dovrò proprio parlare.
Uzumaki – che significa appunto spirale o vortice – è ambientato nella fittizia cittadina costiera di Kurouzu-cho, un luogo avvolto da una nebbia perenne e da un’atmosfera inquietante. Protagonisti sono Kirie Goshima, una liceale del posto, e il suo fidanzato Shuichi Saito, i quali si accorgono che la loro città è vittima di una maledizione legata alle spirali. Questa forma geometrica, inizialmente innocua, comincia a manifestarsi ovunque, generando comportamenti ossessivi negli abitanti, a partire dal padre di Shuichi.
Man mano che la maledizione si intensifica, gli abitanti sviluppano fissazioni patologiche per le spirali, che li conducono a grottesche trasformazioni fisiche e mentali. Alcuni si tramutano in creature simili a lumache, altri vengono risucchiati da improvvisi tornado, mentre l’ambiente stesso della città si deforma in strutture spiraliformi. Kirie e Shuichi tentano disperatamente di sfuggire a questa spirale di follia, ma scoprono che la maledizione ha radici profonde e antiche, legate a una città sotterranea composta interamente da spirali.
Uzumaki è uno di quei manga che ti prende piano piano, poi ti strizza come un asciugamano e infine ti lascia lì, con la testa che gira, come se ti trovassi dentro una lavatrice durante la centrifuga. All’inizio sembra una raccolta di storie brevi, una più assurda dell’altra, con gente che si attorciglia, si trasforma in lumaca, viene risucchiata nei capelli o finisce inglobata nei muri. Ma più vai avanti e più ti rendi conto che tutto si incastra, o meglio si avvita, proprio come una spirale. Questa struttura ripetitiva, che alla lunga potrebbe anche annoiare, è in realtà una scelta precisa. Un incubo da cui non riesci a svegliarti. Come quei sogni in cui ti ritrovi a girare sempre intorno allo stesso punto, senza riuscire a uscirne.
A colpire davvero, però, è l’aspetto visivo. Il tratto di Ito è super dettagliato, iper realistico, e rende ogni trasformazione, ogni incubo, incredibilmente credibile. Carne che si torce, occhi che esplodono, corpi che si fondono. Disturbante – sì, lo so che è un termine che disturba – ma anche bellissimo.
Il riferimento all’horror cosmico di Lovecraft è evidente. L’idea che esista una forza arcana e inafferrabile – impersonata qui dalla spirale – che agisce al di là della comprensione umana, e che riduce l’essere umano a una semplice pedina. Ma c’è anche un tocco alla Stephen King, con la cittadina che diventa essa stessa l’origine del male. Kurouzu-cho non è solo il teatro della follia, è l’epicentro stesso della maledizione. Una protagonista silenziosa che osserva tutto mentre il mondo si decompone.
E poi c’è la spirale, ovunque. Di solito simbolo positivo di equilibrio, perfezione, ciclicità. Qui diventa il contrario. Perversione, follia, marcescenza. Junji Ito prende una forma rassicurante e la trasforma in incubo. E ci riesce maledettamente bene.
Dal manga Uzumaki è stato tratto un omonimo film nel 2000, che non ho ancora visto, un paio di videogiochi, e un anime in 4 episodi uscito recentemente su Netflix.
Fumetti
Il sospetto
di Alfred Hitchcock
Il sospetto, quarto lungometraggio americano di Alfred Hitchcock, è tratto dal romanzo Before the Fact di Francis Iles e rappresenta una delle prime incursioni del regista inglese nei territori del thriller psicologico domestico. Cary Grant, nel primo dei suoi quattro film con Hitchcock, interpreta il protagonista con quel suo sorriso stampato sul volto da simpatica canaglia. Al suo fianco, una convincente Joan Fontaine — al suo secondo film con Hitchcock dopo Rebecca, la prima moglie — incarna con delicatezza e inquietudine l’ansia crescente di una donna che inizia a sospettare che l'uomo che ama possa volerla uccidere.
La storia è piuttosto semplice. Lina McLaidlaw (Joan Fontaine) è una donna riservata e sognatrice che si innamora del fascinoso e spregiudicato Johnnie Aysgarth (Cary Grant), un uomo dal magnetismo irresistibile ma dai modi discutibili. I due si sposano in fretta, ma il velo del romanticismo cade presto quando la donna scopre che il marito è un imbroglione squattrinato, allergico al lavoro, ossessionato dal lusso, dal gioco d’azzardo e dal denaro. Progressivamente isolata, comincia a sospettare che Johnnie stia tramando qualcosa. Forse contro di lei.
Il sospetto è un film in cui la tensione non nasce tanto da ciò che accade, quanto da ciò che potrebbe accadere. Hitchcock costruisce l’intero impianto narrativo sull’ambiguità, reggendosi quasi esclusivamente sui dubbi di una donna circa la vera natura del marito. La prima ora scorre lenta, priva di eventi davvero rilevanti. La tensione esplode solo nel finale, tutta racchiusa nello sguardo sgomento di Joan Fontaine — che per questa interpretazione vinse l’Oscar come miglior attrice protagonista — impeccabile nel dare forma alla fragilità e all’ansia della sua Lina. Memorabile la scena in cui Cary Grant sale le scale, avvolto nell’oscurità, portando alla moglie un bicchiere di latte forse avvelenato. Hitchcock vi inserì una piccola lampadina per farlo brillare nel buio, caricandolo di una tensione quasi irreale.
Non è il miglior Hitchcock, e il finale — volutamente ambiguo — rischia di lasciare più in sospeso che realmente turbati. Ma l’atmosfera trasognata, la sottile ironia che punteggia alcune sequenze, e la presenza scenica dei due protagonisti, rendono Il sospetto un film comunque godibile. Un’opera minore forse, ma capace di mostrare già allora il lato più insinuante e domestico del maestro del brivido.
Film
Battle Royale
di Kinji Fukasaku
Uscito nel 2000 e diretto da Kinji Fukasaku, Battle Royale è un cult generazionale che, tra polemiche e censure, si è affermato come uno dei film più controversi e chiacchierati dell'inizio del nuovo millennio. Tratto dal romanzo omonimo di Koshun Takami, è un’opera feroce, beffarda e assolutamente politically scorrect, che ha lasciato un’impronta profonda nel cinema giapponese e mondiale, influenzando registi come Quentin Tarantino e anticipando fenomeni come Hunger Games e Squid Game. Osteggiato e censurato in patria, a causa della sua estrema violenza e dei contenuti controversi, in Italia non ha mai avuto una distribuzione cinematografica. All'epoca il film circolava grazie al passaparola e alla nascente pirateria digitale, alimentando un’aura di culto tra cinefili e appassionati. Solo qualche anno più tardi venne distribuito nel mercato home video. Mi pare che non sia mai stato proiettato in sala, se non in qualche rassegna dedicata al cinema giapponese. Attualmente è disponibile su Prime Video, all’interno del canale CG Collection.
