Niente
Janne Teller
Ho appena finito di leggere un romanzo breve ma particolarmente intenso, Niente di Janne Teller, autrice danese. Edito da Feltrinelli — ma in precedenza pubblicato da Fanucci con il titolo L'innocenza di Sofie — è un libro affascinante e disturbante insieme, in cui un gruppo di adolescenti si interroga sul significato della vita.
In una tranquilla cittadina danese, un ragazzo di tredici anni, Pierre Anthon, un giorno dichiara senza mezzi termini: "Non c’è niente che abbia senso, è tanto tempo che lo so. Perciò, se niente ha senso, è meglio non far niente piuttosto che qualcosa". Da quel momento lascia la scuola e, come un moderno Barone rampante, si arrampica su un albero vicino all’edificio, deciso a non scendere più. I compagni di classe cercano di farlo tornare sui suoi passi, ma Pierre Anthon è irremovibile: "È tutto inutile! Perché tutto comincia solo per finire. Nel momento in cui siete nati avete cominciato a morire. È tutta una commedia basata sulla finzione. Si tratta solo di vedere chi è il più bravo a far finta".
Turbati da questa provocazione radicale, i suoi compagni decidono di mostrargli che si sbaglia, dando vita a un piano assurdo e inquietante. Raccolgono oggetti che "significano qualcosa" per ciascuno — all’inizio innocui, come una canna da pesca, un pallone, un paio di sandali — ma ben presto la ricerca del "significato" scivola verso il grottesco e il tragico. Le regole diventano sempre più crudeli, gli oggetti sempre più intimi, fino a toccare ciò che non si dovrebbe mai toccare.
La "catasta del significato" cresce, le tensioni si moltiplicano, e l’assenza degli adulti pesa come un giudice silenzioso. Il gioco si trasforma in un rituale collettivo di perdita e ossessione, fino all’inevitabile implosione finale.
Niente è un romanzo che disturba perché costringe a guardare dentro l’abisso del senso, o meglio, della sua assenza. Oggetto di censure in diverse parti del mondo per il suo presunto eccesso di pessimismo e nichilismo — qualcuno lo ha persino accusato di poter spingere i più fragili al suicidio — il libro è una parabola crudele e lucidissima sull’adolescenza come terreno di scoperta e smarrimento, dove il bisogno di dare significato alle cose si scontra con il sospetto che quel significato non esista affatto.
Personalmente, forse perché sono un adulto che ha imparato a convivere con il vuoto esistenziale (uno dei libri che più ho amato in adolescenza è La Nausea di Sartre, per la cronaca), non mi sono sentito particolarmente turbato da questa lettura. Ma posso comprendere come, per un adolescente più sensibile, l’impatto possa essere profondo. Nel romanzo della Teller, i ragazzi della classe sentono il bisogno di rispondere al nichilismo assoluto del loro compagno sull’albero e, in assenza di figure adulte — sempre lontane, anonime, quasi invisibili — si trasformano in una sorta di setta. La loro ricerca di verità degenera in un esperimento sociale degno de Il signore delle mosche di Golding. La "catasta del significato" diventa così il simbolo di un’ossessione collettiva, un altare su cui sacrificare pezzi di sé pur di sentirsi vivi.
Niente, titolo più che mai azzeccato, è un libro profondamente nichilista che ci mette di fronte a domande universali: se nulla ha senso, perché continuare ad andare a scuola, lavorare, procreare? Parafrasando il "produci, consuma, crepa" dei CCCP, che senso ha tutto questo? Non voglio addentrarmi in questioni troppo filosofiche — anche perché credo che, a un certo punto, ciascuno di noi trovi o si convinca di aver trovato il proprio significato. In fondo, non è proprio questo il ruolo della religione?
Il fatto che Janne Teller affidi un peso così grande a dei ragazzi, simbolo di purezza e innocenza, amplifica il disagio. La loro fame di senso si trasforma in crudeltà, fanatismo, perdita di empatia. La scrittrice mette in scena l’età dell’innocenza come un laboratorio del male necessario, un luogo dove il pensiero si fa gesto e il gesto diventa violenza.
Niente è una riflessione sulla fine dell’infanzia e sull’impossibilità di dare risposte definitive. Lascia un vuoto, non offre conforto, ma costringe a guardare il mondo con occhi nuovi — forse più disillusi, ma anche più consapevoli.
Casa di Foglie
Mark Z. Danielewski
Libro molto particolare, insolito e per certi versi affascinante. Sicuramente una lettura difficile, non tanto per i contenuti ma per la sua struttura, di come è stato concepito. Ma andiamo con ordine, altrimenti rischio di perdermi.
Uscito negli Stati Uniti nel 2000, Casa di Foglie è stato scritto, in una decina di anni, da Mark Z. Danielewski, qui al suo debutto come scrittore. In Italia è stato pubblicato nel 2005 dalla Mondadori andando subito fuori catalogo e quindi diventando presto introvabile. La scarsa tiratura di questa edizione lo ha reso una sorta di oggetto di culto per collezionisti alimentandone l'alone di leggenda e di mistero (fino a poco tempo fa su ebay lo vendevano a cifre spropositate). Fortunatamente nel 2019 la casa editrice 66thand2nd lo ripubblica in una edizione fedele all'originale e con una nuova traduzione.
