
Silo (stagione 1-2)
Graham Yost
Fino a qualche tempo fa ero un divoratore di serie TV. Negli ultimi tempi, però, ho iniziato a recuperare i grandi classici del cinema e a riscoprire vecchi capolavori - senza mai trascurare i miei amati horror e i weird movie - diventando molto più selettivo nel dedicare il mio tempo libero alle serie televisive. Spesso le trovo eccessivamente dilatate, mi annoiano, e finisco per abbandonarle dopo poche puntate. Finalmente, dopo diversi mesi, complice la presenza di un ospite in casa (che ha gentilmente insistito), sono riuscito a portare a termine non una, ma ben due stagioni di una serie.
Sto parlando di Silo, la serie sci-fi di Apple TV+ che ha appena chiuso la sua seconda stagione.
Creata da Graham Yost e tratta dai romanzi di Hugh Howey, Silo è ambientata in un futuro distopico, dove da centinaia di anni, una comunità di persone vive in un gigantesco silo sotteraneo, ignorando cosa abbia reso la superficie terrestre tossica e inabitabile. Con i suoi oltre cento piani, il silo è una città verticalmente organizzata, strutturata a livello piramidale e governata da leggi inflessibili che regolano ogni aspetto della vita quotidiana. Il fatto di essere una società fortemente gerarchizzata, con i meccanici che si occupano dei lavori più duri collocati in basso, e quelli del reparto IT, i giudiziari e le diverse autorità che governano il silo, nei piani più alti, porta a inevitabili e periodici conflitti e tensioni. Dopo la morte dello sceriffo - uscito all'esterno convinto che il mondo sia vivibile e che le immagini dei monitor che mostrano una terra desolata siano finte - Juliette Nichols (Rebecca Ferguson), caposquadra del reparto meccanico, viene inspiegabilmente promossa a capo delle forze di sicurezza. Investita di un nuovo potere e decisa a scoprire cosa si nasconde dietro ai segreti, i misteri, e le incongruenze che aleggiano sul silo, Juliette, donna determinata e dalla forte tempra, si scontra con il Sindaco e capo dell'IT Bernard Holland (Tim Robbins), che insieme Robert Sims, il temibile capo dei Giudiziari, sembra coinvolto in un complotto per nascondere la verità.
Silo si rifà alle grandi opere distopiche come 1984, Il mondo nuovo e Fahrenheit 451, usando un futuro inquietante per parlare del presente. La scenografia rétrofuturistica, con il suo fascino claustrofobico, i toni scuri dell’ocra e del marrone e una fotografia cupa, contribuisce a creare un’atmosfera opprimente, ma visivamente affascinante.
Apple TV+ ci ha abituati a produzioni di alta qualità, e Silo non è da meno: una regia solida, un cast eccellente (Rebecca Ferguson e Tim Robbins su tutti), e una scrittura che bilancia bene politica, rivolte sociali e misteri. Tuttavia, il ritmo non è sempre impeccabile. La narrazione si dilunga inutilmente nella parte centrale di entrambe le stagioni, con episodi che aggiungono poco alla storia e rischiano di annoiare. Un peccato, perché il materiale è ricco di spunti interessanti e i personaggi sono ben caratterizzati.
La prima stagione introduce l'ambiente distopico del silo sotterraneo diventando quasi una detective-story, mentre la seconda amplia la visione, presentando nuovi personaggi e svelando una società sempre più complessa. Il finale della seconda stagione non solo lascia molte domande aperte, ma ci porta indietro nel tempo, mostrando un frammento dei giorni pre-apocalittici e suggerendo che nella terza stagione scopriremo cosa ha portato alla distruzione del pianeta e alla creazione dei silos.
Se amate i misteri distopici con una vena politica e una buona dose di tensione, Silo è sicuramente una serie da tenere d’occhio. Non è perfetta, ma è avvincente, ben realizzata e pone le basi per un’esplorazione ancora più profonda nella prossima stagione. La terza (e quarta) sono già state confermate, e non vedo l’ora di scoprire cosa ci riserveranno.
Serie TV
La caduta della casa degli Usher
Mike Flanagan
Mike Flanagan è uno degli autori più interessanti nel panorama dell'horror seriale.
Se nelle due stagioni di The Haunting, Flanagan ha preso ispirazione da alcuni classici della lettura gotica, ne la La caduta della casa degli Usher si cimenta addirittura con il maestro del genere, Edgar Allan Poe.