In un futuro prossimo, in un paese asiatico non meglio definito, il governo vara una legge brutale per contrastare la dilagante delinquenza giovanile. Ogni anno, una classe di studenti delle superiori viene scelta a sorte per partecipare al "Programma", un crudele gioco di sopravvivenza noto come Battle Royale. Con l’inganno, durante una gita scolastica, un’intera classe viene narcotizzata e trasportata su un’isola deserta. Al loro risveglio, i ragazzi si ritrovano con un collare esplosivo al collo e vengono accolti dal loro ex insegnante (interpretato da Takeshi Kitano) che, supportato da un’unità militare, li informa che hanno tre giorni per eliminarsi a vicenda. Solo uno di loro potrà sopravvivere e fare ritorno a casa. Se allo scadere del tempo ci saranno più sopravvissuti, tutti verranno giustiziati.
Sconcertati e presi dal panico, i compagni di classe ricevono uno zaino con un kit di sopravvivenza e un’arma diversa per ciascuno. Da quel momento, diventano nemici mortali, costretti a uccidersi l’un l’altro per sperare di sopravvivere.
In Battle Royale ci sono 42 studenti – 21 ragazzi e 21 ragazze – costretti a partecipare a una sorta di reality show mortale. Alcuni dei ragazzi sono ben delineati attraverso brevi flashback che ne approfondiscono le motivazioni, le paure, le relazioni. Ogni morte è accompagnata da una didascalia con il nome del concorrente eliminato e il numero dei superstiti rimasti, scandendo il ritmo del massacro con precisione matematica.
Kinji Fukasaku firma un film violento, grottesco e ipercinetico, una via di mezzo tra Il signore delle mosche e un manga splatter anni novanta. La sua critica alla società giapponese è velenosa e diretta. Gli adulti hanno rinunciato a comprendere la gioventù e hanno deciso di gestirla con il terrore. Il “Programma” è una distorsione del sistema educativo, dove l'autorità diventa punizione e la scuola un campo di battaglia. Le dinamiche tra i personaggi – amicizie, rivalità, tradimenti – emergono in un contesto sempre più disperato. Il film mantiene un buon livello di tensione e alterna momenti di pura adrenalina ad altri più stucchevoli (vedi le dichiarazioni d'amore in punto di morte). Certo, qua e là si sfiora l’assurdo – ragazzi che camminano con un'ascia in testa oppure con sei proiettili in corpo – ma d'altronde Battle Royale è una sorta di pulp distopico che non nasconde la sua vera natura. Takeshi Kitano è perfetto nel ruolo del professore borderline. Il suo personaggio è ambiguo, stanco, distaccato, ma mai del tutto privo di umanità. È l’incarnazione di un’autorità che non guida, ma osserva e punisce.
Nel finale il film inciampa un po’ in un moralismo posticcio e si lascia dietro qualche buco di sceneggiatura, ma resta comunque un cultone irriverente e brutale, capace di trasformare l’angoscia adolescenziale in una vera e propria guerra generazionale.
Nel 2003 è uscito il seguito, Battle Royale II: Requiem, diretto inizialmente da Kinji Fukasaku ma completato dal figlio Kenta Fukasaku dopo la morte del padre durante le riprese.
Esiste anche una versione manga di Masayuki Taguci pubblicata tra il 2000 e il 2005 in quindici volumi, che però mi dicono essere assai discutibile.

L'Eternauta
Bruno Stagnaro
Fin da quando hanno cominciato a circolare le prime voci su un adattamento televisivo de L'Eternauta, ho provato un misto di curiosità e scetticismo. Per me – e per molti altri – si tratta di un’opera intoccabile, un capolavoro del fumetto del ventesimo secolo, non solo per il suo valore narrativo ma soprattutto per il suo peso simbolico e politico. L’idea che potesse essere trasformata in una serie Netflix, magari omologata alle solite estetiche post-apocalittiche, mi lasciava più di una perplessità.
Ho conosciuto L’Eternauta quando ero poco più di un bambino, sfogliandolo sui vecchi albi di Lancio Story che trovavo in casa. All’epoca non ne comprendevo pienamente la portata – ero ancora rapito dai supereroi colorati della Marvel, quelli pubblicati dall’Editoriale Corno – ma quelle tavole mi lasciavano addosso un senso di inquietudine e meraviglia. Solo anni dopo, in età adulta, l’ho riscoperto in volume, leggendolo per intero e rendendomi conto – anche alla luce della storia personale del suo autore e del contesto politico dell’Argentina – di quanto fosse un’opera profonda e stratificata.
Pubblicata a puntate tra il 1957 e il 1959 sulla rivista Hora Cero, L’Eternauta nasce dalla penna di Héctor Germán Oesterheld e dalle matite di Francisco Solano López. È un fumetto di fantascienza post-apocalittica, forse il capostipite dell’Historieta argentina, quella corrente fumettistica che tra gli anni cinquanta e ottanta ha prodotto opere memorabili. In quel racconto cupo e visionario, Oesterheld intercetta le tensioni politiche dell’epoca e, con inquietante preveggenza, utilizza una misteriosa invasione aliena come metafora del sorgere di un regime autoritario che annienta ogni forma di dissenso.
Diversi anni dopo la pubblicazione de L'Eternauta, l’Argentina cadde davvero sotto una feroce dittatura militare. Migliaia di oppositori furono arrestati, torturati, fatti sparire. Tra le vittime, lo stesso Oesterheld – ormai attivista politico – e le sue quattro figlie, tutte sequestrate e uccise da squadre armate.
Conoscendo questa storia, diventa impossibile leggere L’Eternauta come un semplice fumetto di genere. È un’opera che grida resistenza e che denuncia l’oppressione. Ecco allora che torno alla mia perplessità iniziale. Ha senso riproporre oggi una storia scritta più di sessant’anni fa così radicata nel suo tempo e nel suo luogo? Guardando il mondo di oggi, con i suoi nuovi autoritarismi, le guerre alle porte dell’Europa, la striscia di Gaza e il risorgere di vecchi fantasmi, la risposta sembrerebbe ovvia. Ma quanto i produttori saranno davvero capaci di interpretare questa chiave, e quanto invece si limiteranno a offrire l’ennesima distopia da catalogo?
La serie è composta da sei episodi ed è ambientata a Buonos Aires ai giorni nostri. E' una produzione argentina a tutti gli effetti, prodotta, sceneggiata e diretta da Bruno Stagnaro. Il protagonista, Juan Salvo (interpretato da Ricardo Darín), si trova a casa con un gruppo di amici quando un improvviso black-out precede una misteriosa nevicata che inizia a cadere sulla città. Ben presto si capisce che non è neve, ma una sostanza tossica capace di uccidere all’istante chiunque venga esposto. In un primo momento Juan e i suoi amici cercano di unire le forze per salvarsi e proteggersi, poi, dopo aver costruito delle rudimentali tute per potersi muovere all’esterno, nel cercare di comprendere l’origine di questa letale minaccia, scoprono che la nevicata è solo l’inizio di un’invasione aliena pianificata e stratificata.