Io ho letto proprio quest'ultima edizione.
Casa di Foglie è un libro ergodico, ovvero che richiede al lettore di compiere uno sforzo in più che va oltre a quello di leggere da sinistra a destra riga dopo riga e poi girare pagina per andare a quella successiva. In questo libro - un bel tomo di oltre 700 pagine - sia la scrittura che l'impaginazione non è lineare. Ci sono pagine con righe scritte sottosopra, all'interno di quadrati, spezzettate, capovolte e addirittura a specchio. Alcune pagine sono vuote con solo poche righe al centro mentre altre sono zeppe di righe una sopra l'altra. La parola casa è sempre scritta in blu mentre in alcuni parti il testo è scritto in rosso, barrato o perfino cancellato. Basta sfogliarlo che già visivamente ci si rende conto di avere a che fare con un libro particolamente insolito.


Poi ci sono le note. Questo libro è pieno zeppo di note, che siano bibliografiche o citazioni, molte note ne contengono a loro volta altre in una specie di scatola cinese. Alcune note sono fondamentali altre superflue. Molte sono inventate altre ancora sono vere. Insomma, già solo questo potrebbe scoraggiare il lettore, tanto che, nella pagina iniziale dove solitamente vengono messe le dediche, Danielwski scrive “Questo non è per te”.
Casa di Foglie potrebbe rientrare nella categoria dei libri horror ma sarebbe molto riduttivo catalogarlo in un unico genere. Lo scrittore newyorchese come espediente narrativo utilizza quello del manoscritto ritrovato, ma lo fa in maniera triplice creando una storia stratificata e a incastri.
Veniamo alla trama. Casa di Foglie contiene tre (o quattro?) livelli di narrazione, uno dentro l'altro, come una matrioska. Ogni piano narrativo si distingue dall’uso di un font differente. La storia gira intorno a tre personaggi principali.
Johnny Truant è un giovane tatuatore di Los Angeles, sballato e segnato da vistose cicatrici, che si trasferisce nell'appartamento di un anziano cieco deceduto di recente, un tale chiamato Zampanò. All'interno di una cassa Truant trova un manoscritto scritto da Zampanò, un saggio su un film documentaristico intitolato "La versione di Navidson" (The Navidson Record). Il saggio oltre a contenere riferimenti bibliografici, citazioni, interviste, e appunti di Zampanò, racconta nel dettaglio le vicende che accadono in questo breve cortometraggio (come un cieco possa aver visto il filmato rimane un mistero).
Il documentario (siamo quindi nell'ambito del found footage) è stato realizzato a metà degli anni novanta da Will Navidson, un famoso fotoreporter, che per cercare di recuperare il suo matrimonio si trasferisce insieme a sua moglie Karen Green, una ex modella, e i loro due figli, Chad e Daisy, in una bella casa in campagna, la casa di Ash Tree Lane. Ritornati da una breve vacanza, Navidson si rende conto che l'interno della casa è cambiato e lì dove prima c'era un semplice muro, è comparsa una porta che apre su un corridoio completamente buio. Esternamente tutto è rimasto invariato ma all'interno la casa si è espansa. Navidson decide di installare telecamere in ogni stanza e dopo una prima esplorazione, riunisce amici e parenti addentrandosi, insieme alla sua telecamera e diversi strumenti di misurazione, in questo freddo e buio corridoio che conduce a stanze anonime dalle quali si dipanano altri corridoi e altre stanze in una sorta di inquietante labirinto. Un viaggio angosciante al centro del quale c'è una scala a spirale discendente, apparentemente senza fine.
La casa è un labirinto, una sorta di buco nero in cui precipita Navidson e la sua famiglia, insieme a Zampanò e Truant che ne rimangono irrimediabilmente influenzati. La scrittura, con i testi storti, a specchio, sottosopra, è funzionale alla storia, e la strana impaginazione che ricalca ciò che viene raccontato (penso a quando Navidson sta attraversando un corridoio stretto e il testo che leggiamo si ristringe in una colonna sempre più stretta) vuole provocare nel lettore lo stesso smarrimento dei protagonisti.
È un libro che richiede un enorme sforzo di lettura e che contiene parecchi codici e messaggi nascosti. A tratti è respingente ma allo stesso tempo attrattivo. È un libro da odiare se non stai al gioco e che fa di tutto per risultare disturbante (tipo la nota in cui viene elencato tutto ciò che non c'è nel "corridoio"). Il piano narrativo più interessante è senza dubbio quello in cui vengono descritte le "spedizioni" nella Casa mentre le elucubrazioni mentali e il flusso di coscienza di Truant risultano irritanti quanto è sgradevole il personaggio. Solo alla fine, in appendice, leggendo le lettere della madre, ho avuto un quadro più completo sulla sua instabilità riuscendo in qualche modo a empatizzare sul giovane protagonista.
Non ho ancora capito se Casa di Foglie sia un capolavoro oppure una complessa e articolata follia dell'autore. Sicuramente, se si riesce a superare i momenti critici e lasciare andare le proprie resistenze, è un libro capace di lasciarti la sensazione di avere avuto una particolare esperienza di lettura.
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