A dispetto del titolo, la serie non si basa solo sul celebre racconto di Poe (anche perchè il racconto che prende il titolo della serie è di poche pagine). Flanagan, che è anche lo sceneggiatore, prende spunto da tutta la produzione dello scrittore statunitense adattando e rivisitando in chiave contemporanea le sue opere in un unica storia colma di citazioni, riferimenti e connessioni che ovviamene possono essere apprezzate solo da chi conosce Poe.
La storia è quella del ricco imprenditore Roderick Usher, di sua sorella Madeline e della sua famiglia, una potente dinastia proprietaria di un azienda farmaceutica che ha fatto la sua fortuna grazie al Licodone, un antidolorifico assai discusso per i suoi gravi effetti collaterali. All'interno di una casa misteriosa e decadente Roderick Usher racconta ad Auguste Dupin, un avvocato che da anni sta cercando di farlo condannare per i suoi crimini, la disgrazia che si è abbattuta sulla sua famiglia, una sorta di maledizione che nell'arco di pochi giorni ha portato alla morte violenta e apparentemente accidentale dei suoi sei figli. In ogni episodio si assiste così alla tragica e cruenta morte di uno degli Usher ispirandosi a un celebre racconto di Edgar Allan Poe.
Fare l'elenco delle numerose citazioni presenti in questa serie avrebbe poco senso. Di certo a Flanagan, oltre la sempre curata regia, va riconosciuto la grande capacità di scrittura nel riadattare l’universo narrativo delle opere di Poe in chiave moderna. Buona la recitazione da parte del circolo di habitué di Flanagan (più o meno gli attori che sceglie nelle sue serie sono sempre gli stessi) a partire dalla camaleontica Carla Gugino fino a Mark Hammil (io sulle prime non l'avevo riconosciuto) che interpreta il mefistofelico avvocato degli Usher.
Ottima serie, sicuramente sopra la media della maggior parte delle serie horror di questi ultimi anni. Tuttavia, paragonandola alle precedenti serie di Flanagan, l'ho trovato un pò meno coinvolgente. L'unico episodio che mi ha suscitato un profondo turbamento è stato il secondo episodio, La maschera della morte rossa, ma è stato un caso isolato. Da lì in avanti, una volta capito il meccanismo, il ripetersi ciclico delle morti non mi ha restituito quella tensione emotiva e quel senso di mistero che avevo riscontrato in Hill House e Bly Manor.
Serie TV
From (stagione 1-2)
Eh niente, a distanza di una quindicina di anni ci sono ricascato.
From è una serie televisiva di genere horror-mistery soprannaturale che si può vedere in Italia sulla piattaforma streaming Paramount+. Al momento è composta da due stagioni (dieci episodi l'una) con una terza stagione in produzione.
La storia inizia con una famiglia in viaggio su un camper che facendo una deviazione dalla strada principale si ritrova in una piccola e sconosciuta cittadina nel mezzo degli Stati Uniti. La famigliola cerca di allontanarsi ma la strada li riporta sempre nello stesso punto. Tutti gli abitanti del paese hanno subito la loro stessa sorte, sono persone che arrivate in questa misteriosa cittadina ne sono rimaste intrappolate. Ma c’è di più. Al tramonto, lo sceriffo del paese (interpretato da Harold Perrinau, il Micheal di Lost) suona una campana per avvertire gli abitanti di ritirarsi nelle loro case. Questo perchè di notte delle mostruose creature con un diabolico ghigno escono dai boschi circostanti uccidendo tutti coloro che trovano all'esterno. Solo grazie a dei misteriosi talismani collocati all'interno delle abitazioni i mostri sono impossibilitati ad entrare senza esservi invitati.
Che dire, l'incipit è quello di Wayward Pines ma le analogie con questa serie si fermano qui. La vera similarità io l'ho trovata con Lost, e questo non è punto a suo favore.
Breve inciso. Lost è stata una serie che ai tempi ho amato ma che mi ha lasciato una grande delusione. Non parlo solo del discusso finale, mi riferisco al fatto che tutto quel groviglio di misteri, segreti, colpi di scena, ed eventi inspiegabili, non erano funzionali alla storia ma solo degli espedienti per tenere alta l’attenzione del pubblico (il contrario di Dark dove lì invece tutti i pezzi del puzzle si sono incastrati alla perfezione). Fine dell'inciso.