La serie mantiene un ritmo lento e riflessivo, decisamente lontano dai canoni dell’action che siamo abituati a vedere. Ma questo, almeno per quanto mi riguarda, non mi disturba. L’atmosfera sospesa e di attesa, rispecchia bene la tensione del fumetto originale. L’elemento più interessante resta forse proprio la scelta di raccontare l’apocalisse da un punto di vista umano e intimista. Il protagonista è un uomo qualunque, un eroe per caso, in bilico fra i suoi affetti, misteriose visioni, e la necessità di sopravvivere in un mondo diventato improvvisamente ostile. La recitazione è buona, la fotografia efficace, soprattutto nei momenti in cui Buenos Aires diventa un deserto bianco, silenzioso e mortale. Anche le creature e gli effetti speciali – pur senza strafare – risultano convincenti.
Il problema principale della serie è che sembra prevedibile. Lo scenario post-apocalittico è solido, ma fatica a sorprendere. In sessant’anni abbiamo visto decine di libri, film e serie simili, e oggi la storia appare poco originale. Ci sono pochi sussulti, pochi momenti davvero memorabili. E soprattutto, manca quasi del tutto il sottotesto politico. Dove il fumetto era un grido di allarme e denuncia, qui la metafora si fa opaca, quasi assente. Rimane un messaggio di resistenza collettiva, sì, ma generico, annacquato. Non c’è il peso della storia, non c’è quel senso di urgenza che rendeva L’Eternauta così potente.
Alla fine, ci troviamo davanti a una serie ben confezionata, con buoni attori e una regia solida, ma che rischia di confondersi con tante altre produzioni simili. Una seconda stagione è già stata annunciata, e forse ci sarà spazio per approfondire meglio alcune tematiche solo accennate.
Nel frattempo, se questa serie servirà almeno a spingere qualche spettatore curioso a riscoprire il fumetto originale – recentemente ripubblicato da Panini in una bellissima edizione orizzontale – allora avrà comunque fatto qualcosa di importante.
Serie TV
Buffalo '66
di Vincent Gallo
Buffalo '66 è un film a cui sono molto affezionato e che rivedo spesso volentieri. Sarà che l'ho visto per la prima volta in un particolare momento della mia vita, ma da allora mi è rimasto addosso. L’autore di questa pellicola è Vincent Gallo, artista poliedrico e controverso, difficile da incasellare. Attore, regista, musicista e pittore, ha costruito attorno a sé l’immagine di un personaggio sopra le righe, in costante attrito con l’industria cinematografica e, a volte, persino con il proprio pubblico. Amato e detestato con la stessa intensità, è proprio con Buffalo '66 — film del 1998 che ha scritto, diretto, prodotto, montato, musicato e interpretato — che Gallo si è consacrato come figura di culto del cinema indipendente americano. Peccato che, dopo questo esordio folgorante, abbia fatto ben poco.
Il film vede come protagonista Billy Brown, interpretato dallo stesso Vincent Gallo, che esce di prigione dopo aver scontato una condanna per un crimine che non ha commesso. Per saldare un debito di gioco, avendo perso una scommessa sulla vittoria dei Buffalo Bills al Super Bowl, è stato costretto da un allibratore senza scrupoli (Mickey Rourke) a prendersi la colpa e trascorrere cinque anni di carcere al posto del vero colpevole. Tornato a Buffalo, la sua città natale, Billy, ragazzo disadattato e nevrotico, segnato da traumi e gravi carenze affettive, contatta i genitori, a cui aveva raccontato di essere stato via per lavoro, di avere una carriera brillante e una moglie. Quando la madre insiste al telefono per incontrare la "nuora", Billy, in preda al panico, rapisce d’istinto una giovane ballerina, Layla (Christina Ricci), trovata per caso in una scuola di danza, costringendola a fingersi sua moglie per la visita a casa dei suoi genitori — con i quali, peraltro, non ha alcun tipo di rapporto reale.
Il pranzo con la madre (Anjelica Huston) e il padre (Ben Gazzara) di Billy, rivela un ambiente familiare freddo e disfunzionale. La madre, ossessionata dai Buffalo Bills, sembra più interessata alla squadra di football che al figlio, mentre il padre si comporta in modo distante, ambiguo e vagamente molesto. Nonostante l’assurdità della situazione, Layla sceglie di restare con Billy anche dopo il pranzo, forse attratta da lui, forse mossa da un impulso empatico. I due trascorrono insieme il resto della giornata — tra una sala da bowling, un ristorante e un motel — mentre Billy cova in segreto un proposito di vendetta: uccidere il giocatore della squadra dei Buffalo, Scott Wood, colpevole secondo lui di aver sbagliato di proposito il calcio decisivo che lo ha rovinato. Ignara di tutto, Layla diventa il contrappunto gentile alla rabbia trattenuta di Billy, in un viaggio che oscilla tra amarezza, tenerezza e disperazione.
Buffalo '66 è una storia triste, malinconica e surreale. L’incontro tra due anime sole e sbandate, ambientato in una decadente provincia americana, che si consuma nell’arco di una singola giornata e si trasforma in un legame fragile e profondo, fatto di silenzi, gesti impacciati e desideri inespressi. È un film sgraziato, imperfetto, ma con un’enorme anima. Un’opera dalla bellezza sghemba, costruita su intuizioni visive personali e potenti. Vincent Gallo, al suo esordio, dal punto di vista tecnico e registico fornisce una grande prova giocando con pellicole invertite e formati inusuali che restituiscono una texture granulosa, desaturata e onirica. Le inquadrature statiche, simmetriche, spesso spiazzanti, contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa e rarefatta.
Pur non essendo dichiaratamente autobiografico, il film attinge a piene mani dalla vita di Vincent Gallo, trasformando la sua esperienza familiare e il suo disagio esistenziale nei fili della trama. Il Billy Brown interpretato da Gallo è uno schizofrenico trattenuto, figlio di due genitori anaffettivi, incapace di relazionarsi col mondo e con le donne. Vorrebbe amare, ma ha paura del contatto, del lasciarsi andare, della fiducia. Alterna crisi verbali nevrotiche a momenti di totale distanza emotiva. Come nella scena delle fototessere, dove il suo sguardo è completamente assente segnato da una profonda tristezza, oppure durante il surreale pranzo con i suoi genitori. Proprio quest'ultima scena è tra le più emblematiche del film, anche dal punto di vista registico. In un silenzio imbarazzante che a tratti diventa grottesco, si innestano flashback che raccontano l’infanzia di Billy. Il più straziante è forse quello in cui la madre gli offre dei dolcetti al cioccolato, mentre sullo schermo si apre un riquadro che mostra un flashback con il piccolo Billy con il volto gonfio, allergico proprio a quel cibo che la madre dovrebbe sapere gli fa male.
Christina Ricci è semplicemente perfetta. La scena in cui balla il tip-tap sulle note eteree di Moonchild dei King Crimson, in una sala da bowling diventata improvvisamente deserta, è uno dei momenti più poetici e intensi del film. Ricci ha una bellezza dirompente e fuori dagli schemi, una specie di fata turchina curvy, goffa, sensuale e innocente allo stesso tempo. Una bellezza non omologata, più forte di qualsiasi retorica sull’inclusività. Il suo personaggio, Layla, di cui non sappiamo nulla, è uno specchio scomposto del protagonista. Anche lei probabilmente abbandonata, forse anch’essa in cerca di calore, si lascia trasportare in questo rapporto tossico senza mai sembrare davvero succube. C’è qualcosa in lei di teneramente squilibrato, come se la sindrome di Stoccolma si trasformasse in una forma pura, infantile, di amore incondizionato. È proprio la presenza della Ricci a dare luce e malinconia al film. I suoi silenzi, le frasi fuori luogo, gli sguardi pieni e stranianti. Rimane impressa nella memoria. Come quando, a tavola, cerca di conversare con la madre di Billy, interpretata da una glaciale e inquietante Anjelica Huston. O quando, più tardi, divide con Billy il letto di un motel in una scena sospesa tra imbarazzo, pudore e tenerezza.
Buffalo '66 è una storia d’amore assurda, astrusa, struggente e improbabile. Quasi impossibile credere che una ragazza possa accettare la violenza iniziale del protagonista, eppure il film lavora in una dimensione emotiva alternativa, dove il surreale prende il posto del plausibile. È un racconto di solitudini che si sfiorano, si riconoscono e, forse, si salvano a vicenda.
Da vecchio amante del prog-rock, oltre la già citata canzone dei King Crimson, non posso non ricordare anche Heart of the Sunrise degli Yes, che accompagna la sequenza finale nel locale a luci rosse, con i fermo immagine alla Matrix.
Sognante, poetico, a tratti angosciante, Buffalo '66 è un film profondamente malinconico, ma non disperato. Parla della fragilità, del disagio di chi si sente fuori posto in un mondo che lo ha respinto fin dall’inizio.
Un piccolo capolavoro indipendente che, ancora oggi, riesce a emozionarmi come la prima volta. Peccato che Vincent Gallo, dopo questo film, non si sia più davvero ripetuto.

Ash - Cenere mortale
di Flying Lotus
Flying Lotus, al secolo Steven Ellison, è un artista poliedrico tra i più visionari della scena contemporanea. Conosciuto soprattutto per la sua produzione musicale nel campo dell’hip hop sperimentale e dell’elettronica, Ellison ha sempre intrecciato suono e immagine, coltivando un forte legame con il linguaggio cinematografico. Dopo l’esordio dietro la macchina da presa con Kuso del 2017 e un episodio per V/H/S/99 nel 2022, torna alla regia con Ash, un horror fantascientifico che riscrive la paura nello spazio attraverso la lente distorta e allucinata del suo immaginario. Un film che fonde suggestioni videoludiche, di cui Ellison è un grande appassionato, con il retaggio di cult come Alien, Punto di non ritorno e La Cosa, trasformando l’omaggio in visione personale e contaminata.
Il film è ambientato su un pianeta remoto, noto come "Ash", dove un gruppo di giovani scienziati e ricercatori ha costruito una stazione spaziale per determinare se il luogo sia potenzialmente abitabile. Al suo risveglio, però, la protagonista Riya Ortiz (Eiza González) si ritrova circondata dai cadaveri dei suoi compagni di equipaggio, senza memoria degli eventi recenti e tormentata da visioni disturbanti e frammentarie. Mentre tenta di ricostruire l’accaduto, la stazione viene raggiunta da Brion Cargyle (Aaron Paul), un pilota solitario che sostiene di essere stato inviato in risposta a un segnale di soccorso. Costretti a collaborare per sopravvivere in un ambiente sempre più ostile e alienante, i due si troveranno immersi in un incubo in cui nulla è come sembra, dove la realtà si sfalda e il confine tra ciò che è umano e ciò che non lo è si fa sempre più sottile.
La storia si sviluppa in modo frammentato con la bella, ma poco convincente, protagonista che cerca di rimettere insieme i pezzi, guidata da flashback disturbanti e visioni psichedeliche. Alla fine il film risulta essere più allucinato che coinvolgente dove il montaggio frenetico e l’espediente dell’amnesia, più che alimentare il mistero, sembrano coprire le debolezze della sceneggiatura e abbassare la tensione.
Dal punto di vista visivo, Ash si svolge prevalentemente al buio, con un largo uso di luci colorate fluorescenti a intermittenza. Scelta stilistica affascinante, almeno per coloro che non sono fotosensibili. Flying Lotus– che compare brevemente in un flashback – non lesina sullo splatter e sul body horror, regalando nel finale un tripudio di deformazioni e mostri tentacolari che farebbe felice anche John Carpenter (e probabilmente anche qualche gamer nostalgico di Dead Space). Non essendo un grande intenditore di videogiochi, il film, sia per l'ambientazione che per la coloratissima fotografia mi ha ricordato Terrore nello spazio di Mario Bava. Un riferimento forse casuale ma che ho molto apprezzato. Bello anche il design delle tute spaziali, originale e visivamente efficace. La colonna sonora, ovviamente, è firmata dallo stesso Flying Lotus, che realizza un elettronica sospesa tra i synth cosmici di Vangelis e il minimalismo ipnotico del già citato Carpenter.
In conclusione, Ash è un film che intrattiene, visivamente interessante, e che rivela una sincera passione per la fantascienza videoludica e i B-movie vintage. Peccato che tutto questo amore finisca per strabordare, rendendo l’esperienza più derivativa che memorabile. Un bel trip, ma niente che non si sia già visto, e in alcuni casi, meglio.
Ash - Cenere mortale è attualmente disponibile su Prime Video.

Il castello maledetto
di James Whale
Il castello maledetto, diretto da James Whale nel 1932 per la Universal, è un gioiello gotico mascherato da horror, in realtà più vicino a una commedia dallo spiccato humour nero. Nonostante il titolo italiano faccia pensare a torri e manieri infestati, il film si svolge in una vecchia casa isolata, abitata da personaggi grotteschi.
Durante una notte di tempesta, un gruppo di viaggiatori — una coppia sposata, il loro amico e un esploratore burbero — cerca rifugio in una magione sperduta tra le colline del Galles. L’abitazione appartiene ai Femm, una famiglia tanto decadente quanto bislacca, composta da un uomo e sua sorella, Horace e Rebecca Femm (Ernest Thesiger ed Eva Moore), il loro anziano padre Sir Roderick (Elspeth Dudgeon) e un domestico deforme, muto e ubriacone interpretato da Boris Karloff. Mentre la pioggia cade incessantemente e la luce va e viene, arrivano altri due ospiti inattesi a movimentare la serata. Inizialmente tutto sembra procedere per il meglio, ma con il calare delle tenebre, la casa rivela i suoi segreti.
Pur rifacendosi a Il castello degli spettri di Paul Leni, Il castello maledetto trova una sua identità costruendo un’atmosfera tanto gotica quanto grottesca. A colpire non sono tanto i brividi — che quasi non ci sono — quanto l’ambientazione: un temporale incessante, luci tremolanti, candele, ombre che si allungano sui muri e inquadrature oblique che sfiorano l’espressionismo. È un horror d’atmosfera più che di tensione, dove l’inquietudine si insinua silenziosa e non esplode mai davvero, lasciando spazio a un’ironia macabra e sottilissima.