In From ci sono tanti punti di somiglianza con Lost (e non è solo per l'attore protagonista e una coppia di produttori in comune) ma ci ho ritrovato anche dei temi cari a Stephen King (che in un tweet ha apprezzato la serie). La cittadina rurale senza nome è una sorta di escape room a cielo aperto dove i suoi abitanti, non solo si ritrovano costretti a difendersi dai mostri, dagli incubi e dalle loro più grandi paure, ma minati dalla paranoia, dalla diffidenza e dalla disperazione, cercano di risolvere tutta una serie di misteri che li possa condurre alla via di uscita.
La serie non spicca di originalità ma, a parte dei momenti di pausa (leggi relazioni stucchevoli tra alcuni protagonisti), tiene alta la tensione. Tutto sta nel capire come andrà a svilupparsi e a chiudere i tanti misteri presenti nella trama. Soffrendo della sindrome di Lost il timore di imbattermi in un altra boiata è dietro l'angolo.

Black Mirror (stagione 6)
Charlie Brooker
Siamo alla sesta stagione di Black Mirror e come e successo per le precedenti - in pratica da quando è approdata su Netflix acquisendo notorietà - anche questa stagione l'ho trovata deludente. Il punto è che, a parte il primo e il terzo episodio, le storie non hanno nulla a che fare con Black Mirror, ovvero quella serie innovativa di qualche anno fa che ci mostrava l’angosciante e distopico futuro derivato dall’evoluzione tecnologica.
Dei cinque episodi forse si salvano Joan is awful, in cui una donna accettando le condizioni della piattaforma streaming Streamberry - chiaro riferimento alla stessa Netflix - si ritrova suo malgrado protagonista di una serie televisiva che ricalca la sua vita ma con le sembianze di Salma Hayek generata dall’AI, e Beyond the Sea che racconta di due astronauti che trasferiscono la loro coscienza su due robot che vivono sulla Terra con la famiglia di ognuno per sfuggire alla solitudine (mi chiedo perché non ci hanno messo direttamente i robot sull’astronave ma vabbè). Quando una delle due famiglie subisce un massacro in stile Charles Manson, l’astronauta propone all’astronauta che ha perso la famiglia di “indossare” il robot dell’altro ma facendo questo gesto altruista provoca delle terribili conseguenze. Per il resto Loch Henry è un thriller caruccio, Mazey Day è un semplice horror come tanti, e Demon 79 è simpatico e grottesco ma dimenticabile - che sia il pilot di Red Mirror? Fatto sta che in nessuno dei tre c’è un qualche minimo accenno alla tecnologia quindi mancando il comune denominatore potrebbero tranquillamente essere episodi di qualunque altra serie.
Charlie, è inutile spingerci oltre, esaurito le idee sarebbe meglio fare qualcos’altro, senza il supporto del nome che ti ha reso famoso.

Copenhagen Cowboy
Nicolas Wending Refn
Nicolas Winding Refn è un regista che si ama o si odia.
Io adoro molto la sua estetica visiva ma capisco le motivazioni di coloro che lo trovano pretenzioso e poco accessibile. Il suo stile estremamente stilizzato, con lunghe sequenze silenziose e una cura dell'immagine che spesso sacrifica la narrazione, per molti può risultare alienante, almeno per chi cerca un racconto più tradizionale o immediato. In effetti, Refn non è interessato a raccontare storie convenzionali, il suo cinema è più una sorta di esperienza sensoriale, una discesa nell'atmosfera e nel simbolismo. Coloro che non lo apprezzano lo accusano di mettere la forma sopra la sostanza, ma per me è proprio questa audacia visiva e narrativa che lo rende unico e affascinante.
Copenhagen Cowboy è la sua seconda serie televisiva dopo Too Old to Die Young. Si può vederla su Netflix.
Protagonista è una ragazza di nome Miu, una sorta di eroina in tuta monoespressiva che viene venduta e usata come amuleto perchè in grado di conferire fortuna a chi gli sta vicino.
Ambientata nel sottobosco criminale di Copenaghen, la serie può sembrare molto criptica e di difficile lettura (in particolar modo i primi episodi) discostandosi completamente dai canoni classici delle serie tv. I ritmi lenti e ipnotici non appartengono al mondo delle produzioni commerciali e, proprio per questo, affascinano chi riesce a sintonizzarsi sulla stessa frequenza. Non ci sono facili risposte, non ci sono dialoghi esplicativi, ma un mondo opprimente e alienante che si svela piano, come se fosse un sogno dal quale non ci si può svegliare. Memorabili le inquadrature a 360°. Bellissima la fotografia e la colonna sonora.
Alla fine della serie (6 episodi), Copenhagen Cowboy non offre una chiusura tradizionale. La sensazione è quella che potrebbe esserci una seconda stagione. Staremo a vedere.