James Whale si diverte a prendere in giro le regole classiche del genere horror, codificandole in uno stile visivo che negli anni a venire influenzerà registi come Mario Bava e Roger Corman, e ispirerà film cult come The Rocky Horror Picture Show, Frankenstein Junior e perfino La famiglia Addams (oltre al maggiordomo interpretato da Karloff che sembra un prototipo di Lurch, troviamo anche "mano"). Momenti come il monologo delirante di Rebecca Femm, riflessa e deformata dagli specchi, restano impressi più per il loro effetto straniante che per una reale tensione narrativa.
Accolto con freddezza alla sua uscita dal pubblico, il film fu apprezzato in Europa più abituato allo humor nero tipicamente britannico. Il Castello Maledetto fu a lungo considerato perduto, fino al suo ritrovamento e restauro nel 1968. Un piccolo classico poco conosciuto.
Di questo film esiste un remake realizzato nel 1963.

Double Blind
di Ian Hunt Duffy
Chiunque abbia provato a resistere al sonno durante una maratona notturna di serie tv sa che, dopo un po’, la mente inizia a vacillare. Ma immaginate cosa succederebbe se addormentarsi non fosse solo sconsigliato... ma letale. È questa la premessa di Double Blind, horror psicologico firmato dal regista esordiente Ian Hunt-Duffy.
Il film si svolge all’interno di un laboratorio isolato, gestito da una spietata multinazionale farmaceutica, dove un gruppo di volontari si sottopone alla sperimentazione di un nuovo farmaco dagli effetti sconosciuti. Iniziato il trattamento, i sette ragazzi, accomunati dalla scarsità di legami sociali e da un disperato bisogno di soldi, iniziano a perdere sonno. Quando però uno di loro si addormenta, muore di una morte violenta (sincope convulsiva, sangue dagli occhi, bava alla bocca e così via). Intrappolati nella struttura, senza via d’uscita e costretti a restare svegli a oltranza, i protagonisti iniziano a perdere il contatto con la realtà. Tra allucinazioni, sospetti reciproci e collassi nervosi, la linea tra percezione e paranoia si fa sempre più sottile.
Nulla di originale, va detto. I film sugli esperimenti con cavie umane intrappolate in qualche struttura non mancano di certo. Tuttavia Double Blind ha dalla sua una confezione curata, un ottimo ritmo e un’atmosfera davvero angosciante. Il budget è visibilmente contenuto – tutta la storia si svolge in un’unica location – ma il regista sa come sfruttare i limiti a suo vantaggio: l’ambientazione asettica diventa una prigione mentale, mentre la privazione del sonno è la miccia perfetta per un’escalation di delirio. Non mancano nemmeno alcuni guizzi splatter, che agli amanti dell'horror non disprezzano mai.
Il film non è stato distribuito in italiano ma è reperibile sottotitolato su alcune piattaforme non ufficiali.
Film
Adolescence
Jack Thorne, Stephen Graham, Philip Barantini
Mi sono recuperato questa serie prodotta da Netflix, tanto discussa sia per le tematiche che per la messa in scena. Adolescence è una miniserie britannica in quattro episodi che, prendendo spunto dal brutale femminicidio compiuto da un ragazzino di tredici anni, affronta temi come l’adolescenza contemporanea, la mascolinità tossica e, soprattutto, l’incomprensione degli adulti nei confronti dei giovani di oggi.
La storia si apre con l’arresto di Jamie Miller, un ragazzo di 13 anni accusato dell’omicidio di una compagna di scuola, Katie Leonard. L’intera narrazione si sviluppa in tempo reale attraverso quattro episodi – ciascuno girato in un unico piano sequenza – che seguono le fasi successive all’arresto: dall’interrogatorio alla confessione, fino alle conseguenze legali e familiari. La serie non si concentra tanto sul "come" è avvenuto il crimine, quanto sul "perché", esplorando le influenze sociali e psicologiche che hanno portato Jamie a compiere un gesto così estremo.
Adolescence offre un ritratto inquietante e realistico del mondo adolescenziale di oggi, spesso invisibile agli occhi degli adulti. Mostra come i social media e la ricerca ossessiva di approvazione e popolarità possano influenzare negativamente i giovani, contribuendo a fenomeni come il bullismo e l’isolamento. Sotto la superficie di un ragazzino tranquillo, con buoni voti e abitudini apparentemente innocue, emerge come alcune teorie misogine popolari in rete, diffuse nella comunità nota come "manosfera" e nei gruppi Incel - come quella secondo cui l'80% delle donne sceglie solo il 20% degli uomini, possono radicalizzare giovani ragazzi fragili e confusi. Una delle scene più interessanti è quella presente nel secondo episodio, ambientato quasi interamente nel liceo. Mentre l'ispettore, insieme alla sua collega, cerca di interrogare i ragazzi alla ricerca dell'arma del delitto ma soprattuto di un movente, viene avvicinato proprio da suo figlio – che frequenta la stessa scuola e a sua volta subisce bullismo – rivelando che Katie aveva pubblicamente umiliato Jamie su Instagram, definendolo un incel attraverso un codice fatto di emoticon. Questo divario generazionale, l’incapacità degli adulti di comprendere il disagio giovanile, è probabilmente il tema centrale della serie.
Ogni episodio di Adolescence è girato in un unico piano sequenza, senza interruzioni o tagli, una scelta registica audace e complessa che richiede concentrazione millimetrica da parte degli attori e grande abilità tecnica. Mi sono spulciato in rete i vari "making of" per capire se ci sono stati i classici "trucchi di passaggio" ma non li ho trovati. La cinepresa viene passata da un operatore a un altro a mo di staffetta per essere incastrata su un drone, come nel secondo episodio, oppure posizionata davanti alla macchina, come nell'ultimo episodio. quello che ho capito sono stati girati mediamente una decina di volte Questa scelta stilistica è stato uno dei motivi che mi ha accinato a questa serie. Tutto deve essere perfettamente sincronizzato, e il risultato è davvero coinvolgente. Molto bravi anche gli attori, a partire da Owen Cooper, che interpreta Jamie con una naturalezza disarmante, e Stephen Graham, che interpreta il padre, la cui recitazione contribuisce a rendere la narrazione ancora più coinvolgente.
I quattro episodi non sono tutti sullo stesso livello. Il più riuscito, a mio avviso, è il primo, con l’irruzione della polizia in casa Miller alle prime luci dell’alba. Anche il secondo mantiene alta la carica emotiva, culminando in un finale suggestivo con la cover di Fragile di Sting cantata da un coro di ragazzi. Il terzo episodio, centrato sul colloquio tra Jamie e la psicologa, e soprattutto l’ultimo – incentrato sulla famiglia – risultano invece un pò troppo dilatati.
Nel complesso ho trovato l'intera miniserie un'opera coraggiosa che invita a riflettere sui problemi dell'adolescenza nella nostra società.

Una lucertola con la pelle di donna
di Lucio Fulci
Fin dalle prime scene, guardando Una lucertola con la pelle di donna, ti rendi conto di essere precipitato in un vortice psichedelico in cui il sogno e la realtà si confondono in un delirio psicanalitico. Il secondo giallo scritto e diretto da Lucio Fulci è un thriller psicologico che prende la Londra borghese dei primi anni settanta, e la infila in un frullatore di pellicce, visioni erotiche, e desideri repressi.
La storia ha per protagonista Carol Hammond (Florinda Bolkan), figlia di un influente politico inglese, la quale racconta al suo psichiatra di un ricorrente sogno erotico e violento in cui uccide la sua vicina di casa, Julia Durer (Anita Strindberg), una donna affascinante e alquanto disinibita che conduce una vita dissoluta. Quando Julia viene ritrovata brutalmente assassinata proprio secondo le modalità dell'incubo di Carol, un tenace investigatore cerca di ricostruire la verità, domandandosi se sia possibile che Carol abbia commesso il delitto nel sonno o se qualcuno stia cercando di incastrarla. Mentre l'indagine si dipana, Carol sprofonda in un vortice di incubi, allucinazioni e depistaggi, dove nulla è come sembra e la mente si trasforma in un labirinto senza uscita.
Nonostante il titolo argentiano imposto dalla produzione, il film si concentra non tanto sulla scoperta dell'identità dell’assassino, quanto sulla messa in scena di Fulci che, alternando sequenze oniriche di grande impatto visivo, si diverte ad attaccare l'odiata psicanalisi, ritraendo l'ipocrisia della borghesia inglese, nei suoi salotti ovattati e dai dialoghi educatamente vuoti, attratta — e al tempo stesso terrorizzata — dal mondo "sporco" e sfacciato di chi vive senza freni tra sesso, droga e libertà.
Florinda Bolkan, sensuale ma mai volgare, inquieta ma sempre elegante, regge l’intera narrazione. Anita Strindberg incarna invece il desiderio in forma pura, quasi mitologica. Intorno a loro, uomini che non capiscono, psicologi con fare rassicurante e un paio di hippie del periodo.
Accompagnato dalle dissonanti musiche di Ennio Morricone, Fulci inserisce in Una lucertola con la pelle di donna la sua vena più disturbante e personale, mescolando i generi e ritraendo una Londra visionaria, abitata da killer in impermeabile, scale vertiginose, pipistrelli isterici e cani vivisezionati. Proprio questa scena portarono Fulci in tribunale con l'accusa di crudeltà verso gli animali. Carlo Rambaldi, l'autore degli effetti speciali, dovette presentare in aula i modelli animatronici per dimostrare che nessun animale era stato realmente maltrattato, salvando così il regista da una possibile condanna. Ovviamente all'epoca il film subì numerosi tagli di censura che andarono a eliminare le sequenze più violente e le scene di sesso delle due protagoniste. Fortunamente oggi possiamo facilmente recuperare il film nella sua versione originale.
Pur con una sceneggiatura parecchio confusionaria a e qualche pausa eccessivamente dilatata che spezza il ritmo della tensione, Una lucertola con la pelle di donna colpisce per la potenza visiva delle sue sequenze oniriche, costruite con una cura e un senso dell’estetica davvero notevoli. Nel pieno fermento del thriller all’italiana, il film si distingue come una delle vette del genere, non solo per lo stile elegante e ricercato, ma anche per la capacità di muoversi fuori dai binari argentiani, scegliendo una strada più psicologica e allucinata.
Conoscevo Fulci soprattutto per i suoi film horror, ma questo lato "giallo" del suo cinema si sta rivelando una scoperta interessante.

Il computer impossibile
Giuliano Benenti, Giulio Casati e Simone Montangero
Era da parecchio tempo che non leggevo un saggio, solitamente preferisco romanzi e narrativa. Ma ultimamente sono andato in fissa con il mondo del computer quantistico, quindi, dopo aver sfogliato diversi libri in libreria, ho scelto Il computer impossibile, un libro di recente uscita edito da Raffaello Cortina Editore e scritto a sei mani da Giuliano Benenti, Giulio Casati e Simone Montangero, tre fisici di fama internazionale.
Premetto che non ho conoscenze scientifiche, i miei studi sono stati artistici, ma la tecnologia mi ha sempre affascinato. Quindi con la consapevolezza dei miei limiti devo dire che il libro, almeno all'inizio, è abbastanza chiaro, in quanto adotta un approccio divulgativo senza mai risultare banale.
In poche parole, per spiegare come siamo arrivati ai computer quantistici, gli autori raccontano che tutto nasce dalla miniaturizzazione dei circuiti elettronici. Negli anni sessanta, la cosiddetta Legge di Moore prevedeva che la potenza dei computer raddoppiasse ogni 18 mesi grazie a transistor sempre più piccoli. Oggi, se il nostro smartphone è più potente di un intero edificio di computer anni '70, è proprio grazie a questo processo. Il problema è che abbiamo praticamente raggiunto il limite fisico della materia. Continuare a miniaturizzare porta a strani fenomeni quantistici che rendono i chip instabili, come bambini iperzuccherati a una festa di compleanno. Soluzione? Invece di andare contro le leggi della fisica, gli scienziati hanno deciso di cavalcarla. Ed è così che nasce l’idea del computer quantistico.
Per avvicinarsi al suo funzionamento, gli autori spiegano le basi di un computer tradizionale. In un computer l'unità d'informazione è il bit, che può assumere solo due stati, 0 o 1, come una monetina che cade su testa o croce. Tutte le operazioni (scrivere un'email, guardare un video, calcolare qualcosa) sono una lunga sequenza di 0 e 1 elaborati uno dopo l'altro, in modo sequenziale. Al centro di questo processo c’è il transistor, un minuscolo interruttore che controlla il flusso di corrente elettrica. Miliardi di transistor accendono e spengono correnti in una danza perfettamente coordinata che permette di eseguire calcoli estremamente complessi. Ogni numero, parola, o immagine vengono tradotti in questa lingua fatta di 0 e 1, il codice binario.
Il computer quantistico invece usa i qubit, bit quantistici che possono essere 0, 1 o entrambi contemporaneamente, in proporzioni variabili. È come una monetina che gira sospesa a mezz'aria. Una particella quantistica può trovarsi, ad esempio, al 70% nello stato 1 e al 30% nello stato 0. A questo punto sorge spontanea una domanda: se i qubit possono essere 0, 1 o una sovrapposizione dei due, come si fa a determinarne il valore? Qui entra in gioco il famoso esperimento del gatto di Schrödinger, in cui il gatto è contemporaneamente vivo e morto finché non si apre la scatola. I qubit funzionano uguale, finché non li misuri, sono in sovrapposizione. Nel momento in cui li osservi, “collassano” in uno stato definito. Un po’ come quando controlli la pizza nel forno: prima è perfetta nella tua immaginazione, poi la realtà ti sbatte in faccia che si è bruciata. Questa capacità di "essere tante cose insieme" permette ai computer quantistici di esplorare simultaneamente moltissime soluzioni.
Un esempio pratico? Immaginiamo di dover attraversare un labirinto. Un computer tradizionale prova una strada alla volta, tornando indietro a ogni muro per ricominciare da capo. Un computer quantistico invece esplora tutte le strade contemporaneamente, come se si sdoppiasse in infinite copie di sé stesso, ognuna impegnata a tentare un percorso diverso. E non è finita. I qubit hanno un'altra superpotenza: l’entanglement, o intreccio quantistico. Due qubit, una volta "intrecciati", restano collegati a distanza. Se ne misuri uno, automaticamente sai anche lo stato dell’altro, pure se sono separati da chilometri, anni luce o da un muraglione di firewall. È come se fossero uniti da un filo invisibile attraverso lo spazio. A questo punto della lettura, ammetto di aver iniziato a faticare a seguire. Senza una solida base di fisica, l’argomento diventa davvero ostico e richiede una notevole capacità di astrazione. Il libro poi affronta il problema della decoerenza: i qubit sono delicatissimi, basta una vibrazione, una variazione di temperatura, persino una misera particella di polvere per farli "collassare" e perdere il loro comportamento quantistico. Per questo i computer quantistici devono funzionare in condizioni estreme. Temperature prossime allo zero assoluto (-273 °C) e ambienti ultra-isolati. Quindi no, non sostituiranno i nostri PC, smartphone o tablet. Il computer quantistico non serve per guardare Netflix o stalkerare ex su Instagram, ma per risolvere problemi davvero complessi: crittografia, simulazioni molecolari, ricerca medica, e, ovviamente, intelligenza artificiale.
È recente la notizia che un computer quantistico è riuscito, in meno di 5 minuti, a eseguire un calcolo di riferimento che avrebbe richiesto 700 milioni di anni ai più potenti supercomputer classici. Sembra fantascienza, eppure è già realtà.
Dove tutto sembrava diviso tra 0 e 1, acceso o spento, giusto o sbagliato, improvvisamente esiste un'infinità di possibilità, tutte contemporaneamente vere. È un invito a ripensare come funzionano le cose, e forse anche come funzioniamo noi. Perché se l’universo, nelle sue regole più profonde, è fatto di sovrapposizioni, intrecci invisibili e infinite strade aperte, allora forse anche noi possiamo essere qualcosa di più complesso, imprevedibile, straordinario di quello che pensavamo.
Libri
The Beast (La Bête)
di Bertrand Bonello
The Beast (La Bête) di Bertrand Bonello è un film del 2023 liberamente ispirato al racconto La bestia nella giungla di Henry James, ma completamente rielaborato in chiave sci-fi e psicologico-esistenziale.
È un film complicato e straniante, che fonde melodramma, distopia e romanticismo tragico attraversando tre epoche diverse (inizio 900, 2014 e 2044).
In un futuro prossimo dominato dall’intelligenza artificiale, dove le emozioni sono considerate un ostacolo all’efficienza, Gabrielle (Léa Seydoux) è costretta a sottoporsi a un processo di purificazione per poter accedere a una vita professionale più interessante. La procedura prevede la liberazione dai traumi e dai sentimenti, ma il viaggio nella memoria si trasforma in qualcosa di più profondo, un ritorno ciclico alle sue vite passate, tutte segnate dall'amore per Louis (George MacKay) e da un’inquietudine persistente. Un presentimento che qualcosa di terribile stia per accadere, che una "bestia" voglia farle del male. Un legame misterioso li unisce e li separa, condannandoli a ritrovarsi senza mai potersi davvero appartenere. Un amore destinato a ripetersi, ma non a compiersi.
The Beast è un film molto complesso e stratificato, che mi ha disorientato e colpito. Impegnativo, decisamente, ma profondamente coinvolgente. Il film si apre con Gabrielle, un’aspirante attrice nella Los Angeles del 2014, mentre gira uno spot pubblicitario davanti a un green screen. Una sequenza ironica e significativa che sembra prendere di mira il cinema hollywoodiano contemporaneo, sempre più dipendente dalla CGI e dalla simulazione.
L’intelligenza artificiale è uno dei temi portanti del film, ma non è il solo. Bonello — che prima di questo film non conoscevo — costruisce un racconto frammentato che attraversando tre epoche (belle époque, presente e futuro) ci racconta la progressiva disumanizzazione dei sentimenti, in un mondo che li considera scarti. Nella Parigi del 1910, Gabrielle è la moglie di un imprenditore che produce bambole dal volto inespressivo, le stesse che sembrano anticipare la Gabrielle del 2044, un essere umano "purificato", svuotato di emozioni per funzionare meglio in una società ipercontrollata. La neutralità emotiva diventa un requisito per l’integrazione, come se i sentimenti e le emozioni fossero un virus da debellare.
Ma qual'è la “bestia” che dal titolo al film? La disumanizzazione? Oppure, e qui entriamo nelle mie riflessioni personali, la vera bestia è la paura di non riuscire ad amare. La paura di esporsi, di soffrire, di perdere il controllo. Una paura che ci paralizza, ci rende sterili, ci impedisce di vivere davvero. È l’incapacità di relazionarsi con semplicità, schiacciati da ansie profonde e radici difficili da estirpare. È la paura della morte, della solitudine, del rifiuto. Quel terrore cieco che alimentiamo nella nosta mente, fino a renderlo reale.
La Gabrielle del futuro è costretta a diventare un algoritmo. Le sue scelte devono essere sempre razionali, corrette, "giuste". Ma l’amore non è mai giusto. È disturbante, ingestibile, profondamente umano. Il suo rapporto con Louis è sfuggente, impossibile, fino a diventare una minaccia. Nel presente, Louis è un uomo solo e frustrato, un incel — individui che trasformano il senso di esclusione e rifiuto in risentimento, talvolta in rabbia repressa. Una figura minacciosa, che implode in violenza.
In tutto questo Bonello inserisce due eventi catastrofici — l’alluvione di Parigi del 1910 e un terremoto — come metafore di un’emotività repressa che, prima o poi, torna a galla in modo incontrollabile. E dove Hitchcock o Poe avrebbero messo un corvo, Bonello lascia svolazzare un piccione dentro casa, banale ma sinistro presagio di sciagura.
Notevole anche il dettaglio del QR code finale che permette di vedere i titoli di coda. Un tocco alla Black Mirror che per altro sia per le tematiche e il coinvogimento emotivo mi ha ricordato un paio tra gli episodi più riusciti. Ovviamente questo non è l’unico richiamo. Nel film ho ritrovato Eternal Sunshine of the Spotless Mind, con il tentativo di cancellare il dolore eliminando l’amore. Ma anche tantissimo Lynch. La parte ambientata a Hollywood richiama fortemente Mulholland Drive, con Gabrielle che ricorda Betty, la scena con la sensitiva al computer, il locale che sembra appartenere a un non luogo, ma in generale tutta l'amosfera e la sensazione sospesa che qualcosa di inquietante stia per accadere.
The Beast è la storia di un amore mai pienamente realizzato, che si ripete senza mai compiersi, come una condanna. Un film cerebrale, verboso, stratificato, pieno di simbolismi. Ma nonostante la durata e una certa densità, riesce a coinvolgere sempre di più, fino a un finale cinico e spietato. Un vero pugno allo stomaco.
Un film complesso e perturbante, che mi ha profondamente coinvolto perché ha toccato corde intime. Perché no, non si può amare senza emozioni. Touché.
Film
Il paradosso del tempo
di Bernardo Britto
I viaggi nel tempo sono uno dei temi più affascinanti e ricorrenti del cinema di fantascienza. Tra paradossi, salti e loop temporali, questi film hanno la caratteristica che non hanno bisogno di particolari effetti speciali o budget eccessivi, ma soltanto di una buona idea e una sceneggiatura solida.
Tra le tante pellicole di questo genere si inserisce Il paradosso del tempo (Omni Loop), film americano del regista brasiliano Bernardo Britto, che dopo una carriera nel cortometraggio approda alla regia di un lungometraggio mainstream con una storia che mescola sci-fi, dramma e malinconia.
La trama ruota attorno a Zoya Lowe (Mary-Louise Parker), una fisica di mezza età affetta da una misteriosa condizione. I medici gli hanno diagnosticato la presenza di un "buco nero" nel petto e le hanno dato una settimana di vita. Quello che né la sua famiglia né i dottori sanno, però, è che alla fine di quei sette giorni – quando il sangue inizia a colarle dal naso, segnale della sua imminente fine – Zoya si chiude in bagno, ingoia una delle misteriose pillole trovate per caso da bambina, e torna indietro nel tempo di esattamente una settimana. Ogni ciclo ricomincia con il suo risveglio in ospedale, quando il medico la dimette per permetterle di trascorrere gli ultimi giorni con i suoi cari. Costretta a rivivere la stessa settimana migliaia di volte, Zoya si ritrova intrappolata in un loop estenuante. Esausta dalla ripetitività e dal senso di impotenza, decide di allontanarsi dalla cinica subito dopo il suo risveglio. Il fortuito incontro con Paula Campos (Ayo Edebiri), una giovane studentessa di fisica, gli permette di trovare un alleata per provare a studiare i i misteri dei viaggi nel tempo e capire se c'è il modo per interrompre questo ciclo… e forse, riappropriarsi della propria vita.
Il paradosso del tempo prende in prestito suggestioni da classici del genere – da Ricomincio da capo a Predestination, passando per Looper – ma utilizza il meccanismo del loop temporale, più che sulle dinamiche del viaggio nel tempo, per riflettere sull’inevitabilità della morte, il tempo che sprechiamo e gli affetti che trascuriamo. Il film, leggero e malinconico, parla di una donna che non cerca tanto di sfuggire alla fine quanto di fare pace con la propria vita. Mary-Louise Parker è molto brava e sostiene una narrazione che vuole essere toccante per un film mainstream da seconda serata. Se invece parliamo di fantascienza, ho trovato la sceneggiatura tutt'altro che convicente. Buchi logici, disordine narrativo, trovate poco riuscite e risibili – come il buco nero nel petto della protagonista e sopratutto l’uomo nanoscopico, un tizio che un esperimento quantistico sta facendo rimpicciolire all’interno di una scatola, la cui funziona a livello di trama rimane per me sconosciuta.
Un film che intrattiene, facendo leva sull'aspetto romantico, ma dimenticabile.

Mimì - Il principe delle tenebre
di Brando De Sica
Ammetto che quando ho visto il nome del regista ho storto un po' il naso. Brando De Sica. Figlio di Christian, nipote di Vittorio, Carlo Verdone come zio. Il pregiudizio che in Italia, se non sei un figlio d'arte, il cinema lo guardi e basta, è scattato immediatamente. E invece Mimì – Il principe delle tenebre mi ha fregato. Non solo perché è un film coraggiosamente fuori tempo, diverso, ma anche perché ha toccato corde familiari della mia indole gotica.
La storia racconta di Mimì (Domenico Cuomo), un adolescente orfano, nato con i piedi deformi, che lavora in una pizzeria a Napoli. Bullizzato dal figlio di un boss camorrista, un giorno incontra Carmilla (Sara Ciocca), una giovane ragazza "dark" convinta di essere una discendente del conte Dracula. Lei rimane affascinata dal goffo Mimì – forse proprio per la sua deformità – e lui trova in Carmilla quel calore umano che gli è sempre mancato.
In una Napoli insolita e decadente, tra bande camorristiche appassionate di neomelodica e gruppi gotici che frequentano cimiteri, cripte, e feste alternative, Mimì – Il principe delle tenebre si presenta come un film strano e affascinante, capace di spaziare dall'horror al fantasy, dal noir alla dark comedy. La commistione di generi è dosata con intelligenza e la virata horror arriva al momento giusto. Brando De Sica, da quanto si dice in giro, è un appassionato di questo genere, e si vede. Le citazioni cinefile sono ovunque, ma non risultano mai esibite. Piuttosto, sono tracce, omaggi ben inseriti in una narrazione personale e visivamente curata. La regia è solida e la fotografia mi ha particolarmente colpito, con quei colori irreali – blu e rosso, caldi e freddi spesso contrapposti – che rimandano al cinema di Mario Bava. L'uso del colore è particolarmente significativo nella scena finale, dove Mimì e Camilla – ehm, Carmilla con la erre (cit) – vengono illuminati dal lampeggiante della polizia, in un contrasto emotivo che trascende la realtà.
L’epilogo, drammatico e ambiguo – è tutto vero o una fantasia del protagonista? – ha un tocco poetico e surreale. Al centro della storia, c'è una relazione d'amore tra due "diversi": una ragazza borderline, fragile e imprevedibile, e un ragazzo in cerca di identità, ingenuo, segnato nel corpo e nell'anima. Due anime rotte che cercano di salvarsi a vicenda.
I due attori protagonisti sono molto bravi. La giovane e minuta Sara Ciocca è sorprendente. Affascinante nella sua versione goth, fragile e vulnerabile nella sua cameretta da bambina. Domenico Cuomo è altrettanto bravo, capace di passare dalla timidezza di Mimì alla trasformazione violenta del "vampiro", con i suoi denti aguzzi e lo sguardo distorto. Il film, inoltre, è recitato bene. Finalmente in un film italiano i dialoghi, anche quando sono sussurrati, sono sempre chiari. Il dialetto napoletano non infastidisce, e quando è troppo stretto, intervengono i sottotitoli.
Guardandolo, mi è venuto spontaneo accostarlo a Lo chiamavano Jeeg Robot, ma con i vampiri al posto dei supereroi. E in alcune scene, come quella nelle catacombe, ho sentito forti echi del cinema di Guillermo del Toro.
Alla fine, Brando De Sica sembra più un orfano adottato da Tim Burton e dalla malinconia di Fellini che un regista cresciuto sulle spalle della becera commedia natalizia. Pare che per realizzare questo film non abbia sfruttato le sue conoscenze familiari, anzi, ci ha messo dieci anni e ha incontrato numerosi ostacoli. E si vede. È un film ostinato, personale, fuori rotta. Farsi strada nel cinema di genere in Italia non è facile. Ma io, sinceramente, tifo per lui. A volte i pregiudizi sono proprio deleteri.